L’esistenzialismo ateo di Jean-Paul Sartre

Il periodo che seguì il primo grande conflitto mondiale fu caratterizzato in Europa da un comprensibile stato di smarrimento, tanto radicale da investire tutti gli ambiti della vita umana. In campo filosofico assistiamo, infatti, alla perdita di fiducia e credibilità nei riguardi dei grandi sistemi razionali che avevano dominato soprattutto il secolo precedente e ci troviamo di fronte così al cosiddetto «momento della sconnessione dell’essere»,1 alla caduta di ogni certezza dimostrabile, alla perdita di fiducia verso ogni astrattezza. Questa corrente, che dalla critica verrà chiamata esistenzialismo, si muove nella direzione di una filosofia capace non più di superare negazioni ed ostacoli secondo metodi logico-dialettici ma addirittura di accettare, di guardare coraggiosamente l’assurdo dell’esistenza, i paradossi della persona nella sua inspiegabilità, imprevedibilità, irripetibilità. L’esistenzialismo vuole dunque una filosofia basata sulla vita reale, sul realmente esistente senza fare astrazione di tali concetti ma personalizzandoli, chiudendoli nelle particolarità dell’esistenza umana, nella singola esistenza personale.

Jean-Paul Sartre, sicuramente uno dei maggiori esponenti del cosiddetto esistenzialismo ateo, cerca di spiegare tale corrente di pensiero, che andrà ad influenzare non solo la filosofia, ma anche l’arte, la letteratura, il teatro, la politica, in un semplice e breve testo nato nel 1946 con l’intento di chiarire molte delle incomprensioni e delle ambiguità che ruotavano attorno a tale orientamento culturale. In quest’opera (L’esistenzialismo è un umanismo) sentiamo Sartre parlare di esistenzialismo con termini quali responsabilità, progetto, scelta, angoscia, libertà, giungendo, infine, ad affermare che questa corrente non sia altro che «uno sforzo per dedurre tutte le conseguenza da una posizione atea coerente»;2 vediamo dunque di chiarire tali affermazioni.

1. L’Être et le Néant. Essai d’ontologie phénoménologique

J.-P. Sartre fu sicuramente un personaggio eclettico, che durante la sua vita seppe pensare non solo a livello culturale, con la produzione di opere teatrali, romanzi, saggi filosofici e psicologici, ma che ebbe anche il coraggio di schierarsi di fronte ai problemi sociali tanto da dar vita anche ad un partito politico nel 1947-48. Le convinzioni e le idee filosofiche che si andarono a delineare fin dalle sue prime opere teatrali e romanzesche trovarono, poi, un’ordinata sistemazione nel 1943 con l’opera L’essere e il nulla.

Fu sicuramente un testo molto criticato, da alcuni addirittura definito come un semplice «romanzo filosofico» piuttosto che come una vera e propria opera di carattere speculativo. Certo nella filosofia sartriana, di per sé molto affascinante, non è rara la comparsa di snodi teoreticamente problematici, né è difficile incontrare parziali contraddizioni, ma questo deve essere giudicato alla luce dell’assunto antilogicista comune a tutte le posizioni dell’esistenzialismo. Data la rottura con la logica, con la razionalità delle precedenti filosofie, l’esistenzialismo deve farsi portavoce di «una parola capace di sostenere… la novità della sua invenzione; una parola che… evochi stati d’animo, situazioni spirituali, sentimenti; perché solo il sentimento, mantenendosi allo stato fluido e incandescente, evita il coagulo del pensiero concettuale».3 Il pensiero esistenzialista non può rifiutare il suo linguaggio immaginifico-poetante per tornare alla logica astratta tanto criticata; una metodologia «more geometrico demonstrata» sarebbe inutilizzabile per uno studio della realtà, dove imperversa l’orizzonte delle possibilità, dell’assurdo, della contingenza. «La dialettica dell’esistenzialismo non sintetizza gli opposti, ma li esaspera; le contraddizioni non vengono superate: restano sempre aperte, vive, operanti sulla vita dell’individuo, di cui costituiscono il dramma perenne».4 È per questo che per analizzare «la finitezza, l’incertezza, la precarietà dell’esistere»,5 Sartre opta per utilizzare il metodo fenomenologico.

Fin dall’inizio, infatti, l’autore dichiara il suo modo di procedere aggiungendo a L’essere e il nulla il sottotitolo Saggio di ontologia fenomenologica; desidera mantenere, così, un rapporto costante col fenomeno, vuole rifiutare l’astrazione sterile di un procedere di necessità in necessità.

Compare però già in prima battuta un’incongruenza da risolvere: come può Sartre affiancare un metodo fenomenologico ad una ricerca ontologica, come può l’apparire parlare dell’essere?6 Certo, ad una prima osservazione, può sembrare un’antitesi, ma proseguendo la lettura dell’opera ci si rende conto di come Sartre faccia coincidere l’essere con l’apparire, dove «l’apparenza non nasconde l’essenza, la rivela: è l’essenza».7 È infatti nella prima pagina dell’«introduzione alla ricerca dell’essere» che viene presentato come il più grande merito della filosofia moderna l’aver eliminato la dicotomia esterno/intero, fenomeno/noumeno, apparire/essere. In una filosofia del reale, dei paradossi dell’esistenza, non si può che utilizzare un piano fenomenologico su cui fondare la propria conoscenza, assunto che tra l’altro viene portato avanti anche nella produzione teatrale dello scrittore sostituendo il cosiddetto «teatro psicologico» con un «teatro di situazioni» «dove l’uomo è calato nel mondo, è un esserci, dove — spiega l’autore — ogni situazione è una trappola per sorci: muri da ogni parte… non ci sono vie d’uscita. La via d’uscita s’inventa. E ciascuno, inventando la propria, inventa se stesso. L’uomo è da inventare giorno per giorno».8

Successivamente, però, parlando dell’essere del fenomeno, dello statuto ontologico dell’apparire, Sartre è costretto ad ammettere di non poterlo trovare nella commistione della qualità del «questo» e deve così relegare il suo senso, il suo essere originario, a un piano diverso, un piano transfenomenico. «Il fenomeno d’essere esige la transfenomenicità dell’essere. Il che non vuol dire che l’essere sia nascosto dietro i fenomeni né che il fenomeno sia un’apparenza che rinvia ad un essere distinto».9

