Diritto e diritti umani in Simone Weil

1. Critica a un concetto antinomico

Rifiutare una certa idea di diritto non significa rifiutare i diritti umani. A questa tesi dovrebbe inevitabilmente condurre un’analisi obiettiva della parte del pensiero di Simone Weil che più può interessare e sollecitare la filosofia del diritto. Senza poter fare, in questo spazio limitato, una ricostruzione dettagliata della critica weiliana al diritto,1 vorrei cercare di comprendere quale diritto è in gioco in tale critica e il motivo di un atteggiamento tanto pregiudiziale nei confronti di esso.2 Il diritto criticato da Simone Weil nelle sue ultime opere è indicato semplicemente come “diritto romano”. Di tale diritto ereditato da Roma, legato indissolubilmente alla forza,3 necessaria affinché esso sia effettivamente rispettato, la cosa più nefasta, messa in luce negli scritti di Londra, sarebbe l’ulteriore legame con il concetto di persona, che era al centro delle riflessioni di intellettuali e filosofi aderenti al personalismo,4 e che Weil stigmatizza come borghese e legato al prestigio sociale.5 Tuttavia, il nucleo della critica weiliana al diritto, cioè il legame intrinseco con la forza, non è risalente agli ultimi anni della sua vita, e, dunque, non ha nulla a che vedere, alla radice, con la critica al personalismo. Quest’ultima si aggiunge, infatti, come elemento di una polemica contingente, ben presente nella cultura del periodo.

Fin dagli anni ’30, infatti, Simone Weil si era interrogata sul concetto di diritto, partendo da Spinoza e dalla sua idea che il diritto naturale coincida con la potenza stessa dell’individuo di farlo valere.6 Tale interrogazione, però, non è rivolta al diritto in quanto corpus di leggi positive, ma investe il concetto di diritto, inteso come “l’aver dei diritti”. Sostanzialmente Simone Weil, partendo dal Trattato teologico-politico di Spinoza, rimette in gioco il concetto basilare su cui la coincidenza tra diritto e potenza individuale era fondata: cosa significa aver diritto? Avere un diritto è una proposizione che può valere in quali ambiti? E in quali, invece, essa non ha alcun senso? Ponendosi a monte delle affermazioni di Spinoza, più che contestare l’ordine giuridico, Weil decostruisce l’utilizzo di un certo concetto di diritto mettendone in luce le antinomie di fondo. Dunque, nel rilevare l’antinomia del diritto, Simone Weil sta lavorando sull’essenza stessa del diritto. Sottolineo questo dato perché, ovviamente, se per diritto venisse inteso l’oggetto proprio della giurisprudenza, l’analisi weiliana apparirebbe lacunosa e poco precisa. Che poi tale analisi abbia delle ricadute sul Diritto è un’altra questione, che viene presa in considerazione solo marginalmente in quel breve scritto giovanile. Schematizzando, le sue conclusioni a proposito dell’idea di diritto sono più di tipo decostruttivo che costruttivo: 1) Nell’ambito della morale, nel kantiano regno dei fini, non ha alcun senso affermare di avere dei diritti perché in quell’ambito regna la pura equità; 2) nel rapporto tra esseri umani considerati esclusivamente come esseri pensanti, rapporto, dunque, tra spiriti o pensieri, non ha senso parlare di diritti perché, sebbene qualcuno possa, ad esempio, svilire l’altro con un proprio giudizio, non lo potrà svilire in quanto essere pensante, essendo questo un fatto su cui il giudizio di altri non ha alcuna presa. Simone Weil ritorna, dunque, all’affermazione di Spinoza dopo aver escluso alcuni altri ambiti di possibile utilizzo dell’idea di diritto: «Il diritto è un’esigenza, è un rapporto tra ciascuno e le azioni di tutti gli altri. Ora, alle azioni non si può riferire che la potenza».7 La potenza di cui Spinoza parlava non si identificava necessariamente con la violenza, ma con la possibilità di esercitare realmente ed efficacemente una qualsivoglia azione. Ed è su questo piano di relazione fra potenza e atto, in senso quasi aristotelico, che la critica weiliana si attesta, chiedendosi cosa resti del diritto se esso deve identificarsi, di fatto, con la capacità propria a ciascuno di farlo valere. Se un diritto fosse tale solo in atto, non esisterebbe più alcun diritto, ma solo un mero fatto. Ciò che Weil vuole dimostrare, anche nel resto dell’argomentazione, è l’ambiguità di un concetto che viene applicato senza, tuttavia, avere dei contorni chiari e distinti, né, tanto meno, una corrispondenza in natura. In effetti, tutto lo scritto sembra più una radicale critica al concetto di diritto naturale che a quello di diritto tout court, visto che Simone Weil ammette, in certe circostanze, che si possa parlare di avere dei diritti. Quando, dunque, si può rigorosamente dire di avere dei diritti? Simone Weil lo spiega per via negativa, giungendo a una conclusione che definisce il diritto più che come lo si intende in ambito civile o penale, come diritto umano: «La nozione di diritto viene forse chiarita a partire da questo: Socrate non ha perso niente quando ha bevuto la cicuta; ma “nessuno può volere vivere bene, che non voglia allo stesso tempo vivere” e si può dire in questo senso che ogni uomo ha diritto di vivere. Il diritto sarà così per ciascuno ciò che gli si può togliere senza diminuirlo, ma ciò a cui nessuno può rinunciare senza rinunciare a se stesso».8

