Weber e il mondo della scienza

1. Scienza e progresso

Per riflettere su cosa sia la scienza, sulla sua natura e sulla sua funzione epocale nel mondo occidentale, è sempre utile rileggere La scienza come professione di Max Weber. Questo saggio, che fu pubblicato per la prima volta un anno prima della sua morte, nel 1919, e che riproduce nella sostanza il discorso da lui tenuto durante una conferenza del 1917 presso il «Freistudentische Bund», può peraltro essere considerato una piccola summa delle teorie weberiane.

Tra le tesi più significative troviamo innanzi tutto quella che assegna alla scienza il carattere del «progresso infinito» (Fortschritt in das Unendliche), inarrestabile; lo statuto della scienza si differenzia così da quello dell’arte, che è un àmbito dell’attività umana in cui il carattere della «progressività» non è presente. Si può affermare infatti che «un’opera d’arte realmente “riuscita” non è mai sorpassata, non invecchierà mai». Ogni teoria scientifica è invece segnata dal fatto che essa pone nuove domande e questioni, le soluzioni delle quali comportano inevitabilmente il suo superamento: questo, come si esprime Weber, rappresenta il destino della scienza. Il progresso, essendo segnato in linea di principio dall’infinità, non può avere una conclusione, non può risolversi nel raggiungimento di una mèta. Emerge, di conseguenza, al centro dell’argomentazione weberiana il «problema del senso» (Sinn) della ricerca scientifica. La domanda, ineludibile, che viene posta a questo punto è la seguente: «Non è per nulla ovvio che ciò che resta soggetto a una simile legge sia in se stesso ragionevole e sensato. Perché ci si dà da fare intorno a qualcosa che in realtà non giunge, e non potrà mai giungere, a una conclusione?».1

Si deve ricordare che nel panorama filosofico tedesco a cavallo tra Ottocento e Novecento, in particolare nel quadro della corrente del neocriticismo, almeno nella sua fase iniziale, il mondo della scienza costituiva l’oggetto predominante della filosofia. La filosofia, si pensi alla cosiddetta Scuola di Marburgo, era stata impostata nei termini di una fondazione trascendentale della conoscenza scientifica; l’obiettivo allora era fondare in una struttura logico-categoriale, secondo l’insegnamento della filosofia critica kantiana, proprio il progresso delle scienze. Nel 1910 escono due opere, importanti da questo punto di vista, I fondamenti logici delle scienze esatte di Paul Natorp e Concetto di sostanza e concetto di funzione di Ernst Cassirer. È noto che Weber non ha risentito, per lo meno in via esplicita, dell’influenza della suddetta concezione filosofica, ma è innegabile che il problema che egli in Scienza come professione cerca di affrontare, in maniera non sistematica e nemmeno rigorosa, ma certamente acuta, sia, in ultima analisi, il medesimo. È da sottolineare, a nostro giudizio, come la visione non radicalmente «ottimistica» delle possibilità della scienza, che invece per molti versi sostiene il pensiero dei filosofi marburghesi, aiuti Weber a costruire un discorso a più ampio raggio.

Si deve considerare se, ed eventualmente come, agisca all’interno della riflessione weberiana un’assunzione assiologica analoga a quella che influisce sulle tesi dei neocriticisti, e in base alla quale si stabilisce un’equazione tra processo e progresso: il processo delle conoscenza scientifica coincide con l’incremento del suo valore di verità Innanzi tutto, a nostro giudizio, il punto in cui tale equazione fa avvertire le sue aporie si evidenzia in particolare nel pensiero di Natorp quando, in I fondamenti, si propone l’identificazione tra i termini Fortgang, Methode e Prozess e la tesi del «compito infinito» della determinazione dell’oggetto dell’esperienza, del progresso infinito della scienza. Il Faktum stesso della scienza — una teoria, un sistema di concetti, ossia qualcosa di «determinato» — di cui si devono rinvenire le «condizioni di possibilità», non può considerarsi in sé concluso e, di conseguenza, si deve parlare, a rigore, piuttosto di Fieri, di puro divenire.2 Non è quindi il Faktum ciò di cui può si dire che «è»: infatti, avvertendo al fondo della teoria una nota aporetica, Natorp assegna piuttosto il carattere dell’«essere» o della «permanenza» al Fieri stesso, al divenire, che quindi «non diviene».

