Percorsi di comprensione della modernità nella filosofia di Theodor W. Adorno

1. La comprensione della modernità

La filosofia di Adorno esclude la possibilità di un’indagine genetica dell’orizzonte moderno: il divenire non è la chiave del divenuto, perché la modernità ha separato irreversibilmente l’originato dalla propria origine come rapporto di causa ed effetto, di agente e di azione. Non solo quindi non è possibile percorrere a ritroso il tragitto verso la propria origine ma, di più, si diventa qualcuno e qualcosa, si diventa adulti, solo mediante quest’uscita irreversibile.

Ciononostante, resta un bisogno di comprensione. L’impressione che si ricava dalla filosofia di Adorno è che la difficoltà in cui oggi il pensiero si trova — la situazione di sostanziale immobilismo nel quale sembra preclusa al pensiero qualsiasi via d’uscita — sia da collegare all’impossibilità di individuare le concatenazioni virtuali che hanno prodotto la nostra storia. Qualsiasi progetto di ricostruzione del passato si arresta a una fase storica, che può indicarsi nel periodo che ruota intorno alla Rivoluzione francese, la quale perciò acquista il carattere di evento che ha segnato l’avvento della modernità.

Il pensiero adorniano non approfondisce tanto il senso o i molteplici significati di questo avvenimento, preferendo soffermarsi piuttosto sulla sua inquietante e controversa espressione: non vi è pretesa alcuna di sciogliere i suoi nodi irrisolti entro una più vasta significatività. Non v’è nemmeno lo sforzo per una pacificazione del pensiero con la realtà perché, al contrario, si tratta di «tenere aperta la ferita»: «Gli scritti di Kafka, mentre con la lampante impossibilità empirica del narrato ferivano l’intesa dei lettori di romanzi, divennero comprensibili a tutti proprio in virtù di tale ferimento».1 È il resistere di arte e filosofia al passaggio comunicativo, per una comprensione che si nutre proprio di quel ferimento. Qui sembrano trovare collocazione tutte le filosofie della modernità, eloquenti, loro malgrado, proprio nelle ferite esposte del loro pensiero.

In modo ancora più radicale, ferire l’intesa sembra esser stato il biglietto da visita con cui la modernità ha fatto la sua apparizione, lacerando l’apparente continuità di pensiero e realtà, nella quale fino ad allora aveva trovato dimora la filosofia. Il segno della frattura sembra con ciò sottrarsi all’esito di un’ermeneutica di derivazione heideggeriana, per la quale l’incomunicabilità non è mai assoluta, ma funzionale all’apertura a un senso trascendente e comprensivo di quella conflittualità interpretativa.

Lasciando il passato, dimentichiamo ciò che abbiamo lasciato. Solo successivamente il soggetto, posto di fronte alla negatività del presente a cui egli, malgré lui-même, ha dato vita, agogna ritornare a un passato ormai inesistente, ch’egli s’illude di continuare a possedere magari come materiale documentario, ma di cui non conosce più il codice necessario per decifrarlo nel suo significato, alla fine addirittura incerto circa l’esistenza stessa di un significato. La fine della storia segna l’impossibilità di ricongiungersi con un passato che tuttavia continua a segnarci. Impossibilità di dire lo scarto della modernità — poiché dirlo significherebbe svuotarlo di senso — e riconoscimento di un impossibile distacco da questo scarto costitutivo della condizione di ogni pensabilità: questi sono i termini entro cui poter comprendere l’intima contraddizione che segna le filosofie nel tempo della modernità.

La posizione di Adorno circa la modernità si ricava dalle sue amare riflessioni intorno alla situazione presente; dolorose meditazioni su una condizione moderna fragile e vulnerabile, sulla «vita offesa», come recita il sottotitolo di Minima moralia. Non v’è alcun intento storiografico-filologico, quanto l’urgenza di rispondere a una richiesta di leggibilità che proviene dalla stessa realtà, dai suoi punti irrisolti nei quali Adorno trova conferma di un’avvenuta interruzione. Ad esempio, l’incapacità ad addebitare a ognuno le sue responsabilità rende evidente che il nesso causale che collegava l’azione all’agente è saltato, mentre prevale un anonimato generalizzato. Il nesso causale ha fatto cortocircuito: è come se la possibilità d’individuare oggi un chi per ogni azione sia stata soppressa proprio a partire da una risposta mancata, dal silenzio che ha fatto séguito a una domanda sulla responsabilità di un evento, imponendo uno scarto tra l’avvenimento e il suo possibile significato, nell’atto stesso del loro verificarsi.

Lo scarto attuato dalla modernità non si fa colmare, riempire di senso, così come un salto che non si fa raccontare e di cui non poter fare tesoro. Probabilmente non è stata posta alcuna domanda e nessun silenzio ha fatto da risposta, ma è stato quasi come se la domanda e il silenzio combaciassero e si placassero l’un l’altra, cancellando da allora la legittimità stessa di un vero domandare e la capacità di uno schietto rispondere. Non si può tornare all’origine proprio a causa di quello strappo definitivo, che si sottrae all’interrogazione secondo lo schema della domanda e della risposta. Sembra esserci stata un’omissione che, da allora, si perpetua nelle domande mai poste e nelle risposte mancate e il cui sortilegio potrebbe forse svanire se solo giungessero alle nostre orecchie i racconti di come sarebbero andate le cose. Si tratta solo di racconti per una comprensione possibile, essendo preclusa l’eventualità di attingere alla realtà di quei fatti e quindi di pervenire a una spiegazione necessitante.

Non ci si può quindi impedire di andare con la mente a ciò che l’evento secolaristico ha provocato. Esso sembra configurarsi, in certo qual modo, come origine del tempo in cui siamo: origine, certo, originata, risultato di un processo storico, ma pur sempre luogo in cui si sono trovati, potenzialmente e in fase germinale, i sottili fili che avrebbero poi composto o ingarbugliato la trama dell’oggi. L’intrinseco nesso di storia e ontologia impedisce di esaurire la riflessione sulla modernità in un’indagine puramente storiografica, ma l’elemento storico legittima un’interrogazione a cui invece potrebbe sottrarsi un Essere che fosse totalmente e assolutamente puro.

