Come dire Dio all’uomo d’oggi?

Il ciclo senza fine dell’idea e dell’azione, L’invenzione infinita, l’esperimento infinito, Portano conoscenza del moto, non dell’immobilità; Conoscenza del linguaggio, ma non del silenzio; Conoscenza delle parole, e ignoranza del Verbo. Tutta la nostra conoscenza ci porta più vicini alla nostra ignoranza, Tutta la nostra ignoranza ci porta più vicino alla morte. Ma più vicino alla morte non più vicini a Dio. Dov’è la Vita che abbiamo perduto vivendo? Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo? Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione? I cicli del Cielo in venti secoli Ci portano più lontani da Dio e più vicini alla Polvere.1

Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Che cosa ci aspettiamo? E che cosa ci aspetta? Molti si sentono soltanto confusi. Il terreno vacilla, e non sanno perché e per che cosa. Una condizione d’angoscia, la loro, che diviene paura se assume più precisi contorni.2

1. Premessa

Riuscire a dare una risposta chiara, cercando di fare una minima ricognizione che sia allo stesso tempo abbastanza esaustiva, delle problematiche evocate dal titolo che ci siamo proposti, è certamente impresa assai ardua. Oltretutto non è questo il luogo adatto, né tantomeno ne è competente il sottoscritto. Basterà solamente, quindi, accennare al problema e ai possibili tentativi di risposta.

Il tempo che si vive è stato ormai definito come tempo di «crisi della ragione», di «crisi del soggetto», del «pensiero debole», della «complessità», della «globalizzazione», del «frammento», della «precarietà» e così via. Le radici di questa crisi erano state peraltro già individuate in maniera molto netta, tra gli altri, ad esempio, da Simone Weil, quando nei primi anni ’40, affermava che

il presente è uno di quei periodi in cui svanisce quanto normalmente sembra costituire una ragione di vita e, se non si vuole sprofondare nello smarrimento o nell’incoscienza, tutto va rimesso in questione. Solo una parte del male di cui soffriamo è da attribuire al fatto che il trionfo dei movimenti autoritari e nazionalisti distrugge un po’ dovunque la speranza che uomini onesti avevano riposto nella democrazia e nel pacifismo; esso è ben più profondo e ben più vasto. Ci si può chiedere se esista un àmbito della vita pubblica o privata dove le sorgenti stesse dell’attività e della speranza non siano avvelenate dalle condizioni nelle quali viviamo. Il lavoro non viene più eseguito con la coscienza orgogliosa di essere utili, ma con il sentimento umiliante e angosciante di possedere un privilegio concesso da un favore passeggero della sorte, un privilegio dal quale si escludono parecchi esseri umani per il fatto stesso di goderne, in breve un posto. Gli stessi imprenditori hanno perso quella credenza ingenua in un progresso economico illimitato che faceva loro supporre di avere una missione. Il progresso tecnico sembra aver fatto fallimento, poiché ha apportato alle masse, in luogo del benessere, la miseria fisica e morale in cui le vediamo dibattersi; del resto non sono più ammesse innovazioni tecniche in nessun campo, o quasi, salvo nelle industrie belliche. Quanto al progresso scientifico, non si vede bene a che cosa possa servire accatastare ulteriormente conoscenze su un ammasso già fin troppo vasto per poter essere abbracciato dal pensiero stesso degli specialisti; e l’esperienza mostra che i nostri antenati si sono ingannati credendo nella diffusione dei lumi, poiché non si può divulgare fra le masse che una miserabile caricatura della cultura scientifica moderna, caricatura che, lungi dal formarne la capacità di giudizio, le abitua alla credulità. L’arte stessa subisce il contraccolpo dello smarrimento generale, che la priva in parte del suo pubblico, e con ciò stesso lede l’ispirazione. Infine la vita familiare è diventata solo ansietà, a partire dal momento in cui la società si è chiusa ai giovani. Proprio quella generazione per la quale l’attesa febbrile dell’avvenire costituisce la vita intera vegeta in tutto il mondo con la consapevolezza di non avere alcun avvenire, che per essa non c’è alcun posto nel nostro universo. Del resto questo male, al giorno d’oggi, se è più acuto per i giovani, è comune a tutta l’umanità. Viviamo un’epoca priva di avvenire. L’attesa di ciò che verrà non è più speranza, ma angoscia.3

Si può notare come in tale passo della Weil sono presenti, icasticamente, tutte le maggiori «icone» del nostro tempo: dal «fare/lavoro», allo «scopo»; dal «progresso» alla sua «crisi», alla «tecnica»; dal «sapere scientifico» alla «credulità»; dalla coscienza dell’arte come «inutilità» quando immessa nel «mercato», al malessere della «famiglia». Su tutti questi momenti sembra poi aleggiare un rumore sordo, continuo e in sottofondo, che richiama l’angoscia del «dove stiamo andando», determinata da una progressiva scomparsa del concetto di avvenire, sempre più percepito come fosse fagocitato da un eterno presente.

Naturalmente, la netta, acuta percezione di tale «passaggio» era stata formulata dallo stesso Nietzsche, che viene giustamente considerato il primo lucido interprete e del ’900 e delle sue problematiche. Nel suo pensiero infatti ritroviamo individuati e definiti i caratteri dominanti della nuova era che si stava preparando.4

Tutto il ’900 è stato però secolo della «crisi». Secolo «breve» per alcuni oppure «eccessivamente lungo» per altri, ma sostanzialmente un tempo nel quale l’uomo europeo ha sperimentato e vissuto degli avvenimenti emblematici come le due guerre mondiali, l’età dei totalitarismi e la shoah.

Soprattutto quest’ultima, e la riflessione successiva su di essa, ha contribuito al doveroso porsi di domande «estreme» anche e soprattutto sul «senso» della riflessione razionale e sull’esistenza o meno di Dio.5

La «condizione postmoderna» ha sicuramente avuto in questi eventi un buon humus per crescere e svilupparsi, anche se, ovviamente, essi vi hanno concorso assieme ad altri fattori quali il venire meno delle ideologie, lo svilupparsi della tecnica, l’isterilirsi delle «evidenze etiche».

Sta di fatto che, nel tentare di fare il punto sul rapporto che l’uomo contemporaneo ha con il «sacro» o con il «divino», possiamo dire che Sergio Quinzio non ha torto nell’affermare che «l’aria che respira l’uomo contemporaneo presenta tracce minime di religione». Tale affermazione, l’autore la esplica meglio qualche riga più oltre, sostenendo che

il sacro che abbiamo ereditato dai secoli passati ci accompagna ancora; come «cristianesimo» avalla ancora con la sua firma istituzioni, leggi, programmi politici, interessi di gruppo. Fa sentire ancora il suo influsso sul costume, ponendo le sue cupole e i suoi campanili come sfondo al paesaggio delle nostre città e dei nostri paesi, facendo battezzare i bambini e seppellire i morti con l’aiuto del prete. Ma chi dovesse scrivere la storia contemporanea potrebbe pacificamente ignorare la religione, senza per questo compromettere affatto la chiarezza e l’adeguatezza della sua visione.

Il diritto ha abbandonato qualunque pretesa di riferimento al valore assoluto della giustizia, per sostituirlo con un sistema di diritti-doveri stabilito in relazione al criterio dell’utilità sociale. La scienza e la tecnica, che da sole determinano il carattere della nostra epoca, svolgono le loro ricerche completamente al di fuori di qualunque accettazione come di qualunque rifiuto di valori religiosi, avendo ormai da tempo definitivamente dimenticato qualunque problema di rapporti tra ragione e religione, tra scienza e fede. La filosofia è lontana mille miglia dall’attribuire un senso all’assoluto delle antiche metafisiche, o anche soltanto alla sua ricerca. La poesia e le arti da secoli ormai non traggono alcun elemento da suggestioni o sentimenti o bisogni o intuizioni del divino. La politica ha amputato alla base i suoi legami con una autorità intesa come valore assoluto, per sostituirli con il criterio della delega e della rappresentanza degli interessi dei consociati.

La maggior parte di coloro che fanno battezzare i loro figli sono d’accordo nel pensare che sarebbe molto più logico farli battezzare in età matura, quando potrebbero loro stessi capire, e scegliere di essere o di non essere battezzati. Non vedono invece niente di illogico nel fatto che gli stessi bambini vengano vaccinati contro il vaiolo e contro la poliomielite, e non si sognerebbero neppure di pensare che potrebbe essere più logico lasciare che crescano e che optino loro stessi pro o contro la vaccinazione. In realtà, battezzare i neonati è altrettanto logico, o illogico, quanto vaccinarli, ma la differenza sta tutta nel come le due cose sono viste, sta tutta nel fatto che un uomo del ventesimo secolo non sa riconoscere il senso di un rito religioso, sacro, e cioè di collegamento con quell’assoluto che da secoli è scomparso dal suo orizzonte.6

L’aria predominante è segnata quindi, sia dal «perdurare inerte di vecchi costumi», sia da «aspetti culturali che rendono difficile o quasi impossibile l’opera dell’evangelizzare», come afferma il card. Martini, il quale a questo proposito elenca

il venir meno del senso cristiano della vita; lo smarrimento della fede con l’uscita della Chiesa di molti e l’abbandono della pratica religiosa; un numero crescente di persone che si dichiarano atee o non cristiane; la presenza di chi sembra faccia comodamente a meno della religione e di Gesù Cristo, avendo messo a tacere quell’inquietudine religiosa capace di stimolare la ricerca di senso per la propria esistenza.7

Taluno oggi arriva a sostenere che mai prima, nella storia della civiltà occidentale, ci si è trovati di fronte ad una situazione così diffusa di «allontanamento» dalla fede e lo stesso Quinzio ritiene che onestà e coerenza ci obbligano a riconoscere che la religione «è una categoria scomparsa», perché «il mondo moderno ha vinto la religione».8 Su questo punto qualche riserva si potrebbe addurre in quanto si potrebbe con altrettanta tranquillità affermare che, dato per certo ciò che viene sostenuto, resta pur vero che bisognerebbe stabilire di «quale» cristianesimo e di «quale» religione si debba tener conto.

