Kant e il problema della teologia. La filosofia trascendentale come condizione dell’oltrepassamento

1. Introduzione

Il senso del trascendentale si esplica non come conoscenza degli oggetti, ma nel nostro modo di conoscerli; ma se tale «concetto» non deve riferirsi ad ogni conoscenza a priori, ma solo a quella legata a certe rappresentazioni (intuizioni o concetti), come è possibile l’uso della trascendentalità riguardo a questioni che non hanno un oggetto o una intuizione?

Nella Critica della ragion pura quasi tutte le facoltà dell’uomo sono caratterizzate da una forma trascendentale; allora per trascendentale, nell’accezione più pura, si deve intendere la condizione della possibilità in se stessa, secondo una duplice modalità: fenomenica e soprattutto oltre-fenomenica, giacché Kant non ha escluso un uso trascendentale non soggetto all’esperienza fenomenica. Alla definizione di trascendentale si deve poter attribuire una valenza che tenga conto soprattutto di alcuni caratteri tipici della filosofia kantiana come: disposizione, tendenza: autentiche facoltà, il cui significato ben si media con l’uso della trascendentalità, che propedeuticamente promuovono, in un’accezione autenticamente kantiana, la stessa possibilità della trascendenza. Il dovere morale implica il senso della trascendenza stessa, esplicantesi innanzitutto nel rispetto della persona, di sé (l’essere pienamente se stessi), e nel rispetto dell’altro, che costituiscono l’autentica possibilità per una fondazione della libertà. Per tale motivo, la filosofia trascendentale e la deduzione trascendentale soggettiva devono rappresentare il punto di partenza di una ricerca orientata alla filosofia dell’Oltre, che non deve indicare un essere fuori di me, (un essere fuori dell’uomo), ma solo un pensiero in me. All’idea di Dio, che ha dominato tutta la teologia e la metafisica classica, bisogna sostituire l’idea Dio, il cui significato implica la convinzione che il Divino non può essere più pensato come una sostanza o un ente dato.

La possibilità della teologia può essere ascrivibile all’impostazione della metafisica generale, da cui può essere desunta la stessa moralità, per la principale considerazione che la legge morale kantiana è direttamente deducibile dall’impianto stesso della sua metafisica generale, che, pur occupandosi come la metafisica speciale dell’uomo, di Dio e del mondo, è orientata non allo svelamento di un contenuto specifico o di una sostanza, ma essenzialmente all’aspetto della possibilità meramente ideale e/o postulativa. A differenza della metafisica classica che alla domanda fondamentale su Dio osava rispondere con costrutti logici e teologici, la metafisica kantiana (fondamento originario) si incentra sul pro-porre semplicemente la domanda fondamentale secondo un preciso itinerario (idea trascendentale, supposizione, postulato) senza che l’uomo possa mai rispondere in modo esaustivo, e in questo eterno postulare, ossia «domandar-si», si svolge l’essenza morale e teologica e lo stessa destinazione dell’uomo.

2. Trascendenza, soggettività e altra persona come compimento della morale pura.

A proposito della coscienza, la posizione di Kant rievoca una toccante e profonda riflessione, fatta nella Critica della ragion pratica:

Un uomo […] (può) dichiararsi innocente […] tuttavia egli sente che l’avvocato che parla in suo vantaggio non può far tacere in lui l’accusatore, se egli è conscio che, nel tempo che commise l’azione cattiva, egli era in sé, cioè aveva l’uso della sua libertà; […] e quantunque egli si spieghi la propria mancanza con una certa abitudine cattiva […] ciò, tuttavia, non lo può salvare dalla disperazione e dal rimprovero che egli fa a se stesso.1

L’uomo anche se corrotto non può non sottrarsi alla morsa della sua voce interiore: egli può anche gioire dell’avvenuta assoluzione giuridica, ma se non avverte nel suo animo una pur minima inquietudine, il vero avvocato che è in lui finisce con il proclamare lo scacco di fronte alla possibilità del riscatto morale che per Kant consiste in un appello alla coscienza: unica condizione per promuovere la libertà e per essere autenticamente se stesso. La legge morale (per Kant equivale alla legge di Dio), reclamando l’essere altro da ciò che l’uomo è in natura, coincide con l’essere più puro dell’uomo; agire moralmente significa obbedire solo a se stessi, nella maniera più conforme alla nostra natura intrinseca di esseri razionali e liberi.

Per tali considerazioni, il criminale, il disonesto possono redimersi e annullare il proprio essere corrotti, giacché, come ha affermato E. Weil, «la legge, in tutta la sua purezza e con tutta la sua severità, è presente allo spirito dell’uomo che si è da se stesso pervertito e dunque lo sa e si giudica: pervertito ma non perverso al punto di opporsi consapevolmente […] coscienziosamente alla legge».2 È il richiamo dell’accusatore che esige «appello alla coscienza» (Critica della ragion Pratica, p. 333) di una coscienza giammai pienamente sopita, sempre pronta a disporsi per essere, nonostante tutto, altro da ciò che si è, con l’oltrepassamento dell’uomo fenomenico, tutto preso dal piacere e dall’egoismo.

Kant ha, a più riprese, insistito sulla possibilità di vivere o secondo la dimensione dell’io fenomenico o nella direzione di un io che intuisce se stesso «come soggetto della libertà, noumeno»;3 si può ben constatare come sia possibile identificare la libertà con la legge morale, nel senso che «la libertà e la legge morale pratica incondizionata si corrispondono reciprocamente».4

La libertà può tramutarsi da possibilità di essere in modo autentico nell’impossibilità di esplicarsi propriamente per una natura condizionata dall’ostacolo fenomenico. Paradossalmente, però, è proprio l’ostacolo, il limite, il condizionamento ad attivare e rendere fattibile la libertà dell’uomo. La libertà ha un carattere paradossale (l’esigenza paradossale di far stesso, come soggetto della libertà), in quanto essa deve, per poter essere, a/opporsi «nello stesso tempo (alla) propria coscienza empirica».5

Esiste una voce interiore che spinge l’uomo oltre, che si esplica nel volere essere pienamente se stessi, un dar voce alla propria coscienza, alla ragion pratica «la cui voce fa tremare anche il malfattore più audace, e l’obbliga a nascondersi al suo cospetto».6 Tutto ciò implica un costringimento pratico e un assoggettamento da interpretare come un comando nei confronti di un soggetto affetto sensibilmente.7

Ci si trova di fronte ad un circolo vizioso: la libertà promuove il superamento della condizione fenomenica, ma è la condizione limitante a determinare l’oltrepassamento. La via d’uscita non consiste nello scegliersi definitivamente, nell’aut aut, giacché la scelta risolutiva è impossibile per l’uomo così come è concepito da Kant, tormentato dalla ricaduta, anche se l’essere umano non può non costringersi al superamento.

È presente in Kant un sottile legame tra un volere essere autenticamente (per la libertà) e la stessa legge morale; ma, quando Kant cerca di riporre il rispetto alla legge morale, vuole di fatto intendere al modo di essere responsabile dell’essere di fronte a se stesso, l’autentico essere se stesso (M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica). Sottoporsi alla legge significa sottopor-mi-a-me-stesso.8 Il rispetto della legge morale, nella sua incondizionatezza, assolutezza e universalità, deve significare il rispetto della persona, incondizionatamente, assolutamente, universalmente. Quest’io deve meritarsi tutto il rispetto possibile «Il rispetto si riferisce sempre soltanto alle persone»;9 per tale aspetto, Heidegger è dell’avviso che in Kant ci siano le condizioni per poter riporre il rispetto per noi stessi10 non tanto alla legge morale, quanto al modo di essere responsabile dell’essere di fronte a se stesso, l’autentico essere se stesso;11 un sottoporsi a me stesso in quanto ragione pura; rispetto è un progetto per un esistere in modo autentico. La pura moralità necessariamente deve rapportarsi e dipendere dall’esser-ci stesso (l’uomo):

Il rispetto per la legge è rispetto di sé, […] che non è determinato dalla presunzione e dall’amor proprio. Il rispetto, […] si riferisce alla persona. […] grazie al rispetto, l’Io «non rigetta l’eroe che è nella sua anima».12

Esiste una corrispondenza strettissima tra la morale e religione, nel senso che la morale conduce inevitabilmente alla religione; religione e morale devono essere intese in uno stretto e reciproco rapporto, il cui oggetto (Dio e uomo) deve far pensare ad uso provvisorio e altamente problematico sia per quanto riguarda la soggettività coscienziale, sia per quel che attiene a Dio.