Accade qui che l’autore, per paura di assistere alla ricomparsa della dicotomia interno/esterno, tanto faticosamente eliminata, si prodiga a sottolineare la coestensività, la coesistenza del fenomeno e dell’essere. D’altra parte però assistiamo anche alla comparsa di una transfenomenicità dell’essere che tenderebbe naturalmente ad indicare l’ulteriorità di un piano ontologico assolutamente distante dalla concrezione fenomenica. Inoltre nella sezione de L’essere e il nulla dedicata alla trascendenza troviamo che la qualità dell’essere viene definito come «tutto l’essere»10 senza, quindi, riferimento alcuno ad un piano altro dal fenomeno. La questione può essere risolta evidenziando come la fenomenicità dell’essere possa esistere solo di fronte ad un osservatore (coscienza soggettiva) e come questo rimandi necessariamente ad una fondazione oggettiva, quello che appunto veniva indicata come la transfenomenicità dell’essere. Ci troviamo così di fronte ad una di quelle ambiguità precedentemente anticipate che è, in questo caso, causata dal carattere fondamentalmente polisemico del verbo «essere».11

2. Dalla coscienza posizionale ai margini dell’idealismo

Restando sempre a livello metodologico possiamo richiamare alla nostra attenzione un’altra tra le questioni più discusse: la legittimità o meno dell’utilizzo della psicologia in una ricerca filosofica. Questo rappresenta un’altra apparente contraddizione che si potrà facilmente chiarire esaminando la concezione sartriana della coscienza. Sartre considera la coscienza come qualcosa di per sé vuota, rifiuta nettamente qualsiasi concezione della coscienza che cerchi di ipostatizzare un’unità organizzativa indipendentemente dalle percezioni, come ad esempio in Kant. Sulla scia di Husserl, ma prendendo poi le distanze anche da lui, Sartre parla della coscienza come di un punto di vista mobile sulle cose, e precisa che non c’è coscienza «che non sia posizionale»,12 che ogni coscienza è un far proprio qualcos’altro, un inglobare, un riempire qualcosa di per sé vuoto con qualcosa di estraneo, mantenendo comunque implicita la relazione che dalla mia identità di me medesimo mi porta alla negazione dell’altro da me. «In altri termini ogni coscienza posizionale dell’oggetto, è nel medesimo tempo coscienza non posizionale di sé».13

Non è dunque da criticare l’utilizzo di un’indagine psicologica a sostegno di problemi filosofici, soprattutto perché la stessa psicologia sartriana si accorda col metodo fenomenologico, prendendo le distanza dal determinismo psicologico e psiocoanalitico e dall’ipostatizzazione psichica. Questi sono visti da Sartre come impedimenti alla concezione della libertà umana, «per questo saremmo infatti condotti verso un’interpretazione meccanicistica dello psichico, frutto di un’analisi intellettualistica».14

Sviluppando ogni piega della concezione sartriana della coscienza possiamo arrivare, così, a comprendere che, se questa dev’essere sempre coscienza di qualcosa, se è grazie al fenomeno che può istituire una relazione con se stessa, ciò significa che da un lato l’essere umano è nel mondo, è un esserci, è un Da-sein; altrettanto però è il mondo ad essere nell’uomo, è l’uomo che lo fa comparire, è l’uomo che dà significato a questa luce, a quelle nuvole, che interpreta come catastrofico un terremoto nel centro di New York mentre considera del tutto insignificante il medesimo accaduto nel deserto del Sahara. Con questa concezione dell’uomo possiamo dire di essere «ai margini dell’idealismo»,15 ai margini perché comunque bisognosi del fenomeno, del mondo, che, in questo modo, è a nostra completa disposizione; la libertà umana è totale e nessuna morale, nessun divieto, nessuna punizione potrà mai minarla essendo inscritta nell’ontologia individuale.

Riassumendo potremmo quindi delineare come fondamentale il carattere di rimando, di trascendenza, di tensione all’altro da sé della coscienza, dove quindi «conoscere è “esplodere verso”, strapparci dall’umidiccia intimità gastrica per correre al di là da sé, verso ciò che non è sé, laggiù accanto all’albero e io non posso perdermici più di quanto l’albero non possa diluirsi in me: fuori di me».16 Consequenziale a questo costante rimando è poi la dialettica intrinseca che si istituisce tra l’identico e il diverso, tra l’io e l’altro, dove si ha che «la coscienza è un essere per cui nel suo essere si fa questione del suo essere in quanto questo essere ne implica un altro da sé».17 Analizzando questa concezione della coscienza giungiamo così ad intravedere i due grandi protagonisti dell’opera più incisiva di Sartre: l’essere ed il nulla.

3. L’essere e il nulla, ovvero l’in sé ed il per sé

Il filosofo francese parte da una constatazione all’apparenza tanto evidente quanto radicale: la differenza tra un essere quale un oggetto (penna, tavolo, …) e un essere umano (o quanto meno un ente dotato di coscienza). Viene così a descrivere il primo come essere in sé, come un essere dotato di un’assoluta opacità, consistenza, un’essere che è, esiste ancor prima di qualsiasi categoria logica quale l’attività, la passività, la temporalità. L’in sé è qualcosa di totalmente pieno, senza alcuna possibilità, senza alcuno spazio, precedente anche le categorie di possibilità e di necessità: l’in sé è contingente, gratuito, piena positività. Opposto a questo modo d’essere c’è l’essere per sé rappresentante il punto di vista di una coscienza. Il per sé abbandona completamente quella pienezza che caratterizzava il suo precedente (è infatti garantita anche una successione temporale tra i due) accogliendo in sé una fessura, uno spazio, un Nulla che gli permette quelle oscillazioni necessarie al mantenimento della coscienza, della libertà, delle ekstasi temporali… Il per sé, allora, è visto come presenza all’essere ma contemporaneamente come distanza, come un essere di fronte a l’in sé senza alcuna possibilità di coincidenza, senza speranza di unione.

E questa la cosiddetta «coscienza infelice», abbandonata a se stessa e obbligata alla propria libertà senza possibilità d’appello ad altro da sé, senza una minima direttiva, gettata nell’abisso insondabile della scelta. Si vedono, così, emergere i caratteri di libertà e scelta, anticipati all’inizio. Da qui il passo è breve verso l’angoscia, l’angoscia di trovarsi liberi di agire, ma non solo, anche di dar senso alla realtà, liberi di trasformare, di trasformarsi senza mai poter trovare una giustificazione dietro alla quale nascondersi.