Già negli anni ’30, e più segnatamente ’40, si era fatta strada, in Francia, la discussione sulla cosiddetta «agonia del cristianesimo». Gli autori più sensibilmente attenti su questo versante non avevano avuto allora dubbi nel dire che non di morte del cristianesimo si trattasse bensì di morte della cristianità. Anzi, il cristianesimo veniva distinto in germen e in soma: il germen corrisponde al nucleo del messaggio evangelico, sempre vivo e sempre attuale; il soma sta ad indicare l’aspetto esteriore che, di volta in volta, tale messaggio/annuncio assume nella storia degli uomini.9

Si potrebbe dire che ciò che all’epoca veniva avvertito come un passaggio, una fine della «cristianità», oggi viene sempre più avvertito come una definitiva «estinzione» del cristianesimo. Un passaggio epocale insomma, che non risparmia niente e nessuno e che interviene soprattutto in quella che viene definita la «riserva di senso» dell’uomo occidentale.10

Tale «riserva di senso», oramai svuotata, si potrebbe tranquillamente affermare che oggi sia venuta man mano riempiendosi di merci, costringendo l’uomo a mutarsi da homo sapiens ad homo consumens. Infatti, ciò che contraddistingue l’uomo occidentale oggi, la sua caratteristica principale cioè, è senz’altro quella di essere un «consumatore», caratteristica descritta per esempio da Fromm, che così afferma:

Homo consumens è colui per il quale la meta principale non è costituita dal possesso di cose, bensì dalla possibilità di consumare in misura sempre maggiore, in tal modo compensando la propria interiore vacuità, passività, solitudine e ansia. In una società caratterizzata da enormi aziende e gigantesche burocrazie industriali, governative e sindacali, l’individuo, privo com’è di qualsivoglia controllo sulle sue condizioni di lavoro, si sente impotente, solo, annoiato, ansioso. In pari tempo, il bisogno di profitti della grande industria produttrice di beni di consumo lo trasforma, con l’intermediario dei media e della pubblicità, in un essere vorace, un eterno lattante che consuma sempre più e per il quale tutto diviene oggetto di consumo, sigarette e liquori, sesso e cinematografo, televisione e viaggi, e persino istruzione, libri, letture.11

Ed infatti

l’homo consumens vive nell’illusione della felicità, mentre inconsciamente soffre di noia e passività. Quanto maggiore è il potere che esercita su macchine, tanto più impotente diviene come essere umano; più consuma, e più diviene schiavo dei crescenti bisogni che la società industriale crea e manipola. Scambia brivido ed eccitazione per gioia e felicità, e conforto materiale per vitalità; la brama soddisfatta assurge a significato dell’esistenza, e l’aspirazione a essa diviene l’essenza dell’umana libertà.12

Per questo — al di là di ogni considerazione ideologica — pare corretto sostenere che

il problema oggi non è se davvero Dio è morto, bensì se non è morto l’uomo: per il momento non in senso fisico — benché anche questo gli venga minacciato — bensì in senso spirituale.13

E allora come non far propria, a questo punto, l’affermazione del card. Martini, quando sostiene che

la mentalità propria dei ricchi porta spesso alla cecità e alla confusione dei valori falsi e di quelli veri. Confusione che affligge il giudizio del singolo, sempre più rinchiuso nel suo egoismo, e che può colpire un gruppo e un’intera società. La società allora diventa materialistica e sa vedere soltanto il benessere del gruppo. A quel punto il gruppo non ha più limiti alle sue pretese e finisce col guidare i modi di pensare della gente.14

È evidente altresì che i tratti dell’uomo contemporaneo colto nel suo rapporto con il divino, non sono però così immediatamente e banalmente descrivibili.

Ciò che si può dire, invece, è senz’altro che un’epoca, quella definita per comodità epoca della «modernità», è terminata (anche se alcuni segni permangono tuttora), mentre una nuova era, cosiddetta della «postmodernità», sta sempre più emergendo e imponendosi sugli stili di vita, sulle credenze religiose, sulla mentalità culturale dell’uomo contemporaneo.

Resta vero però che, comunque, una certa opera di riflessione critica sull’oggi si impone ogni qualvolta si debba discernere sul vivere e sul credere degli uomini.

È a tale proposito che vorremmo, con queste rapide riflessioni, riportare il discorso ad una sua quanto più possibile e certa intelleggibilità.

Per quanto riguarda il percorso scelto abbiamo voluto partire dalla fine della domanda insita nel tema che ci siamo proposti di svolgere.

Essa infatti richiama significatività di risposta; riformularla a partire dalla sua fine, a rovescio, richiama sia l’idea di specchio, nel quale si riflette l’immagine («Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto»: 1 Cor 13, 12) sia l’idea dell’altro, paradigma non del tutto scontato col quale l’uomo contemporaneo deve oggi cimentarsi e fare i conti sempre di più: l’altro da sé, l’altro di sé, il sé dell’altro, ma anche il principio dialogico dell’Io-Tu tra uomo e Dio, dove l’altro diventa totalmente Altro.

2. All’uomo d’oggi

L’uomo d’oggi ha ricevuto una pletora infinita di definizioni e di aggettivi. Si può però affermare che sia sostanzialmente debitore del nichilismo e che attorno ad esso egli sia venuto a determinare la propria essenza. Ciò fa dire a Perniola che,

esaurito il grande compito storico di confrontarsi con Dio e con l’animale, che dura in Occidente dal tempo degli antichi Greci, ora è la cosa a chiedere tutta la nostra attenzione e a sollevare il più pressante interrogativo: essa è diventata insieme il centro dei turbamenti e la promessa della felicità.15

Come non intravedere in questa affermazione tutta la problematica che le nuove tecniche hanno introdotto, dal punto di vista etico, nel già di per sé non facile compito di definire la natura umana? La definizione di tale natura, infatti, sta divenendo sempre più ardua ed evanescente di fronte alle radicali possibilità di manipolazione tecnologica del corpo umano.

L’oggi però richiede uno sforzo sotto il profilo dell’autorappresentazione. Non si lascia comprendere nel senso proprio del termine.

Anche se tende ad evadere, a sfuggire, le sue caratteristiche possono comunque essere definibili in questo modo:

Indeterminazione. Si riferisce a tutte le rotture, le ambiguità proprie dei linguaggi, della conoscenza, della società postmoderna […]

Frammentazione. L’indeterminazione alberga nella frammentazione. Il postmoderno sconnette: i frammenti sono ciò in cui pretende di riporre la propria fiducia [… .]

Decanonizzazione. O — come dice Lyotard, delegittimazione, che investe tutti i codici dominanti, le convenzioni, le autorità, le istituzioni. Dalla «morte di Dio» alla «morte dell’Uomo» alla «morte dell’Autore» rivediamo e sovvertiamo norme [… .]

Vacanza del Sé (Self-less-ness). Nel postmoderno è vacante il senso del sé tradizionale, anche quando indulge in giochi auto-riflessivi; contraffà i confini del sé e del testo. Non più eroi romantici, non più segni «pregnanti». La superficie è tutto… . E dal momento che non ci sono «profondità», non ci sono nemmeno interpretazioni [… .]

L’impresentificabile. Aniconica, irreale, l’arte postmoderna rifiuta la mimesi… . sottopone a dubbio radicale la possibilità della present-azione, rap-presentazione […]

Ironia. Con l’ironia raggiungiamo una perizia delle negazioni […]

Ibridazione. Ovunque, oggi, assistiamo alla trasmutazione dei generi nella parodia, nel burlesco (travesty), nel pastiche… . . In tutta la cultura si celebra una confusione o sincretismo di stili[…]

Carnevalizzazione… in questo termine si condensa l’ethos lucido e anarchico del postmoderno… . Carnevalizzazione significa inversione, logica del rovescio (inside-out), del dietro-front (turn-about), della detronizzazione del re operata dal clown […]

Performance… Il testo postmoderno, sociale o verbale, invita alla performance […]

Costruzionismo. Dal momento che il postmoderno è figurativo, deve costruire la realtà nella forma di «finzioni» post-kantiane. Tali finzioni che siano euristiche o ad effetto, implicano un sempre crescente intervento della mente nella natura e nella storia, un «nuovo gnosticismo» […]

Immanenza. É la secolare capacità dell’uomo di generalizzare, estendere se stesso nei linguaggi, nei media, nelle nuove tecnologie […].16

Ovvero, «l’uomo è a se stesso estraneo, smarrito, se non trova la misura della sua finitezza: senza dolore e senza parola, per questo un segno senza senso».17

Ciò che rende l’uomo così, ovvero ciò che lo fa essere in questa condizione, è il fatto che sta vivendo nell’epoca del disincanto del mondo e quindi del suo disincantamento. Il concetto del disincantamento (Entzauberung) venne introdotto da Max Weber18 e in questi ultimi anni ha avuto moltissima fortuna.

La religione fa parte di quel mondo che ha «incantato» l’uomo, lo ha incantato attraverso i suoi concetti, i suoi riti, le sue liturgie, la sua ieraticità, anche la sua lontananza. Questo incantamento è però venuto meno nel momento in cui ad essa si è venuta via via sostituendo una nuova religione, quella fattiva, concreta, evidente, spiegata, razionale, o almeno così si volle rappresentare. L’uomo, seguendo quest’ultima è diventato adulto (di ciò se ne accorse a suo tempo Bonhoeffer).19 La ragione, la ragione cartesiana prima, sostanziata di idee chiare e distinte, dove chi decideva alla fin fine era il cogito, poi passata attraverso il periodo illuminista, dell’Aufklärung kantiana, è divenuta quindi la ragione strumentale del ’900 tecnologico/scientifico per giungere ad essere la ragione irragionevole attuale.20 Ragione che si è capovolta su se stessa in quella forma di razionalità senza scopo puramente strumentale che è tipica dell’individualismo borghese. É per mezzo di questa ragione che l’uomo, signore della natura, estende il proprio dominio fino a soggiogare l’uomo stesso.21

Ma ancora siamo sotto lo sguardo attento e vigile del nichilismo che ci dice «un nuovo orgoglio mi ha insegnato l’io, e io lo insegno agli uomini: non ficcare più la testa nella sabbia delle cose del cielo, bensì portarla liberamente, una testa terrena, che crea il senso della terra!».22

Ancora, da questo punto di vista, è vero ciò che viene sostenuto da lungo tempo e cioè che vi sia in atto una specie di «mutamento di paradigma», ovvero che tutti i punti di riferimento antichi, classici e tradizionali sui quali poggiava la capacità/possibilità di dare un senso alle cose e a se stesso da parte dell’uomo, siano venuti meno in quanto ri-situati altrove e sotto altre spoglie e quindi non immediatamente riconoscibili, né tantomeno ri-posizionabili sulla stessa scala valoriale.