Nella Dialettica dell’illuminismo di M. Horkheimer e Th.W. Adorno «il rinnovamento dell’impresa kantiana di trasformare la legge divina in autonomia, per salvare la civiltà europea che ha reso l’anima nello scetticismo inglese»13 farebbe pensare alla teologia morale kantiana come un rimedio, un ultimo tentativo di salvare la teologia dalla dispersione compiuta dall’ateismo. Con Kant, il Dio morale soppiantando il Dio persona di fatto avrebbe condotto Nietzsche a decretare la morte di Dio, giacché, a detta dallo stesso Heidegger «quando Nietzsche dice Dio è morto intende il Dio considerato dal punto di vista morale e lui soltanto».14 Sotto tale aspetto, la morte di Dio non convaliderebbe la morte dell’essere-Dio, ma di un «determinato Dio» rappresentato solo moralmente. Inoltre nello stesso testo dei filosofi della Scuola di Francoforte, si afferma che la volontà del superuomo (il riferimento è a Nietzsche) «non è meno dispotica dell’imperativo categorico».15

Se consideriamo un altro testo, Introduzione a Kant di Lucien Goldmann, Kant non sarebbe

mai passato dall’Io al Noi come soggetto dell’azione; che, prigioniero di una visione individualista, ha continuato a concepire la «totalità umana» come universalità, Universalitas, e non come comunità concreta e materiale, Universitas.16

È fondata la tesi di coloro i quali pensano alla filosofia kantiana quale espressione di una cultura individualistica e borghese? Kant si sarebbe, quindi, limitato a pensare all’interno di una dimensione borghese per la quale l’uomo è concepito come individuo-atomo, chiuso nel sua egoità più piena, incapace di raggiungere l’assoluto (L. Goldmann, Introduzione a Kant, p. 36).

Un altro aspetto, degno di considerazione, dipende dall’aver, Kant, escluso dalla sua concezione teologica la valenza teorico-speculativa e ‘sentimentale’. Nelle Lezioni di Etica, da una parte si afferma che «lasciarsi guidare, nella religione, da piena conoscenza speculativa è sofisticheria»,17 dall’altra si sostiene che «Una religione che non presuppone la morale si riduce […] al fervore esaltato».18 Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, cioè di una religione scevra dal sentimento, la posizione di Kant è determinata dalla visione illuministica e quindi da un limite storico; Kant, per la fattispecie, non sarebbe andato oltre la sua condizione temporale, il cui orientamento era teso ad invalidare il sentimento religioso (rivalutato da J. J. Rousseau) come causa del fanatismo, e Kant non fu immune da questa tendenza. La caratterizzazione morale della religione avrebbe avuto lo scopo di liberarsi dal fervore esaltato, solo che non si fa minimo cenno al fatto che una strutturazione etica sarebbe potuta sfociare in un integralismo morale e nella ottusa bigotteria .

Si tratta ora di riconsiderare e rivisitare il filosofare di Kant secondo una chiave interpretativa, volta a rivedere gli aspetti portanti della sua speculazione. Innanzitutto, bisogna chiedersi cosa si deve intendere e cosa può implicare la legge morale e la ragione pura pratica. La ragione pura pratica è principalmente orientata, anche se implicitamente all’eticità esplicantesi alla maniera di un’idealizzazione obiettivante dell’altra persona. Kant è stato il primo filosofo ad essersi posto oltre il suo tempo con la sua rivoluzione filosofica a vantaggio della soggettività e l’aspetto morale gli è servito a considerare fondamentalmente la questione dell’io, dell’altra persona e di Dio. Kant anticipa tutto ciò che E. Lévinas esporrà nel libro Totalité et infini «come una difesa della soggettività»19 e come «l’esistenza per l’Altro […] liberata dalla gravitazione egoista»20

Già a partire dalla Fondazione della metafisica dei costumi, l’altro non va inteso come oggetto di ‘simpatia’, di ‘inclinazione’, ma come essere del dovere, ossia un «dover-essere» senza condizioni e risultati (Fondazione, cit., p. 19). Un dover-essere (Sollen) che si esplica grazie alla volontà nella sua costituzione soggettiva.21 La massima espressione del dover-essere, che è alla base dell’Imperativo categorico, non implica dipendenza dal «desiderare», da «inclinazioni» e soprattutto da «interesse». Trattare l’altro uomo giammai come mezzo, ma come ‘fine’, significa che l’ontologia morale ha il compito di aprire la strada alla tematizzazione dell’altro come fine della volontà. L’altro non è un qualcosa di già costituito, in quanto il ‘prossimo’ è un problema, è l’oggetto stesso della ricerca, è noumeno, come è noumeno il sé stesso.

La formulazione dell’imperativo categorico (Fondazione della metafisica dei costumi) ripropone un’umanità fondata sulla mia persona e sulla persona dell’altro da trattare sempre come fine.22 In particolare, la seconda formula dell’imperativo categorico attribuisce assoluta e pari dignità alla tua persona quanto nella persona di ogni altro. Alla domanda: Quali sono i fini che sono al tempo stesso dei doveri? Kant risponde: la perfezione propria, la felicità altrui. La felicità dell’altro sottende soprattutto la coscienza individuale, nel senso che il mio io più puro non può non rispettare l’altro.

Contro la comune impostazione dei critici che avrebbero segnato Kant come il filosofo difensore dell’individuo e dell’individualismo, quale rappresentazione dell’ideologia borghese, bisognerebbe opporre la concezione secondo la quale Kant penserebbe non all’uomo-individuo, ma a tutta l’umanità, ad una coscienza tutta tesa al problema dell’altro. Non a caso Jaspers, quando riflette su Kant, preferisce convertire che cos’è l’uomo in che cosa deve rappresentare l’altro per me (?). Per essere se stessi bisogna aprirsi in quella dimensione che Jaspers definisce come altro esser-se-stesso, nel senso che per poter essere autenticamente nella libertà e nella verità «l’uomo […] non può concepirsi come per sé stante. Quando si rende presente l’essere umano, affiora sempre l’Altro. Per l’uomo, quale esistenza possibile, questo Altro è la Trascendenza […]».23 Per tale aspetto, la formulazione kantiana delle quattro domande: 1º Che cosa posso sapere? (metafisica); 2º Che cosa devo fare? (morale); 3º Che cosa posso sperare? (religione);24 Che cos’è l’uomo? (antropologia), deve essere convertita (secondo l’insegnamento di Jaspers) — alla luce della Trascendenza da intendere come esposizione verso l’Altro — in tre principali interrogativi (il riferimento e il debito a Kant a questo punto è indicativo):

Che cosa possiamo conoscere nelle scienze?

Come dobbiamo raggiungere la più profonda comunicazione?

Come ci diventa accessibile la verità?

A base di questi interrogativi sono tre stimoli nostri fondamentali: il desiderio di sapere, la volontà di comunicazione e la tormentosa tendenza alla verità. Mediante questi interrogativi giungiamo alla via della ricerca. Ma le mete di questa ricerca sono l’uomo e la Trascendenza, l’anima e Dio.25

Per Jaspers dire che tutto è riferibile all’uomo è ancora poca cosa se non si chiarifica come e per cosa l’uomo può essere definito. L’uomo si incontra con la profonda comunicazione che in fondo richiama un appellarsi al problema dell’altro e di Dio. Già Kant aveva anticipato l’aspetto estremamente problematico di una «profonda comunicazione» da parte della coscienza sempre aperta all’altra persona. Il senso del dovere, che ben si esprime con l’imperativo categorico del «Tu devi» indica un qualcosa che è al di là di ciò che si è, e l’al di là sottende un andar oltre per essere di più. C’è in Kant l’idea di una vera esaltazione della volontà come se la tematizzazione dell’essere coincidesse con la volontà pura: essere = volere se stesso, l’altro e Dio.26

Tuttavia l’io può disporsi secondo una duplice dimensione: per l’in sé dell’immanenza di un io in uno stato di egoità e\o per la trascendenza, ossia rivolto alla pura moralità, perché è un in-finito; quell’uomo che pone le domandeche cos’è …? già denuncia un fatto incontrovertibile: un’essenza che legittima un’effettiva assenza del sé come dato, come essere già costituito; l’essenza dell’uomo si fonda nel domandar-si, che sottende la propria limitatezza e transitorietà; per questo motivo la ragione

pone queste domande perché è finita […]. Proprio per il fatto che queste tre domande vertono su quest’unico oggetto, la finitezza, esse si lasciano rapportare alla quarta: che cos’è l’uomo.27

Il domandare dell’uomo è il segno caratterizzante del suo destino, la cui essenza si caratterizza nel suo volere morale, esplicantesi, appunto, nello stesso postulare.