Se l’esistenzialismo propone un esaltante elogio della libertà, d’altra parte evidenzia anche il dramma del portare un’esistenza ingiustificata, la sofferenza di trovarsi responsabili di qualunque atto, anche di quelli non voluti, l’impossibilità di uscire dalla concatenazione delle continue, inesorabili scelte. La nostra esistenza è un’esistenza condannata ad essere libera e noi siamo condannati ad essere sempre da soli. Il per sé realizza così il suo gravoso compito: l’esistere, che se da un lato lo costringe costantemente alla libertà, ad una continua scelta, ad un doversi rifare, ricreare ad ogni bivio della vita, dall’altro non fornisce alcuna giustificazione, alcuna motivazione e ripete «che siamo tutti qui a bere e a mangiare per conservare la nostra preziosa esistenza, e che non c’è niente, niente, nessuna ragione d’esistere».18

4. Malafede e fuga dall’infondatezza

Da qui vengono anche le nostre principali difese da questa angoscia esistenziale, dalla nausea che ci prende di fronte alla gratuità del tutto, alla contingenza e all’inspiegabilità di ogni cosa; Sartre ne fa una profonda analisi partendo dal comportamento della malafede. Nella malafede «è a me stesso che mi maschero la verità».19 Qui scompare la dualità ingannatore/ingannato nel tentativo di alienarmi le infinite possibilità che mi si presentano davanti sulla base delle contrapposizioni tra fatticità/trascendenza, essere per sé/essere per altri ma, soprattutto, immergendomi costantemente nel «mondo delle urgenze». In questo mondo quotidiano la libertà ci è alienata, ci trascende, è un mondo dove la sveglia, la mattina, indica un imperativo, dove in qualunque attività il soggetto gioca ad essere cameriere, professore, idraulico, gioca nel tentativo di coincidere perfettamente col suo ruolo prestabilito, alienando ogni libertà e cercando di anestetizzare quell’angoscia nata dal dover sempre scegliere, sempre liberamente, sempre ingiustificabilmente. Il per sé è un «non essere ciò che è, essere ciò che non è, essere ciò che non è e non essere ciò che è»20 in un continuo scollamento dall’in sé rispetto al passato, al presente, al futuro. Di qui Sartre analizza l’angoscia del giocatore al quale non basta promettersi di non giocare: deve fare e rifare questa promessa ogni attimo, ogni secondo della sua esistenza e nemmeno con ciò avrà la garanzia di resistere alla tentazione trovandosi di fronte ad un tavolo da gioco. «L’uomo è separato per un nulla dalla sua essenza».21 «L’angoscia, infatti, è riconoscere una possibilità come mia possibilità».22

Sartre presenta altri tentativi di fondare la propria esistenza da parte del singolo, di eliminare l’angoscia dell’essere soli e ingiustificati, anche questi però destinati allo scacco. Questa volta siamo sul piano interpersonale e tale possibilità si gioca nell’altalenare degli equilibri tra l’io e gli altri; nel primo di questi atteggiamenti Sartre raggruppa l’amore, il linguaggio, il masochismo spiegando, con questi esempi, la tendenza al darsi all’altro nel tentativo di derivare da questo un fondamento del proprio esistere; ecco allora che l’amato, ad esempio, sente che la sua esistenza «è ripresa e voluta nei suoi minimi particolari da una libertà che esso condiziona nella stesso tempo… È questo in fondo la gioia d’amore, quando c’è: sentirsi giustificati d’esistere».23 Dall’altra parte compare anche la tendenza opposta del voler sottomettere la libertà d’altri, del voler caricarsi sulle spalle anche la libertà di chi ci sta di fronte; compaiono così atteggiamenti quali il desiderio, il sadismo, l’odio, anche questi tutti destinati allo scacco pretendendo, nel caso del desiderio ad esempio, di «possedere la trascendenza dell’altro come pura trascendenza e tuttavia come corpo; ridurre l’altro alla sua semplice fatticità, così da includerlo dentro il mio mondo».24

5. Precarietà ontologica e ateismo

A questo punto può essere comprensibile il carattere principale del per sé nella sua unione col Nulla: il per sé è il costantemente evaso, l’eternamente in fuga da qualsiasi determinazione e da qualsiasi tentativo di coincidenza col proprio essere. Siamo così in grado di comprendere perché «l’esistenza precede l’essenza». Con ciò si vuole sottolineare il farsi quotidiano di ogni singolo individuo, si vuole rifiutare qualsiasi concezione ontologica aprioristica che cerchi di ingabbiare l’uomo, considerando, invece, quest’ultimo come nient’altro se non «ciò che si fa».25 L’esistenzialismo vuole essere allora uno «sforzo per dedurre tutte le conseguenze possibili da una posizione atea coerente»,26 l’esistenzialismo, partendo da un ateismo convinto, cerca, così, di eliminare le ipostatizzazioni essenziali che imperversano in un contesto religioso; l’uomo è, dunque, in balia di se stesso, è libero di farsi e rifarsi scegliendo le proprie azioni e i propri progetti.

È stato obiettato che questa antecedenza dell’esistenza all’essenza abbia al suo interno una contraddizione logica: come può, infatti, qualcosa esistere senza essere contemporaneamente, senza la presenza di un essere che sostenga la sua esistenza? Questa critica in realtà affonda le sue radici nella filosofia più dogmatica e semplicistica; certo logicamente il paradosso esiste, ma una personalità come quella di Sartre tesa nella continua oscillazione tra teatro, letteratura, filosofia, politica non si può imprigionare in un riduttivo gioco logico; inoltre, l’autore va compreso alla luce della critica antilogicista comune a tutte le posizioni esistenzialiste: siamo, come già detto, di fronte ad un linguaggio che deve portare il peso di una novità, di un nuovo modo di pensare, un linguaggio che per prendere le distanze dalla vecchia filosofia logico-analitica deve sfuggire a quelle categorie ormai arrugginite che potrebbero soffocarlo.