Tutto questo oggi possiamo anche interpretarlo, in parte, come effetto (ma anche causa) della cosiddetta globalizzazione. Sta di fatto che «possiamo quindi definire la globalizzazione come l’intensificazione di relazioni sociali mondiali che collegano tra loro località distanti facendo sì che gli eventi locali vengano modellati dagli eventi che si verificano a migliaia di chilometri di distanza e viceversa»23 anche se non dobbiamo dimenticare ciò che afferma Bauman, e cioè che

piuttosto che rendere omogenea la condizione umana, l’annullamento tecnologico delle distanze spazio temporali tende a polarizzarla. Emancipa alcuni dai vincoli territoriali e fa sì che certi fattori generino comunità extraterritoriali, mentre priva il territorio, in cui altri continuano a essere relegati, del suo significato, e della sua capacità di attribuire un’identità [. .] Grazie alla nuova «corporeità» del potere espressa nella forma principale del potere finanziario, coloro che lo detengono diventano davvero extraterritoriali anche se, con il corpo, continuano a restare «al loro posto». Il loro potere è, interamente e veramente, non «fuori del mondo», ma estraneo al mondo fisico nel quale costruiscono le loro case e i loro uffici in regime di stretta sorveglianza, in una condizione di extraterritorialità, che li libera dalle intrusioni di vicini indesiderati e li taglia fuori da qualsiasi comunità locale, inaccessibili quindi per chiunque sia, diversamente da loro, confinato ad essa.24

Come ha osservato Hans Jonas, uno degli analisti più incisivi della condizione morale contemporanea, «mai tanto potere è stato accompagnato da una così scarsa capacità di indicarne l’uso migliore. […] Meno crediamo nella saggezza, più ne abbiamo bisogno».25

La globalizzazione, ovvero questa tendenza a globalizzare gli eventi, le esperienze, le situazioni, che l’uomo sta vivendo, è forse una causa ma anche un effetto di quello che viene anche visto come «spaesamento» dell’uomo contemporaneo.

Bisogna però cercare di chiarire almeno due dati della questione.

Il primo è che quando si parla di globalizzazione, almeno dal punto di vista economico, dato che è soprattutto a questo livello che la si intende, si dovrebbe parlare più correttamente di trilateralizzazione, in quanto i «luoghi» economici dominanti sono gli USA, l’Europa e il Giappone. Tutto il resto è mondo gregario. Ci sono i paesi del sud est asiatico che la fanno da padrone? Solamente perché possono produrre in modo estremamente vantaggioso rispetto alle ferree leggi sindacali occidentali. Ciò che conta è il «logo» (Microsoft, Apple, Nike, Reebok, Del Monte, Mercedes, Toyota, Sony, ecc.) e quello è pur sempre occidentale, ovvero trilaterale.26

In secondo luogo è bene tener presente che:

L’Occidente non è più l’Europa, né geografica, né storica; non è più nemmeno un complesso di credenze condivise da un gruppo umano che vaga per il pianeta; proponiamo di leggerlo come una macchina impersonale, senza anima e ormai senza padrone, che ha messo l’umanità al proprio servizio. Emancipata da qualsiasi forza umana che volesse arrestarla, la macchina impazzita prosegue la sua opera di sradicamento planetario. Strappando gli uomini dalla loro terra, fin nelle regioni più remote del globo, la macchina li scaraventa nel deserto delle zone urbanizzate senza tuttavia integrarli nell’industrializzazione, nella burocratizzazione e nella tecnicizzazione senza limiti da lei promosse. La ricchezza, ormai priva di significato, si sviluppa all’infinito nel cuore di città senza frontiere. All’insaputa dei suoi costruttori la macchina genera differenziazione soltanto distruggendo il tessuto sociale. Questa soppressione del legame sociale ostacola gravemente le possibilità concrete di universalizzazione di qualsiasi modello pseudosociale concepibile. Il movimento di occidentalizzazione ha una forza terrificante. Abolisce perfino le differenze di genere. Se emancipa dai legami della tradizione, la ragione sulla quale pretende di fondarsi ha di che dare le vertigini. La sua dismisura compromette la sopravvivenza dell’uomo e del pianeta.27

In altri termini si può dire che nel momento in cui gli «orientali accendono la radio e pilotano l’aereo documentano, con queste scelte, che la loro tradizione non è più operante, che hanno preso un’altra strada, che una tradizione più forte li ha soverchiati».28

Quindi, un primo dato da tener presente è appunto quello che considera la cosiddetta globalizzazione, almeno al di fuori e oltre l’ambito dell’economico, nient’altro che una occidentalizzazione del mondo, una uniformizzazione del mondo secondo schemi e paradigmi tutti occidentali.29

Questo fatto è bene tenerlo presente in quanto è uno dei dati, probabilmente tra i più importanti, che «spingono» l’uomo occidentale e cristiano ad avere una certa difficoltà nel cogliere e rapportarsi con l’altro in quanto altro.30 Può essere, e in molti casi non è escluso che lo sia veramente, una nuova forma, più subdola delle precedenti, di dominio dell’altro, di dominio sull’altro. Anche in questo caso, quindi, verrebbe da domandarsi a quale dio mi riferisco quando sancisco un dato di fatto di questo tipo?

Un altro aspetto caratterizzante la postmodernità che si lega perfettamente a quanto stiamo dicendo è il cosiddetto concetto di «complessità». Esso vuole che l’uomo non prenda posizione appunto perché non c’è nessuna posizione da prendere e vale per il suo essere sociale ciò che vien dato per sua essenza personale, essenza che segna l’identità del soggetto.31

Il concetto di complessità nasconde infatti una difficoltà intrinseca: non riesce a spiegare se stesso in quanto se vi riuscisse verrebbe meno alla sua radice fondamentale che è appunto quella della sua ir-riducibilità ad ogni spiegazione. Ovvero, come afferma Morin,

il complesso non può essere riassunto nella parola complessità, ricondotto a una legge di complessità, ridotto all’idea di complessità. La complessità non potrà mai essere definita in modo semplice e prendere il posto della semplicità.32

Inoltre, parlando di complessità bisognerà tener presente che

… . uno degli assiomi della complessità è l’impossibilità, anche teorica, dell’onniscienza. Il pensiero complesso fa proprio il motto di Adorno «la totalità è la non-verità».33

Riaffiora qui nuovamente ciò che era già emerso in precedenza e cioè uno strisciante nichilismo come connotato di fondo.

Dal punto di vista del rapporto tra l’uomo e la religione, tra l’uomo e il sacro, l’età presente viene a denotarsi come età segnata dalla secolarizzazione.

Stando a quanto ha affermato Natoli, c’è stata una secolarizzazione da lui stesso definita come una «secolarizzazione della salvezza» che Quinzio ha ben descritto dicendo che

quella che per Abramo era la visione di una posterità numerosa come la sabbia del mare, per noi è il desiderio di trovare per i nostri figli una buona sistemazione economica. Quella che per gli ebrei e per i primi cristiani era la fede in una realtà perfetta, che doveva sopraggiungere in un istante per trasformare il mondo, fino a far pascolare l’agnello vicino al leone, è per noi la visione di uno sviluppo civile che possa via via migliorare le condizioni di benessere delle masse. Quella che per gli sciamani esquimesi era una potenza assoluta capace di risuscitare un morto, per noi è la bravura di un chirurgo che abilmente sfrutta una possibilità offerta dalla natura. Quello che un tempo era un Dio o un inviato da Dio per rivelare la verità agli uomini, oggi è un impiegato dello stato che insegna da una cattedra dell’università. Quella che per Mosè era la «terra promessa», per noi è un mercato commerciale,

ma successivamente si è data una «secolarizzazione della secolarizzazione», e questa — sempre secondo Natoli —

dissolve l’idea stessa di salvezza, intesa come fede in una salvezza incondizionata ed assoluta. Gli stessi progetti umani sviluppano dentro di sé troppe controfinalità per potere ancora confidare in essi, coltivare presunzioni di onnipotenza. Gli uomini — intendo gli uomini medi — oggi non sentono più bisogno d’essere salvati, se non nel senso di migliorare comparativamente le proprie condizioni di vita. Cercano di stare il meglio possibile al mondo. Pere stare meglio, cercano sicurezze. Appunto si assicurano. Di qui una irrisolta tensione. Gli uomini, dal momento che si sentono esposti, vanno in cerca di sicurezze: sicurezze pubbliche, assicurazioni private, in ogni caso garanzie preventive per ridurre i rischi dell’esistenza.

Per altro verso, ciò che rassicura vincola. E gli uomini d’oggi sono insofferenti d’ogni vincolo. In tale situazione tendono a disfarsi di ciò che essi stessi cercano ed esigono. Ad esempio cercano godimento, un piacere incondizionato e senza obblighi, però non rinunciano a costruirsi una famiglia come ambito riproduttivo, sistema economico, riferimento affettivo. É inevitabile divenire titolari di responsabilità. La necessità della famiglia è ribadita sia pure attraverso cinque divorzi consecutivi. Sussiste anche laddove è negata: le famiglie di fatto. E per di più se ne cerca il riconoscimento pubblico. Questi non sono che esempi, ma dimostrano la contraddizione del presente ove il disciogliersi dal limite ne ribadisce insieme l’ineluttabilità. Di qui tentativi temporanei di fuga, ma anche irrinunciabili istanze di responsabilità, di qui la necessità di darsi norme o di divenire legge a se stessi.34

Il divenire legge a se stessi appunto, questo sembra essere un altro aspetto che contraddistingue l’uomo d’oggi. Il divenire legge a se stessi impone però vi sia un testimone. Essendo venuto a mancare quello che si può definire il «testimone assoluto» ed essendo dall’altra parte impossibilitato ad esserlo egli stesso, in quanto non «radicato» in nessun luogo, l’uomo si trova a vivere una condizione definita di «anomia».