2. Il rapporto con il passato

La riflessione sulla modernità esige un confronto con il proprio passato, perché è a un irrisolto rapporto con il passato che conducono le assenze e i punti ciechi del presente. Il pensiero critico non può distrarsi da ciò che è, nella lucida consapevolezza dell’impossibile conquista di un privilegiato punto di osservazione superiore: da qui non si esce.2 Il passato si può realizzare solo dando compimento all’ora, «saturo della forza dello ieri, che perciò non ha bisogno di idolatrare»,3 nella convinzione che solo a un presente infine conciliato sarà restituita la propria storia.4

Adorno affronta la questione del rapporto con il passato già a partire dall’interpretazione del XII canto dell’Odissea. Le Sirene rappresentano la tentazione di perdersi nel passato. Infatti, esse «sanno tutto ciò che accadde sulla terra che tutto nutre» (XII, 191), ma «chiedono in cambio il futuro».5 L’eroe supera la prova e ottiene di «liberare l’attimo presente dalla potenza del passato, ricacciando quest’ultimo dietro il confine assoluto dell’irrecuperabile … , a disposizione dell’ora» (DI 49-50; it. 40-41). Il passato è perduto: quest’atto, pur nell’apparenza del suo gesto, non è privo di conseguenze per le cose confinate, le quali, se tornano, tornano deformate. L’evento moderno ha quindi inteso mettere il passato a disposizione del presente, condannandolo a ritornare, ma — e in ciò consiste la dannazione per il presente stesso — a ritornare nella forma di ciò che perseguita il presente come lo spettro di chi è stato soppresso ingiustamente e a cui è stata negata qualsiasi grazia, anche quella pietosa di essere ricordato. Nella durezza che il presente ha riservato per ciò che fu, può leggersi il motivo per il quale il passato è senza grazia per l’oggi. Il passato non ha alcuna delicatezza per il presente, ma solo presagi funesti per il suo futuro: non ascoltandoli, il presente vi si imbatte. «Resta a disposizione», sembra dire il presente al passato, che però non può far coesistere i termini di quella richiesta: l’unico passato a disposizione non è quello che resta, ma quello che passa, senza insegnare nulla. E il passato che resta è solo quello che non si mette a disposizione del presente e che non si dà a suo uso e consumo. Questa inutilità del passato è l’inutilità stessa dell’arte e della filosofia, delle quali il passato costituisce l’orizzonte proprio.

L’uscita dal passato mitico, che segna la nascita della modernità, è un’uscita irreversibile, che ha in sé qualcosa di disperante, «non perché le cose non potrebbero andare meglio domani, ma perché trascina con sé il passato nel suo abisso».6 L’interruzione che segna la modernità si avvicina, proprio per il suo carattere irreversibile, alla non-esperienza della morte: mentre l’idea della morte proietta un’ombra d’irreversibilità sull’esistenza umana ancora nel tempo del suo svolgimento, e quindi in anticipo sulla sua fine, oscurando il suo futuro e facendo crescere la consapevolezza che si tratta di un percorso che non sarà più ripercorribile al di là di quel limite invalicabile, la fine che prende forma con l’evento della modernità segna drammaticamente il non-ritorno del tracciato che, lasciando il passato, si arresta in un rapporto irrisolto che non potrà trovare consolazione e indennizzo facendo le cose per bene da adesso in poi.

Al contrario di Ulisse, che resiste alle Sirene e si salva, il pensiero, che riflette sull’interruzione della modernità, si slega dagli appigli che potrebbero tenere salda la sua posizione di spettatore e garantirgli la sopravvivenza. È un pensiero che affronta la paura della propria morte, senza per questo travestire quest’ultima con le vesti di un’assoluta Positività. La morte è sempre un evento doloroso per l’esistente, che vi annusa l’ultimo fiato della sua finitezza. Per questo, ad essa non si può cedere anzitempo e non si può fare della sua interruzione la sua stessa soluzione. La morte ha le stesse lunghe ciglia di una Sirena. E certo è stato possibile credere di poter colmare lo scarto, di poter aderire a sé senza residui, rivolgendo il pensiero stesso alla morte, nella speranza di trovare almeno in essa un’ininterrotta continuità.

Le Sirene sanno tutto ciò che accadde sulla terra, ma chiedono in cambio il futuro. La sirena morte, di cui attrae la possibilità ch’essa ci prospetta di una perfetta lucidità e di un definitivo oblío, ci attende e sembra sorridere con una smorfia: «Io so chi sei. Ma in cambio voglio la tua vita», sembra dire la sirena. Ma, e se la morte, ottenuto l’abbandono, rispondesse al corpo esanime: «Tu sei … ciò che muore», quale disperazione colmerà la delusione per la vuota tautologia cui dà accesso la morte agognata? Il pensiero può farsi sedurre dal paradosso di raggiungere il chi sono attraverso l’assoluta inconsapevolezza: nella morte, finalmente presenti a se stessi, forse perché assenti da tutto il resto, o forse perché presenti in un’alterità assoluta, assolutamente placati perché radicalmente espropriati di sé. «Essi cercano nell’aldilà quello che hanno perduto in questo mondo, e vi trovano solo il proprio nulla» (MM 274, it. 296), che essi scambiano con l’essere più proprio: «Sull’aspetto più scontato e banale del rapporto tra Esserci e morte, sulla loro semplice non-identità; cioè sul fatto che la morte distrugge l’Esserci o che, più esattamente, lo nega — su ciò l’analisi dell’Esserci glissa».7 La sirena morte sa tutto ciò che accadde perché arriva alla fine, ma chiede in cambio il futuro, perché soffoca il tempo della possibilità, o meglio, la possibilità del tempo e, con ciò, la verità che si dà nel tempo. Questo fa anche capire perché non si possa trasformare la cesura della modernità in un nuovo assoluto.

Alla tentazione di perdersi nel passato, Adorno contrappone il fatto che «il senso soggettivamente consolatorio dell’autoannientamento rimane oggettivamente sconfortante» (GA 522, it. 112). Il pensiero va a Heidegger che forse, proprio in quanto consapevole dello stato di sofferenza e di disagio dell’esistenza nel tempo della modernità, propone, da fedele discepolo di Ulisse, di sottrarsi alla realtà in crisi, facendo direttamente e senza mediazioni di ogni negativo un positivo: questo il suo progetto di salvazione che, non potendo restituire la vita, fa della morte l’unica liberazione. Ma questa soluzione chiude troppo in fretta gli spazi più fragili dell’esistenza, coprendoli e soffocandoli con il primato del loro senso. Egli non si pone dal punto di vista dell’assoluto, ma fa del proprio punto di vista finito l’assoluto, annientandolo: «Davanti alla filosofia heideggeriana si chiuse ciò che una volta costituiva l’ingresso alla vita eterna; essa adora invece di questa l’imponenza e l’ampiezza del portone» (GA 521; it. 111-112).