Questi riferimenti sono utili come annotazioni intorno al complesso problema speculativo, che senza avere l’intenzione di affrontarlo, Weber in ogni caso viene a suscitare. Caratteristico delle sue argomentazioni sul senso della scienza, è il passaggio continuo dalla dimensione pratica a quella teoretica e viceversa. Facendo intervenire «considerazioni di ordine generale», Weber afferma che «il progresso scientifico costituisce un frammento, il frammento più importante, di quel processo di intellettualizzazione a cui sottostiamo da millenni».3 La moderna cultura occidentale è caratterizzata dalla razionalizzazione intellettualistica (intellektualistische Rationalisierung) attraverso la scienza e la tecnica da essa guidata. Questa è una delle tesi peculiari dell’intera riflessione weberiana. La razionalizzazione, essendo un processo, conduce ad un fondamentale risultato:

a consapevolezza, o la fede, che se solo lo si volesse, si potrebbe sempre giungere a conoscenza, ossia che in linea di principio non sono in gioco forze misteriose e irrazionali, ma al contrario che tutte le cose possono — in linea di principio — essere dominate dalla ragione. Ciò non è altro che il disincantamento del mondo.4

In primo luogo Weber sostiene esplicitamente che la razionalizzazione non deve essere intesa come ciò che produce una conoscenza migliore delle condizioni di vita e, d’altro canto, che il potere della ragione può dominare il mondo. Per Weber non esiste una razionalità intrinseca al mondo, alla realtà. La realtà, secondo un’altra, decisiva, tesi, rimane infatti «un’infinità priva di senso», un caos insensato; si potrebbe dire allora che la realtà, o tutto ciò che è reale, è perciò, al contrario dell’aforisma hegeliano, in sé stesso irrazionale. Hegel in Lezioni sulla filosofia della storia aveva affermato che si deve presupporre, come una verità, che nella storia vi sia una ragione. Questa non è la ragione di un soggetto particolare, bensì quella divina, assoluta; la storia si presenta allora come l’immagine e l’atto della ragione stessa. La concezione weberiana pur essendo distante dalla posizione hegeliana non è però certo segnata dall’irrazionalismo5 La ragione, in Weber, non ha uno statuto «cosmico», oggettivo, ma assume in primis una ruolo strumentale nell’àmbito della tecnica. Il processo di razionalizzazione, il cui culmine è tutt’uno con l’affermazione della modernità,6 coincide secondo Weber con il «disincantamento del mondo» (Entzauberung der Welt). Ciò significa che non esiste più un rapporto con il mondo mediato dalla presunta esistenza di forze, spiriti o dèmoni, che l’uomo deve assecondare o cercare di controllare, dominare, attraverso la magia. L’uomo, libero dall’incanto, ha di fronte a sé un mondo «informe», senza senso, caotico ma, al tempo stesso, ha raggiunto la convinzione di poterlo conoscere e anche di poter agire in esso basandosi sulla forza della propria ragione. Si noti che Weber fa risuonare, a proposito del tema della razionalizzazione e del disincanto, ancora la nota del progresso che, al di là di ogni visione filosofica della storia, non assume però una connotazione «positiva»: detto in altre parole, la razionalizzazione rappresenta certamente un guadagno, poiché apre con la scienza uno nuovo spazio di autonomia per l’attività dell’uomo, ma non lo stadio conclusivo di un processo storico necessario e neppure un valore assoluto. La scienza rispetto al processo di razionalizzazione è, paradossalmente, un «elemento» e, al tempo stesso, sua «forza motrice».