Cos’è questa anomia? Essa

implica lo stato d’animo di chi ha perduto le proprie radici morali, di chi non ha più una falsariga, ma solamente alcuni stimoli senza alcuna connessione, di chi manca di qualunque senso di continuità, dei propri gruppi (folk) e degli obblighi. L’uomo anomico è spiritualmente sterile, concentrato su se stesso, non è responsabile di fronte a nessuno. Si burla dei valori di altre persone. La sua unica fede è la filosofia della negazione. Vive sulla tenue linea della sensibilità tra un passato che manca e un futuro che manca anch’esso… L’anomia è uno stato d’animo in cui è venuto a mancare, o si è mortalmente debilitato, il significato dell’individuo per la corrispondenza sociale, che costituisce la fonte fondamentale del suo atteggiamento morale.35

Tale condizione porta l’uomo a non avere un progetto per la sua vita, anzi a non volerlo proprio e a sentire Dio come un ostacolo alla esplicazione della propria libertà.

Altro aspetto che caratterizza questo momento storico è sicuramente quello che viene ora definito come non-luogo.

Il luogo è per definizione uno spazio che generalmente è stato lavorato o ha subito la storia e la memoria dell’uomo. Il luogo è significativo, è pregnante, è altamente umanizzato e umanizzante.

Al contrario ciò che si va sempre più diffondendo nel tempo della postmodernità sono i cosiddetti non-luoghi, che sono

tanto le installazioni necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni (strade a scorrimento veloce, svincoli, aeroporti) quanto i mezzi di trasporto stessi o i grandi centri commerciali o, ancora, i campi profughi dove sono parcheggiati i rifugiati del pianeta.36

Queste realtà che si vanno diffondendo, contribuiscono a quello sradicamento che è cifra dell’uomo contemporaneo.

Ciò fa sì che, anche se apparentemente oggi si sia convinti di vivere un’era progressiva, nella realtà, al contrario, quel progresso che fino a qualche tempo fa sembrava presentarsi con le caratteristiche di necessità, linearità, universalità, continuità ed indefinitività, oggi non appaia più così e nessuno si domanda veramente verso dove si vada, verso dove sta andando il mondo, l’uomo, la civiltà.

L’attesa e la speranza che l’uomo aveva riposto nell’idea stessa del progresso visto come futuro radioso e certamente migliore del presente vissuto, viene comunque caricata sulle spalle della riflessione scientifica e, soprattutto, della tecnica.

Ciò che l’uomo ha sempre ricercato dall’inizio e cioè la salvezza, ha sempre cercato di attuarla attraverso la politica e la tecnica.

La politica oggi sta diventando sempre più tecnica, sempre più efficiente ed efficace, abbandonando al contempo il suo aspetto più utopico «dei nuovi cieli e delle nuove terre» e lasciandosi irretire da una sempre maggiore attenzione alla «oculata gestione del presente».

La tecnica, dall’altro lato ha — a seguire il ragionamento di molti — veramente vinto la partita. Oggi si parla spesso di scienza, ma se ne parla quasi sempre in modo improprio e a caso, in quanto si usa il termine «scienza» intendendo con esso, invece, quello di «tecnica». Ha ragione Galimberti quando, parlando della tecnica, afferma:

Siamo tutti persuasi di abitare l’età della tecnica, di cui godiamo i benefici in termini di beni e spazi di libertà. Siamo più liberi degli uomini primitivi perché abbiamo più campi di gioco in cui inserirci. Ogni rimpianto, ogni disaffezione al nostro tempo ha del patetico. Ma nell’assuefazione con cui utilizziamo strumenti e servizi che accorciano lo spazio, velocizzano il tempo, leniscono il dolore, vanificano le norme su cui sono state scalpellate tutte le morali, rischiamo di non chiederci se il nostro modo di essere uomini non è troppo antico per abitare l’età della tecnica che non noi, ma l’astrazione della nostra mente ha creato, obbligandoci, con un’obbligazione più forte di quella sancita da tutte le morali che nella storia sono state scritte, a entrarvi e a prendervi parte.

In questo inserimento rapido e ineluttabile portiamo ancora in noi i tratti dell’uomo pre-tecnologico che agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee proprie e un corredo di sentimenti in cui si riconosceva. L’età della tecnica ha abolito questo scenario ‘umanistico’, e le domande di senso che sorgono restano inevase, non perché la tecnica non sia ancora abbastanza perfezionata, ma perché non rientra nel suo programma trovar risposte a simili domande. La tecnica infatti non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona, e siccome il suo funzionamento diventa planetario, questo libro si propone di rivedere i concetti di individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo, ma anche quelli di natura, etica, politica, religione, storia, di cui si nutriva l’età pre-tecnologica e che ora, nell’età della tecnica, dovranno essere riconsiderati, dismessi, o rifondati dalle radici.37

La tecnica ha veramente spostato il discorso sull’uomo. L’uomo vive e giudica ancora in forma pre-tecnologica e non si accorge di subire continuamente e costantemente, a causa o grazie alla tecnica, una mutazione antropologica. Mutazione che costringe questa generazione, per prima, a fare i conti con problemi ai quali nessun altro nel passato era stato mai chiamato a rispondere.38

Ciò che oggi stiamo vivendo è un tempo nel quale a dominare non è la politica, l’economia o la scienza, bensì il «tecnopolio».

Il «tecnopolio» è infatti una condizione culturale e mentale che consiste nella deificazione della tecnologia. «Il che significa che la cultura ricerca nella tecnologia la propria giustificazione, trova soddisfazione nella tecnologia e prende ordini dalla tecnologia».39

Il «tecnopolio», frutto dell’età della tecnica, elimina infatti ogni alternativa a se stesso, rendendola irrilevante. Ciò è possibile solamente a partire da una capacità che il «tecnopolio» ha e cioè quella di poter ridefinire, senza che nemmeno ce ne accorgiamo, i concetti di religione, arte, famiglia, politica, storia, verità, privatezza, intelligenza, in modo da farli coincidere con le nuove esigenze.40

Le vecchie parole continuano a sembrare le stesse, sono ancora usate nello stesso tipo di frasi, ma non hanno più lo stesso significato; a volte assumono addirittura il significato contrario. É quello che Thamus vuole insegnarci: la tecnologia determina imperiosamente la nostra terminologia più importante, e per esempio ridefinisce «libertà», «verità», «intelligenza», «realtà», «sapienza», «memoria», «storia», tutte parole che fanno parte della nostra vita. Lo fa senza fermarsi a dircelo, e noi non ci fermiamo a chiederglielo.41

Tutti questi particolari momenti conducono a quella condizione esistenziale così ben evidenziata dallo storico tedesco Koselleck che intravede nel «restringimento dell’area dell’esperienza» e nell’«abbassamento dell’orizzonte delle attese» i due momenti concomitanti, paralleli, frutto della situazione contingente.

Cosa vuol dire tutto questo? Ciò significa che

da un lato, nelle società tradizionali a lento sviluppo, a basso indice di progresso, il passato assomigliava relativamente molto al presente ed era possibile costruirsi una esperienza valida, ovvero era possibile una permanenza del passato nel presente. L’esperienza è proprio e soltanto questo. Col passare del tempo o, nel caso di una vita individuale, col passare degli anni, si diventava più saggi, più ragionevoli, più capaci di comprendere come va il mondo.

In società con mutamenti rapidissimi, invece, l’esperienza non fa in tempo a cristallizzarsi; quello che abbiamo imparato nel passato serve meno e, col crescere dell’età, i vecchi, il senatus del passato, quelli che avevano acquisito saggezza ed esperienza, non sono più in grado di star dietro ai cambiamenti.

Restringimento dell’area dell’esperienza significa dunque che il passato ci serve sempre meno come modello, mentre invece l’abbassamento dell’orizzonte delle attese implica che, mentre nelle società tradizionali il futuro poteva prefigurarsi sulla base del passato e del presente (che non erano poi molto differenti da esso), oggi, con tutte queste modificazioni incessanti e rapide, noi non sappiamo più come immaginarci il futuro.

Di fronte a questa irrapresentabilità del futuro si hanno due atteggiamenti in un certo modo opposti: da un lato c’è una sorta di salto oltre il futuro immediato, una caduta nel millenarismo, scenari più o meno apocalittici, oppure scenari di un progresso in un futuro molto remoto; oppure — e questa è la tendenza più diffusa — si abbassano le nostre pretese nei confronti del futuro.42

In ciò si può intravedere lo smarrimento dell’intelleggibilità dell’essere e la sua sostituzione con la potenza della produzione della tecnica.

In questa società quindi, Dio, in quanto rappresentante primo di tutto ciò che è entrato in crisi, è «morto», «assente», veramente absconditus.

È quindi a Dio che bisogna ri-salire per ri-trovare ciò che è andato perduto. È infatti un sentimento di nostalgia quello che accompagna, che deve accompagnare, l’uomo viandante contemporaneo.

3. Dio

Tra l’uomo e Dio c’è dunque uno «scarto», una «distanza». La tecnica oggi riempie, tende a riempire questa «distanza».

Il fare moderno è la produzione da parte del soggetto del mondo come oggetto del processo della propria autoassicurazione. Così l’uomo fa centro in se stesso e riferisce a sé la totalità del reale in virtù di una potenza e coerenza di autoimposizione, che gli deriva dall’aver trasferito l’essere proprio e delle cose nel dominio della soggettività. Quest’aria metafisica l’Occidente non l’ha mai respirata in precedenza, nelle fasi della sua gestazione prima greca e poi cristiana-medioevale, ed è in questo nuovo clima di autoaffermazione dell’uomo-soggetto che gradatamente vengono meno tutti gli dei, anche il Dio creatore cristiano che ha presieduto alla strutturazione ontoteologica dell’essere in epoca medioevale. L’avvento del soggetto come principio della modernità segna al contempo l’ora metafisica della «morte di Dio».43

Il pensiero dominante oggi ci dice che Dio è scomparso, appare scomparso, e quindi «non c’è fede in un dio scomparso».44

Il Dio biblico invece, precede l’evento, anzi, lo produce. L’uomo oggi non ri-conosce più Dio come precursore e produttore di eventi significativi per lui. Volendo, allora, continuare a pensarlo presente, c’è un posto per Dio oggi, nella società delle merci? Ovvero un posto nel quale non si confonda con nient’altro, in modo che valga ancora la pena di nominarlo con il suo nome? Certamente a queste domande è difficile rispondere, appunto perché si vive in una società che ha respinto il sacro, lo ha desacralizzato.

