Che cosa hanno insegnato dieci anni di Dialegesthai

1. L’intuizione iniziale

È inutile nascondere la punta di orgoglio con la quale si spengono le dieci candeline di una torta che ben difficilmente ci si poteva augurare di vedere. Non soltanto la vita media della maggioranza delle iniziative editoriali è più breve, ma soprattutto l’universo tecnologico è così rapidamente cangiante che un’idea ad esso collegata, anche fondata e lungimirante, deve in dieci anni sopravvivere agli ostacoli e alle trasformazioni che un tempo si conoscevano in secoli. Non è per nulla ovvio, dunque, che dopo un decennio sia ancora attiva, e anzi nel suo genere prestigiosa, una «rivista telematica» di filosofia nata nel 1999 (già la qualifica «telematica» tradisce l’età: oggi si direbbe più semplicemente «elettronica»). Ma proprio per questo i dieci anni passati, una volta adempiuto al benefico rito dell’autocompiacimento, possono essere l’occasione per capire perché il progetto iniziale è ancora vitale, e soprattutto che cosa è cambiato e che cosa questa piccola storia ha insegnato. Raccontiamo, dunque, un poco di storia.

La prima idea nacque verso la fine del 1998. Fu allora che Emilio Baccarini mi parlò della sua idea di fondare una rivista presente esclusivamente sull’ancor giovane Internet, centrata sull’antropologia filosofica. Difficile decidere esattamente quando era nato Internet: il processo sostanzialmente occupò i decenni ’70 e ’80, e fu solo verso la fine di questo periodo che una rete veramente mondiale era attiva. All’inizio degli anni ’90 poi, tra le varie tecnologie che usavano Internet, venne inaugurato il World Wide Web, concepito come un enorme ipertesto disseminato in tutto il mondo, caratterizzato dalla facilità di uso e dalla sfumatura dei confini tra creatori e fruitori di contenuti (il primo «navigatore» scritto dall’ideatore di Internet, Tim Barners Lee, serviva contemporaneamente per consultare e scrivere contenuti: una fusione che rapidamente andò perduta salvo essere riscoperta qualche anno dopo nei siti di tipo «wiki»). In pochi anni il World Wide Web ebbe un successo tale da mettere in ombra, almeno per i normali utenti, tutti gli altri possibili usi di Internet (fatta eccezione per la posta elettronica). Nel 1998 questo canale dunque, soprattutto in Italia, era ancora relativamente immaturo. Soprattutto i contenuti di tipo umanistico disponibili in rete erano molto ridotti, e un certo aspetto dilettantesco era pressoché onnipresente. Non era dunque affatto ovvio pensare ad una rivista di filosofia su Internet. Ma che cosa poteva far credere che questa fosse una buona idea?

Dal punto di vista tecnico, mi pare che in quel momento erano almeno tre i motivi che consigliavano questa avventura. Il primo era il fatto che i testi potevano, per la prima volta, essere concepiti come «ipertesti»: un carattere questo così insito nel World Wide Web da venire codificato per sempre nella criptica sigla che inaugura ogni indirizzo: «http» significa nient’altro che «protocollo di trasferimento di ipertesti». Un contenuto nella rete non soltanto è idealmente collegato a tutti gli altri, ma anche al suo interno perde il vincolo della linearità. La possibilità di collegamenti in ogni direzione aggiunge una dimensione in più: dal testo, appunto, all’ipertesto. Un secondo carattere consisteva nella continua modificabilità dei testi: un libro stampato è immutabile, un articolo su Internet può essere rivisto, modificato, ampliato senza limiti. Vi era inoltre la possibilità di stabilire un continuo scambio tra autori e lettori: certo, nessuno all’infuori dei gestori può modificare arbitrariamente i contenuti, però le reazioni e i commenti possono entrare progressivamente a far parte del testo, aprendo così un dialogo potenzialmente infinito. Ma non sono proprio questi i caratteri che avvicinano le possibilità di Internet all’antico spirito della filosofia, che Platone codificò in maniera così indimenticabile? Un nuovo dialogare, quindi, a cui dare però l’antico nome greco: Dialegesthai. Così grosso modo si può definire l’ipotesi iniziale. È anche per questo che per i primi tempi campeggiò nella prima pagina una citazione platonizzante di Plutarco:

Dobbiamo esortare quei pigri, quando abbiano compreso con il pensiero le cose capitali, a mettere insieme il resto essi stessi da soli, e grazie alla memoria condurre per mano la ricerca, e dopo aver accolto il discorso altrui come un principio e un seme nutrirlo e farlo crescere. Infatti la mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma, come legna, solo di una scintilla, che vi immetta impulso alla ricerca e fame di verità (Sull’ascolto, 18).