Noi non sappiamo più ciò che accadde. È impossibile recuperare quel buco nero che costituisce l’origine della modernità. Ulisse resiste alle Sirene ma, oltre alla grandezza del gesto che misura il suo coraggio, la sua resistenza nasconde la furbizia di chi si è fatto due conti e ha capito che in realtà non gli è di alcuna utilità sapere cosa accadde sulla terra. L’eroe moderno è scaltro e realista, e da subito, con il suo comportamento accorto, dimostra la radicalità della cesura a cui egli stesso ha dato vita: inseguire il passato o accettare di stare presso quella ferita aperta del reale significherebbe per l’Ulisse borghese vanificare il presente e perdere il futuro. Quindi è meglio per lui limitarsi e lavorare al proprio orticello. Questa la reazione del nuovo soggetto moderno.8

3. Il passato nel presente

Ciò che spinge ad affrontare il problema del rapporto con il passato è proprio la non completa realizzazione del presente. Viene così confermata l’impostazione critica adorniana rispetto alla questione dell’origine: il ripercorrimento genetico si rivela inadeguato alla situazione in cui di fatto ci troviamo, giacché la sopravanza nel risultato ideale della mente. A sollecitare una riflessione è piuttosto il divenuto, ciò che è di fatto, che spesso rappresenta l’esito opposto alle premesse che l’hanno principiato. Nel divenuto e in ciò che si dà impropriamente come compiuto, l’attenzione deve dirigersi a ciò che si presenta irrisolto e lacunoso: il non è di ciò che è. Il pensiero di Adorno si sofferma su quella negatività, che non si fa ricondurre a un semplice significato di nullità di esistenza, ma che sperimentiamo come mancanza di essere, come termine di una relazione complessa con l’essere che apre a uno scenario di conflittualità in cui la positività potenziale dell’esperienza reale si trova impedita nella sua realizzazione, in contrasto con ciò che diminuisce la sua capacità di potere e di voler essere.

La consapevolezza di un legame con una realtà ormai trascorsa, ma non risolta, rinforza l’esigenza propriamente moderna di affrontare la questione del passato. Non si tratta tanto di un ripensamento, quanto di ciò che sarebbe forse più opportuno chiamare pensamento primo, poiché non riprende un nodo problematico già affrontato dalla riflessione: il “ciò che è stato” si pone oggi come problema, proprio a partire dall’assurda contemporaneità a cui ci costringe la modernità,9 nel momento in cui il presente non è più capace di prodursi come passato del proprio futuro, e quindi di costituirsi a patrimonio di se stesso. Il presente semplicemente passa, scivola via senza riuscire ad accumulare le sue molteplici esperienze. L’evento storico della guerra è già quasi dimenticato, mentre sono ancora in vita coloro che vi hanno partecipato: «Questa guerra non possiede continuità, storia, l’elemento “epico”, ma in certo qual modo ricomincia da capo a ogni fase, così non lascia dietro di sé un ricordo resistente» (MM 60, it. 54). Una trascrizione teoretica di una stessa discontinuità sembra trovarsi anche nel carattere intermittente della dialettica kierkegaardiana: «Con ogni sfera la dialettica ricomincia di nuovo: la sua continuità è interrotta».10 Di tale intima discontinuità si trova una versione anche nello stile benjaminiano: «Anche il libro più ampio che di lui ci resta, le Origini del dramma barocco tedesco, nonostante l’accuratissima architettura delle linee generali, è costruito in modo che ognuna delle sezioni, fittamente intessuta e internamente priva di interruzioni, per così dire riprenda fiato e ricominci da capo invece di sfociare nella successiva, come vorrebbe lo schema del decorso continuativo del pensiero».11

La sensazione è che il presente si sia ridotto a un punto adimensionale, realtà assolutamente incapace di durata e quindi di qualcosa di durevole in grado di affrontare le insidie del tempo. Mentre con Cartesio «il pensiero borghese, non ancora pienamente autonomo, cerca di riprodurre da solo il cosmo cristiano: al suo inizio lo spirito borghese abita le rovine di quello feudale», nella fenomenologia «il pensiero borghese al tramonto si capovolge in determinazioni dissociate, poste frammentariamente l’una accanto all’altra … . Se la fenomenologia tenta infine di restaurare la totalità e di “risvegliarla” dalle rovine … , il suo spazio si rivela ben presto ridotto al solo punto dell’Eidos ego»:12 mentre in Cartesio la certezza puntuale dell’ego nutriva la volontà di costruire il cosmo, in Husserl essa è la dimostrazione dell’impossibilità di quel progetto.

Paradossalmente, il passato che ci è rimasto in eredità da pensare non è il nostro, il passato a cui hanno dato vita i nostri nonni, le generazioni anziane ancora viventi. Il passato che fa problema è quello in cui si trova ancora implicato il nostro presente, come tempo della modernità. È come se il tempo si fosse fermato in quel gesto inaugurale. Il passato è perciò un’opera incompiuta, la cui brusca interruzione, pari all’improvvisa morte sopraggiunta a spezzare la vita dell’autore, impedisce di “metterci le mani”. È un’incompiutezza dovuta a un’interruzione sopraggiunta dall’esterno, come la morte da cui fuggono e si nascondono le bestie. Qualcosa rende inassimilabile questo passato in una Storia, nella quale valga il principio secondo cui «ciò che è stato compiuto e realizzato può essere tranquillamente dimenticato ed essere tuttavia custodito nel presente» (MM 102, it. 102).13 Si può conservare solo ciò che è morto, innocuo per l’ordine esistente, cosalità disponibile, rispetto a cui il presente ha potuto attuare un’opera d’impossessamento: il poter fare incetta di reperti e testimonianze del passato ha dispensato dal compito di riflettere su ciò che è stato o non è stato fatto, affinché ciò non fosse o fosse altrimenti, e tradisce la tentazione di «ricominciare da un immaginario punto zero» che, secondo Adorno, «è la maschera dello sforzo di dimenticare».14 Contro questo tentativo, Adorno oppone al «punto zero», che i moderni spacciano per un nuovo cominciamento ricco di promesse, un punto azzerato che porta in sé il peso della sua negatività. Il carattere astorico di certa filosofia contemporanea sembra allora scaturire più dalla paura d’incontrare i fantasmi del passato, che dall’assoluta libertà di un pensiero sottratto a ogni tradizione e a qualsiasi obbligo di successione.