Se dal punto di vista tecnico-pratico la scienza riveste un ruolo decisivo, Weber, attraverso Tolstoj, si domanda se essa, e insieme l’Entzauberung, possa avere un senso che oltrepassi questo àmbito. La questione nell’interpretazione weberiana, trasposta su un piano esistenziale — se la morte abbia o non abbia un senso — si radicalizza. Weber riferisce quella che sarebbe stata la risposta tolstojana: nella prospettiva dell’uomo acculturato, la morte non ha un senso

perché, per il suo stesso senso immanente, la vita individuale civilizzata inserita nel «progresso» nell’infinito, non dovrebbe mai avere fine. C’è sempre un altro progresso da compiere. Nessuno che muore è giunto all’apice della parabola, perché l’apice è posto all’infinito.7

Tutto è provvisorio e mai definitivo. La morte quindi, si afferma con spregiudicata coerenza, non ha senso perché avviene all’interno di una «progressività» infinita. Al riguardo è opportuno svolgere ulteriori considerazioni. Nella prospettiva weberiana si esclude la posizione teleologica, il progresso in vista di un telos, di un «fine». Rispetto al significato del concetto di telos è da osservare in primo luogo che se questo potesse essere raggiunto, realizzato, ne conseguirebbe il toglimento del carattere processuale entro cui si costituisce, e il processo si concluderebbe in una forma definitiva e perfetta. La posizione di Weber è così antitetica a quella di Hegel, per il quale il «progresso» esaurisce sé stesso, o è già da sempre esaurito e risolto, nella perfezione del circolo del sistema. La presenza di un elemento teleologico viene «tolta» — nel senso della Aufhebung - nella realizzazione del telos stesso, che coincide con l’emergere dell’assolutezza della Ragione, dell’Idea.8 Un’alternativa, che è propria di parte della filosofia scientifica tra Ottocento e Novecento, prevede invece che il fine, per la sua natura «ideale», non possa mai essere attuato. Ma la difficoltà in cui incorre questa tesi è che non è possibile giustificare alcuna «differenza» logica o assiologica tra le varie, susseguenti configurazioni del processo, tutte in modo identico segnate da un rapporto «asintotico» con il fine della totalità e della completezza di senso.

Weber non condivide nessuna delle due diverse concezioni, ma lasciando in sospeso la questione dal punto di vista teorico, la ripropone nei seguenti termini: qual è la funzione e qual è il valore della scienza, e del suo progresso, nella vita dell’umanità nel mondo moderno? Egli crede comunque in certo modo nel progresso della scienza: questo è un dato innegabile.9 La domanda che Weber pone sposta però il discorso su un altro versante e non tematizza quindi quelle difficoltà, rapidamente accennate, che segnano l’idea stessa di «progresso».

Nel discorso intorno alla razionalizzazione e alla scienza agisce la questione della distinzione weberiana tra due forme di razionalità: la «razionalità rispetto allo scopo», che è una razionalità oggettiva, formale, e la «razionalità rispetto al valore», che invece è una razionalità materiale. In Alcune categorie della sociologia comprendente (1913), Weber spiega che il comportamento dell’uomo può essere interpretato in quattro diversi modi: come azione «emotiva», azione «tradizionale», azione «razionale rispetto al valore», azione «razionale rispetto allo scopo», che segnano, in quest’ordine, il passaggio dal comportamento in massimo grado irrazionale a quello in massimo grado razionale. Importante è la distinzione tra «razionalità rispetto allo scopo» soggettiva e «razionalità normale oggettiva»; dalla prima si passa alla seconda quando il mezzo scelto per realizzare uno scopo viene individuato in base ad una connessione di tipo causale, per cui se a un fatto A segue con una certa regolarità un altro fatto B, A può essere considerato un mezzo adeguato per conseguire B come risultato. Si apre così lo spazio ad una ricerca «tecnica» dei mezzi adeguati, in modo oggettivo, al conseguimento di un determinato scopo. È indubbio che la scienza, abbandonata l’idea che essa possa far trasparire la grandezza di Dio e il senso del mondo, sua creazione, ha realizzato un progresso effettivo per quanto concerne quella razionalità incentrata sulla tecnica, che ci permette di raggiungere certi obiettivi. Se si osserva la scienza nel mondo contemporaneo, nell’àmbito della razionalità strumentale, e perciò nella sua dimensione tecnica, allora è possibile, come pensa Weber, che la scienza sia in fondo la causa dell’estinguersi della fede nell’esistenza di un «senso» del mondo. Anzi, in termini ancor più radicali, sempre sulla scia di Tolstoj, egli giunge a questa netta conclusione: la scienza, che ha libero corso nel dominare il mondo, non ha senso, poiché non risponde alle domande esistenziali ultime. La scienza non ci dice che cosa dobbiamo fare, né come dobbiamo vivere.