In Kant è possibile individuare l’esistenza di due tipologie del male: da una parte una concezione del male fortemente connessa, cristianamente, al senso del mistero, con una genesi del tutto oscura e non certo comprensibile razionalmente; il male visualizzato come discordia, originato dall’imperscrutabile sapienza, per il perfezionamento dell’uomo, a costo di sacrificio delle gioie della vita. Kant sembrerebbe convinto circa il carattere misterioso e naturalela natura ha messo ed ha voluto nel genere umano il germe della discordia - del male, il quale non ha un carattere autonomo, perché è al servizio dell’uomo, per una legge oscura, per il suo completamento e perfezionamento; dall’altra, il male inteso in senso filosofico e morale riconducibile al solipsismo che si determina nella chiusura della propria egoità, comportando una duplice manifestazione disperante: di un io che non si sente libero, perché condizionato, di un io che avverte, in ogni modo, l’esigenza di andar oltre la sua condizione di assoggettamento

Quando Kant, nel libro La religione entro i limiti della sola ragione, a più riprese, insiste — a proposito della disposizione in tre classi, come elementi di determinazione per l’uomo, e in modo particolare, alla disposizione dell’uomo all’animalità (1) e all’umanità (2) — sull’amore di sé, intende far presente una sola cosa: che simili disposizioni hanno come moventi un qualcosa che non dipende dal «fondamento originario», fondamento, aggiunge Kant, impenetrabile.28 L’egoismo come amore di sé o come benevolenza verso se stesso, o come compiacenza di se stesso, sottende, come inclinazioni naturali, il celamento e non certo la distruzione del fondamento originario. C’è in Kant un rapporto stretto tra fini e disposizioni; disposizione sottende la possibilità più autentica per l’uomo che potrebbe disporsi anche in direzione dell’amor di sé, ma tale scelta anche se comporta una caduta in termini di qualità morale, non può giammai inficiare l’atto puro della possibilità di disporsi e di scegliersi di vivere in modo autentico. Kant non esclude che per scelta si possa decidere, per una certa disposizione, anche per l’animalità, che, in quanto tale, risponde alla possibilità di poter essere dell’uomo, perché come disposizione naturale è pertinente alla possibilità della natura umana. Ma, anche per Kant esisterebbero possibilità autentiche e possibilità inautentiche: l’amore di sé è un amore che non può essere considerato una vera possibilità, perché rappresenta l’impossibilità della coscienza di disporsi nella stessa possibilità di poter-essere-altro (persona); nega, preliminarmente, la possibilità della coscienza di trascendersi e quindi di arrischiarsi verso l’altro. La disposizione all’animalità non comporta la libertà, in quanto basata sull’elemento meccanico; la disposizione all’umanità, basandosi sull’amore di sé, comporta un determinarsi, un acquistarsi un valore nell’opinione altrui, per cui l’uomo in questo stato non può sentirsi libero, giacché il suo essere o sentir-si dipende dal giudizio estrinseco degli altri; il disporsi alla personalità, invece rappresenta la possibilità più autentica, in quanto in essa è possibile individuare il valore, una base (radice) per l’incondizionato29 . Andare oltre il determinismo (animalità e umanità), significa scegliersi per un’esistenza autentica e libera da forme di assoggettamento.

L’apertura permette di trascendere l’immanere della coscienza nel chiuso del suo io (egoismo come solipsismus) e delinea la possibilità per l’uomo

non solo a compiere da sé tutti i doveri umani e nel medesimo tempo a diffondere pure il bene in una cerchia più vasta possibile intorno a lui […] (fino al punto a) sobbarcarsi […] tutte le sofferenze, fino alla morte più ignominiosa, per il bene del mondo, ed anche per il bene dei suoi nemici.30

L’umanità e la diffusione del bene intorno alla soggettività non rappresentano un ideale posto fuori della portata dell’uomo. Il continuo appellarsi ad una coscienza morale per il bene del mondo, implica il tentativo di trascendersi, pur non escludendo che l’uomo possa continuamente ricadere nella preclusione delle sue naturali tendenze. Kant ha analizzato l’uomo in base all’aspirazione, ad un livello superiore, soprattutto in rapporto ad un io superiore. Heidegger ha colto, in modo originale, il valore della trascendenza della verità che «è unita nel modo più intimo alla struttura della trascendenza per il fatto che l’esserci è un ente aperto all’altro e a se stesso».31 Per l’immanere di una coscienza, si deve intendere la volontà soggettiva, tesa a disporsi come mera egoità fino ad eternare se stessa, al punto di credersi autosufficiente. Il male filosofico consiste, kantianamente in quel solipsismus da intendere come volontà che si chiude in se stessa.

3. La rivisitazione teologica nella condizione dell’oltrepassamento

Tra gli assunti più importanti e comuni di volta in volta sviluppati per quanto attiene alla questione teologica kantiana si possono individuare i seguenti punti:

  1. Dio come idea trascendentale della ragione.32
  2. L’idea di Dio come principio regolativo. L’idea di Dio non ha una valenza costitutiva, in quanto non si riferisce ad un ente «L’ideale dell’Essere supremo […] non è altro che un principio regolativo della ragione […] e non è un’affermazione di un’esistenza necessaria in sé» (Critica della ragion pura, cit., vol. II, pp. 485, 486);
  3. Dio non è oggetto o idea di esperienza33
  4. La fondazione della teologia non è possibile attraverso un uso speculativo, ma solo morale34
  5. Dio onnipotente, unico può essere solo supposto «Possiamo noi […] ammettere un Creatore del mondo, unico, sapiente, onnipotente? Senza alcun dubbio: e non solo possiamo, ma ne dobbiamo supporre uno così» (Critica della ragion pura, cit., p. 539);
  6. l’essere umano è immagine di Dio (imago dei); dall’idea di Dio si forma, per riduzione, l’idea di uomo;
  7. la domanda che cosa mi è lecito sperare? (religione) è ascrivibile a «che cosa è l’uomo»;
  8. L’esistenza di Dio come postulato I «postulati non sono dommi teoretici, ma supposizioni da un punto di vista necessariamente pratico […] Questi postulati sono quelli dell’immortalità, della libertà e […] dell’esistenza di Dio» (Critica della ragion pratica, cit., p. 160);
  9. L’idea-Dio e non l’idea di Dio.

Gran parte degli assunti sembrano affermare la stessa cosa: quando Kant pensa a Dio se lo rappresenta come il Dio morale, questa idea sembrerebbe informare tutta la teologia kantiana. Al Dio geometra di Spinoza, al Dio garante dell’ordine fisico di Newton, al Dio sostanza di Cartesio…, Kant avrebbe apposto il Dio morale e nient’altro.

Alla base degli assunti sopracitati, bisogna anteporre «l’umana ragione ha qui una propensione naturale ad oltrepassare questi limiti (dati dal campo dell’esperienza possibile)».35

Oltre tutto ciò bisogna considerare che nella filosofia kantiana ci si imbatte spesso in termini come tendenza, disposizioni, disposizione naturale, la ragione umana spinta da motivi pratici (Fondazione, cit., p. 27), propensione, anelito; questi assunti andrebbero colti nella loro specificità, nel senso che andrebbero interpretati secondo due differenti significati: da una parte esistono disposizioni legate alla natura sensibile, dall’altra coesisterebbero tendenze e disposizioni riferibili all’elemento intelligibile. La caratterizzazione kantiana della metafisica si incentra su un dover essere (Sollen), (Fondazione) solo che per il nostro studio si tratta di appurare se la questione dell’essere convertito in dovere oltre ad indicare semplicemente un richiamo dell’essere alla moralità non implichi un significato diverso, nel senso che ciò che viene denominato come morale non debba essere interpretato come un qualcosa che vada oltre la stessa morale.

Kant, disgraziatamente, non chiarisce la genesi di molte facoltà; oltretutto Kant insiste sull’indeducibilità della morale pura. L’impianto pratico si struttura sull’assenza di un fondamento o su un qualcosa che si è, ad un certo punto, voluto nascondere, una verità occultata?