Se pensiamo infatti a Dio come fondamento di tutte le domande di senso dell’uomo, ovvero il perché (warum) in risposta a tutti i perché (weil), si può dire che la cultura contemporanea ha seguito le indicazioni di Goethe che consigliava

Come? Quando? E dove? — Gli dei restano muti! / Tu attieniti al poiché, e non domandare perché.45

Il poiché non chiede una ragione ultima, si accontenta dello status quo. Non si pone in diretto rapporto dialogante con il fondamento. Lo prende, se lo prende, come un già dato, un già visto; non vi si pone in un confronto dialogante e vitale.

D’altra parte, si potrebbe notare che stiamo vivendo un ritorno del sacro, una certa ri-sacralizzazione del vivere quotidiano e delle manifestazioni pubbliche. Resta da vedere quanto essa sia tale e profondamente vissuta oppure quanto essa nasca da quel «sentire» estetico di cui parlava Perniola.

Si potrebbe aggiungere anche un altro dato interpretativo. Ovvero quanto il ritorno di una certa ri-sacralizzazione sia funzionale al sistema di produzione capitalistico. Prevale oggi, si potrebbe dire, una certa «religione del supermarket», dove l’individuo vive il suo rapporto in modo funzionale, prendendo ciò che gli «serve», ciò che gli è «utile» per l’immediato. Molti degli aspetti evidenti della nuova religiosità emergente (new age) sono senz’altro ascrivibili a questa interpretazione, in quanto sono l’evidente bisogno di autogiustificazione etico-religiosa della società del benessere creata dalla tecnica. Si potrebbe dire che, così come esiste una società dei consumi, esiste pure una «religione dei consumi», o consumista. In tale supermarket del religioso, l’individuo prende ciò che più gli aggrada. Decide lui stesso cosa può andare e cosa invece no.

A questa tendenza non sono immuni nemmeno molti cristiani che, credendo di esprimere sinceramente la loro fede nel Dio biblico, non si accorgono in realtà di essere, al contrario, portatori spesso inconsapevoli ma funzionali di questa visione del sacro.

Bisognerebbe domandarsi quanto questo tipo di religione, o di religiosità, sia umana o sia divina, in quanto pare evidente che nasca principalmente (se non esclusivamente) dal bisogno tutto umano di trovare un’assicurazione per il proprio essere difettosi. Ma su questa strada si può solo incontrare un Dio dell’uomo e non un Dio divino.

Abbiamo allora la sensazione del «luogo sacro», della sacralità, in un mondo dove non esiste più nulla di sacro? L’impressione che si può ricavare da quanto appena detto è senz’altro quella che l’uomo contemporaneo non riesce ad «incantarsi», non sente più così vivo come un tempo il senso della «sacralità». È, in questo senso, un uomo «smaliziato». E un uomo «smaliziato» non riesce ad essere «sedotto». Un uomo «smaliziato» non riesce a far fluire un sentimento d’amore, perché questo flusso è bloccato, rimane bloccato. Ecco allora che la frase di Gesù «in verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18, 3) acquista un senso profondo, appunto perché i bambini hanno questa capacità di rimanere «sedotti» da una storia, da un evento, da una persona.

Come non ricordare qui Platone quando affermava con grande saggezza:

Il dio, che regge, secondo l’antica tradizione, il principio e la fine e ciò che sta in mezzo di tutte le cose che sono, secondo la sua natura compie perennemente senza spostarsi la via circolare dell’universo. E sempre gli tien dietro la giustizia punitrice di coloro che hanno abbandonato la legge divina. Chi vuol essere felice segue questa attenendovisi con umiltà e misura, ma chi è gonfio di orgoglio o va fiero di ricchezze o di onori e brucia nell’anima di superbia perché è bello e giovane e perché è stolto come chi non ha bisogno di nessuna guida, di nessun governo, ma pensa di essere sufficiente guida anche agli altri, il dio lo abbandona, desolato, e abbandonato così egli raccoglie anche altri simili a lui e tutto sconvolge agitandosi; per un po’ di tempo pare a molti un grande uomo, ma poco dopo subisce un irreprensibile castigo dalla giustizia e allora distrugge completamente se stesso e la sua famiglia e la patria. E così, che dovrà e non dovrà fare e pensare di fronte a queste cose così disposte chi usa la mente? Questo almeno è chiaro: ogni uomo deve cercare, con la sua mente, di essere uno di quelli che seguiranno il dio. E quale è l’agire amico e caro alla divinità e che ad essa tien dietro? Uno solo, fondato su di un solo antico principio, che il simile ama il suo simile se questo si attiene a una giusta misura, ma ciò che è fuori misura dispiace sia a ciò che è come lui senza certo confine sia a ciò che conserva il suo limite. Il dio è per noi la massima misura di tutte le cose, molto di più di quanto lo può essere un uomo, come invece dicono ora.46

Interessante è (al di là del razionalismo col quale Platone invita a pensare ad un Dio), il passaggio che sottolinea come «a causa dell’orgoglio e delle ricchezze» l’uomo «brucia di superbia», «non ha bisogno di nessuna guida» e «tutto sconvolge agitandosi».

Possiamo intravedere in questa descrizione la cifra dell’uomo contemporaneo. L’uomo si agita sconvolgendo e sconvolgendosi, tentando di dominare la natura allo stesso modo tenta di dominare Dio, ma «Dio non può mai apparire al modo di una cosa: se così apparisse entrerebbe nel dominio dello sguardo umano e dall’uomo sarebbe in certo modo dominato».47 Ma nell’epoca del dominio l’uomo sa che Dio non si lascia dominare, sfugge ad ogni tentativo di determinazione. Dio è «esperienza della mancanza. Dio si imprime nell’uomo come bisogno, desiderio»48 e invece «nel tempo della morte di Dio l’incarnazione si risolve/dissolve in simbolo, il cristianesimo in immenso materiale metaforico, la fede in estetica».49

In quest’epoca nella quale di Essenze del cristianesimo50 o di Vite di Gesù51 ne sono state scritte più d’una, a significare l’attenzione spasmodica verso un problema che rimane il problema per l’uomo, possiamo dire che le risposte predominanti siano state o pensare il problema del divino come illusione, oppure come naufragio.52

4. Come dire

Il dire implica il linguaggio, ma non solo. Esso implica anche atteggiamenti, scelte, fratture, rotture, ricerca, critica, non assuefazione, iconicità delle scelte.

Su questo versante esso è strumento primario di evangelizzazione. Evangelizzazione che si vuole «nuova» soltanto nella forma che, appunto, è «nuova» rispetto ad un contenuto che, al contrario, questo rimane quello di sempre.

Il card. Martini ha sottolineato, a proposito dell’evangelizzazione, quante forme essa possa assumere. È bene qui tenerne conto: ci può essere infatti una «evangelizzazione per proclamazione», una «evangelizzazione per convocazione», una «evangelizzazione per attrazione», una «evangelizzazione per irradiazione», una «evangelizzazione per contagio» e infine una «evangelizzazione per lievitazione». Tutte queste forme possono trovare pratica attuazione, adattandosi e integrandosi a vicenda, creando quel potenziale di comunicazione difficilmente sintetizzabile in un’unica azione.53

Bisogna infatti tener presente che «evangelizzare non è soltanto comunicare verbalmente la buona notizia, ma comunicare vita, collaborare con lo Spirito del risorto che attrae ogni uomo per farlo una cosa sola in Gesù col Padre».54

Il dire allora richiama essenzialmente dire la vita, dire vivendola e non dire dicendola. Non c’è più la possibilità per il cristiano di trasmettere soltanto il messaggio senza che esso sia anche vissuto, sperando che venga in tal modo accettato. Il tempo presente, tempo faustiano, vuole «vedere», vuole «matericità», vuole «concretezza» dell’annuncio. Come se l’annuncio senza «matericità» non resistesse da solo. L’uomo faustiano ha paura, paura che il messaggio non regga, vuole il dominio sulla natura, sulla storia, vuole mettere la parola basta sui racconti.55 Vuole certezze. A partire dalla non accettazione delle sue proprie debolezze. L’uomo faustiano è fragile, ed è per tale motivo che il dire deve tener conto della sua fragilità, la deve rispettare incalzandola e incalzandola rispettare, perché in fondo sempre creatura egli è.

L’assenza di Dio forse è dovuta al surplus di mondanità. Dovuta al desiderio di sottrarsi ad ogni tentativo di riduzione entitativa. É forse anche risposta e in quanto tale messaggio e in questo vi è un annuncio… . «Io sono il Signore tuo Dio». Ma nel dirsi tale è Dio stesso che si mette in gioco dicendosi all’uomo.

Quindi la domanda è: come essere cristiani in un tempo di percepita assenza di Dio? Ovvero, in che cosa crediamo quando diciamo di credere? Che cos’è allora questa religione nella quale diciamo di credere? È credere in Dio? Ma il buddhismo è una religione pur senza Dio. È credere nell’immortalità dell’anima? Ma essa era creduta tale anche in epoca pagana. È un codice morale? Ma esiste una morale che sta benissimo in piedi anche senza bisogno e necessariamente di una religione. Anzi, il cristianesimo è andato addirittura contro alla morale del suo tempo, scandalizzandolo, proponendo per il Regno piuttosto i pubblicani e le prostitute al posto degli zelanti e pii farisei.

La risposta è: credere in Gesù Cristo, credere in una Persona. A questa Persona non posso che avvicinarmi cercando di vivere anch’io da persona. Questo è il legame che mi unisce a Dio.

Dire che in Gesù Cristo, il verbo si è fatto carne, è una formula teologica. É la rappresentazione. Ma dire che Cristo raggiunge tutti gli uomini, i barboni, i mendicanti, i falliti, è la realtà, i tanti effetti secondari e nascosti che non percepiamo facilmente. A dire il vero, solo quando il cristianesimo è esperienza vissuta, il medium diventa realmente il messaggio. A questo livello, rappresentazione e realtà coincidono di nuovo. Tutto questo è ugualmente valido per la lettura della Bibbia. Spesso parliamo del contenuto delle scritture, supponendo che il contenuto sia il messaggio. Ma è falso. Il vero contenuto della Bibbia è la persona stessa che la sta leggendo. Quando leggono, alcuni intendono altri no. Tutti hanno accesso alla parola di Dio, ognuno è quello che contiene; ma solo alcuni percepiscono realmente il messaggio. Il messaggio non è nelle parole ma nell’effetto che esse producono. É la conversione.56

5. Conclusione

Siamo giunti così ad una possibile fine del nostro discorso. È bene ora tentare qualche riflessione conclusiva.