Non esisterebbe, dunque, un legame ontologico tra diritto e forza;9 la forza, cioè, non sarebbe fondatrice del diritto, ma, certamente, è ad esso legata in modo ambiguo e non privo di pericolose derive. Nelle argomentazioni presenti nell’Enracinement si ha la misura di quanto la posizione iniziale di Simone Weil sia rimasta a fondamento della sua ulteriore critica al diritto, ma estremizzata fino ad apparire quasi capovolta: «La nozione di diritto ci viene da Roma, e come tutto ciò che viene dall’antica Roma, la donna gravida dei nomi della bestemmia di cui parla l’Apocalisse, è pagana e non battezzabile. I Romani che avevano capito, come Hitler, che la forza ha la pienezza dell’efficacia solo quando è rivestita di alcune idee, impiegavano la nozione di diritto a questo scopo. Vi si presta benissimo».10 Al di là dell’affermazione pregiudiziale sulla Roma antica, ciò che mi sembra interessante è il fatto che la nozione di diritto e quella di forza vengano ancora qui descritte come separate: dicendo, infatti, che i romani avrebbero rivestito la nozione di forza con quella di diritto, Simone Weil ammette che non ci sarebbe un legame a priori delle due nozioni, ma un legame storicamente stabilito, secondo un preciso progetto politico, che, per quanto concerne l’antica Roma, era un progetto imperiale e di dominio. Ciò è accaduto e continua ad accadere a causa dell’ambiguità del concetto di diritto prima sottolineata. Denunciando perentoriamente la nozione di diritto e la sua ambiguità, in realtà Simone Weil denunciava la sua epoca che, come al tempo dei romani, utilizzava l’idea di diritto per rivestire quella di forza.11