Si tratta di scandagliare il materiale filosofico al fine di intravedere una sottile implicazione religiosa non certo ovvia della valenza morale, giacché esisterebbe a detta di P. Martinetti un penetrante rapporto o scambio reciproco tra moralità e religione come se la religione non sia che «un altro nome della moralità o un semplice compimento della moralità».36 Se per un verso, l’aspetto etico può rimandare alla valenza religiosa, per l’altro la tematica circa la filosofia del limite e più specificamente i limiti della ragione rappresentano un indubbio caposaldo della religiosità kantiana. Tale prospettiva è stata sviluppata da Jaspers per il quale, nel pensiero di Kant, la tematizzazione della religione è costantemente presente, proprio in considerazione dei limiti della ragione, nel senso che il limite della ragione rappresenta l’origine per tutto ciò che in Kant può essere denominato come religione. La filosofia del limite o metafisica del limite possiede un qualcosa di paradossale, in quanto la limitatezza ostacola, ma nello stesso tempo, favorisce l’oltrepassamento.

Anche sotto l’aspetto morale, da un lato la soggettività nel senso di persona è determinata dal limite della natura umana, dall’altro è grazie all’io condizionato che viene a prodursi la tendenza dello spirito a non disperdersi nel condizionato, ma ad orientarsi nella possibilità dell’incondizionato che coincide con la vera questione dell’essere. La questione etica quindi implica sia la metafisica del limite (l’aspetto condizionante dell’uomo), sia la questione incalzante della trascendenza, solo che bisogna definire il valore autentico di questo trascendersi della volontà.

Il problema dell’oltre-passamento dipende da una ragione morale deputata al superamento dei limiti, da una tendenza «La ragione da una tendenza della sua natura è spinta a procedere oltre l’uso empirico, e ad avventurarsi, in un uso puro per semplici idee, fino agli estremi confini di ogni conoscenza».37 In verità Kant non ha mai spinto la sua analisi per meglio precisare o definire la qualità di una simile tendenza che permette l’esplicazione dell’oltre-passamento.

Rispetto all’assunto (f) — imago dei — tale aspetto è stato precisato dalla osservazione espressa da E. Weil, secondo il quale «a partire dall’idea di Dio si è formata per riduzione e diminuzione l’idea dell’uomo. Dio non è antropomorfo […] l’uomo […] si comprende a partire dal suo originale, dalla sua origine».38

Rispetto al punto (e), bisogna notare che l’idea di Dio sottende un dover supporre (Possiamo noi ammettere un creatore del mondo unico, sapiente, onnipotente? Senza dubbio: e non solo possiamo, ma ne dobbiamo supporre uno così).39 Dover supporre non equivale al mero supporre, nel senso che il supporre sottende un ‘esigenza morale, un dovere che per Kant rappresenta la vera questione dell’essere (il dover essere richiama l’essere del dovere). Dover supporre non comporta un ‘supposto’, ma un ‘qualcosa’ che per dovere si lascia supporre. Il dover supporre appartiene all’uomo e non tocca minimamente la possibilità della Presenza o dell’essere-Dio.

Un’altra riflessione scaturisce dall’errore della metafisica tradizionale, non della teologia, che ha scambiato il piano del pensiero con quello dell’ontologia; l’errore che è perdurato fino al criticismo che lo avrebbe ‘definitivamente’ annullato sotto l’aspetto logico era stato, a più riprese, presentato da una parte del pensiero cattolico e per lo più proposto da filosofi di solida fede cristiana, che certo non sarebbe scaturita da quei sofisticati logicismi (prove ontologiche e cosmologiche). Quei ragionamenti, il riferimento è soprattutto alla prova ontologica di Anselmo, erano svolti con l’uso della ragione, la quale presupponeva, innanzitutto la fede, non considerata da Kant. Nella storia del pensiero non esiste un solo esempio degno di rispetto che abbia maturato una fede grazie a certi ragionamenti logici. Quando Kant si cimenta a vagliare criticamente le prove (ontologica e cosmologica) sull’esistenza di Dio, prende volutamente in considerazione solo l’aspetto razionale della prova senza tuttavia considerare le fede o la parte più significativa che accompagnava la razionalità, ossia l’amor Dei. Per esempio, a proposito della critica alla prova ontologica di Anselmo, Kant ha ragione nell’analisi critica rivolta all’intelletto che estende erroneamente le sue categorie al di là dell’uso esperienziale,[^40] ma non tiene in debito conto che l’intelletto in Anselmo procede dalla fede: comprendere ciò in cui si crede (fides quaerens intellectum). In verità, esiste un rapporto stretto tra ragione e la luce.40 Come se Kant non avesse voluto tener conto di un fatto incontrovertibile: lo zelo religioso di coloro che con umiltà vogliono comprendere ciò, in cui già credono. Anselmo con la sua prova ontologica del Proslogio e Tommaso con le sue cinque vie della Somma teologica pensavano di dimostrare l’esistenza di Dio con il pensiero anche se in cuor loro già lo sentivano. È vero che Kant fa riferimento, per quanto attiene alla religione, alla disposizione del cuore, ma questo disporsi del cuore è orientato alla legge morale, in questo senso la sua può essere definita una fede tutta laica.

Bisogna oltretutto aggiungere che, razionalmente, la critica alle tre prove stabilisce solo l’impossibilità di dimostrare con certezza l’esistenza di Dio, ma non la sua possibilità e di fatto la filosofia kantiana non afferma e non nega l’esistenza di Dio. La critica alle tre prove testimonia, essenzialmente, l’inconsistenza di qualsivoglia teologia fondata sulla ragione speculativa o sui concetti puri e in fondo è Kant a sostenere che alla base di tutte le prove c’è sempre lo stesso concetto puro e ontologico «A base […] della prova fisico-teologica c’è quella cosmologica, ma a base di questa la prova ontologica dell’esistenza di un Essere originario come Essere supremo» (Critica della ragion pura, cit., vol. II, p. 493).

La riflessione «il reggitore del mondo ci lascia soltanto congetturare e non scorgere o dimostrare chiaramente la sua esistenza e la sua maestà»41 fa pensare che Dio è in rapporto solo alla possibilità, e la postulazione deve essere intesa come l’eterno domandarsi su Dio. È come se Kant avesse apposto alle due tendenze di chi crede e di chi non crede — una terza via (che non coincide come è stato ritenuto da molti critici con l’agnosticismo).

Un’analisi più attenta dovrebbe indurci ad un’altra considerazione: la postulazione potrebbe avere il significato di una richiesta, di una domanda sull’esistenza di Dio, sul regno dei fini; che l’essere virtuoso possa mediarsi con la felicità; tutto ciò dipende dalla coscienza che si progetta, si ‘getta a favore’ della aspettazione. Tale prospettazione è convalidata dall’assunto, estrapolato dalla Critica della ragion pura, secondo un progresso logico che procede dalla «conoscenza di se stesso (dell’anima) alla conoscenza del mondo, e attraverso di questo all’Ente supremo» (Critica della ragion pura, vol. II, cit, p. 315). Questa affermazione avvalora la tesi, secondo cui Kant pensa alla teologia in un rapporto con la ‘soggettività’, che può essere considerata, in via provvisoria, la continuità ideale, il filo conduttore di tutta la sua filosofia; così rispunterebbe l’idea di quel principio fondamentale (soggettività) già, a suo tempo, presente e attiva dalla Prima edizione della Critica della ragion pura del 1781.

Alla base dell’aspettazione c’è la morale (da Kant già introdotta nella stessa Critica della ragion pura), anche se ci sono tutte le ragioni per credere che questa attività ha tutte le caratteristiche di segnarsi nella volontà di trascendere, e già postulare implicherebbe un’autentica volontà, deputata alla trascendenza. La metafisica classica prospettava la trascendenza, ossia si progettava nella domanda cui seguiva una risposta, per la metafisica kantiana la domanda incessante e tormentosa sarebbe la vera legge della coscienza; la teologia, a ragione, converte la domanda in ‘speranza’(che implica sempre la fondamentale disperazione dell’animo umano).

Il riferimento alla morale indica il volere; la volontà che si qualifica come un volere essere, come un porsi a favore di…, quindi come un gettarsi verso, un tendere a, desiderare, un aspirare a… Ma il fondamento di tutto ciò è ‘oscuro’ soprattutto se mi pongo la domanda esplicativa: perché mi devo porre nella direzione di…? In altre parole, perché trascendere in sé e fuor di sé per essere pienamente se stessi e non contentarsi dell’essere nel pieno egoismo? In altri termini perché la trascendenza a posto dell’immanenza del sé?