Abbiamo cercato di porre in evidenza alcuni snodi sia della modernità che della postmodernità. Usando una modalità che potremmo chiamare vagamente brainstorming possiamo dire che la modernità si connota come tempo della potenza, della copertura che offre rifugio, del precotto, del già preparato, del certo e sicuro, della non fatica, del bambino preso per mano, della fiducia incondizionata (in senso negativo), della non recezione, della non attenzione all’altro, del «per me solo»; in altre parole della certezza. Mentre la postmodernità si connota come tempo dell’incertezza, della privazione (dürftiger Zeit), dello svuotamento, della fatica, del dubbio, dell’incompletezza, della non esaustività, del forse, del «anche questo, anche quello», della ulteriorità, della ricerca, del cammino, della convivenza con la non assoluzione, della volontà «che non sia così», del «vivere e morire ogni giorno».

Certamente in questo modo si finisce per dire sia troppo che troppo poco. Allora come primo passo si può certamente affermare che oggi prevalga il bisogno dell’aspetto valoriale/etico. Nel tempo della crisi delle certezze, delle evidenze, si ritiene che si debba ritornare ad esse. Il messaggio cristico però non è questo, ovvero non è immediatamente questo.57 Questo nasce da un bisogno di sicurezza nel tempo dell’incertezza.

La Chiesa non è più vista né tantomeno accettata come custode dei valori della civiltà. Se si ferma a farlo credo che finisca per combattere una battaglia di retroguardia. Essa, al contrario deve impersonare iconicamente una figura indicante il futuro. Il suo indice deve essere teso in avanti a indicare il Regno di Dio, Regno che viene, ma che allo stesso tempo è già tra noi. Un errore da evitare è proprio quello che fa credere alla Chiesa di essere immediatamente il Regno.58

Come la Chiesa possa mostrare all’uomo contemporaneo l’avvento del Regno di Dio, lo possiamo ricavare dalle indicazioni che ci offre il card. Martini quando sostiene che «i frutti concreti della koinonìa (fatta di pietas e di benevolentia), che unisce in maniera lieta e creativa il corpo della comunità, li troviamo chiaramente elencati da Paolo nella Lettera ai Galati». In questa lettera (Gal 5, 22) c’è un lungo elenco di termini che stanno ad indicare un «unico frutto dello Spirito». Si considera matura nella fede una comunità che è capace di produrre, di far nascere nei propri membri questi frutti. Il cardinale ci mette però sull’avviso, facendoci notare come tra questi termini manchino la povertà e la giustizia. Essi non vengono considerati come necessari da san Paolo? Il card. Martini azzarda un’interpretazione:

Forse non c’è la povertà, perché non è frutto dello spirito, bensì un atteggiamento acquisito, una condizione di partenza, non un bene a cui arrivare. E anche la giustizia è semplicemente un presupposto; è la base dell’atteggiamento morale di tutto l’essere umano. Mentre sulla base della sola giustizia è possibile discutere il «mio» e il «tuo», nella generosità cristiana c’è la pienezza per l’altro, il perdono.59

L’evangelizzazione è sempre un rendere presente il Cristo risorto, ma essa non deve, come dicevamo, fermarsi alla pura enunciazione, bensì deve arrivare a rendere presente il Cristo in un «contesto percepibile».

Non dobbiamo dimenticare le parole di Cristo: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada» (Mt 10, 34). Tenendo presente che la spada di cui qui si parla è la Parola di Dio e che essa «è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4, 12), bisogna tener presente che essa diventa tagliente anche e forse soprattutto attraverso la vita vissuta di quei cristiani che, sforzandosi sui loro propri limiti (accettandoli ma soltanto al fine di superarli), rendono visibile il Cristo stesso. Come dire che

alla fede vissuta e pensata dei cristiani è chiesta, allora, l’audacia di idee e di gesti significativi ed inequivocabili di carità e di giustizia nella sequela dell’Abbandonato della Croce: il cristianesimo del terzo millennio o sarà più credibile nella carità e nel servizio che essa ispira, o avrà ben poco ascolto nel cuore dei naufraghi del «secolo breve», che restano — nonostante tutto — alla ricerca del senso perduto, capace di dare sapore alla vita e alla storia, come solo Cristo nel suo crocifisso amore ha saputo fare… .60

Solo così l’uomo potrà rapportarsi a un Dio che non sia un Dio sussidiario, ma che al contrario lasci aperta, nel mentre la vive, quella dose di mistero che sempre a questo nome si accompagna.

Forse quello che il Dio di Cristo può promettere è solo che chi è disposto ad andare incontro al mondo, al suo mistero che ci interroga ogni giorno, quindi a mettere in gioco la propria vita e le sue anguste misure per assumere quelle che gli si riveleranno giuste e necessarie, potrà guadagnarne non il senso, bensì la verità ignota a ciascuno, ma nascosta per ciascuno nel segreto divino dell’esistenza.61

In questo senso è comprensibile anche l’affermazione di Wittgenstein quando afferma che

il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e sarà dell’anima umana, ma una descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo.62

È per tale motivo che ha ragione Natoli quando afferma che

da questo punto di vista il nucleo essenziale della rivelazione cristiana, vale a dire la dichiarazione che Gesù è il Signore, non è un simbolo senza senso, non è qualcosa di irrazionale e dissennato, ma è ciò che non può mai essere compreso se non si instaura una vita conforme a quell’enunciato.63

Forse questo tempo di privazione nel quale si sperimenta l’assenza di Dio può esser visto anche positivamente come un momento «utile» e «funzionale» che Dio stesso si è scelto al fine di preservare la propria «alterità» e quindi la sua «trascendenza» (e, in altre parole, alla fine, la sua «libertà»), in un tempo nel quale sembra prevalere la tendenza umana alla «riduzione» e al «dominio».

In un mondo umano, infatti, dove l’uomo pensa la «tolleranza» solamente come pura funzione di tutela dell’ordine pubblico, un Dio che — lui sì, libertà assoluta — scardini tutte le nostre piccole sicurezze, sarebbe mal «tollerato».

Ecco allora che due sono le caratteristiche che l’uomo contemporaneo (ma verrebbe da dire l’uomo di sempre) dovrebbe aver care nel proprio cuore: l’attenzione e l’amore.

Un giorno era stato chiesto a Marshall McLuhan, intellettuale oggi universalmente riconosciuto come uno tra i precursori della moderna riflessione sul mondo dei media, colui il quale coniò il termine «villaggio globale», autore tra l’altro dichiaratamente cattolico: «Marshall, che cos’è per lei la fede?». McLuhan rispose subito, come se fosse evidente: «É essere attento. La fede consiste nell’essere attento non solo ai clichés religiosi, ma ancora e soprattutto a quello che fonda l’uomo intero, all’archetipo. Per trovare la fede bisogna pregare e diventare attento».64

Quindi la prima cosa che l’uomo contemporaneo, in particolare il cristiano, deve fare, dal punto di vista antropologico, è appunto quella di essere attento. Attento come un rabdomante, cercare i «semi del Verbo» lì dove si nascondono, dove sussurrano, dove germogliano.65

La seconda cosa è amare, e amare significa ciò che già sant’Agostino indica così chiaramente quando sottolinea con sue parole mirabili quale debba essere il rapporto vero tra amante e amato, e cioè:

Quando si dica ad uno che sia presente: non ho chiesto di te, vuol dire che non lo si ama. Perché quando si ama qualcuno lo si vuol avere sempre vicino, poiché lo stesso amore teme che egli sia assente. Quando si ama qualcuno, si vuole sapere che egli è presente, se non lo si vede, e ciò senza stancarsi. Questo significa il «cercate sempre il suo volto», così che il trovare non ponga termine alla ricerca interiore che caratterizza l’amore, così che con il crescere dell’amore cresca anche la ricerca nell’intimo della persona amata.66

Queste due caratteristiche, attenzione vigile e amore, che nascono da un sentimento di mancanza e di bisogno, sono le condizioni grazie alle quali si può ripartire verso una evangelizzazione dell’uomo contemporaneo che si voglia annuncio di speranza e di salvezza.

Senza dimenticare però che il tempo che stiamo vivendo ci invita anche ad essere cauti nel non farci cogliere dallo sconforto, tenendo presente che «Sant’Ignazio di Loyola, nelle sue regole per il discernimento degli spiriti, consiglia di non prendere alcuna decisione nei momenti di desolazione e tristezza. Non percependo in quei momenti l’azione dello Spirito della verità, si può arrivare a fare delle scelte sbagliate».67


  1. T.S. Eliot, “Choruses from «The Rock»”, in Collected Poems 1909-1935, Faber & Faber, Londra 1935: «The endless cycle of idea and action, / Endless invention, endless experiment, / Brings knowledge of motion but not of stillness / Knowledge of speech, but not of silence; / Knowledge of words, and ignorance of the Word. / All our knowledge brings us nearer to our ignorance, / All our ignorance brings us nearer to death, / But nearness to death no nearer to God. / Where is the Life we have lost in living? / Where is the wisdom we have lost in knowledge? / Where is the knowledge we have lost in information? / The cycles of Heaven in twenty centuries / Bring us farther from God and nearer to the Dust» (trad. it. di Roberto Sanesi, “Cori da «La Rocca»”, in T.S. Eliot, Poesie, Bompiani, Milano 1985, pp. 396-397). ↩︎

  2. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1959, trad. it. Il principio speranza, voll. 3, Garzanti, Milano 1994, vol. I, p. 5. ↩︎

  3. S. Weil, Réflexions sur les causes de la liberté et de l’oppression sociale, ed. Gallimard, Paris 1955, trad. it. Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, ed. Adelphi, Milano 1994, p. 11. ↩︎

  4. Vedi a tale proposito le definizioni che egli dà dello spirito dell’uomo nel brano Le tre metamorfosi (cfr. F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, trad. it. Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1985, vol. I, pp. 23-25). ↩︎

  5. «Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile (nel governo del mondo in cui noi unicamente siamo in condizione di comprenderla). Ma se Dio può essere compreso solo in un certo modo e in un certo grado, allora la sua bontà (cui non possiamo rinunciare) non deve escludere l’esistenza del male; e il male c’è solo in quanto Dio non è onnipotente» (cfr. H. Jonas, Der Gottesbegriff nach Auschwitz. Eine jüdische Stimme, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1987, trad. it. Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Melangolo, Genova 1993, p. 34). Per quanto riguarda l’immagine di Dio ad Auschwitz non si può dimenticare quella che Elie Wiesel ci ha proposto nel suo romanzo La notte (cfr. E. Wiesel, La nuit, Les Editions de Minuit, Paris 1958, trad. it. La notte, Editrice La Giuntina, Firenze 199712, p. 65 e sgg.). ↩︎