Dostoevskij ha scritto: «se Dio non esiste tutto è permesso»; ed è proprio questa la presa di coscienza principale dell’esistenzialismo ateo che, se da un lato rimpiange l’infondatezza del singolo, la sua ingiustificabilità, dall’altro porta avanti la fede per una libertà assoluta, una libertà la cui assolutezza, però, non può venir intesa nel puro senso logico ma che deve comunque fare i conti, prima ancora che con la situazione pratica, con la struttura ontologica dell’uomo. «Io — dice Sartre — sono condannato a vivere sempre al di là della mia essenza, al di là dei moventi del mio atto; sono condannato ad essere libero».27

6. Un multi-verso interpretativo: libertà…

Sartre, dunque, fino a questo punto analizza la libertà dal punto di vista astratto (se può essere lecito parlare di astrattezza in campo fenomenologico), o comunque potenziale, tanto che, partendo dal presupposto che solo la libertà potrebbe limitare se medesima, afferma che tale limite possa giungere soltanto «come finitezza interna, dal fatto che non può non essere libera, cioè che si condanna ad essere libera, e come finitezza esterna, dal fatto che essendo libertà, è per altre libertà, che la esperimentano liberamente, alla luce dei propri fini».28

Finora, dunque, sembra che la libertà possa consistere in una sorta di energia inarrestabile, in un’esplosione creatrice di ciò che è nulla rispetto al presente. L’autore sembra, quindi, tralasciare qualsiasi attenzione alla situazione, alla reale contestualità del presente tanto da portare i critici a sottolineare una certa alterità tra quella che è stata definita la «libertà essenziale» e la libertà «esistenziale»,29 dove anche quest’ultima sembrerebbe praticamente spogliata da ogni reale contatto con la fattualità concreta della situazione. Sartre sottolinea, infatti, che «non ci può essere per sé libero se non impegnato in un mondo esistente»,30 facendo sembrare quasi che tutta la realtà si possa ricondurre ad una potenzialità creatrice: la libertà essenziale, appunto. La situazione viene così considerata in funzione della libertà assoluta (anche se abbiamo visto non essere propriamente tale) dell’uomo, tanto da vedere il «coefficiente di avversità» delle cose come non attribuito dall’essere in sé degli enti, di per sé completamente inerti, ma proiettato dalla libertà personale del per sé. Il per sé, tendendo al nulla e cercando la nullificazione del presente attraverso la scelta e la rincorsa di un fine, investe così gli utensili che circondano l’uomo nella sua fatticità di un valore di resistenza o di ausilio spogliando così le cose di qualsiasi loro intrinseca potenzialità, posizione tra l’altro perfettamente coerente con la pienezza e la densità dell’essere in sé. Non solo, proseguendo con l’analisi dei caratteri peculiari della situazionalità ci troviamo di fronte alla trattazione del «posto», della posizione cioè che io vengo ad assumere con l’atto di nascita, evento che, in quanto non voluto, potrebbe sembrare l’estrema limitazione della libertà umana. Anche qui Sartre nega che questa consista in un’effettiva limitazione, non solo perché la struttura ontologica del per sé porta a «non essere ciò che sono ed essere ciò che non sono», ma soprattutto perché anche in questo caso la mia posizione, il mio carattere di vicinanza a…, distanza da…, viene definito sulla base di un progetto liberamente scelto. «Sarebbe assolutamente inutile cercare di definire o di descrivere un quid di questa fatticità prima che la libertà si svolga ad esso per coglierlo come una deficienza determinata».31 Lo stesso procedimento logico è applicato anche di fronte alla considerazione del passato, il quale non potrebbe essere che una piattaforma verso il futuro, la base di un costante andar oltre e, quindi, delle fondamenta la cui solidità dovrà essere misurata solo tenendo presente la costruzione che nel futuro dovranno sorreggere. Di nuovo il soggetto è libera interpretazione, è attività creatrice, è artista, non solo al presente ma anche rispetto al futuro e al passato.

Proseguendo con l’analisi della situazione la logica sostanzialmente monotematica dell’autore sembra interrompersi ed incrinarsi nell’affrontare l’analisi di «ciò che mi circonda» soprattutto quando afferma, in maniera a prima vista contraddittoria, che «in linea generale il coefficiente di avversità e di utensilità delle cose non dipende unicamente dal mio posto, ma dalla potenza propria degli oggetti».32 Sembra affermare una fondamentale Selbstständigkeit delle cose; anche in questo caso, comunque, tale considerazione viene a risolversi nell’indicare quel campo dove l’uomo agisce interpretando, piegando, sfruttando «l’esistente bruto assunto per essere superato».33

Siamo così giunti ad uno dei grandi punti problematici del pensiero sartriano, non tanto all’interno del discorso de L’essere e il nulla ma soprattutto nel contesto delle opere politiche e degli intenti pratici evidenziati principalmente in L’esistenzialismo è un umanismo. Proprio in quest’ultimo sembra di vedere un Sartre che, di fronte alle accuse e alle reazioni alla scandalosità della sua opera filosofica, voglia in un certo qual modo farsi scusare, mediare quelle posizioni che ne L’essere e il nulla apparivano tanto radicali. Preso nel tentativo di ripararsi dalla critica cristiana, dai due fuochi della destra e della sinistra, dalla requisitoria spiritualistica e perbenista, Sartre cerca di evidenziare, confidando in un possibile deus ex machina, la radicalità della scelta personale, l’impegno connesso alla responsabilità assoluta di fronte alle azioni. Certo queste categorie sono facilmente ritrovabili all’interno della filosofia sartriana ma ci si deve astenere dall’organizzarle in una morale o in un atteggiamento sistematico. La scelta, l’impegno possono essere visti solo all’interno di un orizzonte personale e individualistico; data l’estrema capacità interpretativa della libertà, data l’assenza di un Dio e con esso l’assenza di una morale assoluta o di un’essenza ben stabilita, ci si ritrova gettati nel più profondo solipsismo, nel tanto evitato idealismo, difficile da superare proprio a causa della struttura essenziale della coscienza: una coscienza che rifiuta dall’alto della sua libertà, quasi onnipotente, qualsiasi ab-solutum e che, proprio in quanto calata nel reale e nella fatticità, sostiene fiera la fondamentale relazionalità e relatività esistente a livello pragmatico.