A Londra, infatti, nelle sue riflessioni, il diritto non ha quasi più alcun valore positivo, è legato alla forza o, tutt’al più, appartiene a quella zona mediana in cui si trovano anche concetti come quello di democrazia o di persona, che sarebbero, a suo avviso, mescolati al male e sempre soggetti ad esser piegati da esso. L’evento accaduto, che fa rivolgere la critica weiliana a una condanna del diritto e della sua ambiguità, è fin troppo evidente per essere ricordato: l’intera Francia, in nome del diritto imposto dai vincitori, ma con l’enorme scandalo dei collaborazionisti, si era uniformata al diritto del più forte, un diritto che nulla aveva a che fare con la giustizia — travolgendo, tra l’altro, anche la famiglia Weil in questo capovolgimento della legalità, in questo stato d’eccezione che li aveva costretti ad espatriare. Il tradimento della Francia era una prova eclatante ed empirica che il diritto, ove sia privato di una forza che lo possa mettere in atto, non solo diviene inefficace, ma si annulla per cedere il posto ad un altro diritto, dando ragione non solo a Spinoza, ma soprattutto a Tucidide le cui affermazioni sul legame tra forza e dominio, sono state così spesso commentate da Simone Weil.12 Non a caso, a partire dal viaggio in Germania, Simone Weil aveva riflettuto sempre più approfonditamente sugli stati totalitari che imprigionavano l’Europa, ripensando anche le forme di assolutismo che, a partire dalla Roma imperiale, hanno segnato la storia occidentale, in particolare proprio quella francese, con Luigi XIV e Richelieu fino a Napoleone.13 Il diritto, in tutti questi casi, non ha fatto che divenire strumento di uno stato d’eccezione in cui il più forte, e non il giusto, ha dettato legge. Negli anni del nazismo, delle leggi di Norimberga, delle deportazioni e delle persecuzioni si è assistito, infine, al più aberrante e colossale scollamento tra il diritto e la giustizia a cui l’umanità fosse mai giunta. L’autonomia del diritto positivo celebrava il suo trionfo nella legalizzazione delle forme più violente di governo mai immaginate. Dunque, si comprende come la critica weiliana si concentri su un certo utilizzo del diritto tipico degli Stati assoluti o dei regimi totalitari in epoche storiche che lei stessa mette in stretta correlazione. Quello che esse hanno in comune è, infatti, il paradossale scollamento del diritto dalla giustizia. Che validità attribuire a un concetto che, privo di un fondamento nella giustizia, può divenire mero strumento cieco della forza, maschera di essa?14

Tale critica, però, se restasse sul piano della filosofia del diritto, aggiungerebbe ben poco di nuovo rispetto alle critiche dello stesso tenore avanzate anche da altri autori, come Pascal, Marx, Benjamin o Hanna Arendt. In realtà la critica weiliana al diritto si comprenderebbe, forse, fino in fondo, solo se messa in relazione non soltanto ad alcune forme politiche, ma anche con la critica ad un certo tipo di soggettività portatrice del diritto;15 critica che, però, Weil non sviluppa in modo sistematico, e di cui troviamo molte tracce nelle pagine dedicate alla nozione di obligation, che, com’è noto, viene da lei contrapposta specularmente al diritto.16 A partire da quelle pagine si può comprendere anche una sfumatura per nulla secondaria e, anzi, fondamentale della riflessione weiliana, che lascia piuttosto perplessi in verità, cioè il suo apparente accomunare la critica al diritto tout court con quella ai diritti umani, un passaggio troppo immediato, che va problematizzato per essere meglio compreso.

2. Diritti dell’uomo e responsabilità

La critica weiliana sembra investire, negli scritti di Londra, anche i diritti dell’uomo, che, paradossalmente, dovrebbero veicolare un concetto di umanità fondato su un’idea di soggettività vicina a quella che Simone Weil pensava essere messa in gioco dalla nozione di obbligo: una soggettività depotenziata e decentrata, opposta a quella autonoma e autocentrata della tradizione cartesiana. Ciò che, nell’ambito dei diritti, fa da ostacolo a questo mutamento è, soprattutto, il permanere di un certo linguaggio legato a categorie del pensiero occidentale come quella di soggetto, che offuscano l’esigenza e l’urgenza di concentrare l’attenzione sull’essere umano in quanto essere obbligato. Se esiste un qualcosa come un diritto inerente l’essere umano in quanto tale, esso può derivare, fa notare Simone Weil, soltanto da un obbligo inerente l’essere umano in quanto tale. Se, infatti, fosse al sistema giuridico in sé o alla forza che venissero interamente deputate la difesa e l’affermazione del diritto umano, cioè la sua stessa possibilità di esistenza e vigenza, si ricadrebbe da un lato nel cortocircuito tra diritto e forza denunciato a proposito del concetto di diritto romano e, dall’altro, nell’affermazione di quella soggettività, o di quella persona così tanto criticata da Weil. Il soggetto dovrebbe, invece, mutare radicalmente a favore di una singolarità rivolta, innanzitutto, non alla difesa dei propri diritti, ma, come direbbe Lévinas, ai “diritti dell’altro uomo”,17 dunque ai propri obblighi: «Non ha senso dire che gli uomini abbiano dei diritti e dei doveri a quelli corrispondenti. Queste parole esprimono solo dei differenti punti di vista. La loro relazione è quella da oggetto a soggetto. Un uomo, considerato di per se stesso, ha solo dei doveri, fra i quali si trovano certi doveri verso se stesso. Gli altri, considerati dal suo punto di vista, hanno solo dei diritti. A sua volta egli ha dei diritti quando è considerato dal punto di vista degli altri, che si riconoscono degli obblighi verso di lui. […] I diritti appaiono sempre legati a date condizioni. Solo l’obbligo può essere incondizionato».18 La relazione originaria di obbligazione, l’essere obbligati, opererebbe, dunque, una trasformazione fondamentale soprattutto nell’ambito dei diritti dell’uomo, visto che il loro orizzonte chiama in causa l’umanità nella sua interezza, allo stesso titolo della nozione di obbligo. Ci sarebbe, dunque, uno scarto tra l’uso del concetto di diritto nell’ambito penale e civile all’interno di uno Stato e quello che se ne fa nell’ambito internazionale dei diritti dell’uomo,19 ma l’utilizzo degli stessi termini di diritto e di persona tendono a coprirlo sia a livello teorico che simbolico. È questo, probabilmente, il nucleo della critica di Simone Weil ai diritti dell’uomo.