  6. S. Quinzio, Religione e futuro, Adelphi, Milano 2001, p. 13 e sg. Da notare però che questo testo era già stato edito nel 1962 dalle edizioni Realtà Nuova. ↩︎

  7. Cfr. C.M. Martini, Vivere i valori del Vangelo, ed. Einaudi, Torino 1996, p. 86. ↩︎

  8. Cfr. S. Quinzio, op. cit., p. 20 e p. 24. ↩︎

  9. A questo proposito è importante tenere presenti le posizioni di Jacques Maritain e soprattutto di Emmanuel Mounier e la relativa bibliografia su e di loro. Su questo argomento ritorna inoltre ancora utile, anche se per certi versi è un po’ datato, un testo di P. Scoppola, La nuova cristianità perduta, editrice Studium, Roma 19862↩︎

  10. «Evangelizzare oggi significa parlare in una società che si sforza di organizzarsi pubblicamente senza far riferimento a valori confessionali ed è percorsa ovunque da fermenti di secolarizzazione» (cfr. C.M. Martini, op. cit., p. 94). ↩︎

  11. Cfr. E. Fromm, On Disobedience and Other Essays, by The Estate of Erich Fromm, 1981, trad. it. La disobbedienza e altri saggi, ed. Mondadori, Milano 1992, p. 31. ↩︎

  12. Ibidem, p. 32. E ancora: «Queste persone sono poi colpite dalle irrazionali contraddizioni che percorrono il nostro sistema. Ci sono milioni di esseri umani tra noi, e centinaia di milioni fuori dei nostri confini, che non hanno abbastanza da mangiare, e tuttavia noi limitiamo la produzione agricola e come se non bastasse spendiamo centinaia di milioni di dollari ogni anno per immagazzinare i nostri surplus. Siamo opulenti, ma ignoriamo le amenità della vita. Siamo più ricchi, ma meno liberi. Consumiamo di più, ma siamo più vuoti. Abbiamo più armi atomiche, ma siamo più indifesi. Abbiamo più istruzione, ma minor giudizio critico e minori certezze. Abbiamo più religione, ma diventiamo sempre più materialisti» (ibidem, p. 78). ↩︎

  13. Ibidem, p. 73. ↩︎

  14. Cfr. C.M. Martini, op. cit., p. 45. ↩︎

  15. cfr. M. Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, ed. Einaudi, Torino 1994, p. 6. Sempre lo stesso autore ritiene ormai assodato «che la nostra età intrattenga col sentire un rapporto differente da quello che ha caratterizzato altri periodi storici» (cfr. M. Perniola, Del sentire, ed. Einaudi, Torino 1991, p. 3). In questo testo l’autore vuole prendere congedo da una vecchia concezione estetica, intesa proprio come aisthesis e definita come estetica «del sentire», alla quale è subentrata una nuova, detta «del già sentito». Non è da sottovalutare questa interpretazione che può esser tenuta valida anche per quanto riguarda la sempre più diffusa incapacità dell’uomo di meravigliarsi e di incantarsi di fronte al divino. ↩︎

  16. «Making sense», o dell’ineluttabile emergenza del senso, trad. it. in G. Borradori, Il pensiero post-filosofico, Jaca Book, Milano, pp. 273-75) [tratto da N. Abbagnano, Storia della filosofia, Utet, Torino 1994, vol. IV tomo II, pp. 391-92]. ↩︎

  17. Cfr. M. Ruggenini, Il Dio assente. La filosofia e l’esperienza del divino, ed. B. Mondadori, Milano 1997, p. 169. Qui l’autore riprende dei versi di Hölderlin. ↩︎

  18. «La progressiva intellettualizzazione e razionalizzazione non significa dunque una progressiva conoscenza generale delle condizioni di vita che ci circondano. Essa significa bensì qualcosa di diverso: la coscienza o la fede che basta soltanto volere, per potere ogni cosa — in linea di principio — può esser dominata con la ragione. Il che significa il disincantamento del mondo. Non occorre più ricorrere alla magia per dominare o per ingraziarsi gli spiriti, come fa il selvaggio per il quale esistono simili potenze» (cfr. M. Weber, Politik als Beruf, Wissenschaft als Beruf, Duncker & Humblot, Berlin, trad. it. a cura di A. Giolitti, Il lavoro intellettuale come professione, ed. Einaudi, Torino 1948, pp. 19). Su questo aspetto è da tener presente anche M. Gauchet, Le désenchantement du monde, Gallimard, Paris 1985, trad. it. Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione, ed. Einaudi, Torino 1992. ↩︎

  19. Nella lettera del 30 aprile 1944 da Tegel, egli scriveva: «Stiamo andando incontro ad un tempo completamente non-religioso; gli uomini, cosí come ormai sono, semplicemente non possono piú essere religiosi. Anche coloro che si definiscono sinceramente “religiosi”, non lo mettono in pratica in nessun modo; presumibilmente, con “religioso” essi intendono qualcosa di completamente diverso […] Che significato hanno il culto e la preghiera nella non-religiosità? Acquista forse una nuova importanza a questo punto la disciplina dell’arcano, ovvero la mia distinzione (che tu già conosci) tra penultimo e ultimo? […] io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo […] La Chiesa non sta lí dove vengono meno le capacità umane, ai limiti, ma sta al centro del villaggio…» (cfr. D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Paoline, Milano, 1988, pp. 348-350). ↩︎

  20. Serge Latouche offre un’interessante lettura del percorso della ragione, e lo fa attingendo al mondo mitologico dei greci. Minerva, la dea della ragione, uscita tutta armata dalla testa di Giove, e pur essendo vergine scontrosa, avrebbe due figli spirituali: Phrónesis, la maggiore, ovvero la prudenza o saggezza, (il ragionevole), e Lógos epistemonikós, il minore, cioè la ragione geometrica (il razionale). Quest’ultimo, a lungo sottomesso alla maggiore, a partire dal XVI secolo si è emancipato scoprendo orizzonti sconosciuti e relegando la sorella in un esilio lontano dove forse saremo costretti ad andare a cercarla. (cfr. S. Latouche, Le Défi de Minerve. Rationalité occidentale et raison méditerranéenne, trad. it., La sfida di Minerva. Razionalità occidentale e ragione mediterranea, ed. Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 10). ↩︎

  21. Un classico in questo senso resta il testo scritto a due mani da T.W. Adorno e M. Horkheimer, Dialektik del Aufklärung. Philosophische Fragmente, S. Fischer Verlag, Frankfurt a. M., trad. it., Dialettica dell’illuminismo, Einaudi 19762 (ma il testo apparve per la prima volta presso l’editore olandese Querido nel 1947). In questo testo si dice ad esempio che «ciò che importa non è quella soddisfazione che gli uomini chiamano verità, ma l’operation, il procedimento efficace» (p. 13). ↩︎

  22. Cfr. F. Nietzache, op. cit., vol. I, p. 32. ↩︎

  23. A. Giddens, Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, ed. Il Mulino, Bologna 1994, p. 71. E ancora, sostiene il Giddens, «la modernità non è solo inquietante per la circolarità della ragione, ma perché la natura di questa circolarità lascia in ultima analisi perplessi» (ibidem, p. 56). L’autore sostiene, inoltre, che non «abbiamo superato la modernità; al contrario, siamo nel mezzo di una fase di radicalizzazione della modernità» (ibidem, p. 57). ↩︎

  24. Z. Bauman, Globalization. The Human Consequences, Polity Press-Blackwell Publishers Ltd., Cambridge-Oxford 1998, trad. it., Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Bari, 19992, pp. 22-23. ↩︎

  25. H. Jonas, Dalla fede antica all’uomo tecnologico. Saggi filosofici, Il Mulino, Bologna 1991, p. 269. ↩︎

  26. La giornalista di origine canadese Klein ha avuto grande notorietà grazie all’uscita anche in Italia del suo libro ormai divenuto un best-seller intitolato appunto No logo, edito da Baldini & Castoldi e considerato «la bibbia degli antiglobalizzatori». In questo testo si dice che le multinazionali ormai non tendono più a vendere prodotti ma a vendere i marchi dei loro prodotti, perché vendendo un marchio, un «logo» appunto, esse vendono un «sistema di valori», un «sistema di vita«, un «mondo». ↩︎

  27. S. Latouche, L’occidentalisation du monde. Essai sur la signification, la portée et les limites de l’uniformisation planétaire, ed. La Découverte, Paris 1989, trad. it L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria, ed. Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 12. ↩︎

  28. S. Quinzio, op. cit., p. 69. ↩︎

  29. Due sono gli autori le cui riflessioni sono ritenute fondamentali a questo riguardo, e sono I. Ramonet con la sua teoria del «pensiero unico» esposta sul numero di gennaio del 1995 di Le Monde Diplomatique e R. Petrella che tratta de Il bene comune. Elogio della solidarietà, edizioni Diabasis, Reggio Emilia 1997. ↩︎

  30. Questo insieme di tratti caratteristici dell’Occidente nel quale siamo entrati e che piano piano sta trasformando i rapporti col resto del mondo, Galtung lo vede composto da nove: Tratti caratteristici della cosmologia sociale occidentale: concezione occidentale dello spazio, centrista e universalista; concezione del tempo lineare, centrata sul presente; concezione piuttosto analitica che olistica dell’epistemologia; concezione dei rapporti umani in termini di dominazione. Tratti caratteristici della struttura sociale occidentale: divisione del lavoro verticale e centralizzata; condizionamento della Periferia da parte del Centro; marginalizzazione: divisione sociale tra il fuori e il dentro; frammentazione: atomizzazione degli individui all’interno dei gruppi; segmentazione: divisione all’interno degli individui. (cfr. J. Galtung, “Il faut manger pour vivre”, in Cahiers de l’IUED, Ginevra, 1980, p. 11, cfr. anche S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo, op. cit., nota a p. 154). ↩︎