Peraltro, fu proprio questa citazione ad ispirare il logo (non particolarmente bello ma a cui ormai tutti sono affezionati!): un delta greco con alla sommità qualcosa che voleva somigliare ad una fiamma nascente. Dopo una prima bozza tecnica (non sapevo quasi nulla di Internet, occupai le vacanze di Natale ad imparare qualche cosa), nel febbraio del 1999 venne così messo in linea il primo scheletro della rivista (originariamente ospitata sul server del Dipartimento di microelettronica grazie ai buoni uffici di mio fratello, ma raggiungibile dall’indirizzo http://start. at/filosofia). Pochissimo tempo dopo, l’editoriale di Emilio Baccarini venne pubblicato come un bel manifesto per un «forum dove coltivare la dimensione dialogica della filosofia».

2. I miglioramenti tecnici

Una parte significativa della storia di Dialegesthai è costituita dalle trasformazioni tecniche che essa ha attraversato. Una descrizione dettagliata sarebbe qui ovviamente fuori luogo, ma non è inopportuno accennare a qualche problema. Quando per gestire un poco meglio il sito della rivista cominciai ad interessarmi di più alle questioni tecniche, mi accorsi presto che esisteva un termine ricorrente nelle discussioni in proposito: «usabilità» (calco un po’ sgraziato dell’inglese «usability», ma tant’è). Per un sito essere usabile significa semplicemente permettere a chi lo consulta di riuscire a fare efficacemente e rapidamente ciò che egli vuole. Nel caso di una rivista, le operazioni sono fortunatamente molto semplici: cercare gli articoli che interessano, e leggerli. Ma anche queste banali operazioni (che riescono bene sulla carta stampata) possono essere ostacolate. Tutti gli studi seri di «usabilità» giungono a conclusioni simili: un sito è tanto più usabile quanto più è semplice. Paradossalmente, quindi, il progresso tecnico del sito della rivista è consistito in gran parte non nell’aggiungere qualcosa, ma nel togliere, fino a raggiungere la forma più semplice possibile. Pure dal punto di vista meramente tecnologico, la regola d’oro che viene formulata in proposito è: mai usare una tecnologia se essa non è vecchia almeno di cinque anni. A volte tale preoccupazione sembra paranoica: perché non presupporre che i visitatori usino computer e programmi ragionevolmente moderni? In realtà, tale regola produce sovente effetti collaterali positivi e imprevedibili: per esempio, la diffusione dell’uso mobile di Internet ha riportato di attualità condizioni (collegamenti lenti, schermi piccoli ecc.) che sembravano appartenere ad un passato definitivamente superato. Ma anche a prescindere da ciò, non è mai un risultato disprezzabile produrre una rivista consultabile pure su un computer di venti anni fa collegato alla rete telefonica con un vecchio modem: queste sono esattamente le condizioni normali in gran parte del mondo tecnologicamente più povero. Forse è anche questo un modo per promuovere e incoraggiare il «dialogare».

Una seconda parola della quale imparai l’importanza è «accessibilità». Con essa s’intende la possibilità che un sito possa essere usato anche da persone con disabilità: quelle più rilevanti per l’uso di un computer sono la cecità o la vista ridotta e la difficoltà ad usare mouse o tastiera. In realtà, un sito veramente «usabile», cioè ridotto alla forma più semplice possibile, è già sulla buona strada per essere «accessibile». L’ulteriore passo più importante consiste nel controllare che esso sia facilmente consultabile tramite un lettore di schermo con sintetizzatore vocale. Ciò comporta non soltanto usare una volta per tutti certi accorgimenti, ma anche verificare che ogni nuovo testo inserito sia per quanto possibile completamente leggibile in quel modo. Saggi di carattere umanistico, in cui normalmente immagini e schemi svolgono un ruolo subordinato, offrono senza dubbio meno difficoltà di altri, ma piccoli problemi si affacciano sempre. Fin dai primi anni di Dialegesthai si decise di seguire abbastanza rigorosamente le migliori linee guida per l’accessibilità. Uno sforzo inutile? Quando, dopo anni, finalmente abbiamo saputo che non vedenti leggevano Dialegesthai, e poi hanno iniziato a collaborarvi, le decine di ore impiegate in questo senso sono state benissimo ripagate. È forse questo sicuramente un senso in cui la tecnologia, troppo presto vituperata come origine d’ogni disgrazia da una saccente filosofia, si mostra con il suo volto umanissimo.