D’altra parte, se si ricerca nell’itinerario weiliano lo sviluppo della sua critica ai diritti umani, si nota come essa sia andata precisandosi sempre più in relazione al linguaggio in essi utilizzato che rispetto ai loro contenuti e sempre più in relazione alla funzione giuridica da essi realmente assunta che alla forma universale ad essi assegnata. Se, ad esempio, si compie un passo a ritroso nella storia, anche personale, di Simone Weil, si trovano alcuni elementi interessanti per ricalibrarne la critica ai diritti umani: nel 1929 si iscrive alla XIV sezione della Ligue des droits de l’Homme di Parigi insieme a un gran numero di pacifisti attivi nella capitale.20 Come loro, infatti, vorrebbe far approvare a livello nazionale una mozione di protesta contro l’accrescimento delle spese militari votato dalla Camera per il 1929 e, per questo motivo, spinge persino i suoi genitori a iscrivervisi. In questa occasione espone anche lucidamente la sua posizione rispetto alla Ligue. In Pour la Ligue, descrive la Lega per i diritti dell’uomo affermando che essa debba essere sempre attenta non al possibile ma al giusto.21

È palese, dunque, l’importanza attribuita da Simone Weil in quegli anni non solo ai diritti dell’uomo, ma anche alla Lega per i diritti dell’uomo, alla quale rimproverava, anzi, di essersi troppo defilata rispetto a questioni cruciali che investivano la Francia. Tale importanza è evidente nel compito ad essa attribuito: essere attenta al giusto. È noto che il tema della giustizia è centrale per Weil, tanto da essere ascritto a un ordine soprannaturale. Dunque i diritti dell’uomo e la Lega sono investiti di una funzione simbolica e politica molto elevata, decisamente al di sopra di ogni altro ordine giuridico, compreso lo Stato sovrano. Per nulla criticati nella sostanza, i diritti dell’uomo sono, anzi, oggetto di una battaglia politica che possa condurre ad attribuire loro quella portata che Weil ritiene ad essi propria.