Il passato è irrimediabilmente dimenticato e il dimenticato non può essere restituito alla memoria. Ma non si può rinunciare a comprendere in qualche modo ciò che è dimenticato come dimenticato; l’inespresso che esplode altrimenti: «Spesso ciò che è stato rifiutato, senza essere stato storicamente assorbito, libera più tardi il proprio contenuto di verità» (DN 147, it. 129). Ciò che è stato escluso resta a limitare il potere che pensava di liberarsene per raggiungere la propria assolutezza. Ma si tratta di una forza di esclusione minacciata dal paradosso, perché è una potenza macchiata dalla debolezza di aver dovuto eliminare ciò da cui vedeva messo in pericolo il proprio costituirsi in totalità. I presunti avversari vengono esclusi, ma ne viene inglobata la minaccia, che ricorda che il progetto non si è compiuto. Ciò che è stato mancato sta lì e guarda la farsa di una vuota realizzazione. E chi è guardato, o si crede guardato, alza gli occhi. La presenza muta di ciò che non è spinge il pensiero a sollevare lo sguardo e a ripensare al rapporto irrisolto con quella realtà in attesa.

Certamente, non tutto il passato ha i contorni di ciò che chiede di essere salvato. Ciò che attende giustizia si presenta nella forma di ciò che, nel passato, aspettava un compimento dal suo presente, quel compimento per il quale forse gli uomini hanno inteso realizzare il progetto rivoluzionario che, invece, ha disatteso le sue promesse, inaugurando una storia che ha spazzato via il passato come vecchio: «Invecchiato è solo ciò che è fallito, la promessa inadempiuta del nuovo che non si è realizzato» (MM 102, it. 102). E questo non può essere ricordato ma nemmeno dimenticato, perché non è custodito e rischia sempre di perdersi. Allora forse dev’essere ricordato come dimenticato.15 Contro una cultura del progresso, orientata ostinatamente al futuro, anche nella forma ammirevole della responsabilità per le generazioni a venire, Adorno sembra calamitare il peso del presente verso la fragilità degli sguardi muti e in attesa delle generazioni passate, che non posseggono più la forza del riscatto, lo slancio del divenire, la speranza dell’essere altrimenti.

Non si torna al passato, auspicandone una rinnovata restaurazione che scavalchi quel séguito storico che ne ha segnato l’allontanamento. L’attenzione va allora al presente, perché nel «suo modo di manifestarsi nelle cose è il senso di vergogna e di umiliazione che prende chi è venuto dopo di fronte alla possibilità anteriore che ha mancato di aiutare a nascere, a venire alla luce» (MM 102, it. 102). Nella profonda consapevolezza dell’impossibilità d’impadronirsi di un’immagine autentica di ciò che fu, prende forma il compito che il pensiero è chiamato ad assolvere rispetto al passato: «Non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze» (DI 15, it. 7). Le speranze che provengono dal passato appartengono alla storia dei vinti, in cui è custodito senza protezione quel nucleo di sofferenza in cui Adorno scorge il cuore pulsante dell’umanità.

4. Giudizio sull’incompiutezza della modernità: principio e movimento

L’esito incompiuto della modernità equivale al fallimento del progetto di liberazione che prevedeva l’emancipazione degli uomini e una nuova formazione del mondo. Gli uomini si ritrovano schiavi di quella libertà che era stata annunciata come la loro; si riduce conseguentemente il profilo del mondo: «La lamentata deformazione del mondo … , è frutto … non dell’emancipazione del soggetto bensì del suo fallimento» (DN 101, it. 84). Del progetto moderno è andata delusa la fiducia in un progresso indefinito. È tramontato il sogno di un trionfo indiscusso della ragione in grado di ricuperare tutto in sé. Di nuovo, la conseguenza nega il suo presupposto; il movimento rovescia il principio che l’aveva guidato.

Un’analisi, che dall’incompiutezza del progetto moderno voglia ricavare un giudizio globale sulla modernità, può giungere a esiti totalmente opposti, a seconda della concezione della modernità in essa presupposta. Attraverso la lettura che ne fornisce Adorno, si possono rintracciare due principali figure del processo moderno, in grado di orientare diversamente il suo esame critico: la modernità può essere giudicata secondo il suo principio oppure considerando il suo movimento. Nell’esame della modernità secondo il principio, di cui abbiamo traccia in tutte le filosofie del fondamento, l’evento secolaristico s’inserisce in un orizzonte caratterizzato da un’insuperabile continuità di sviluppo: per questo, la secolarizzazione si propone l’appropriazione degli attributi propri del contenuto secolarizzato e può essere intesa come una secolarizzazione per sovrapposizione. In modo differente, l’uscita dall’origine, che contraddistingue la concezione attenta al movimento della secolarizzazione, ne valorizza il significato di sostanziale frattura con il principio, sostanziando l’ipotesi di una secolarizzazione per cesura.

Il giudizio sulla modernità può, quindi, variare a seconda che ad esso sia premessa una concezione della modernità secondo il paradigma della continuità, per la quale la modernità è da intendere come diretta conseguenza del proprio principio originario, oppure una concezione che ponga al centro il suo carattere discontinuo, come movimento di uscita dalla propria origine. Si tratta, in entrambe le prospettive, di schemi dinamici, ma il movimento di uscita si distingue dal semplice divenire, proprio sulla base del rapporto con il principio. Mentre, infatti, il divenire sembra discendere direttamente dal suo principio, risultando un processo finalizzato a un risultato, orientato teleologicamente a un esito prestabilito, nell’uscita non si registrano direzioni nelle quali rintracciare una nascosta intenzionalità: è un movimento non orientato a riferimenti eteronomi che sfugge quindi a qualsiasi previsione, tanto che può arrivare a contraddire il suo stesso principio. Per questo, il divenire non risulta significativo per una comprensione della modernità. Il divenire non è la chiave del divenuto. L’attenzione va, quindi, al movimento. Dalla Rivoluzione francese a oggi è possibile dire che non vi sia stato divenire, quanto un movimento legato a filo doppio al suo principio: la relazione prevede una tensione, che nasce dalla frattura fra origine e originato, ma che esclude una separazione tale da eliminare, nella sua assolutezza, ogni tensione. La possibilità di una corretta interpretazione della modernità sta proprio nel far lavorare la sinergia fra principio e movimento, poiché solo così il discorso riesce a mantenere un tenue filo con quell’oscurità in cui si muovono le ombre di ciò che è stato negato per il massimo fulgore del presente.