A questo punto non è emersa una cognizione precisa di cosa sia la scienza, ma, riassumendo, sappiamo che essa non si inscrive un progresso assoluto, non è un sapere che si ordina un in sistema definitivo, non è metafisica, non conferisce senso, ossia non dà risposte alle domande sull’esistenza umana: il discorso Weber intorno alla scienza procede in un certo senso via negationis. Se la scienza ha degli evidenti limiti, ciò non significa però che non contribuisca ad impostare in modo giusto le questioni. In fondo, il processo di razionalizzazione, con cui la scienza stringe uno stretto e singolare rapporto — al punto che è lecito affermare che è essa stessa a promuovere la razionalizzazione — è ciò che contribuisce a delineare il volto del mondo, un mondo antimetafisico e disincantato.

2. Dall’«incanto» metafisico al politeismo dei valori

Se si cerca di vedere in cosa consista la pars construens del discorso di Weber, al di là di ciò che concerne la potenza o razionalità oggettiva e tecnologica propria della scienza, si devono svolgere alcune considerazioni sulla sua critica alla cosiddetta «scienza senza presupposti». In questa critica si avverte immediatamente l’eco di tesi nietzschiane. Nietzsche in La gaia scienza afferma, con la consueta perentorietà, che «anche la scienza riposa su una fede, che non esiste affatto una scienza senza presupposti».10 Per Weber la scienza è «senza presupposti» solo nel senso che esclude qualsiasi dogmatismo o vincolo imposto dalla religione (rifiuta qualunque miracolo o rivelazione, ossia l’«inspiegabile») e dal pensiero metafisico. Nonostante ciò la scienza ha dei presupposti (Voraussetzungen). Oltre al presupposto, il meno problematico, della validità della logica e del metodo che usa, c’è quello secondo cui il lavoro scientifico è «importante» o, in modo più specifico, «degno di essere conosciuto» (wissenwert). Perché quest’ultimo è ciò che dà origine a grandi problemi? Perché, dice Weber, ogni assunzione di valore non è dimostrabile con gli strumenti della scienza: la scienza ha un presupposto che, in linea di principio, non appartiene a sé stessa o, in altre parole, non è scientifico. La validità della logica e del metodo invece sono stati messi in luce proprio mediante un procedimento scientifico. Anche le ipotesi di cui la scienza si serve per procedere nel suo cammino, per costruire il suo sistema, devono diventare passibili o di dimostrazione o di confutazione, e in tal caso vengono eliminate e sostituite da altre ipotesi. Diversamente stanno i termini della questione riguardo al presupposto della «dignità», che sostiene ogni scienza: esso non è un postulato da cui possa derivare un sistema scientifico, non è un principio, ma qualcosa di cui si può soltanto «indicare» il senso in base al proprio «atteggiamento fondamentale di fronte alla vita».

Il carattere pregnante di questa tesi risalta ancora di più se non si dimentica che Weber ha escluso che la vita possa avere un senso, immanente o trascendente che sia. Si è di fronte a un presupposto che è al di fuori dell’àmbito della scienza, proprio in quanto contribuisce a determinare quest’ultimo. Le scienze naturali presuppongono l’importanza di conoscere le leggi del divenire cosmico, senza poter dimostrare però la validità del loro presupposto. Ciò esclude a fortiori che si dia da parte della scienza dimostrazione dell’esistenza necessaria del mondo, del suo senso e del senso dell’esistenza umana. Anche la medicina, ad esempio, che si basa sul presupposto della necessità della conservazione della vita e dell’alleviamento del dolore, non può affermare che la vita stessa è degna di essere vissuta e specificare a quali condizioni.