Questo atteggiamento, a nostro avviso, non scompare del tutto nel periodo londinese, benché la virulenza critica che investe il concetto di diritto, e quindi anche quello di diritti umani, appaia certamente in modo sovrabbondante e non possa essere messo da parte. Si tratta, allora, di tentare di comprendere, anche negli scritti di Londra, se vengano realmente contestati aspetti sostanziali dei diritti umani o se, piuttosto, la critica non sia rivolta ad aspetti non inerenti il loro contenuto, quali, ad esempio, il linguaggio usato, l’impianto generale o la forma giuridica assunta. Se, infatti, si cerca di considerare gli scritti di Londra nel loro insieme, vi si trovano alcuni passaggi che sembrano mitigare decisamente la posizione critica weiliana riguardo ai diritti dell’uomo. Ad esempio, riflettendo sulla legittimità del governo provvisorio che De Gaulle avrebbe dovuto assumere dopo la vittoria, Simone Weil analizza i metodi attraverso i quali una tale legittimità avrebbe dovuto incontrare il consenso unanime dei francesi. Uno di questi è proprio la compilazione e la discussione di una nuova Dichiarazione dei Diritti.22 Una prospettiva simile la si incontra anche nelle osservazioni sul progetto per la nuova Costituzione, all’interno del quale, a suo avviso, uno dei punti più importanti e degni di nota è l’aver pensato a un impegno di fedeltà alla Dichiarazione fondamentale, rispetto a cui occorrerebbe concepire anche un sistema penale in caso di tradimento.23 È, dunque, palese il suo desiderio di infondere un nuovo spirito, un nuovo linguaggio e, in questi casi specifici, una nuova forma giuridica alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo, che non viene, dunque, rigettata in linea di principio e integralmente, benché duramente messa in questione. La sua richiesta, infatti, è che un’altra Dichiarazione rivesta funzione che la Dichiarazione del 1789 è stata incapace di rivestire, senza sostituirne integralmente i contenuti. La critica a quella Dichiarazione, dunque, al contrario di quella al diritto tout court, investe essenzialmente la sua funzione simbolica e, paradossalmente, la sua funzione giuridica, tanto da pensare a un apparato penale per chi si macchiasse di tradimento in rapporto ad essa. Non è superfluo notare che la “definizione della violazione” e le pene da comminare nel caso una violazione dei diritti si verifichi, sono attualmente al centro della questione della “giustiziabilità” dei diritti umani, alla quale solo di recente è stata data una risposta efficace, tramite la Corte penale Internazionale, creata nel 1998 e diventata operativa nel 2002.24

Dunque, i problemi relativi alla Dichiarazione dei diritti sono, innanzitutto, quello della inefficacia della sua funzione simbolica e, in secondo luogo, quella del linguaggio in essa adottato. La forza della funzione simbolica sarebbe stata ristabilita, pensava Weil, anche in virtù di quel periodo in cui la si sarebbe diffusa, studiata e discussa clandestinamente prima della vittoria, in modo da farne una fonte di ispirazione per l’intero popolo francese, che in essa avrebbe ritrovato la sua unità e dignità, così da poter educare nei medesimi valori le generazioni future.25 Per ciò che concerne il linguaggio, il termine obligation doveva apparire a Simone Weil più adatto e meno segnato dall’ambiguità, al fine di mettere in luce quale soggettività fosse in gioco nella Dichiarazione dei diritti: solo un soggetto di responsabilità, investito del compito di dover rispondere dell’altro, prima ancora che di sé, può dare il suo consenso a sentirsi obbligato al rispetto dei diritti umani, dei diritti, cioè, di ogni essere umano in quanto tale.

Crediamo necessaria, alla luce di queste osservazioni, una distinzione, nell’ambito della critica weiliana al diritto, che consenta finalmente di comprendere lo scarto tra il concetto di diritto romano, attaccato duramente da Simone Weil, e quello di diritto umano, verso il quale sembra mostrare una significativa apertura. Lo scarto che si apre tra diritto e giustizia, attribuisce ai diritti umani il compito ineludibile non di mascherare la forza, ma di dare “veste” giuridica alla debolezza, di essere un baluardo per la vulnerabilità stessa dell’essere umano, quella vulnerabilità che non aveva trovato protezione né espressione, se non parziale e condizionata, nel linguaggio del diritto civile e penale statale.

Quello operato da Simone Weil nelle sue ultime opere, è stato, allora, un passo non contro i diritti umani, ma oltre essi, soprattutto oltre il linguaggio che, incardinato nella soggettività cartesiana e nella sua rivendicata autonomia, non è in grado di rispondere dell’altro e di accogliere il richiamo di un’altra legge ancor più cogente, di quella eteronomia che viene prima di ogni autonomia. Simone Weil ha individuato nel concetto eteronomo di obbligo la svolta — una vera rivoluzione copernicana — che potrebbe sovvertire la logica soggettivistico-individualistica dei diritti umani,26 l’idea di una soggettività capace di assumersi innanzitutto la responsabilità nei confronti dei diritti di ogni altro essere umano, ancor prima di rivendicare i propri.27