Sembra quasi che questo risultato, ai margini dell’idealismo, destinato al più solitario dei solipsismi contraddica il metodo fenomenologico intrapreso fin dall’inizio da Sartre. Andando a ricercare il perché di una soluzione tanto differente dai presupposti, non è possibile individuare un qualche errore logico nel procedere sartriano sostanzialmente coerente; invece, l’origine di questa discordanza tra solipsismo e fenomenologia è da ritrovare fin dall’inizio de L’essere e il nulla: già dalle prime pagine viene, infatti, ribadito il metodo fenomenologico, la sua coincidenza con l’ontologia ma d’altra parte (già a p. 29) si presenta un radicale dualismo, tanto insolubile quanto infondato, composto da essere in sé e essere per sé. Fin dalle prime pagine, quindi, visto l’inizio del filosofare sartriano, vista la discordanza di fondo tra metodo fenomenologico e intuizione, che tanto fenomenologica non è di certo, si sarebbe potuto intuire come la speculazione morale sarebbe stata necessariamente relegata ad un piano di astrattezza, ad un livello che avrebbe solo descritto le potenzialità umane senza collocarle in quella concrezione di influssi, ostacoli, dipendenze con i quali spesso si descrive la realtà. L’uomo di Sartre anche nella sua mondanità resta troppo astratto; certo ciò non significa che tutta l’analisi situazionale dell’autore sia una beffa, ma questa è svolta solamente a partire dal punto di vista soggettivo, mentre la situazione può essere analizzata soprattutto a partire da quella serie di intralci ed interventi sicuramente non voluti né desiderati ma completamente indipendenti dal soggetto e per tanto limitanti la sua libertà. Ci si rende facilmente conto, dunque, di come l’assolutezza della libertà e i caratteri di questo individualismo, se da un lato condannano l’uomo alla definitiva solitudine, dall’altro ci offrono un panorama di quasi onnipotenza del singolo individuo non potendo, questo, essere limitato da niente se non da se stesso o da un’altra libertà come la sua. L’uomo nella situazione è padrone del mondo, è l’utilizzatore dei mezzi, delle cose che lo circondano e tutto viene visto ed utilizzato in funzione dei suoi fini.

7. … e situazione

Anche la situazione, però, allo stesso modo della libertà si presenta come bifronte e dall’altro lato della medaglia troviamo, di nuovo, una condanna: la costrizione ad essere sempre in situazione, sancita per Sartre da una serie di equivalenze inalterabili. Per Sartre l’unica maniera per permettere l’esistenza della libertà è di porla nel mezzo di enti, di cose da utilizzare, nel mezzo di in sé le cui presenze sono ontologicamente necessarie al sorgere del sé; d’altra parte l’unica maniera per permettere l’esistenza del concetto della situazione è dotare l’osservatore di una libertà e si ha libertà solo in presenza del per sé. Non solo il filosofo si preoccupa anche di chiarire i rapporti all’interno dell’agire, dicendo che ogni scelta comporta comunque un’azione e, viceversa, ogni azione deve manifestare una scelta; ma facendo così identifica anche l’azione con l’intenzione, dimostrando l’impossibilità dell’esistenza di azioni senza una qualche intenzione né di intenzioni senza un loro sfogo oggettivo; anche un’inattività, sarebbe infatti un’azione determinata dall’intenzione del restare inerti o dall’incapacità di prendere una decisione. Tutto l’uomo è così calato nella sfera reale, mondana, né si dà possibilità che qualcosa possa nascere e morire nell’astratto del concetto senza una qualche incarnazione nel concreto. Già questo basterebbe a relegare l’uomo nella prigione della situazione reale, nella gabbia del suo quotidiano, ma Sartre si spinge ancora oltre a dichiarare che «l’uomo non è nient’altro che quello che progetta d’essere; egli non esiste che nella misura in cui si realizza; non è, dunque, nient’altro che l’insieme dei suoi atti, nient’altro che la sua vita».34

Nella trattazione della libertà in situazione, sicuramente uno tra gli argomenti più problematici dell’analisi sartriana, troviamo, quindi, da un lato un orgoglio di potenza, una fierezza nella possibilità e nell’agire umano, tanto che, criticando ogni atteggiamento di inazione e rassegnazione, «l’esistenzialista quando descrive un vile, dice che questo vile è responsabile della sua vita».35 D’altra parte però emerge che il doversi riferire sempre ad una situazione senza via di scampo porta l’uomo, come nel caso della libertà, ad una profonda angoscia, ad una responsabilizzazione del singolo per ogni sua azione, dove, come già anticipato, non solo la singola azione, anche la più insignificante, esprime tutto l’essere del singolo, ma dove inoltre il suo giustificarsi dev’essere compiuto di fronte all’Altro e propriamente nel suo esserci. L’uomo deve avere il coraggio di sopportare l’angoscia del venir giudicato e deve agire nella piena coscienza di essere l’unico fondamento della sua esistenza, senza scuse, senza protezioni; non ci sono, così, eventi di fronte ai quali ci si possa nascondere, non ci sono fatalità né episodi di fronte ai quali porsi con uno spirito di rassegnazione, perché «io sono quello che mi sono voluto». Sartre arriva infine ad evidenziare, sottolineando l’impossibilità di uscire dalla situazione dove già il non agire è comunque un agire, come anche di fronte a quegli eventi di certo più grandi del singolo individuo, ad esempio una guerra, quest’ultimo non possa esimersi dall’agire, dall’interpretare: il soggetto può arruolarsi nell’esercito, rifiutare qualsiasi impegno, schierarsi dalla parte del nemico, manifestare contro tale violenza prendendo coscienza alla fine del suo doversi ritenere responsabile di tale conflitto come se l’avesse dichiarato lui stesso, realizzando di dover rendere conto del proprio atteggiamento, delle proprie idee di fronte al mondo intero, dove, soprattutto, «soltanto la realtà vale; dove i sogni, le attese, le speranze, permettono soltanto di definire un mondo come un sogno deluso, come una speranza mancata, come un’attesa inutile».36

Volendo dare uno sguardo d’insieme alla concezione della situazione vediamo l’uomo sartriano altalenare continuamente tra una capacità creatrice, direi onnipotente, e la sua condanna al dover essere sempre in situazione, tra il dover continuamente agire giustificando ogni comportamento e il soggettivismo assoluto di ogni valore, di ogni interpretazione, tra il rincorrere costantemente il sogno di una coincidenza tra in sé e per sé, l’essere Dio, e la continua sconfitta fino alla definitiva accettazione della infelice condizione umana. «L’uomo è una passione inutile» teso in un continuo dibattersi impotente, dove tutte le sue potenze e capacità gli si rivoltano contro al modo della costrizione, della condanna (condizione messa in luce magistralmente da Sartre nella commedia umana, nell’antitesi tra la morale soggettiva e quella borghese illustrata nei romanzi e nelle opere teatrali).