La tesi portante di Weber è quindi che la scienza ci può dire soltanto quali siano le tecniche da utilizzare per padroneggiare le vita e il mondo.11Una volta che è stato scelto un valore, e quindi uno scopo, in base alla «razionalità rispetto al valore», la scienza spiega quali sono i mezzi più adeguati per raggiungere quel determinato scopo. Nella concezione weberiana non c’è una presa di posizione critica o negativa nei confronti dello statuto della scienza, governato dalla razionalità rispetto allo scopo, ma solo una lucida e spregiudicata constatazione. L’estetica, la teoria del diritto e le scienze storiche, al pari delle scienze naturali, non dicono nulla sulla necessità o dignità dell’esistenza del loro oggetto di indagine: questo è un fatto (Tatsache), di cui si devono trovare le condizioni (Bedingungen) di possibilità. In questa argomentazione traspare una visione prossima al neocriticismo marburghese. Il punto importante, comunque, è che si tratta di stabilire quel che è degno di essere conosciuto in base ad un presupposto: a partire da questo la scienza costruisce un insieme di concetti, di «tipi ideali» (Idealtypus). Questi hanno come fine la spiegazione di fatti, di fenomeni, ossia rappresentano un ordinamento concettuale della realtà. La scienza può dire solamente che, se si vuole «spiegare lo svolgimento dei fatti senza ricorrere all’intervento soprannaturale», allora si deve farlo nei termini che essa stabilisce. Più in là la teoria scientifica non può andare, non può quindi difendere scientificamente gli atteggiamenti pratici.

La scienza, però, non è solo questo. In ultima analisi, come sostiene Weber, essa si trova di fronte alla scena della «lotta insanabile», mortale, tra i diversi ordini valoriali del mondo, all’inevitabile politeismo dei valori. Il politeismo dei valori si lega per molti versi all’idea del «polimorfismo» dell’esistenza prospettato in La gaia scienza da Nietzsche. Razionalizzazione, disincanto e politeismo dei valori sono i tre elementi fondamentali, che nelle loro interne connessioni, segnano la fisionomia del mondo moderno. Le metafore tragiche della lotta (Kampf), del conflitto eterni, usate da Weber, non hanno assolutamente solo l’intento di illustrare l’inconciliabilità tra i diversi valori: hanno infatti un’origine forse più rilevante. Egli dice che qualcosa è determinato da un valore «proprio in quanto» non è caratterizzato da un altro valore: «qualcosa è buono» perché o in quanto «non è bello», buono eccetera, ossia poiché esclude, per imporsi, tutti gli altri valori. Se questa situazione è segnata dalla necessità di distinguere un valore dagli altri, è vero anche che, al di là di tale questione di natura «logica», ogni individuo deve, dal punto di vista pratico-esistenziale, decidere quale sia il suo valore-dio e quale il «demonio», quale sia il positivo e quale il negativo, ossia il valore che deve essere negato.12 Per Weber non può esistere nessuna forma di mediazione o conciliazione. Per quale motivo, però, egli continua a parlare, in termini mitico-religiosi, di «politeismo»? La sua risposta è chiara e netta: nella sostanza lo scenario non è cambiato se esso si profila «esattamente come nel mondo antico non ancora liberato dall’incanto dei suoi dèi e dei suoi demoni». L’elemento di novità consiste invece nel fatto che i valori si presentano come dèi, o demoni, secolarizzati; questi sono «disincantati e spogliati del loro rivestimento mitico», sono «usciti dai loro sepolcri» e risorti a nuova vita. Se la razionalizzazione conduce, insieme alla scienza, al politeismo dei valori, allora sulla lotta tra i valori domina, in ultima istanza, si noti, il destino (Schicksal).