  31. Due autori francesi — che andavano per la maggiore negli anni settanta — affermano: «Siamo stanchi dell’albero. Non dobbiamo più credere agli alberi, né alle radici, né alle radici secondarie, ne abbiamo sofferto troppo […]. Al contrario, niente è bello, niente è amorevole, niente è politico, all’infuori degli steli sotterranei e delle radici aeree, il selvatico e il rizoma» (cfr. G. Deleuze — F. Guattari, Rizoma, Parma-Lucca, 1978, p. 46). Già nel 1983 Italo Mancini si era espresso, a proposito di tale ipotesi, così: «Qui c’è la fine radicale dell’Occidente, che poneva nell’unum, nel verum e nel bonum i suoi trascendentali» (cfr. I. Mancini, Il pensiero negativo e la nuova destra, Milano, 1983, p. 17). Perché il rizoma dice invece: «insignificanza del futuro e del passato e rilevanza solo del presente» (cfr. C. Scilironi, “Cultura radicale e crisi della ragione”, in Aa. Vv., Fede cristiana fra radicalità ed effimero, Libreria Gregoriana editrice, Padova, 1985, p. 97). Il totale ribaltamento dei valori è stato così operato in quanto il rizoma è «ad un tempo il frutto maturo dell’insignificanza della fondazione metafisica dei valori, l’indicazione dell’inconsistenza delle soluzioni alternative finora proposte» (ibidem, p. 97). Un altro autore critico di questa posizione è, con gli altri, il Quinzio che afferma: «L’apologia, nel simbolo del rizoma, della distrazione, del frammentarismo, del pensiero come pulsione non programmata, discontinua, nascente, non mi pare meno accanitamente apologetica di quanto lo fossero le vecchie apologie della salda compattezza dell’assoluto» (cfr. S. Quinzio, La croce e il nulla, ed. Adelphi, Milano 1984, p. 214). ↩︎

  32. E. Morin, Introduzione al pensiero complesso. Gli strumenti per affrontare la sfida della complessità, ed. Sperling & Kupfer, Milano 1993 p. 2. ↩︎

  33. Ibidem, p. 2. ↩︎

  34. S. Natoli, Dio e il divino. Confronto con il cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1999, pp. 119-120. ↩︎

  35. A. Llano, La nueva sensibilidad, Ediciones Espasa-Calpe, Madrid 1989, trad. it. La nuova sensibilità. Il positivo della società postmoderna, ed. Ares, Milano 1995, (nota a p. 74: R.M. Mac Iver, The Ramparts We Guard, New York 1950, pp. 84 e sgg. Cfr. R. Dahrendorf, Oportunidades vitales. Notas para una teoria social y politica, Espasa-Calpe, Madrid 1983, p. 116). ↩︎

  36. M. Augé, Non-lieux, ed. du Seuil, Paris 1992, trad. it. Non luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, ed. A coop. sezione Eléuthera, Milano 2000, p. 36. ↩︎

  37. U. Galiberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999 p. 33. ↩︎

  38. «La tecnica, dunque, non è semplicemente un mezzo. La tecnica è un modo del disvelamento. Se facciamo attenzione a questo fatto, ci si apre davanti un ambito completamente diverso per l’essenza della tecnica. È l’ambito del disvelamento, cioè della veri-tà (Wahr-heit). Questa prospettiva ci inquieta. Ciò è necessario; bisogna che ci inquieti il più a lungo possibile e in modo così pressante da farci prendere una buona volta sul serio l’elementare domanda su che cosa significhi in fin dei conti il nome “tecnica”» (cfr. M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, Verlag Günther Neske, Pfullingen 1957, trad. it., Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1991, pp. 9-10). ↩︎

  39. N. Postman, Technopoly. The Surrender of Culture to Technology, A. Knopf, New York 1992, trad. it. Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 70. ↩︎

  40. Ibidem, p. 49. ↩︎

  41. Ibidem, p. 15. Più oltre vien detto anche che «in altri termini, l’ambiente in cui prospera il tecnopolio è un ambiente in cui si è spezzato il legame tra informazione e finalità umana: l’informazione è totalmente indiscriminata, non è diretta ad alcuno in particolare, è quanto mai voluminosa e veloce e non ha alcun rapporto con qualsiasi teoria, significato od obiettivo. Tutto ciò ha dato vita a un mondo nuovo. Altrove ne ho parlato come di un mondo a sorpresa in cui di volta in volta appare, per poi scomparire, questo o quell’elemento. É un mondo improbabile in cui l’idea del progresso umano, come l’aveva espressa Bacone, è stata sostituita dall’idea del progresso tecnologico. L’obiettivo non è la diminuzione dell’ignoranza, della superstizione e della sofferenza bensì quello di adeguarci ai requisiti delle nuove tecnologie. Naturalmente ci diciamo che così facendo avremo una vita migliore, ma questo non è che il residuo retorico di una tecnocrazia che sta per scomparire. Siamo una cultura che si auto-consuma con l’informazione, e molti di noi non si chiedono nemmeno come si possa controllare il processo. Andiamo avanti convinti che l’informazione sia nostra amica, che le culture possano subire un danno gravissimo dalla mancanza d’informazione; e infatti così è. Solo ora si sta cominciando a capire che le culture possono subire un danno gravissimo anche dall’eccesso d’informazione, da una informazione priva di senso e di meccanismi di controllo» (ibidem, p. 68). ↩︎

  42. R. Bodei, Il tempo del mondo, tratto dal saggio “Filosofia della storia”, in La Filosofia, a cura di P. ROSSI, vol. I, Utet, Torino, 1995. Per quanto riguarda invece R. Koselleck da vedere il suo testo fondamentale Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, ed. Marietti, Genova 1986. ↩︎

  43. Cfr. M. Ruggenini, op. cit., p. 64. ↩︎

  44. Cfr. J. -L. Nancy, Des lieux divins suivi de Calcul du poete, Trans-Europ-Repress, Mauvezin 1987, trad. it., Luoghi divini. Calcolo del poeta, Il Poligrafo, Padova 1999, p. 50. ↩︎

  45. È una citazione che usa M. Heidegger nel suo Der Satz vom Grund, cit. in M. Ruggenini, op. cit., p. 131. ↩︎

  46. Platone, Leggi, 716 a-c. ↩︎

  47. S. Natoli, op. cit., p. 17. ↩︎

  48. Ibidem, p. 17. ↩︎

  49. Ibidem, p. 38. ↩︎

  50. Basta ricordare come esempio quelle di L. Feuerbach e di R. Guardini. ↩︎

  51. Il riferimento è a quella di G.W. F. Hegel, oppure di E. Renan o anche di D.F. Strauss. ↩︎

  52. Il riferimento è a S. Freud, “L’avvenire di un’illusione”, in Il disagio della civiltà e altri saggi, Boringhieri, Torino 1971, e a H. Blumenberg, Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, Il Mulino, Bologna 1985, tr. it. di Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1979. Forse, a questo proposito il concetto del naufragio è emblematico del tema del non-coinvolgimento col tempo presente, nel senso che si potrebbe anche addurre a mo’ di battuta l’ipotesi che l’uomo contemporaneo sia contemporaneo a tutto tranne che a se stesso. ↩︎

  53. Cfr. C.M. Martini, op. cit., pp. 90-91. ↩︎

  54. Ibidem, p. 96. ↩︎

  55. «Dove si nasconde allora il Dio che sta al principio di ogni discorso, se non nelle stesse parole in cui l’esistenza sembra perdersi? Come cercarlo, se non attraverso una rinnovata attenzione a quello che hanno da dire le stesse parole in cui ci siamo perduti?» (cfr. M. Ruggenini, op. cit., p. 274). ↩︎

  56. Cfr. D. de Kerckhove, La civilizzazione video-cristiana, Feltrinelli, Milano 1995, p. 115. ↩︎

  57. Si potrebbe dire che non lo è immediatamente in quanto il messaggio cristico è un messaggio ontologico e non etico, o almeno non soltanto etico, ovvero etico in quanto «legato» all’ontologico. A seguire Levinas però il problema non si pone nemmeno in quanto l’ontico di per sé è pure etico. Egli scrive infatti che «non bisogna prendere la risposta di Caino come se deridesse Dio o rispondesse infantilmente: “non sono io è l’altro”. La risposta di Caino è sincera. In essa manca solo l’etica, vi è solamente ontologia: io sono io e lui è lui. Non siamo esseri ontologicamente separati» (cfr. E. Levinas, Etica e infinito, Città Nuova, Roma 1984, p. 112). ↩︎

  58. È uscito di recente da parte della CEI il testo degli Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il primo decennio del 2000 dal titolo Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, EDB, Bologna 2001, al quale quanto andiamo scrivendo, almeno ad una prima scorsa, sembra molto in sintonia. ↩︎

  59. Cfr. C.M. Martini, op. cit., p. 31. ↩︎

  60. B. Forte, Dove va il Cristianesimo?, Queriniana, Brescia 2000, p. 154. ↩︎

  61. M. Ruggenini, op. cit., p. 95. ↩︎

  62. L. Wittgenstein, Vermischte Bemerkungen, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M., 1977, trad. it. Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980, p. 59. ↩︎

  63. S. Natoli, op. cit., p. 91. ↩︎

  64. cfr. D. de Kerckhove, op. cit., p. 113. ↩︎

  65. «Il vedere umano-personale vede veramente solo quando è disposto a farsi come incontro, vedendo, a ciò che si offre al suo sguardo: in questo il vedere personale è anzitutto un prendere (ver-nehmen) e un ascoltare per poi penetrare gradualmente, nel comprendere (ver-stehen) […] Tuttavia, nonostante la sua condizione indiretta, la vista qui è diretta in quanto in tutto ciò che il Figlio è, nel suo parlare, agire, patire (anzi ancor piú: nella persona stessa che si manifesta), in tutto questo a rendersi visibile non è che il suo assoluto amore d’obbedienza al Padre […] “Vedere” significa dunque complessivamente poter leggere una persona e un destino come epifania dell’amore assoluto» (H.U. von Balthasar, Gloria, Jaca Book, Milano, 1985, vol. VII, pp. 260-262). ↩︎

  66. Agostino, Ep. 104, 3, cit. nel saggio “Skepsis und Glaube” che si trova in K. Löwith, Wissen, Glaube und Skepsis, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1956, trad. it. “Skepsi e fede” in Storia e fede, Laterza, Bari 1985, p. 21. ↩︎

  67. Cfr. C.M. Martini, op. cit., p. 122. ↩︎