  1. Gli scritti in cui tale riflessione critica è sviluppata sono, com’è noto, innanzitutto S. Weil, La personne et le sacrée, in Écrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Paris 1957; tr. it. e cura di N. Maroger, La persona e il sacro, in Morale e letteratura, ETS editrice, Pisa 1990, pp. 36-69; Ead., L’Enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, Gallimard, Paris 1949; tr. it. F. Fortini, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, con uno scritto di G. Gaeta, SE, Milano 1990, ma anche il saggio giovanile S. Weil, D’une antinomie du droit, in Premiers écrits philosophiques, Œuvres Complètes, vol. I, Gallimard, Paris 1988, pp. 255-259; tr. it. di M. Azzalini, Un’antinomia del diritto, in Primi scritti filosofici, a cura di M. Azzalini, Marietti, Genova 1999, pp. 212-218. ↩︎

  2. Sul tema del diritto e della giustizia in Simone Weil ci limitiamo a segnalare, innanzitutto, i lavori monografici di due autori, entrambi filosofi del diritto: M. A. Cattaneo, Simone Weil e la critica dell’idolatria sociale, ESI, Napoli 2002 e T. Greco, La bilancia e la croce. Diritto e giustizia in Simone Weil, Giappichelli, Torino 2006; si vedano inoltre M. Papini, Il diritto è estraneo al bene. Lo scandaloso pensiero di Simone Weil, Cittadella, Assisi 2009; M. Sourisse, «L’idée de légitimité», Cahiers Simone Weil (d’ora in poi CSW), 1, 2004, pp. 11-32; R. Fulco, L’obbligo oltre il diritto. Simone Weil e la responsabilità per altri, in AA. VV., Pensiero e giustizia in Simone Weil, a cura di S. Tarantino, Aracne, Roma 2009, volume in cui anche altri autori si confrontano direttamente o indirettamente con questi temi; inoltre importanti e ricchi sono tutti gli interventi di Patrice Rolland, in particolare «Simone Weil et le droit», CSW, 3, 1990. ↩︎

  3. Sul tema della forza, e sulla sua declinazione come violenza, nel pensiero di Simone Weil mi sono soffermata in R. Fulco, L’irriducibilità del negativo. Note sulla violenza a partire da Simone Weil, in Diotima, La magica forza del negativo, Liguori, Napoli 2005, pp. 137-161, a cui mi permetto di rinviare. ↩︎

  4. Non sono pochi gli interpreti che si concentrano sulla critica weiliana ai diritti della persona a partire dal rapporto antagonistico che Simone Weil aveva assunto rispetto al milieu personalista: cfr. S. Fraisse, «La personne et les droits de l’homme», CSW, 2, 1984, pp. 120-132; E. Gabellieri, «Enracinement et action non-agissante», in Être et don, Peteers, Louvain-Paris-Dudley 2003, pp. 453-462; M. Broc-Lapeyre, Le passage de la personne à l’impersonnel, in AA. VV., Simone Weil. Le grand passage, a cura di F. L’Yvonnet, Albin Michel, Paris 2006, pp. 103-117. Sul tema della persona e dell’impersonale si veda AA. VV., Persona e impersonale. La questione antropologica in Simone Weil, a cura di G. P. Di Nicola e A. Danese, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009; R. Fulco, L’io: persona im-personale. La riflessione weiliana sulla soggettività da Marsiglia a Londra (1940-1943), in AA. VV., Simone Weil. Costruire un’architettura dell’anima, Servitium, Bergamo 2010 (in corso di pubblicazione). ↩︎

  5. Per lo sviluppo di tale critica si veda soprattutto S. Weil, La persona e il sacro, cit. alla nt. 1. ↩︎

  6. «Il diritto di ciascuno si estende fin là dove giunge la sua particolare potenza» (B. Spinoza, Tractatus theologico-politicus, cap. XVI, in Etica-Trattato teologico-politico, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, Tea, Milano 1991, p. 644). In realtà l’argomentazione di Spinoza nel Trattato teologico-politico è più complessa, ponendo una differenza tra leggi naturali e leggi umane che Weil non prende in considerazione. Al primo scritto weiliano sul diritto dedica pagine chiare ed esaustive T. Greco, La bilancia e la croce. Diritto e giustizia in Simone Weil, cit. alla nt. 1, pp. 15-27. ↩︎