Il politeismo dei valori, che come sostiene Weber, è divenuto la «realtà quotidiana» dell’uomo moderno contemporaneo, è per altro verso il risultato della disgregazione dell’unità religiosa e morale del cristianesimo, che si era imposta nel corso della storia, proprio a danno del politeismo greco-romano. Il «razionalismo» religioso, rappresentato in primo luogo dal cristianesimo e basato su un’«etica metodica», aveva detronizzato il politeismo originario ma, a sua volta, è stato detronizzato nel processo di razionalizzazione scientifica. Essa ha quindi fatto emergere in forma nuova il politeismo per poi consegnarlo al destino.

3. Tra scienza e filosofia

Intorno alla complessa trama di questi temi molto altro si dovrebbe dire; in ogni caso, sempre a partire dalle formulazioni che ne ha dato Weber, devono essere guardati in controluce per scorgerne le implicazioni più strettamente filosofiche. Partiamo dalla questione della scelta del valore. A prima vista è chiaro il suo significato, ma se si guarda al suo fondo non si possono eludere alcune domande: la scelta concerne un oggetto che in qualche modo preesiste? Oppure è lo stesso atto della scelta che istituisce un valore qua talis o, detto in altri termini, attribuisce ad una determinata idea lo statuto di «valore»? Affinché non sembri questione capziosa, estrinseca all’argomentazione weberiana, si deve ricordare che il problema di una filosofia dei valori era già stato ampiamente affrontato dalla riflessione di Windelband e Rickert, esponenti principali della Scuola neocriticista del Baden, ben nota allo stesso Weber. In questi autori la filosofia assume come proprio oggetto l’insieme dei valori e formula dei «giudizi critici». La validità dei valori si distingue da quella presente nelle leggi naturali; essi costituiscono un sistema e in base a cui deve essere misurato il valore di ogni realtà empirica. La loro validità è una validità ideale-normativa — universale e necessaria -, e quindi implica il «dover essere» (Sollen). La svolta da un’impostazione critica verso la metafisica, che caratterizza anche la posizione di Windelband, fa emergere in primo piano nel pensiero di Rickert il problema della storia e del rapporto tra il trascendente mondo dei valori e la storia stessa.13 La storicità dell’attività umana diventa il riferimento dell’uomo a un mondo di valori che costituisce l’universo della cultura. Weber aveva già offerto un’analisi dettagliata della questione nei suoi scritti metodologici, in particolare in L’«oggettività» conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale; egli aveva scritto:

Ogni valutazione fornita di senso del volere di un altro può essere soltanto una critica condotta in base alla propria intuizione del mondo, cioè una lotta dell’ideale altrui condotta sulla base di un proprio ideale.14

Nelle scienze storico-sociali è la «relazione al valore» (Wertbeziehung) ciò che, mediante la selezione di una parte o sezione dell’infinità priva di senso della realtà, delinea l’orizzonte della conoscenza scientifica dei fatti.15 La scienza storico-sociale, come qualsiasi altra forma di scienza, per il suo fondamentale carattere di «avalutatività» (Wertfreiheit) deve escludere però dal suo àmbito qualsiasi «giudizio di valore». La concezione di Weber sembra prevedere che il valore in quanto tale venga istituito dalla scelta perché, altrimenti, dovrebbe in qualche modo preesistere, come l’infinità dei mondi possibili di fronte al Dio leibniziano. Ma concepire i valori come preesistenti potrebbe dare luogo ad un’interpretazione del loro statuto in termini di trascendenza, assolutezza o incondizionatezza. In fondo è questa la strada percorsa Windelband e Rickert nel tentativo di preservare la purezza dei valori di fronte al rischio della loro relativizzazione storica. Il problema che si profila di fronte alla riflessione weberiana è che i valori devono avere una qualche forma di esistenza «autonoma», poiché devono anche rappresentare il patrimonio o il «peso» della tradizione culturale, morale e religiosa. È però vero che certe idee, visioni del mondo, in determinato momento del corso storico sono state per la prima volta istituite: per Weber l’esistenza del valore è comunque sempre immanente al mondo storico-culturale.