Allora, come giudicare l’incompiutezza della modernità? Schematicamente, l’impressione che si ricava dalle riflessioni di Adorno è che, se la modernità viene intesa come diretta conseguenza di un principio, essa fallisce su tutti i fronti; l’emancipazione parziale equivale alla totale non-emancipazione. Ma se all’idea o alle idee che hanno principiato la modernità si accosta il movimento che la costituisce, cambia allora l’impostazione della questione, a partire anzitutto dal bisogno di annullare le pretese di completezza e di continuità. Il divenuto è ciò di cui unicamente disponiamo, nel cui movimento viene letta la possibilità di uno svolgimento ulteriore e interiore al progetto della modernità, sopravvissuto ai suoi esiti e alle sue affermazioni di principio. Adorno sembra voler restare nell’ambivalenza che deriva dalla compresenza delle diverse prospettive, parimenti reali: la secolarizzazione per sovrapposizione coincide con la dialettica dell’illuminismo, di cui la modernità come cesura costituisce il non-pensato.

5. Le ragioni del fallimento contro la logica del successo

Il pensiero che insiste sul divenuto non si confonde con la logica pragmatistica per la quale vale solo ciò che ha successo e che, a un profilo ancora più basso, fa coincidere il successo con la semplice sussistenza di ciò che c’è. Non è il diventare reale di un principio, il suo risultare effettivo, a dettare la sua giustezza. Ma nemmeno l’opposto è valido: un principio ingiusto non ricava un valore dal fallimento della sua realizzazione. La logica adorniana riconosce invero un valore a ciò che ha fallito. Ma la natura contestuale della sua difesa impedisce che il fallimento diventi, di per sé, ragione di positività, perché altrimenti ricadrebbe, anche se all’inverso, nello stesso procedimento pragmatistico che, proprio per aderire ai fatti, ricorre ai principi del successo o del fallimento, di fatto anteposti all’esperienza reale (flessione sottile di quel pensiero di sorvolo che, o per troppa umiltà o per troppa presunzione, non si trova mai sulla giusta lunghezza d’onda per mettersi in contatto con la realtà). Il giudizio sulla mancata realizzazione del progetto moderno deve farsi guidare dai punti ciechi, dalle caselle vuote del mosaico che compone la realtà. Solo nella volontà di sostare tenacemente presso le dimensioni irrisolte dell’esperienza, nei tratti giudicati fallimentari dall’ordine vigente, il pensiero critico può giungere a individuare la forza dirompente capace d’infrangere l’immagine di successo, attraverso la quale la società nasconde la violenza dominante.

Adorno sottoscrive un giudizio di parziale insuccesso del progetto della modernità: «All’ombra dell’incompletezza della propria emancipazione la coscienza borghese deve temere di venir annullata da una più avanzata» (DN 32, it. 20). La modernità appartiene all’emancipazione borghese che, di fronte al suo parziale compimento, vede come una minaccia la possibilità di un’ulteriore emancipazione, proprio perché, essendosi attuata secondo lo schema della costituzione per esclusione, teme di perdere i diritti acquisiti. Adorno parla qui di emancipazione al plurale e in perenne antagonismo con se stessa nelle sue molteplici forme. Ma questo non smentisce, come sembrerebbe, il carattere esemplarmente unico della modernità. Piuttosto ne testimonia il carattere ambiguo che le deriva dalla compresenza di una concezione della modernità come cesura e di un’idea di crescente emancipazione del pensiero in costante progresso. Quest’ultima idea cammina di pari passo con il processo di graduale occultamento della frattura che intercorre fra pensiero e realtà, rispetto al quale la modernità rappresenta semmai un punto d’arresto e di svelamento della frattura stessa.

Se gli esiti controversi della modernità vengono fatti dipendere dal fallimento di uno o più principi, non è difficile immaginare la difesa del principio anche contro l’evidenza del suo fallimento, a cui corrisponde un diffuso rancore contro la realtà che non ha permesso quell’adempimento ideale. È questa la reazione borghese alla mancata emancipazione. Arroccato sulle proprie posizioni, il borghese spaccia le proprie lacune come mali minori rispetto al generalizzato benessere a cui egli ha pur dato vita grazie al suo spirito di abnegazione. Il soggetto moderno, che difende il primato del principio, resta in aperto anche se diplomatico contrasto con la realtà. È lo stesso «disprezzo verso se stesso di un padre condannato alla non-libertà e mutilato, che non concede a suo figlio di diventare migliore e più felice della ignominia ereditata» (MG 46, it. 47). L’emancipazione fallita tramanda solo il suo fallimento, gelosa di emancipazioni possibili. Chi non accetta la propria mutilazione può arrivare a odiare l’integrità, come la donna sterile nei confronti della puerpera. È l’invidia dei padri nei confronti dei figli, sentimento vendicativo che, negativamente, non si sottrae a una mentalità retributiva, propria della non-gratuità borghese: se abbiamo fallito noi, allora solo il fallimento è degno di nota e di considerazione.

Fuor di metafora, a questo processo sembrano farsi ricondurre le filosofie che, perseguendo il mito della purezza, sono affondate nella complessità impura del reale. Ad esse continua a sfuggire la realtà del mondo e scambiano il fallimento con la prova di uno stato imperante di reificazione, a cui si sottomettono come a un nuovo sovrano. Le filosofie dei principi assoluti seguono sempre, per principio, ciò che è assoluto, indipendentemente dal suo contenuto. E quindi hanno in odio tutto ciò che vuole sottrarsi al dominio vigente. Il colpevole odia l’innocente, che rende più cocente la sua colpa. Il processo d’identificazione, che ha fallito nella costituzione di un ordine omogeneo di senso, cerca ora di rimediare al suo fallimento, procedendo a un’unificazione secondo il principio opposto. L’origine scartata torna, con il suo mitico potere di unificazione, e si fa condanna del molteplice.