Il rinnovamento della teologia e la possibilità di Dio sottendono per Kant una disposizione, un’apertura, giacché l’essere che comanda non è fuori dell’uomo, come sostanza distinta dall’uomo. La toccante e profonda riflessione di «[…] un essere in me che, distinto da me, sta su di me […] ed io, l’uomo, sono io stesso quest’essere, ed esso non è, poniamo, una sostanza fuori di me […]»42 è la riprova che l’uomo per essere pienamente se stesso non può non rapportarsi a ciò che è in sé, senza pienamente coincidere con il se stesso (su di me). Per tale aspetto il Dio di Kant si esprime nell’identità (essere in me) e nella distinzione di sé (distinto da me). Chi rifiuta la trascendenza, si pone nella non Apertura (come nell’accezione di Jaspers), nel non voler Trascendersi; si instaura come giustamente ha chiarito Kant, l’amore di sé o amor proprio,43 cioè la tendenza a fare di sé il motivo determinante della volontà (Critica della ragion pratica, cit., p. 92).

La ristrutturazione filosofica kantiana si incentra su un Dio, un uomo e un mondo secondo un ordine che — partendo dalla ragione teoretica (in cui già riaffiora l’aspetto morale), prima con le idee trascendentali (idea di Dio di anima e di mondo) e successivamente con i postulati della ragion pratica (come quelli dell’immortalità, della libertà e dell’esistenza di Dio) e infine con l’Opus postumum di idea-Dio (non più l’idea di Dio)44 — non avrebbe dovuto palesare, svelare dal fondo l’essenza; Kant esplicita solo la tendenza naturale o disposizione perché possa darsi la ‘possibilità’ di cogliere l’Incondizionato prima con le «idee trascendentali della ragione» e successivamente con la ‘supposizione’ attraverso i postulati.

La condizione fondamentale per il filosofare kantiano consiste nella possibilità di superare il concetto di Dio, inteso come sostanza o come ente oggettivamente dato, la cui individuazione oggettivistica invaliderebbe il presupposto della ricerca, in quanto il ‘darsi’ come sostanza oltre ad impedire un’analisi trascendentale si delinea già definito e fissato. Il Dio inteso come ‘oggetto’ o come sostanza (il Dio sostanza) contrasta la possibilità di un’autentica ricerca teologica, che si fonda proprio nel non pre-porre Dio come semplice ente sostanziale. Nella Critica della ragion pura non è l’idea trascendentale di Dio a fondare una nuova teologia e la nuova metafisica, ma la trascendentalità stessa è già per se stessa fondatrice di una nuova teologia e di un’inedita metafisica; solo che Kant si è guardato bene dal precisarne il fondamento.

Per Kant il Cristo-persona è rappresentato da un’idea come «sinonimo dell’incarnazione teologica non in un uomo, che possa diventare oggetto di adorazione, ma nella umanità idealmente intesa ossia al massimo della perfezione morale»45 Kant non concepisce né Dio né Cristo come Persone, in quanto Dio viene concepito secondo una rappresentazione morale e a snaturarsi in Dio morale e Cristo nell’ideale della santa umanità

Bisogna chiedersi, se nonostante queste raffigurazioni soggettivissime, ci siano aspetti e implicazioni inediti e comunque riferibili ad una teologia che non riduca il significato della religiosità a mera rappresentazione morale.

Il motivo per cui Kant rifiuta a più riprese di pensare a Dio in senso ‘oggettivo’ può dipendere dalla considerazione che l’ens summum è un’idea (idea-Dio e non idea di Dio) pura pratica pensata soggettivamente «e nella ragione pratica dell’uomo è pensato soggettivamente in maniera necessaria un Dio, sebbene non sia dato oggettivamente»;46 l’assunto non sia dato oggettivamente non nega Dio come presenza, ma solo la pretesa di vedere Dio come un mero essere fuori di sé, come ente oggettivamente offerentesi senza che possa essere sentito nell’in sé dell’uomo. Dio o meglio l’idea di Dio della Critica della ragion pura (successivamente convertita in idea-Dio nell’Opus postumum) andrebbe concepita secondo una deduzione trascendentale di tipo soggettivo, anziché oggettivo «dimostrate nella loro necessità, non certo riguardo alla validità oggettiva che non hanno, ma riguardo alla loro funzione soggettiva».47

Qual è il senso dell’affermazione per la quale, nell’impostazione kantiana, sembra esserci una serie di implicazioni nascoste che operano segretamente in tutta la filosofia di Kant? (Luporini). Heidegger afferma che Kant «indietreggia di fronte al fondamento»48 a quella radice oscura; forse l’indietreggiare deve significare solo l’impossibilità di definire la questione del fondamento puro secondo il vecchio e obsoleto metodo della metafisica speciale? O l’indietreggiare di Kant sta a significare, paradossalmente, lo scoprimento di un qualcosa, cui non si può attribuire una definizione, un nome, un concetto. Una radice in grado di penetrare dal profondo le «Tre critiche» al fine di scoprire la guida essenziale che legherebbe teoria, pratica e giudizio, una radice in grado di dar voce all’in sé irrappresentabile. La riduzione tutta kantiana della questione religiosa alla valenza etica — ci si chiede — non dipende forse da questa rinuncia? L’aggancio della religione alla morale allora può dipendere da un duplice indietreggiamento: nei confronti del fondamento originario e nei riguardi della deduzione soggettiva, che inspiegabilmente Kant non avrebbe esaurientemente sviluppato.

4. Aspetti filosofici della Teologia minimale

La religione secondo Kant va pensata in rapporto ad una disposizione del cuore. Oltre alla disposizione del cuore, in Kant sono presenti disposizione della mente, dello spirito; la metafisica, per esempio, è una tendenza naturale dello spirito umano. Per tale aspetto, è possibile scorgere una certa analogia tra Kant e Tommaso, in quanto anche per il filosofo di Roccasecca esistono disposizioni naturali (habitus) a comprendere princìpi etici (un habitus naturale d’ordine pratico, per esempio, è la sinderesi che indirizza l’uomo al bene) e speculativi.

La propensione alla trascendenza, impossibile per l’intelletto, diviene possibile per la ragione, cui spetta il privilegio fondante delle tre idee e successivamente la ragione si scopre morale pura. Con la ragione morale Kant intravede, nonostante l’imperversare dello scetticismo, la possibilità dell’Incondizionato.

Per Lucien Goldmann il destino dell’uomo, così come lo intende Kant,, consiste in un «tendere verso l’assoluto […] verso qualcosa di completamente differente dal dato empirico […]»,49 anche se nelle considerazioni successive appare chiara un’idea che caratterizza tutta la sua ricostruzione kantiana, nel senso che «l’adempimento assoluto delle norme etiche è in realtà impossibile all’uomo».50 Se il comandamento per Kant consiste in un’idea dell’Incondizionato, l’attività pragmatica dell’uomo si determina, purtroppo nell’incapacità, nell’impossibilità di poter realmente attuare tutti quei modelli, attinenti al mondo intelligibile, e «dal momento che l’uomo non può tendere, assolutamente verso la santa volontà, (il regno di Dio) […] senza mai poter raggiungerli, la sua esistenza è tragica».51 Tutto il sistema kantiano sembra per Goldmann concludersi nella tragedia nel non poter fare, un non poter sapere, e soprattutto nel non poter sperare. Bisogna, tuttavia stabilire una differenza tra un non può tendere e un non poter raggiungere. Nella Prefazione della Seconda edizione della Critica della ragion pura, Kant fa riferimento all’Incondizionato «che ci spinge a oltrepassare necessariamente i limiti dell’esperienza e di tutti i fenomeni» e tutto ciò è posto come un’esigenza della ragione. Il poter tendere deve sempre poter essere, indipendentemente dalla constatazione di non poter raggiungere (nella nostra vita mondana) il soprasensibile (totalità, sommo bene, ecc.). Oltretutto quando Kant fa riferimento, specie nella Ragion pura pratica, al soprasensibile, vuole intendere il carattere estremamente problematico della natura dell’uomo, in cui è avvertibile l’ansia per l’Incondizionato solo come questione incalzante al di là dell’effettivo raggiungimento.

L’intelletto, trovandosi nell’impossibilità di dilatarsi, pena una ricaduta in una costituzione metafisica falsante e fuorviante, deve poter sospendere qualsivoglia affermazione-negazione nei confronti di tutto ciò che è legato al soprasensibile; la Ragione è chiamata legittimare l’uso di un’idea trascendentale che già per se stessa si definisce come la possibilità del soprasensibile.