8. L’Altro… tra alterità ed estraneità

Proseguendo l’analisi sartriana della situazione, prima interrotta per tentare un approfondimento critico dell’esserci, ci troviamo di fronte a quello che sicuramente costituisce il secondo grande scoglio di questa filosofia: la concezione dell’Altro. Ne L’essere e il nulla l’altro è analizzato molte pagine prima della trattazione della situazionalità dell’uomo. Dalla lettura di questo testo compare facilmente la convinzione del filosofo che l’altro influenzi costantemente la vita del singolo, il suo mondo, al punto da rendere inutile qualsiasi prova ontologica della sua esistenza. Sartre comincia quest’indagine da una vera e propria posizione fenomenologica: l’altro si manifesta a me con lo sguardo e la vergogna è la prima reazione alla scoperta della sua esistenza. Il filosofo comincia, quindi, una dettagliata analisi della fenomenologia dell’altro, senza mai staccarsi dagli esempi reali e quotidiani, andando così a dare vita ad una delle parti più affascinanti dell’intera opera. Alla fine di tale analisi emerge la figura dell’altro come una soggettività che, come tale, organizza la realtà includendomi in questa; l’altro è un qualcosa che mi ruba il monopolio organizzativo della situazione; assisto così «ad uno scivolamento di tutto l’universo; ad un decentrarsi del mondo che mina dal di sotto la centralizzazione che io compio nello stesso tempo».37 L’altro viene visto ne L’essere e il nulla come un antagonista ostile alla mia libertà, come un polo soggettivo che avendo la mia stessa capacità organizzativa della realtà, potendo disporre al mio stesso modo delle cose che mi circondano, decentra il mio egocentrismo arrivando addirittura a cogliermi come oggettività, come cosa tra le cose, come utensile di cui disporre. «Lo sguardo altrui mi fa essere al di là del mio essere in questo mondo, in mezzo ad un mondo che è insieme questo qui ed al di là di questo mondo».38 L’altro ha, dunque, la tremenda capacità di cogliere quello che il soggetto si affanna inutilmente a raggiungere: l’altro mi conosce nel mio essere, l’altro riesce a nullificare quella costante fuga del per sé, realizza il coagulo di tutto l’avere da essere, di tutta la progettualità in un in sé totalmente passatificato. Ecco che il singolo dal vertice del suo essere ciò che non è e non essere ciò che è viene conosciuto quale è, come essere nel mondo con quell’oggettivazione fin ora riservata solo agli oggetti: l’altro mi vede come «l’uomo che legge il libro», «la persona che attende l’autobus», relazionandomi con gli oggetti che mi circondano, mettendomi allo stesso piano delle panchine sulle quali sto seduto e del palazzo che ho alle mie spalle; l’altro mi imprigiona, mi imbriglia in un essere che non sono e che non esaurisce le mie potenzialità. «Io non sono più padrone della situazione… sono semplicemente».39 Non solo: lo sguardo, cogliendomi come sono, irrimediabilmente mi mette di fronte al giudizio d’altri, mi espone ad un’analisi senza possibilità di difesa o di appello: io sono così e me ne devo assumere le responsabilità.

Questo schema fenomenologico io/altro sarà sicuramente più chiaro se rapportato all’esperienza della vergogna: qui l’altro che mi coglie, ad esempio, a spiare qualcuno, mi immobilizza nel mio essere guardone, mi rende nudo di fronte a lui, ingiustificabile e, qualunque sia il movente che mi ha spinto a farlo, egli mi categorizza spogliandomi, nella mia vergogna, della capacità di annullarmi, di reinventarmi: io sono «lo spione» e fin tanto che dura la sua oggettivazione di me non potrà far altro che cogliermi come «dietro un palo», «a pochi metri dalla persona che mi interessa», ma mai come qualcosa dotato di possibilità, dotato della capacità di scrollarmi qualsiasi etichetta in un continuo rimando, in un’infinita fuga dal mio essere in sé, che riuscirà a catturarmi solo con la morte, quando sarò, cioè, pura oggettività e sarà negato ogni mio possibile.

Con la morte, infatti, io divengo puro passato e come tale pura oggettività essendomi alienato ogni «aver da essere» e ogni possibile futuro, in tale avvenimento sono condannato a restare presso il mio in sé e la costrizione peggiore di tale situazione è l’essere a completa disposizione dell’altro, della sua considerazione, del suo giudizio. Non solo, la morte «non è mai quello che dà il suo senso alla vita; è invece ciò che le toglie ogni significato»;40 la vita estinta è passivamente in balia dell’interpretazione d’altri, la persona defunta diventa cosa, diventa oggetto come oggettivato è il suo passato e, come tale, si sottomette agli utilizzi dell’altro senza la possibilità di sottrarsi o di sfuggire a qualunque determinazione. «La caratteristica essenziale di una vita morta è di essere una vita di cui l’altro diventa guardiano»41 e dall’altro dipende se questa avrà la capacità di conservare qualche individualità o sarà condannata a perdersi nell’anonimato della massa; io stesso, dal momento che sto scrivendo questo testo, sarei, dunque, investito della funzione di «guardiano» di parte della vita filosofica di Sartre e quest’ultimo, oggetto dei miei possibili, non potrebbe fare altro che prestarsi umilmente ad ogni mia interpretazione, ad ogni mia volontà.

Sicuramente tale indagine rivela una profonda acutezza e ci dimostra l’importanza dell’utilizzo della psicologia anche in un’analisi di carattere fenomenologico; d’altra parte bisogna anche ammettere come un’ipertrofia di quest’ultima possa aver, in alcuni passi, ostacolato la presunta elasticità concettuale dell’esistenzialismo. Come si è visto per il filosofo il rapporto io/altro è giocato per la maggiore sui due piatti della bilancia, su un continuo gioco di equilibrio tra oggettivazione e soggettività, eliminando qualsiasi possibilità di omologazione dei due punti di vista che per Sartre sono, quindi, destinati all’incomplanarità. Sembra dunque che il rapporto con l’altro altaleni in un continuo gioco di rimando dove si oscilla tra la vittoria della mia libertà e la sottomissione a quella dell’altro. Ne L’essere e il nulla infatti troviamo analizzato il rapporto con l’altro nei termini di amore, linguaggio, masochismo e indifferenza, sadismo, odio, desiderio; l’unico momento in cui l’io viene posto sullo stesso piano dell’altro è il Mitsein, l’essere-con, dove, però, quello che si viene a creare resta, comunque, legato a quel gioco di riflessi; se da un lato, infatti, si viene a richiedere per la sua nascita la presenza di una terza esistenza estranea al «noi», dall’altro tale relazione rispecchia il consueto dualismo tra soggettività e oggettivazione.