  7. S. Weil, Un’antinomia del diritto, cit. alla nt. 1, p. 213. ↩︎

  8. Ivi, p. 217. ↩︎

  9. Quest’argomentazione sembrerebbe simile a quella di Hans Kelsen, il quale affermava che se è vero che il diritto non può esistere senza forza, esso non si identifica con la pura forza, ma è solo una certa organizzazione della forza. Tuttavia la distanza dell’argomentazione di Weil da quella di Kelsen è evidente nella volontà di quest’ultimo di separare totalmente la teoria pura del diritto da qualsiasi preoccupazione etica o morale, riservando al diritto uno spazio neutro. Cfr. H. Kelsen, Il problema della giustizia, a cura di M. G. Losano, Einaudi, Torino 2000. Sul pensiero di Kelsen, cfr. B. Celano, La teoria del diritto di Hans Kelsen. Una introduzione critica, il Mulino, Bologna 1999. ↩︎

  10. S. Weil, La persona e il sacro, cit. alla nt. 1, p. 50. ↩︎

  11. Si vedano, a tal proposito, le importanti osservazioni di T. Greco, La bilancia e la croce. Diritto e giustizia in Simone Weil, cit. alla nt. 1, p. 37. ↩︎

  12. Tucidide, La guerra del Peloponneso, V, 89, 105. Si tratta del discorso degli Ateniesi ai Melii, in occasione della spedizione contro Melo. L’idea tucididea che ognuno comandi ove ne abbia il potere è stata seguita da un importante filone della filosofia politica e del diritto che, passando per Hobbes, arriva fino a Carl Schmitt, per il quale fondatrice e regolatrice del Politico «è la distinzione di amico (Freund) e nemico (Feind)» (C. Schmitt, Il concetto di politico, in Le categorie del politico, tr. it. a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 108), e per il quale il nemico «è semplicemente l’altro, lo straniero (der Fremde)» (ivi, p. 109). Sulla decostruzione del paradigma politico di Schmitt si veda l’ampio primo saggio dell’interessante volume di Caterina Resta, L’Estraneo. Ostilità e ospitalità nel pensiero del Novecento, il melangolo, Genova 2008. ↩︎

  13. Cfr. S. Weil, La prima radice, cit. alla nt. 1. ↩︎

  14. Proprio a causa di tale sfiducia, nelle ultime opere di Weil si assiste, per certi versi, a quella che è stata definita da alcuni interpreti una riduzione moralizzante del diritto: «Il problema di Simone Weil, come sembra potersi dedurre dall’Enracinement, è di attribuire nuovamente un significato al soprannaturale in un mondo che sembra aver costruito la libertà dell’uomo contro Dio, senza, tuttavia, rimettere in causa la principale acquisizione della secolarizzazione, cioè la libertà individuale. Il problema è difficile, come dimostra il fatto che Simone Weil non può impedirsi di praticare una riduzione moralizzante del diritto» (P. Rolland, «Simone Weil et le droit», CSW, 3, 1990, p. 244). ↩︎

  15. Non potendomi soffermare, in questa sede, sul rapporto fra soggettività e diritto, mi permetto di rinviare al già citato R. Fulco, L’obbligo oltre il diritto. Simone Weil e la responsabilità per altri, cit. alla nt. 2, saggio nel quale mi sono soffermata più analiticamente su tale questione. ↩︎

  16. Sul rapporto diritti-obblighi si vedano: L. Reinhardt, Les besoins de l’âme, in AA. VV., Simone Weil. Philosophe, historienne et mystique, a cura di G. Kahn, Aubier Montaigne, Paris 1978, pp. 207-223; L. Blech-Lidolf, «La critique weilienne de la notion de droit dans son rapport avec la théorie des “besoins de l’âme”», CSW, 2, 1984, pp. 133-140; E. Springsted, «Droits et obligations», CSW, 4, 1986, pp. 394-404; E. Bea, Diritto e Giustizia. L’obbligo del dare, in AA. VV., Persona e impersonale. La questione antropologica in Simone Weil, cit., pp. 123-132; D. Mc Lellan, «Simone Weil et la philosophie politique libérale contemporaine», CSW, 2, 1999, pp. 125-133; Ph. Riviale, La pensée libre. Essai sur les écrits politiques de Simone Weil, L’Harmattan, Paris 2004, pp. 267 e sgg. ↩︎