Il valore della trascendenza o meglio dell’oltre-passamento dipende dalla possibilità trascendentale, nel senso che la trascendentalità anticipa, ossia è propedeutica alla validità della trascendenza, che è assimilabile all’uso dei «concetti razionali puri»; così con le «idee trascendentali è possibile risalire alla serie delle condizioni fino all’incondizionato, ossia ai principi»,52 invece l’uso dei «concetti intellettuali puri» risponde all’immanenza, perché diretti all’esperienza. Riguardo alle idee trascendentali, Kant esclude che si possa fornire una deduzione trascendentale oggettiva, come era avvenuto per le categorie, in quanto esse non hanno alcuna relazione con un oggetto adeguato:

Di queste idee trascendentali propriamente non è possibile una deduzione oggettiva, come quella che noi potemmo fornire delle categorie. Perché in realtà esse non hanno nessuna relazione con un oggetto qualunque ad esse adeguato, che possa esser dato, appunto perché esse non sono se non idee. Ma una deduzione soggettiva di esse dalla natura della nostra ragione noi potevamo bensì intraprenderla, ed è quella che è stata anche fatta in questo capitolo.53

Ma come è possibile una deduzione soggettiva? «come si può legittimare […] ciò che, per definizione, è ascrivibile al soggettivo?», la risposta si fonda sulla considerazione fondamentale, per la quale l’inattuabilità di una deduzione del tipo di quella delle categorie non deve comportare necessariamente la negazione di una certa validità oggettiva (indeterminata), in quanto una loro deduzione (delle idee trascendentali) deve essere assolutamente possibile e nello svolgimento della deduzione soggettiva e trascendentale, almeno per la Seconda edizione della Critica della ragion pura c’è l’idea di Dio .

Dio non può essere rappresentato come un «ente», tuttavia può essere inteso come un’idea altamente problematica di cui non è possibile conoscere alcunché; non è possibile dimostrare concettualmente l’esistenza, ma nemmeno la non esistenza. La differenza tra la teologia minimale (credo minimo) e quella massimale (credo) dipende dalla considerazione per la quale il credo minimum sospende l’intuizione\intellezione\dimostrazione\fede sull’esistenza di Dio.

C’è in Kant, come ha affermato I. Mancini un credo minimum, incentrato sull’idea-Dio al posto dell’idea di Dio «nel secondo caso si lascerebbe sussistere la convinzione che Dio «sarebbe un oggetto che verrebbe pensato come esistente […] Dio non è un essere fuori di me, ma solo un pensiero in me».54 La teologia minimale non può rispondere in modo esaustivo e definitivo alla domanda-Che cosa posso…? — tuttavia non può non domandare, non può non porsela, eternamente, come problema. Di fatto, Kant non volle rispondere in modo esplicito e dichiarativo. Kant fa riferimento ad un fondamento solo rapsodicamente; non risponde per esempio alle domande fondamentali (1º Che cosa posso sapere? — metafisica; 2º Che cosa devo fare? — morale; 3º Che cosa posso sperare? — religione; Che cos’è l’uomo? — antropologia): alla prima domanda non risponde la metafisica, alla seconda non risponde la morale, alla terza la religione non risponde se non con il suo stesso domandare («pregare») come per la quarta l’uomo non può rispondere senza interrogare nuovamente se stesso.

Sarebbe ragionevole chiedersi se il senso della Metafisica (che per tale aspetto può coincidere con la teologia) non si esplichi proprio in questo incessante interrogar-si.»Kant aveva detto: — Niente si sa […]. E questo mondo, qual è la sua origine? Quale la sua destinazione? Quale il suo perché? Non domandare, mio caro; ché la porta è chiusa».55 Kant rifiuta di aprire la porta (anzi indietreggia), tuttavia invita l’uomo a non rinunciare ad interrogarsi, ponendosi nella dimensione del mistero.

La filosofia del non domandar-si sottende un’impostazione tipica di un pensiero piatto che crede che al silenzio, alla tensione tormentosa occorra far parlare l’ente in se stesso. Quindi alla base delle tre domande, Kant aveva incluso l’uomo (Cos’è l’uomo?), ma al fondamento dell’uomo aveva anteposto la stessa appellazione. Alla base delle tre domande non c’è la risposta offerta da tre discipline, ma la condizione dell’uomo destinato a riproporre la stessa domanda (?). In questo senso la filosofia kantiana non invalida la pro-pensione e la disposizione dell’uomo all’oltrepassamento e l’impossibilità della trascendenza ontologica «non esclude […] la tensione, essa pure trascendente, verso un oltre».56 Il motivo per cui la ragione postula un qualcosa di trascendentale dipende dal fatto che per Kant l’esperienza non soddisfa mai pienamente la ragione. Kant non ha mai fatto esplicito riferimento, ma può sembrare sottinteso che l’appellazione (le tre domande) della ragione sottenda un’inquietudine fondamentale. Il domandare dell’uomo è riferibile al senso dell’essere, in se stesso, concepito come non-detto ed essenzialmente legato all’ambiguità «ogni pensiero, oggetto del pensare autentico, resta per ragioni essenziali, ambiguo» (M. Heidegger, Fenomenologia e teologia). Ritenere con Heidegger l’esistenza di «un pensare e un dire che non ha alcun carattere obiettivante né oggettivante», comporta pensare l’essere, il cui significato è da intendere come «semplice disponibilità […]. Presente presso …: puro far dire la presenza di Dio. In tal dire non è posto né rappresentato niente come oggetto o come obietto»;57 tutto ciò comporta pensare l’essere non necessariamente nel senso oggettivo e soprattutto pensare alla teologia non più nell’accezione scientifica. Una teologia non più assimilabile all’idea di una qualsiasi altra scienza come la chimica, la matematica…, in quanto essa non si occupa di un ente dato (tipica espressione della Methaphysica Specialis che considera Dio, l’uomo e il mondo come enti), ma della dis-posizione umana., votata e destinata a trascendersi nell’A-altro. È possibile una dimostrazione orientata a convalidare l’autonomia morale da un fondamento a-morale, fino al punto di avvalorare la tesi per la quale tutto ciò che Kant chiama morale possa riferirsi ad un qualcosa che vada oltre la questione meramente etica? Le seguenti citazioni fanno pensare ad un ‘qualcosa’ di paradossale, di imperscrutabile, indimostrabile, di cui si ignora la genesi «la realtà oggettiva della legge morale non può essere dimostrata, mediante nessuna deduzione, nonostante ogni sforzo della ragione teoretica, speculativa o nonostante empiricamente; […] e tuttavia essa è stabile per se stessa».58 Tale citazione deve essere confrontata con un’altra, il cui significato va colto nel senso di un qualcosa non-detto, non logicamente dimostrabile e comunque presente:»a questa deduzione invano cercata del principio morale sottentra qualcosa di diverso e affatto paradossale: cioè che essa stessa invece serve come principio della deduzione di una facoltà imperscrutabile, che nessuna esperienza poteva dimostrare, ma che la ragione speculativa […] doveva ammettere almeno come possibile, cioè la facoltà della libertà».59

  1. Alla base delle «tre specie possibili di prove dell’esistenza di Dio per la ragione speculativa» (Critica della ragion pura, vol. II, p. 466), ci sarebbe la stessa ragione (quella speculativa) che «indarno […] spiega le sue ali per levarsi al di sopra del mondo sensibile con la semplice potenza della speculazione» (Critica della ragion pura, cit., vol. II, p. 467). Kant esplicita la via dell’argomento fisico-teologico, di quello cosmologico e infine dell’argomento ontologico. Il taglio metodologico degli argomenti sottendono l’idea fondamentale, secondo cui «tutte le vie […] muovono o dalla esperienza determinata e dalla particolare natura quindi conosciuta del nostro mondo sensibile, e salgono da esso, secondo le leggi della causalità, fino alla causa suprema fuori del mondo; ovvero mettono empiricamente a fondamento soltanto un’esperienza indeterminata, cioè un’esistenza qualunque; o fanno, infine, astrazione da ogni esperienza, e conchiudono affatto a priori da semplici concetti all’esistenza di una causa suprema. Il primo argomento è l’argomento fisico-teologico, il secondo il cosmologico, il terzo l’ontologico. Non ce ne sono, e né anche ce ne possono essere altri» (Critica della ragion pura, cit., vol. II, p. 467).