Paradossalmente, la modernità fallisce, ma ricopre il fallimento con le sembianze del successo. La mancata emancipazione viene preparata e servita per essere consumata come realizzazione, così come ha fatto la filosofia che, dall’origine dell’umanità, ha occultato la frattura che condanna il pensiero al distacco dal reale. La filosofia di Adorno — come la modernità per cesura rispetto alla storia passata del pensiero — lavora per lo svelamento del fallimento negato. In questo senso, il fallimento diventa il luogo da interrogare, perché rivelativo della realtà. Nei punti fallimentari delle maggiori filosofie della modernità traspare la vulnerabilità del reale stesso, a cui esse hanno cercato invano di supplire. Nei punti fragili del pensiero, nelle sue incongruenze, parla la debolezza della realtà che quel pensiero voleva affondare nella forza del suo sistema. Vi sono fallimenti più eloquenti della coerenza assoluta e rigorosa di un pensiero senza ombre. In essi, la realtà prende la parola e rivela la buona fede di quel pensiero, la sua intenzione di essere ad essa fedele. La speranza del pensiero è di raccontare alla realtà dispersa la sua storia, e raccontando far sì ch’essa se ne riappropri. Questa è la condizione normale di perenne decentramento al di là di sé in cui si trova ad operare la filosofia. Che però può finire anche in una sostanziale falsità, là dove essa pretenda dalla realtà più di quanto non sia, procurandosi perciò nel pensiero ciò che ad essa manca: «Falsità della giustificazione hegeliana dell’essente … , in contrasto con l’esperienza della realtà» (TS 322-323; it. 128). Fedeltà e tradimento sottilmente si sfiorano.

In base ai requisiti del mondo, l’impresa fallita può essere dimenticata, per non ricordare che a farla fallire è stata proprio la sua logica imperante. Contro i tentativi di relegare la modernità in un’ormai inoffensiva storia passata, Adorno recupera il concetto di anacronismo: «l’anacronismo diventa il rifugio della modernità» (MM 250, it. 268). Con la consapevolezza del fallimento che la segna, con la sua forma giudicata arretrata, la modernità va contro alla logica imperante del successo, contro il richiamo del mondo ad «essere all’altezza dei tempi» (MM 246, it. 263). La filosofia, sensibile a ciò che è stato colpito da un verdetto di condanna, sceglie anch’essa di occupare un posto d’osservazione arretrato e di essere scarto, residuo, resto inutile. La conoscenza si rivolge a ciò che sfugge alla dialettica di vittoria e disfatta e, strappando l’apparente realizzazione del tempo presente, offre un rifugio alle vittime del progresso. «E a chi teme di restare … dietro lo spirito del tempo, e di venire gettato nell’immondezzaio della soggettività scartata e fuori uso, bisogna ricordare che ciò che è attuale, aggiornato e sulla cresta dell’onda e ciò che è progredito e avanzato nella sostanza non sono più, ormai, la stessa cosa» (MM 250, it. 268).16

Sulla modernità sono stati espressi pareri discordi, in grado di assegnarle una diversa collocazione entro l’orizzonte problematico del pensiero contemporaneo. In altri termini, si tratta della persistenza o della fine della modernità come contesto e problema su cui riflettere. L’alternativa è fra una concezione della modernità non tanto come problema attuale su cui vale la pena discutere ma, in modo radicale, come condizione da cui non è dato prescindere, e l’idea che della modernità si possa parlare semplicemente come di un’epoca di passaggio, che certamente fa parte della storia del pensiero e dell’umanità, ma che non può più avanzare pretese di aderenza alla realtà né di pensabilità rispetto alla filosofia.

L’approfondimento del vasto panorama dispiegato dal dibattito attuale, che verte sul binomio problematico di modernità-postmodernità, ci porterebbe a un’analisi che esorbita dalle intenzioni del lavoro. In questa sede, interessa però approfondire il contributo che si ricava dall’interpretazione adorniana della modernità, intervenendo indirettamente nel dibattito summenzionato. Sommariamente, si può qui fare cenno al significato che le due posizioni attribuiscono all’incompiutezza della modernità. L’inconcludenza di un progetto alimenta certo un giudizio negativo, che giustifica, nell’ottica postmoderna, un superamento non-problematico della modernità, epoca giudicata ormai esaurita nella sua carica propulsiva di cambiamento, così come è toccato alle epoche che l’hanno preceduta: la modernità ha fatto il suo tempo e appartiene ormai a un ambito problematico di competenza storica, mentre non è più in grado di inquietare il pensiero filosofico, che si trova ora orientato verso altre dinamiche, ad altri rivolgimenti che poco hanno a che spartire con la rivoluzione che ha dato il via e segnato lo sconvolgimento secolaristico. Per altro verso, sottolineare nel corso di un’indagine critica l’incompletezza di un’impresa lascia al contempo trasparire un atteggiamento legittimo di attesa di quel compimento promesso. In questo senso, il progetto della modernità si fa leggere come sfida incompiuta che tocca alla filosofia contemporanea fare propria, non essendosi esauriti i nodi tematici e problematici che ancora informano il pensiero e la realtà contemporanei.

Il confronto decisivo per formulare una qualsiasi interpretazione sulla modernità si gioca tra gli elementi che caratterizzano il suo movimento e la realtà in cui la modernità si è impantanata, ma da cui solo può attendere una sua prosecuzione. Restare qui non significa abbandonarsi al fallimento, magari in una forma distorta d’identificazione: «L’identificazione con l’irreparabile è … tutta la consolazione offerta dalla filosofia consolatoria: l’ultima identità» (GA 521, it. 111). Si vuole invece lavorare sul fallimento, perché scartare il fallito significa escludere, insieme con esso, ciò che potrebbe ancora essere.17

Questo non ancora non indica però un semplice rinvio, una sospensione momentanea nel percorso, alla fine lineare, dello sviluppo storico. Il mancato compimento non rimanda semplicemente a un già che è stato semplicemente procrastinato e la cui scadenza è stata solo differita. La cesura della modernità ha proiettato un’ombra d’irreversibilità e d’irrecuperabilità delle possibilità rimaste insoddisfatte. E, quindi, ciò che non è stato può ancora essere, ma solo nel suo non più, nella forma insuperabile del suo non a cui si associa come sfumatura drammatica l’esperienza della deformazione della realtà. Il no pronunciato sulla realtà si è rivelato alla fine un gesto apparente, che però ha avuto l’effetto di straziare ciò che poteva essere. È come l’effetto a distanza dei disastri nucleari sui bimbi che ancora devono nascere, ma che di certo porteranno il segno di quel crimine contro l’umanità.