Anche qui, quindi, come nella situazione, se da un lato siamo di fronte ad una forza creatrice del singolo: la possibilità di essere soggetto, dall’altra siamo condannati e prigionieri dell’altro; ciò emerge magistralmente nell’atto unico Porta chiusa. Qui Sartre immagina di prendere tre persone e di costringerle a vivere assieme chiuse in un salotto senza possibilità di contatti con l’esterno né di riuscire ad evadere. L’autore interpreta questa condizione come una condanna ad essere giudicato, ad avere costantemente puntati addosso occhi estranei pronti a deridere o a criticare. Ognuno è sotto lo sguardo d’altri, sotto il suo potere oggettivante, sotto l’inquisizione di un corpo che non è il proprio: non c’è bisogno di zolfo o di graticole, «l’inferno sono gli altri».

Anche in questo caso, comunque, la posizione di conflittualità evidenziata ne L’essere e il nulla viene riproposta in termini decisamente più moderati in L’esistenzialismo è un umanismo, opera che, coma già detto, doveva rivolgersi ad un gruppo di lettori sicuramente più numeroso e meno preparato. Qui ci troviamo di fronte, di nuovo, ad un punto di vista molto meno individualista e solipsista: l’altro continua ad essere ciò davanti al quale devo costantemente fare i conti ma, ora, da questo deriva un impegno maggiore da parte del singolo che dovrà prendere coscienza del suo coinvolgere non solo se stesso ma anche tutti gli uomini: «la nostra responsabilità è molto più grande di quello che potremmo supporre, perché essa coinvolge l’umanità intera».42

Qui, dunque, non solo la nostra libertà necessita di un piano interpersonale, ma agirebbe secondo una sorta di morale kantiana dove cioè il singolo dovrebbe considerare il proprio agire come una possibile legislazione universale, dovrebbe rendersi conto che la più banale delle scelte influenza comunque la totalità degli individui. Ora possiamo affermare, dunque, che «esiste un’universalità del progetto, nel senso che ogni progetto è comprensibile da ogni uomo»,43 dove, dunque, io sono «obbligato a volere, contemporaneamente alla libertà mia, la libertà degli altri».44 Ci si rende facilmente conto di come questa posizione sartriana sia decisamente spogliata di quella misantropia individualista che compariva, invece, nella pagine de L’essere e il nulla.

In realtà le pagine di quest’ultima opera offrono sicuramente una posizione che, seppur estrema, si rivela coerente con gli assunti fondamentali della filosofia, anche se, d’altra parte, resta comunque sospesa in un piano di relativa astrattezza; sembra che Sartre voglia descrivere le potenzialità umane, le principali forme del suo essere, rimandando ad altra sede un discorso più realista e fattuale. D’altra parte è anche doveroso tener conto che L’esistenzialismo è un umanismo ha una funzione strettamente divulgativa e se da un lato si rivolgeva ad un gruppo di lettori sicuramente meno disposti a comprendere posizioni estreme e individualiste, dall’altro la brevità dell’opera non può che costringere Sartre alla superficialità. Inoltre bisogna anche tener presente una certa evoluzione del pensiero del filosofo: L’essere e il nulla è stato scritto nel 1943, L’esistenzialismo è un umanismo nel 1946; si può benissimo giustificare la presenza di posizioni più moderate e meno astratte tenendo conto che nel 1948 l’autore darà vita ad un partito politico di ispirazione marxista: il RDR (Rassemblement Démocratique Révolutionaire) e che quindi sarebbe stata normale una presa di distanza sempre maggiore dall’astrattezza dei concetti filosofici.

9. L’importanza di Sartre

Volendo dare un giudizio generale all’opera sartriana, non ci si può schierare dalla parte dei numerosi critici che tentano di demolirla; anzi, Sartre deve essere considerato non solo incisivo per numerosi ambiti della cultura umana, ma anche l’espressione di una mentalità tipicamente novecentesca, la voce di un’avanguardia, che data la vicinanza a noi non può essere ignorata. Inoltre è da notare la capacità metamorfica di questo pensiero, capace di adattarsi alla speculazione astratta come alla concretezza di un romanzo e di un’opera teatrale. Con Sartre il filosofare diventa sempre più creazione artistica e non potrebbe essere altrimenti dato lo sviluppo incessante della scienza e della tecnica che hanno rubato all’arte del pensare qualsiasi pretesa di rigore scientifico.

D’altra parte il metodo fenomenologico stesso tende a reinterpretare la realtà, senza la pretesa di giungere ad un piano ontologico superiore; la fenomenologia parla della realtà quasi come una poesia, o un dipinto, lasciando, cioè, da parte l’assunto di una necessaria coincidenza logica tra realtà e pensiero, rifiutando quelle categorie logiche per accogliere il reale nella sua infinita sfuggevolezza, nella sua creatività che oltrepassa di gran lunga anche i nostri più generali concetti logici. Il metodo fenomenologico e l’esistenzialismo in genere si pongono di fronte alla presa di coscienza dell’inadeguatezza di qualsiasi metodo d’indagine puramente astratto e si gettano coraggiosamente nell’analisi «dell’insondabile miniera dell’esperienza della Lebenswelt».45 Proprio per questo motivo abbiamo accusato di dogmatismo quella critica sulla possibilità di una precedenza dell’esistenza all’essenza; l’esistenzialismo non può essere dimostrato sillogisticamente, non può essere oggetto di analisi geometrico-matematica, ma deve essere accolto dal lettore nelle sua capacità evocative: il lettore deve essere condotto quasi per mano da un linguaggio libero, spontaneo, figurativo, che sicuramente raggiunse il suo vertice massimo con il poetare rapsodico di Nietzsche.