    Dell’impossibilità di una prova ontologica dell’esistenza di Dio: tale prova, che ha informato buona parte della teologia a cominciare da Anselmo, viene confutata per ciò che attiene alla dimostrazione di Dio come concetto dell’Essere realissimo. Si parte dal presupposto secondo il quale ci sarebbe «un concetto […] in cui il non essere […] del suo oggetto è in se stesso contraddittorio: e questo è il concetto dell’Essere realissimo. Esso ha, voi dite, tutte le realtà, e voi siete in diritto di ammettere come possibile un tal essere […]. Ma fra tutte le realtà è compresa anche l’esistenza; dunque, nel concetto di un possibile c’è l’esistenza. […]. Io rispondo: voi avete già commessa una contraddizione quando, nel concetto d’una cosa che volete pensare unicamente nella sua possibilità, avete introdotto, sia pure sotto occulto nome, il concetto della sua esistenza» (Critica della ragion pura, vol. II, p. 471); la base critica per questo argomento è incentrata sull’errata apposizione tra proposizione analitica e sintetica; un altro argomento della prova ontologica concerne il giudizio di «Dio è onnipotente>> che accoglie «due concetti, che hanno i loro oggetti: Dio e onnipotenza: la parolina “è” non è ancora un predicato, bensì solo ciò che pone il predicato in relazione col soggetto. Ora, se io prendo il soggetto (Dio) con tutti insieme i suoi predicati (ai quali appartiene anche l’onnipotenza), e dico: Dio è, o c’è un Dio, io non affermo un predicato nuovo del concetto di Dio, ma soltanto il soggetto in sé con tutti i suoi predicati» (Critica della ragion pura, cit., vol. II, p. 473). Kant non contesta il concetto di onnipotenza, ma il tentativo di aggiungere qualcosa in più al concetto stesso. Il punto di partenza per tutti gli argomenti della prova ontologica, invece, per Kant deve prospettare una riflessione che «se io mi penso un essere come la Realtà suprema (senza difetto), resta sempre la questione, se esso esista o no» (Critica della ragion pura, cit., vol. II, p. 473). Già a partire dalla critica alla prova ontologica emerge l’utilità, nell’accezione ovviamente morale, della idea dell’Essere supremo che è «un’idea per più rispetti molto utile; ma appunto perciò, essendo semplice idea è affatto incapace di dilatare, soltanto per suo proprio mezzo, la nostra conoscenza rispetto a quello che esiste» (Critica della ragion pura, cit., vol. II, p. 474). La prova ontologica cerca di dimostrare, quindi, l’esistenza di Dio prendendo l’avvio dal concetto di Dio come dell’Essere perfettissimo, cui non può mancare l’attributo della esistenza. La differenza tra cento talleri reali e cento talleri possibili («Cento talleri reali non contengono assolutamente nulla di più di cento talleri possibili […]. Ma rispetto allo stato delle mie finanze nei cento talleri reali c’è più che nel semplice concetto di essi (cioè nella loro possibilità)», Critica della ragion pura, vol. II, p. 472) consiste nel fatto che i primi esistono realmente, mentre i secondi sono nel concetto, che per quanto precisi nel pensiero difettano di realtà. Pertanto, l’esistenza degli oggetti fa parte della sfera della sensibilità e della esperienza possibile, mentre gli «oggetti» del pensiero non rientrano nella conoscenza sensibile, quindi la loro esistenza non è certa, ma essenzialmente problematica, in quanto per tali oggetti di pensiero non è possibile né una conoscenza empirica, né una conoscenza intuitiva e neanche una conoscenza intellettuale. Kant, pur riconoscendo l’importanza della prova ontologica, sottolinea l’impossibilità che la realtà possa scaturire da un’idea.

    Dell’impossibilità di una prova cosmologica dell’esistenza di Dio: l’argomento della prova cosmologica si arroga il vanto di stabilire il suo fondamento sull’esperienza, dandosi «un’aria come fosse diversa dalla prova ontologica» (Critica della ragion pura, cit., vol. II, p. 477), volendo così aggiudicarsi il diritto di una certa scientificità. Questo tipo di prova presenta un utilizzo errato del principio di causalità che, partendo dall’esperienza e dalla contingenza, pretende di elevarsi oltre l’esperienza verso un Essere incausato e necessario. La causalità, invece per Kant, può valere solo nell’ambito dell’esperienza e fuori di questo non ha nessun senso. In sintesi, le illusioni degli argomenti volti a convalidare la prova cosmologica e le accuse rivolte da Kant possono essere così esposte: «Il principio trascendentale di conchiudere dal contingente ad una causa: principio che ha un significato solo nel mondo sensibile, ma fuori di questo non ha nessun senso» (Critica della ragion pura, cit., vol. II, p. 479); «Il principio di conchiudere dalla impossibilità di una serie infinita di cause date l’una sull’altra nel mondo sensibile ad una causa prima, a cui non ci autorizzano i princìpi dell’uso stesso della ragione nell’esperienza, i quali molto meno possono estendere questo principio al di là di essa» (Critica della ragion pura, vol. II, p. 479). Anche per questa prova riaffiora la differenza tra un voler concedere, ammettere «l’esistenza di un Essere di suprema sufficienza come causa di tutti i possibili effetti, per agevolare alla ragione l’unità, cui essa aspira» e il pretendere (pretensione orgogliosa) che «tale Essere esiste necessariamente» (Critica della ragion pura, cit., vol. II, p. 481).

    Dell’impossibilità della prova fisico-teologica: la prova teleologica fa leva sull’ordine, sulla finalità e sulla bellezza del mondo per inoltrarsi ad una Mente suprema e ordinatrice: Dio creatore, perfetto e infinito. Per Kant «questa prova merita d’essere sempre menzionata con rispetto. Essa è più antica, la più chiara e la più adatta alla comune ragione umana» (Critica della ragion pura, cit., vol. II, p. 488). Il ragionamento prende l’avvio «dall’ordine e dalla finalità che si osserva universalmente così nel mondo — come da un concetto del tutto contingente — all’esistenza di una causa che vi sia proporzionata» (Critica della ragion pura, vol. II, p. 491). Gli argomenti principali della prova teleologica possono essere esposti secondo il seguente ordine:

    1. Nel mondo vi è un ordinamento secondo uno scopo determinato, attuato con grande sapienza;
    2. La natura delle diverse cose non avrebbe potuto da se stessa con mezzi così vari fra loro coordinati accordarsi per uno scopo finale determinato, se essi non fossero propriamente scelti e disposti a ciò da un principio razionale ordinatore;
    3. Esiste dunque una causa sublime e saggia (o più cause), che dev’essere la causa del mondo non semplicemente come una natura onnipotente operante ciecamente per la sua produttività, ma come intelligenza per la sua libertà;
    4. L’unità di questa causa si può desumere dall’unità della relazione reciproca delle parti del mondo, come pezzi di un’opera d’arte. (Critica della ragion pura, cit., vol. II, p. 490).

    La prova si arrogherebbe il diritto di fondare, sulla base dell’ordine cosmico, l’esistenza di una causa infinita e perfetta. L’intrinseca filosofia che sorregge la prova fisico-teologica tutt’al più potrebbe «dimostrare un architetto del mondo […] ma non un creatore del mondo» (Critica della ragion pura, cit., vol. II, p. 491).


  1. Critica della Ragion pratica, (traduzione di F. Capra); Laterza, Roma-Milano, 1974 p. 120. ↩︎

  2. E. Weil Problemi kantiani, Quattro venti, Urbino, p. 164. ↩︎

  3. Critica della ragion pratica, cit., p 7. ↩︎

  4. Ibid., p. 37. ↩︎

  5. Critica della ragion pratica, cit., p. 7. È stato M. Heidegger ad approfondire il profondo legame esistente, nella filosofia pura pratica di Kant, tra il carattere finito dell’uomo (finitezza) e la tematica sulla libertà; peraltro è lo stesso Kant a far presente che «Siccome la legge stessa dev’essere il movente in una volontà moralmente buona, così l’interesse morale è un interesse puro e libero dai sensi, della semplice ragion pratica. Sul concetto di un interesse si fonda anche quello di una massima. Questa è dunque veramente morale solo quando si fonda sul semplice interesse che si prende all’osservanza della legge. Ma tutti e tre concetti, quello di un movente, quello di un interesse e quello di una massima, possono essere applicati soltanto ad esseri finiti. Essi infatti suppongono una limitatezza della natura di un essere, in cui la natura soggettiva del suo libero arbitrio non si accorda da sé con la legge oggettiva di una ragion pratica; suppongono un bisogno di essere stimolati in qualche modo alla attività, perché un ostacolo interno si oppone ad essa. Perciò non possono essere applicati alla volontà divina» (Critica della ragion pratica, cit., p. 98). ↩︎

  6. Critica della ragion pratica, cit., p. 98. ↩︎

  7. Ibid., p. 99. ↩︎

  8. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica (trad. di M. E. Reina-Verra), Laterza, Bari 1985, p 139. ↩︎