Il pensiero viene chiamato a insistere sulle mancanze, sulle cose che non tornano, che non coincidono agli schemi a cui il pensiero vorrebbe destinarle. «Come, in sogno, sappiamo di lezioni di matematica perdute per una beata mattina a letto, e che non sono più recuperabili» (MM 90, it. 87): i tasselli mancanti non vengono restituiti. Ciò che è perduto è perduto per sempre e, per esso, il pensiero può fare ben poco. La speranza è che qualcosa ci ridesti («Il pensiero attende che un giorno il ricordo di ciò che è stato perduto lo ridesti, e lo trasformi in teoria», Ibid.), ritorni in qualche modo a noi, anche se sempre e solo nella forma dell’essere perduto. Ricordare significa riconoscere ciò che si è perduto, senza peraltro poterlo restituire alla sua integrità. La situazione attuale di oblío fa sì che non sappiamo cosa dobbiamo ricordare di aver dimenticato.

La vita, che non coincide esattamente con i requisiti della sua riuscita, ha spazi vuoti, scarti interni, che riservano possibilità di riscatto. Il pensiero non può sperare di salvare la realtà minacciata, sostituendole un’immagine ideale. «Sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza» (MM 216, it. 230): alla realtà indebolita deve corrispondere una filosofia che ha già fatto esperienza di come sia stato un errore rispondere alla precarietà reale con la forza di un pensiero assoluto (Hegel). Per rimanere fedeli a questa realtà, «in ogni pensiero non ozioso resta il segno dell’impossibilità di una completa legittimazione» (MM 90, it. 87). C’è bisogno di un pensiero che faccia delle proprie insufficienze le ferite attraverso le quali far passare un po’ di verità.

Una versione modificata di questo articolo è stata pubblicata come cap. 5 del volume Minima philosophiae. La modernità in Th. W. Adorno, Trauben, Torino 1998.


  1. Th.W. Adorno, Ästhetische Theorie, a cura di G. Adorno e R. Tiedemann, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1970, p. 291; Teoria estetica, tr. it. di E. De Angelis, Einaudi, Torino 1975, p. 328 (in seguito con la sigla TE). ↩︎

  2. Come direbbe Merleau-Ponty, è interdetto qualsiasi sguardo di sorvolo: «Che ci si orienti su essenze tanto più pure in quanto colui che le vede non ha parte nel mondo, che si guardi dunque al fondo del nulla, o che si cerchi di confondersi con le cose esistenti, al punto stesso e all’istante stesso in cui esse sono, questa distanza infinita, questa prossimità assoluta esprimono in due modi, sorvolo o fusione, il medesimo rapporto con la cosa stessa. Si tratta di due positivismi» (M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, Gallimard, Paris 1964, p. 169; Il visibile e l’invisibile, tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 1969, p. 150). Così Kafka: «È come se uno fosse in prigione e avesse non solo l’intenzione di fuggire, cosa che forse sarebbe raggiungibile, ma anche, e cioè contemporaneamente, l’intenzione di trasformare la prigione in un castello per divertimenti. Se fugge non può trasformare, e se trasforma, non può fuggire … . Volerne venir fuori, ha per questo un che di follia, e ogni tentativo viene quasi punito con essa» (Lettera al padre, tr. it. di A. Rho, Il Saggiatore, Milano 1959, p. 62). O, infine, come recita sarcasticamente l’epigrafe tratta da Stanislaw Jerzy Lec, che Adorno pone all’inizio della sua «Introduzione» a Dialettica e positivismo in sociologia, «Sesamo, apriti — vorrei uscire!». In questo caso, diventa palpabile la sottile differenza che passa tra una permanenza fedele all’immanenza e la denuncia di un sentimento di chiusura e di oppressione. ↩︎

  3. Th.W. Adorno, Noten zur Literatur, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1958-1961, p. 70; Note per la letteratura (1943-1961), tr. it. di E. De Angelis, Einaudi, Torino 1979, p. 66. ↩︎

  4. «Solo a un’umanità liberata, conciliata, l’arte del passato si darà forse un giorno senza ignominia» (TE 290, it. 326), a cui sembra far eco l’affermazione benjaminiana: «Solo all’umanità redenta tocca interamente il suo passato. Vale a dire che solo per l’umanità redenta il passato è citabile in ognuno dei suoi momenti» (W. Benjamin, Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1955; «Tesi di filosofia della storia», in Angelus Novus. Saggi e frammenti, tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1982, p. 76). ↩︎

  5. Th.W. Adorno, Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, scritto con M. Horkheimer, Querido, Amsterdam 1947, ristampa 1969, Fischer, München, p. 50; Dialettica dell’illuminismo, tr. it. di L. Vinci, Einaudi, Torino 1966, p. 41 (in seguito con la sigla DI). ↩︎

  6. Th.W. Adorno, Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1951, p. 188; Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1954, pp. 196-197 (in seguito con la sigla MM). ↩︎

  7. Th.W. Adorno, Jargon der Eigentlichkeit. Zur deutschen Ideologie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1964, p. 505; Il gergo dell’autenticità. Sull’ideologia tedesca, tr. it. di P. Lauro, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 96 (in seguito con la sigla GA). ↩︎