D’altro lato, però, sembra che questo metodo fenomenologico costringa il filosofare ad una più o meno articolata descrizione del presente senza la possibilità di organizzare, ad esempio in campo morale, una deontologia, una filosofia del «si deve». Questo non deve, comunque, essere visto come un punto di sfavore per Sartre che, assistendo al crollo definitivo di ogni certezza non poteva, certo, pretendere di dare delle direttive, degli imperativi assoluti; è infatti proprio a causa della negazione di ogni astrattezza che abbiamo parlato lungamente di continue oscillazioni tra ottimismo e pessimismo; soggettività e oggettivazione; libertà e condanna. L’esistenzialismo, dunque, non cerca di eliminare e risolvere le contraddizioni, ma si pone di fronte all’assurdo dell’esistere col coraggio di sopportare tutte le oscillazioni e i paradossi dell’hic et nunc.

È doveroso, comunque, segnalare che L’essere e il nulla finisce dicendo che «tutti questi problemi, che rinviano alla riflessione pura e non “complice”, non possono trovare la loro risposta che sul terreno morale. Vi dedicheremo un’altra opera».46 Sartre, quindi, era cosciente di non aver concluso la sua speculazione etica, probabilmente si rendeva anche conto di aver trattato tali argomenti da un punto di vista che, per quanto si rifaccia a posizione fenomenologiche, pecca ancora un po’ di astrattezza; proprio per questo rimanda ad un’altra opera, che in verità non verrà mai stesa. Ancora in corso di traduzione sono i Quaderni per una morale iniziati a scrivere nel 1947-48 ma abbandonati già nel 1949.

La prima impressione che ha il lettore di fronte all’opera sartriana è sicuramente una sensazione di profondo pessimismo, una presa di coscienza di essere collocati in un mondo, in un’esistenza che i filosofi passati hanno continuamente cercato di imbrigliare ma che è sempre riuscita a ribellarsi da tali costrizioni. L’uomo di Sartre è una continua ricerca tesa all’irrealizzabile fusione tra l’essere e la libertà del per sé (già paradosso insormontabile dal punto di vista logico); tale concezione emerge chiaramente nei romanzi del filosofo, soprattutto nella raccolta di racconti intitolata Il muro, dove ogni personaggio rincorre un’essenza: l’essere un capo, l’essere un condannato a morte, l’essere un pazzo o addirittura l’essere un assassino, ma dove alla base di tali storie giace sempre l’insondabile abisso dell’esistenza che ci indica l’infinitezza e l’insensatezza di tale rincorsa, la vanità di tale sforzo.

L’opera ha sicuramente il pregio di porre il lettore di fronte ad una realtà senza illuderlo con assurde ricompense né accompagnarlo ad un’inattività fatalista.

Il filosofo ha, invece, il merito di aver vissuto sulla sua pelle tale condizione, di aver sentito la nausea esistenziale e l’universalizzazione della responsabilità: quella di cui abbiamo parlato è la produzione genuina di un pensatore del Novecento, è la descrizione onesta di una realtà che anche noi viviamo pur senza rendercene conto, vista dagli occhi di un uomo che nei primi decenni del secolo appena passato iniziò «la folle impresa di scrivere per farsi perdonare della sua esistenza».


  1. Luigi Stefanini Esistenzialismo ateo ed esistenzialismo teistico, Cedam, 1952, p. 4. ↩︎

  2. Jean-Paul Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, p. 86. ↩︎

  3. Luigi Stefanini, op. cit., p. 20. ↩︎

  4. Sarah D’Alberti, Momenti dell’esistenzialismo europeo, S.F. Flaccovio, Palermo, p. 6. ↩︎

  5. Sarah D’Alberti, op. cit., p. 6. ↩︎

  6. G. Varet, L’ontologie de Sartre, 1948. ↩︎

  7. Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, trad. it. Giuseppe da Bo, Il Saggiatore, 1997, p. 12. ↩︎

  8. Jean-Paul Sartre, Che cos’è la letteratura?, Il Saggiatore, 1960. ↩︎

  9. Jean-Paul Sartre L’essere e il nulla, op. cit., p. 16. ↩︎

  10. Ibidem, p. 228. ↩︎

  11. R. Champigj, «Le mot d’être dans l’“Être e le Néant”», in Revue de métaphysique e de morale, 1950, p. 155. ↩︎

  12. Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, op. cit., p. 17. ↩︎

  13. Ibidem, p. 19. ↩︎

  14. Pier Aldo Rovatti, Che cosa ha veramente detto Sartre, Ubaldini, Roma, 1969. ↩︎

  15. Jean-Paul Sartre, Alienazione e libertà, a cura di F. Gallegra, Herbita, Palermo. ↩︎

  16. Jean-Paul Sartre, Che cos’è la letteratura?, op. cit., p. 281. ↩︎

  17. Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, op. cit., p. 28. ↩︎

  18. Jean-Paul Sartre, La nausea, trad. it. Bruno Fonzi, Mondadori, 1972. ↩︎

  19. Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, op. cit., p. 84. ↩︎

  20. Ibidem. ↩︎

  21. Ibidem, p. 70. ↩︎

  22. Ibidem, p. 71. ↩︎

  23. Ibidem, p. 421. ↩︎

  24. Ibidem, p. 446. ↩︎

  25. Jean-Paul Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, op. cit., p. 29. ↩︎

  26. Ibidem, p. 86. ↩︎

  27. Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, op. cit., p. 495. ↩︎

  28. Ibidem, p. 585. ↩︎

  29. F. Jeanson, L’ontologie de Sartre, Paris, 1948 . ↩︎

  30. Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, op. cit., p. 542. ↩︎

  31. Ibidem, p. 553. ↩︎

  32. Ibidem, p. 564. ↩︎

  33. Ibidem, p. 568. ↩︎

  34. Jean-Paul Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, op. cit., p. 55. ↩︎

  35. Ibidem, p. 58. ↩︎

  36. Ibidem, p. 57 (corsivo mio). ↩︎

  37. Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, op. cit., p. 301. ↩︎

  38. Ibidem, p. 308. ↩︎

  39. Ibidem, p. 312. ↩︎

  40. Ibidem, p. 600. ↩︎

  41. Ibidem, p. 602. ↩︎

  42. Jean-Paul Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, op. cit., p. 32. ↩︎

  43. Ibidem, p. 66. ↩︎

  44. Ibidem, p. 77. ↩︎

  45. Paolo Caruso, «L’ontologia fenomenologica in Sartre», in Aut Aut, n. 51, 1959. ↩︎

  46. Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, op. cit., p. 696. ↩︎