C’è infine un terzo gruppo di miglioramenti tecnici, trasversali ai due precedenti: quelli che sono consistiti nell’aggiungere e migliorare i piccoli programmi aggiuntivi (gli «script») che rendono l’uso di un sito più comodo. Un posto essenziale è qui occupato dal motore di ricerca interno: statisticamente sono almeno due terzi i lettori che si basano sostanzialmente su esso per trovare tesi di loro interesse, ed è del resto schiacciante è la percentuale di coloro che giungono alla rivista tramite un motore di ricerca esterno (nei confronti del quale dunque le pagine della rivista devono essere opportunamente «adeguate»). Le trasformazioni in dieci anni sono state molte, e in gran parte dietro le quinte, fino ad arrivare al punto in cui praticamente ogni riga del motore di ricerca è stata riscritta e adeguata alle necessità della rivista. (Un esempio tra i molti, un po’ tecnico: la ricerca su più termini deve essere condotto con una somma o una moltiplicazione logica? L’algoritmo alla fine adottato credo che sia unico, e sembra proprio che funzioni bene…). Preoccupazioni pignole? Ma forse senza di esse oggi non accadrebbe che tante persone, volendo informarsi su un argomento, ricorrano anzitutto a Dialegesthai. Capita spesso anche a me.

3. Il progresso del contenuto

Tutti i miglioramenti tecnici non sarebbero però serviti a nulla se non fossero stati accompagnati da un ben più importante arricchimento dei contenuti. Qualunque sia il contenitore e per quanto esso funzioni bene, la qualità di una rivista è caratterizzata dai testi che essa pubblica. In questo caso, gran parte della storia è evidente: basta scorrere l’indice cronologico dei testi pubblicati, che oggi (2010) si sta avviando a contenere cinquecento titoli, in alcuni casi così ampi da poter essere considerati piccoli volumi, spesso i più approfonditi dedicati al relativo tema. Le bibliografie pubblicate (si cominciò nel 2001) sono diventate un punto di riferimento assoluto. Tra gli autori, alcuni nomi sono ricorrenti, altri occasionali. Alcune voci filosofiche sono note e stimate, in altri casi si tratta di giovani o giovanissimi (che forse ben difficilmente avrebbero trovato accesso ad altre sedi). In ogni caso, se tutto quanto fosse stato stampato su carta, occuperebbe almeno un intero scaffale. Ma oltre a quest’aspetto evidente, c’è qualche momento particolare della storia di Dialegesthai che vale la pena di ricordare.

Il primo avvenne nel 2000, dopo poco più di un anno dall’inaugurazione. Fu allora che (ancora una volta un’idea di Emilio Baccarini) Dialegesthai venne fisicamente spostata sotto uno spazio Internet chiamato «mondodomani.org». Forse oggi questo nome è ancora più noto di quello di Dialegesthai. L’idea originaria era creare un’associazione con tale nome, alla quale sarebbero stati dunque in qualche modo collegati i siti ospitati. Il progetto poi venne rimandato a data da destinarsi, prolungando la curiosa situazione di un prestigioso sito filosofico organo di un’associazione ancora inesistente: un fatto metafisicamente molto intrigante, forse il modo migliore di fare una rivista au-delà de l’essence. L’integrazione in questo spazio significò soprattutto la possibilità di pensare a progetti paralleli a Dialegesthai, di cui non è il luogo di tracciare qui la storia, ma che in parte nominiamo soltanto: Mneme (un sito di didattica della filosofia, attualmente «in sonno» ma costantemente ricercato, e talvolta plagiato…), Reportata (il primo e ancora unico sito italiano di storia della teologia in prospettiva scientifica), Filosofia TorVergata (per molti anni sito ufficiale del corso di laurea in Filosofia e del Dipartimento di Ricerche filosofiche: donde la situazione curiosa di aspiranti studenti che giungevano a chiedere informazioni e quando venivano rimandati al sito dicevano con compiacimento: «Ma questo è il corso di laurea di mondodomani!»). Insomma, Dialegesthai era diventato l’inizio di uno stile di essere presenti nella rete in maniera competente e aperta.

Un secondo avvenimento importante vi fu nel 2002. Fu allora che Dialegesthai sbarcò sulla carta stampata, dando vita all’omonima collana che, ormai giunta al decimo titolo, si sta sempre più caratterizzando come un luogo qualificato di ampi studi di carattere etico e antropologico. Il segno di come tecnologie diverse possono aiutarsi? o solo una fase di passaggio, ora che anche i libri elettronici stanno cominciando ad affermarsi come un nuovo medium, superando i difetti che fino a poco tempo fa rendevano improponibile la lettura di un testo lungo sullo schermo? Troppo presto per dirlo!