  17. Cfr. E. Lévinas, Autrement que savoir,con due studi di G. Petitdemange e J. Rolland, Osiris, Parigi 1988, p. 61. ↩︎

  18. S. Weil, La prima radice, cit. alla nt. 1, p. 13. ↩︎

  19. Questa questione è stata affrontata da alcuni studiosi che l’hanno messa in relazione al primo scritto weiliano, cercando di spiegare come l’antinomia del diritto sottolineata in quel testo possa aver influito sulla concezione dei diritti umani i quali, pur esprimendo un’esigenza di altissimo valore spirituale, necessitano, tuttavia, di protezione e garanzia da parte di una forza: cfr. M. A. Cattaneo, Simone Weil e la critica dell’idolatria sociale, cit. p. 20. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che la critica weiliana si colloca prima della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948. È vero che la tradizione dei diritti dell’uomo e del cittadino era in Francia ben solida, ma la Dichiarazione adottata dall’ONU dopo la Seconda guerra mondale è uno strumento giuridico del tutto diverso e nuovo. Cfr. su queste questioni M. Flores, Storia dei diritti umani, il Mulino, Bologna 2008; A. Cassese, I diritti umani oggi, Laterza, Roma-Bari 2008. ↩︎

  20. Cfr. S. Pétrement, La vie de Simone Weil, Fayard, Paris 1973, pp. 98-99. ↩︎

  21. Cfr. S. Weil, Pour la Ligue, in Écrits historiques et politiques, Œuvres complètes, tome II, vol. 1, Gallimard, Paris 1988, p. 54. Del diverso atteggiamento di Weil si era accorto anche Roberto Esposito, che, tuttavia, lo considera circoscritto alla giovinezza, cfr. R. Esposito, Politica dell’ascesi, in Categorie dell’impolitico, il Mulino, Bologna 1988, p. 238, nota 156. ↩︎

  22. S. Weil, Légitimité du gouvernement provisoire, in Écrits de Londres et dernières lettres, cit. alla nt. 1, p. 70. ↩︎

  23. S. Weil, Remarques sur le nouveau projet de Constitution, in Écrits de Londres et dernières lettres, cit. alla nt. 1, p. 85. ↩︎

  24. La Corte Penale Internazionale (CPI) è una corte indipendente permanente davanti alla quale vengono giudicate le persone accusate dei più gravi crimini che investono la comunità internazionale, come i genocidi, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra. La CPI è stata creata con lo “Statuto di Roma della Corte penale internazionale”, adottato a Roma il 17 luglio 1998, dalla “Conferenza diplomatica dei plenipotenziari delle Nazioni Unite sulla creazione di una corte penale internazionale”. Esso è entrato in vigore il 1º luglio 2002. ↩︎

  25. Sull’importanza dell’educazione nel pensiero di Simone Weil, quale strumento non solo di crescita intellettuale ma anche politica, mi sono occupata in R. Fulco, «Un espace privilégié pour la politique et pour l’amitié. Simone Weil et ses élèves», CSW, 4, 2007, pp. 387-404, a cui mi permetto di rinviare. ↩︎

  26. Gaeta nota che nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino elaborata dalla Commissione per la riforma dello Stato e pubblicata il 14 agosto 1943, cioè qualche giorno prima che Simone Weil morisse, «alla lista dei diritti si trova affiancata una lista dei doveri, che in parte ricalca quella da lei proposta nello Studio per una dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano» (G. Gaeta, Il radicamento della politica, postfazione in S. Weil, La prima radice, cit. alla nt. 1, p. 276). ↩︎

  27. A tal proposito merita attenzione la redazione compiuta da alcuni anni da organismi non governativi di una “Déclaration des obligations envers la personne humaine”, il cui testo completo si può trovare sul sito www.interactioncouncil.org. Alla possibile influenza di Simone Weil su tali documenti e progetti ha dedicato un attento studio Jane Doering, che vede proprio nelle pagine degli scritti londinesi di Simone Weil un imperativo morale da accogliere per la costruzione di un’etica globale: J. Doering, «Déclaration des droits et des devoirs. Problèmes contemporains à la lumière de Simone Weil», CSW, 3, 2003, pp. 265-280. ↩︎