  8. Torna inaspettatamente utile il riscontro che si può ricavare da alcune osservazioni tratte dal confronto tra il Candide, ou l’optimisme di Voltaire e il Candido di Sciascia: l’illuminista e il contemporaneo. Con il primo, la soluzione di fronte ai fatti inspiegabili del mondo mutato consiste nel ritirarsi a coltivare il proprio orto: il soggetto borghese limita le proprie pretese, rinuncia a capire la follia del mondo naturale; Cunegonda, la donna da sempre amata e inseguita, è diventata ormai vecchia e terribilmente brutta, ma ormai Candido la tiene con sé e si apparta in un mondo addomesticato, nel quale inventare un ordine e un senso. Il Candido contemporaneo, invece, è cacciato anche dalle sue terre, dal suo mondo artificiale, proprio dalla disillusione di potervi vivere. O meglio, fino a quando la vita gli si presenta come armonia di rapporti, il lavoro nella proprietà è per lui una vera passione. Poi, d’improvviso, l’equilibrio si rompe. Non c’è il declino della bellezza della donna amata, la sua lenta e accettata decadenza. La rottura è improvvisa: la sua donna lo abbandona senza alcuna spiegazione, lasciando in lui un terribile vuoto. Allora «quel suo lavoro di ogni giorno gli appariva degradato: fatica, soltanto fatica nel giro sempre uguale delle stagioni». Diventa insopportabile e insignificante appartarsi, perché tutto risuonerebbe dell’assenza di chi non c’è più. Candido allora abbandona tutto e decide di viaggiare. Penso non sia artificioso vedere in queste due vicende, parallele ma differenti, due maniere di intendere la modernità, frutto di sensibilità lontane anche se comprese nella stessa esperienza (la citazione tratta da L. Sciascia, Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia, Einaudi, Torino 1977, si trova a p. 105). ↩︎

  9. Ad esempio, rispetto alla narrazione, paradigma principale dell’epoca pre-moderna, Lyotard osserva che «la referenza delle narrazioni può sembrare appannaggio del tempo passato, in realtà essa è sempre contemporanea all’atto» e «come non ha bisogno di ricordare il proprio passato, una cultura che attribuisce il primato alla forma narrativa non ha indubbiamente nemmeno bisogno di procedure particolari per autorizzare le sue narrazioni»: nel passato non c’era propriamente passato; tempo e racconto sono fondati e valgono nell’assoluta contemporaneità del loro farsi. All’opposto e per paradosso, nell’assoluta contemporaneità del presente, il passato diventa per la prima volta problematico (J.-F. Lyotard, La condition postmoderne, Les Éditions de Minuit, Paris 1979; La condizione postmoderna, tr. it. di C. Formenti, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 44-45). ↩︎

  10. Th.W. Adorno, Kierkegaard. Konstruktion des Ästhetischen, J.C.B. Mohr (P. Siebeck), Tübingen 1933 (ristampa Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1962, p. 143); Kierkegaard. La costruzione dell’estetico, tr. it. di A. Burger Cori, Guanda, Parma 1993, p. 251. ↩︎

  11. Th.W. Adorno, Noten zur Literatur 1961-1968, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1965-1974, pp. 570-571; Note per la letteratura 1961-1968, tr. di E. De Angelis, Einaudi, Torino 1979, pp. 246-247. ↩︎

  12. Th.W. Adorno, Zur Metakritik der Erkenntnistheorie. Studien über Husserl und die phänomenologischen Antinomien, Kohlhammer, Stuttgart 1956, pp. 214-215; Sulla metacritica della gnoseologia, tr. it. di A. Burger Cori, Sugar, Milano 1964, p. 219 (in seguito con la sigla MG). ↩︎

  13. Lo strutturalismo ha tentato di considerare il legame con il passato una questione superata, in quanto prodotta da uno schema mentale ancora diacronico e inadeguato alla reale contemporaneità di cui si fa interprete un pensiero sincronico, estraneo alle categorie storiche di sviluppo e continuità. Adorno critica la nozione assoluta della storia come orizzonte totalizzante, preposto a comprendere in modo ultimativo lo stesso processo temporale della realtà. Egli inoltre difende l’effettiva contemporaneità della realtà che ci appartiene. Nondimeno, egli non considera il legame con il passato un capitolo chiuso, quanto la questione irrisolta che continuamente si ripropone al pensiero contemporaneo. Al non risolto rapporto del presente con il passato incompiuto rimanda lo stesso presente che, a causa di quel trauma, si è bloccato in una parossistica contemporaneità senza storia. ↩︎

  14. Th.W. Adorno, Negative Dialektik, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1966, p. 79; Dialettica negativa, tr. it. di C.A. Donolo, Einaudi, Torino 1970, p. 63 (in seguito con la sigla DN). ↩︎

  15. Ne risulta un ribaltamento di prospettive tra passato e presente. Rifacendomi alle categorie di R. Koselleck (Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1979; Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Marietti, Genova 1986), l’«orizzonte di attesa» non sembra più essere il futuro, ma il passato, che perde il suo carattere di «spazio di esperienza», perché ciò che è arcaico è ciò che, come dice Adorno, si trova «nella condizione di non essere esperibile» e, se esperienza si dà, è sempre «esperienza di un non esperibile» (TE 518, it. 586). Adorno guarda al passato, resistendo alla tempesta del paradiso che ci attira oltre, verso il futuro. ↩︎

  16. Giudicare diversamente del fallimento del moderno significa criticare l’ottica del successo. Migliore di ogni commento è questo brano tratto dall’Etica di Bonhoeffer: «… L’aspetto di colui che riconcilia il mondo è … l’uomo condannato e crocifisso, immagine di strazio e di dolore! … Per un mondo in cui il successo è misura e giustificazione di tutte le cose, la figura dell’uomo condannato e crocifisso è assolutamente incomprensibile o, nel migliore dei casi, è oggetto di compassione. Il mondo vuol essere e deve essere dominato con il successo. Soltanto il successo giustifica le ingiustizie compiute. La colpa si cicatrizza nel successo». E ne esce un profilo dell’eroe moderno: «L’uomo di successo avanza di azione in azione, conquista il futuro e rende il passato irrevocabile. L’uomo di successo crea dei fatti irreversibili: ciò che egli distrugge non sarà riconosciuto. Idolatria del successo: il successo si identifica con il bene». Di fronte agli uomini di successo, «Dio mostra nella croce la santificazione del dolore, dell’abbassamento, del fallimento» (D. Bonhoeffer, Ethik, Kaiser, München 1944; Etica, Bompiani, Milano 1969, pp. 65-68). ↩︎

  17. La natura «non c’è ancora affatto» (TE 115, it. 125); e, in riferimento a Bloch: il «dimenticato parla … di quel che non c’è ancora stato, che va ancora prodotto» (NII 564, it. 240); «Ciò che sarebbe altro non è ancora iniziato» (DN 148, it. 130). «Il tono di pace testimonia che la pace non è riuscita, senza tuttavia che il sogno sia stato frantumato» (NI 54, it. 51): ecco espressa la fiducia nell’accettare la sfida di un compimento possibile. ↩︎