Nel 2003 la home page di Dialegesthai subì la seconda rilevante modifica grafica della sua storia (la prima aveva avuto carattere più che altro tecnico): per la prima volta, raggiunto un consistente numero di testi pubblicati, si decise di introdurre un indice tematico. Di per sé si trattò solo di un miglioramento pratico: un modo per trovare più velocemente i testi desiderati sulla base di grandi raggruppamenti per soggetti. In realtà fu pure il modo per accorgersi che, pur avendo la rivista un indirizzo abbastanza liberale nell’accettazione dei testi (le etichette di antropologia, filosofia morale e filosofia della religione erano state sempre interpretate in maniera flessibile), i testi si erano spontaneamente raggruppati intorno ad alcuni interessi: soprattutto il pensiero dialogico, la fenomenologia, il problema del linguaggio, gli incroci dei problemi morali tra individuo e società. Certamente l’editoriale aveva svolto una funzione d’indirizzo, anche il carattere dei testi già pubblicati aveva spinto a proporne di simili. Ma forse c’è anche dell’altro, su cui tra poco diremo qualcosa.

Prima di arrivarvi, vogliamo però rapidamente citare altri segni dell’arricchimento dei contenuti. Un primo è costituito dalla pubblicazione sempre più significativa di testi in lingue diverse dall’italiano. La prima proposta del genere arrivò in lingua inglese (nel 2000), poi si aggiunsero articoli in tedesco (dal 2001), in portoghese (dal 2003), in francese (dal 2004), in spagnolo (dal 2006). Considerando la presenza in Internet di riviste filosofiche in tutte le lingue europee, le proposte a Dialegesthai vennero interpretate come una manifestazione di stima e soprattutto come il sintomo che l’obiettivo del «dialogare» stava raggiungendo confini sempre sperati sì, ma forse senza neppure troppa convinzione. Un secondo segno è costituito dal crescere delle segnalazioni su altri siti e anche sulla stampa. Riguardo alle prime, dopo qualche anno si rinunciò a tenerne l’elenco: ormai troppo numerose, benché alcune (per esempio nei cataloghi informatici delle biblioteche universitarie) fossero decisamente più significative.

4. Che cosa è rimasto?

Una storia dunque completamente lineare? In realtà non proprio. Dieci anni di vita sono stati significativi anzitutto per ciò che hanno smentito. Sono state infatti proprio le speranze affidate ai caratteri «tecnici» che sono rimaste deluse: vediamole nello stesso ordine in cui le abbiamo enunciate all’inizio. Anzitutto il carattere di «ipertesto» che la rivista avrebbe potuto assumere è stato quasi completamente assente. I primi esperimenti di introdurre «collegamenti interni» nei testi vennero presto abbandonati. Il motivo era semplice: non servivano a nulla. Certo, non è una novità che in un articolo si possa rimandare ad un altro paragrafo del medesimo articolo, i «vedi infra» e «vedi supra» fanno parte dell’armamentario di qualsiasi autore: ma un link in questo caso non aggiunge assolutamente nulla, se non una distrazione. Per quanto riguarda i collegamenti esterni, che pure all’inizio sembravano una possibilità preziosa, l’esperienza avrebbe presto deluso. I collegamenti, in testi destinati a rimanere attuali per anni e decenni (e, se qualche novello Platone si nasconde tra gli autori di Dialegesthai, per secoli e millenni), dovrebbero essere parimenti stabili, ma questo nel mondo del World Wide Web è un’illusione. Il fenomeno viene chiamato dagli esperti «link rot», la corruzione dei collegamenti: ciò che è attivo oggi può essere inattivo domani. Tutte le buone raccomandazioni sono concordi nell’invitare i gestori dei siti a non far mai «morire» un indirizzo (e quelli di mondodomani.org sono tutti stabili dall’anno 2000), ma questo invito ben raramente viene seguito con rigore, pure dai siti più ufficiali. Un esempio lo si ebbe con un interessante articolo dedicato al tema dei «diritti dei popoli»: nella sua prima pubblicazione vennero introdotti ventiquattro collegamenti a pagine esterne; dopo qualche anno, quelli attivi erano soltanto sei! Tutto questo significa solo una cosa: che lo stesso ideale dell’ipertesto è discutibile. La ricerca intenzionale dell’ipertesto sembra portare alla lunga distanza solo al caos. Questo vale ancor di più per un discorso che pretende di essere filosofico: esso potrà essere strutturato e complesso quanto si voglia, ma di sua natura resta un discorso lineare, esattamente come la parola umana, che è pronunciata in un tempo che ha una sola dimensione: e nel tempo accade sempre qualcosa di importante.