  9. Critica della ragion pratica, cit., p. 94 ↩︎

  10. «E così la legge del dovere, mediante il valore positivo che l’osservanza di essa ci fa sentire, trova un accesso più facile mediante il rispetto per noi stessi alla coscienza della nostra libertà» (Critica della ragion pratica, cit., p. 192. ↩︎

  11. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 139. ↩︎

  12. Ibid, p. 139. ↩︎

  13. M. Horkheimer — Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1976, p. 124 ↩︎

  14. M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano, 1994, P. 271. ↩︎

  15. M. Horkheimer — Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 125. ↩︎

  16. L. Goldmann, Introduzione a Kant, (Trad. di S. Mantovani e V. Messana), Oscar Studio Mondadori, Milano 1975, p. 141. ↩︎

  17. Lezioni di Etica, Laterza, Bari 1971, p. 102. ↩︎

  18. Ibid, p. 94. ↩︎

  19. E. Levinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano, 1980, p. 24. ↩︎

  20. Ibid, p. 240. ↩︎

  21. Fondazione della metafisica dei costumi, (trad. di P. Chiodi), Bari, Laterza, 1980., p. 39. ↩︎

  22. «Agisci in modo di trattare l’umanità, così nella tua persona come in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo» (Fondazione della metafisica dei costumi, (trad. di P. Chiodi), Bari, Laterza, 1980, p. 61.) ↩︎

  23. K. Jaspers, La mia filosofia, Reprints Einaudi, Torino 1981, p. 31. ↩︎

  24. Kant, nella Dottrina trascendentale del metodo, nel paragrafo titolato «Dell’ideale del Sommo bene come principio determinante del fine ultimo della ragion pura», nell’intento di mediare l’esigenza teoretica alla necessità della ragione pratica, riassume, con la prospettazione di tre domande fondamentali, l’interesse della ragione: «Ogni interesse della mia ragione (così speculativo, come pratico) si concentra nelle tre domande seguenti: 1º Che cosa posso sapere? 2º Che cosa devo fare? 3º Che cosa posso sperare?». ↩︎

  25. K. Jaspers, La mia filosofia, cit., pp. 16, 17. ↩︎

  26. L’appellarsi alla coscienza implica un appello alla volontà che aspira ininterrottamente infinitamente alla perfezione e alla santità «Quella legge di tutte le leggi presenta dunque, come tutti i precetti morali del Vangelo, l’intenzione morale nella sua intera perfezione come un ideale di santità non raggiungibile da nessuna creatura, e che tuttavia è l’esemplare a cui dobbiamo procurare di avvicinarci e diventar pari in un processo ininterrotto, ma infinito» (Critica della ragion pratica, cit., p. 103). ↩︎

  27. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 187. ↩︎

  28. La religione entro i limiti della sola ragione, Biblioteca universale Laterza, Bari, p. 19-25. ↩︎

  29. Ibid., pp. 25-27. ↩︎

  30. Ibid, p. 64. ↩︎

  31. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 224. ↩︎

  32. Differentemente dall’intelletto che opera con concetti al fine di unificare le intuizioni empiriche, la ragione, con le sue idee trascendentali, riveste un’importanza fondamentale, in quanto può ‘oltrepassare’ il fenomenico. L’idea di Dio deve servire da «modello alla perfetta determinazione della copia; e noi non abbiamo altro criterio per giudicare le nostre azioni che la condotta di questo uomo divino in noi, col quale noi possiamo paragonarci, giudicarci, e così migliorarci, quantunque non ci sia possibile mai raggiungerlo. Questi ideali, sebbene non si possa loro attribuire realtà oggettiva (esistenza), non sono perciò da considerare per chimere, anzi offrono un criterio alla ragione, che ha bisogno del concetto di quel che nel suo genere è perfetto, per apprezzare alla sua stregua e misurare il grado e il difetto dell’imperfetto» (Critica della ragion pura, cit., vol. II, p. 453); ↩︎

  33. «L’idea trascendentale di un essere originario necessario universalmente sufficiente è così smisuratamente grande, così sublime al di sopra di ogni essere empirico, sempre condizionato, che da una parte non si può rintracciare mai materia sufficiente nell’esperienza, da riempire un tal concetto, e d’altra parte si brancoli sempre nel condizionato, e si va in cerca perpetuamente indarno dell’incondizionato, di cui nessuna legge di sintesi empirica ci fornisce un esempio o il menomo accenno» (Critica della ragion pura, cit., vol. II, p. 487). ↩︎

  34. «Io affermo che tutti i tentativi di un uso meramente speculativo della ragione rispetto alla teologia sono affatto infecondi e per la loro intima natura nulli e vani; […] e che pertanto, se non si mettono a fondamento o non si prendono a guida leggi morali, non è possibile che ci sia mai una teologia della religione» (Critica della ragion pura, cit., vol. II, p. 497). ↩︎

  35. Critica della ragion pura, vol. II (Trad. di G. Gentile e G. Lombardo Radice), Laterza, Bari 1977, p. 504. ↩︎

  36. P. Martinetti, Kant, Bocca, Milano 1946, p. 344. ↩︎

  37. Critica della ragion pura, cit., vol. II, p. 607. ↩︎

  38. E. Weil Problemi kantiani, Quattro venti, Urbino, p. 44. ↩︎

  39. Quindi il Dio potente appartiene alla fisica, ossia scaturisce dalla dimensione di una certa conoscenza che l’uomo ha del mondo e della sua storicità, legata alla dimensione temporale ed anche esistenziale; l’onnipotenza di Dio apparterrebbe ad un’altra sfera, essenzialmente più pura. Anche l’uomo è comprensibile secondo una duplice appartenenza: da una parte esso fa parte della sfera fisica o fenomenica che lo porta a considerarsi come essere limitato, finito ecc., dall’altra esso appartiene ad una umanità santa↩︎

  40. «Quanta namque est lux illa, de qua micat omne verum quod rationali menti lucet! «(ANSELMO, Proslogion, Bompiani, Milano 2002, p. 338. ↩︎

  41. Critica della ragion pratica, cit, p. 178. ↩︎

  42. «Tutte le inclinazioni insieme […] costituiscono l’egoismo (solipsismus). Questo è, o l’egoismo dell’amor di sé, di una benevolenza verso se stesso (philautia) che supera tutto, o l’egoismo della compiacenza di se stesso (arrogantia). Quello si chiama particolarmente amor proprio, questo presunzione» (Critica della ragion pratica, cit., p. 91). ↩︎

  43. Opus postumum, Biblioteca Universale Laterza, Bari 1984, pp. 350, 351. ↩︎

  44. «L’idea-Dio (non di Dio), perché questo sarebbe un oggetto che verrebbe pensato come esistente» (Opus postumumcit., p. 392. ↩︎

  45. I. Mancini, Kant e la teologia, Cittadella editrice, Assisi 1975, p. 166. ↩︎

  46. Opus postumum, cit., p. 313. ↩︎

  47. A. Masullo, Metafisica, Oscar studio Mondadori, Milano 1980 pp. 204, 205. ↩︎

  48. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 185. ↩︎

  49. L. Goldmann, Introduzione a Kant, (Trad. di S. Mantovani e V. Messana), Oscar Studio Mondadori, Milano 1975, p. 85. ↩︎

  50. Ibid., p. 89. ↩︎

  51. Ibid., p. 180. ↩︎

  52. Critica della ragion pura, cit., vol. II, p. 314. ↩︎

  53. Ibid, p. 314. Rispetto alla questione della «deduzione soggettiva», Kant, secondo Heidegger, avrebbe evitato «di far appello alla propria antropologia […] perché la fondazione medesima, nel corso del suo svolgimento, pone in discussione il modo stesso dell’indagine sull’uomo» (M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica cit. p. 185). Secondo Heidegger Kant indietreggia, nel senso che rifiuta di andare fino in fondo↩︎

  54. I. Mancini, Kant e la teologia, Cittadella editrice, Assisi 1975, pp. 215-217. ↩︎

  55. F. De Santis, Saggi critici (vol. II); Schopenhauer e Leopardi Dialogo tra A e D; Laterza, Bari 1961, 155. ↩︎

  56. I. Mancini, Kant e la teologia, cit., p. 208. ↩︎

  57. M. Heidegger, Fenomenologia e teologia, (a cura di N. M. De Feo), La Nuova Italia, 1974, p. 47. ↩︎

  58. Critica della ragion pratica, cit., p. 59. ↩︎

  59. Ibid., p. 59. ↩︎