Pari destino ebbe l’ipotesi iniziale della continua modificabilità dei testi. In effetti, mettendo da parte la correzione dei refusi e la ristrutturazione delle pagine di servizio, c’è un solo tipo di modifiche che sono state fatte con regolarità: gli aggiornamenti alle bibliografie. All’infuori di queste, mai vi è stata una «seconda edizione» di articoli. Anche qui, forse è proprio la natura della filosofia che fa comprendere i motivi. Certo, la storia della filosofia non è avara di esempi di «seconde edizioni»: ma esse sono note proprio perché sono delle opere a vario titolo diverse da quella originale. Molto più frequente è la quasi impossibilità fisica degli autori di rimettere le mani su qualcosa che ormai è pubblicato, e che pure se viene percepito limitato, superato, è legato a condizioni che non possono essere mutate. La parola pronunciata lo è una volta per tutte, caratterizzata dalla sua data.

Fallì infine il progetto di rendere Dialegesthai lo spazio di un «forum telematico». Nei primissimi tempi venne fatto qualche tentativo, ma la relativa pagina venne definitivamente archiviata quando ci si accorse che, senza una continua e precisa sollecitazione, i commenti ai testi pubblicati non giungevano, o erano insignificanti. Il confronto con analoghi esperimenti nella rete è a suo modo confortante: nella stragrande maggioranza di casi, gli spazi di dibattito (di carattere umanistico e soprattutto filosofico) o sono abbandonati o si riducono ad un ricettacolo di chiacchiere. Le eccezioni esistono, ma sono appunto rarissime e suppongono la cura costante nella creazione di una comunità che concordemente scelga Internet come un mezzo significativo di comunicazione. Ma è questo il canale più adatto per un dialogo in cui la vera risposta ad una vera provocazione può comportare anche anni di riflessione? Il pensiero non s’improvvisa, fin dal suo inizio la capacità di parlare senza riflessione previa venne ritenuta esattamente agli antipodi della filosofia. Certo, è anche vero che è sempre stimolante il modello della brachilogia socratica (formalmente non molto dissimile da una chat) — salvo tener presente che i dialoghi di Platone sono accurate opere scritte e tavolino, non resoconti reali.

Presentato in questo modo, il bilancio è ambiguo. Un fallimento o un successo? In realtà, credo che proprio il triplice smacco mette in luce dove vi è stato il successo: quelle che sono fallite sono alcune ipotesi «tecnologiche», che hanno lasciato completamente vincenti invece le ipotesi umane. Dialegesthai non ha mai creato una «community»: ha però creato una comunità di persone, certamente dai confini molto fluidi, però persone reali, che si sono scritte, incontrate, parlate, aiutate. È vero che non sono mai stati pubblicati veri e propri dibattiti centrati su questo o quel testo: però tutta intera la rivista è stato un grande dialogo sui temi dell’uomo, dell’etica, del futuro. Voglio sperare che questo è anche uno dei motivi per cui la maggior parte dei testi si sono concentrati attorno ad alcuni temi determinati; oltre ai motivi prima accennati, forse c’è stato il fatto che la stragrande maggioranza dei testi proposti hanno il sapore di qualcosa che «sta a cuore». Ciò è spesso evidente nei testi dei collaboratori più giovani, ma credo si possa vedere un po’ dappertutto.

Insomma: dieci anni di vita hanno visto tramontare l’idea di Internet come rivoluzione nel modo di comunicare o addirittura di pensare, anzi hanno mostrato sempre più i pericoli di tale eventuale rivoluzione; ma quello che è rimasto è (in positivo) Internet come un nuovo canale di comunicazione, senza dubbio più veloce, economico e in fin dei conti «democratico», ma che ha senso solo nella misura in cui dietro ad esso vi è qualcuno che parla, che ascolta, che non si lascia stordire dalla quantità delle parole ma cerca la loro qualità. Se Socrate metteva in guardia dal «discorso lungo», che affascina ma fa perdere il rigore e senso della verità, oggi Internet rischia di divenire il «discorso lunghissimo», anzi malamente infinito perché non lineare, senza punti di partenza e senza obiettivi. Una rivista di filosofia, rigorosa e forse un po’ arcaica, può portare il suo contributo a che questo non avvenga. Perché, dopo dieci anni, è ancora più vero che «la mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma, come legna, solo di una scintilla, che vi immetta impulso alla ricerca e fame di verità».