Il compito della disciplina scientifica, come viene affermato nella seconda parte di Scienza come professione, consiste nella chiarificazione. Sul piano metodologico, la scienza deve in primo luogo determinare i mezzi indispensabili all’attuazione del valore-scopo, una volta che questo sia stato scelto; possiamo dire che quindi agisce post factumGiudicare la validità dei valori è però una questione di fede»16). Essa deve inoltre esporre le conseguenze di tale attuazione e, infine, chiarire la lotta che il valore deve necessariamente intraprendere con gli altri valori. La scienza però può aiutare il singolo uomo a «rendersi conto del senso ultimo del suo agire», ad esplicitare il presupposto valore che guida la sua azione. Weber discute anche la differenza irriducibile tra la scienza e la teologia. La teologia introduce «alcuni presupposti specifici», che rivelano il suo dogmatismo: in primo luogo, che il mondo debba avere un senso; si chiede quindi come tale senso vada interpretato perché possa essere pensato. Weber sostiene che la posizione della teologia in fondo non differisce da quella propria della gnoseologia kantiana, la quale muoveva dal presupposto che c’è una verità scientifica che «vale», per poi chiedersi a quali condizioni (Denkvoraussetzungen) e in che senso ciò sia possibile. Certo è che, se si pensa alla «Dialettica trascendentale», alla parte dedicata da Kant all’analisi delle «antinomie della ragione», appare evidente la forzatura presente nell’argomentazione weberiana. Questa sembra piuttosto riferirsi ancora, implicitamente o inavvertitamente, alla prospettiva che apparteneva più al neocriticismo che a Kant stesso. La teologia inoltre presuppone la credibilità delle «rivelazioni» perché queste sono rilevanti ai fini della salvezza, e che esistano delle azioni che possiedono il carattere della santità. Per Weber la teologia si fonda su quello che egli definisce il «sacrifico dell’intelletto»; egli ricorda l’emblematica massima agostiniana, in origine coniata da Tertulliano, Credo non quod, sed quia absurdum est. Come si è visto, la scienza, al contrario, si fonda proprio sulla razionalizzazione, sulla capacità dell’intelletto di stabilire un diverso rapporto con il mondo.

Il punto che ci sembra più interessante è il passaggio dalla funzione metodologica della scienza a quella che possiamo definire la «contemplazione» di una nuova e diversa dimensione, di una dimensione metascientifica. La scienza difatti è ciò che dischiude con fermezza di fronte agli occhi dell’uomo contemporaneo, disincantati, ma bisognosi di vedere all’orizzonte un nuovo Dio in cui credere per sottrarsi all’insensatezza dell’esistenza, l’inevitabile lotta dei valori che agita il mondo moderno. È in questa prospettiva che, a nostro giudizio, la razionalità scientifica assume un fondamentale statuto teoretico; per essere precisi, questo nel pensiero di Weber, in modo non certo privo di difficoltà, coesiste con lo statuto propriamente metodologico. Il nuovo scenario manifestato dalla scienza è caratterizzato, mutatis mutandis, da una sorta di bellum omnium contra omnes, che Hobbes aveva teorizzato a proposito dei conflitti che regolano i rapporti tra gli uomini nello stato di natura. Una differenza decisiva è però che lo scenario conflittuale descritto da Weber non può ricevere una soluzione positiva — qual è, su un altro piano, l’istituzione dello Stato o società civile — mediante cui, in vista di una forma di autoconservazione, si faccia valere l’esigenza della razionalità.

Il valore in quanto è oggetto di scelta da parte di un individuo o di un insieme di individui si presenta di fronte alla scienza come un «dato di fatto», un «accadimento», e si impone ad essa nella sua incontrovertibilità e, al tempo stesso, nella sua infondatezza. Non si dà giustificazione di un valore, perché questo si presenta, usando categorie non weberiane, ma attraverso cui si può legittimamente cogliere il senso filosofico del suo discorso, in termini di semplice «opinione», come una doxa: essa, per sua natura, non può essere né convalidata né confutata dalla scienza. I valori che lottano tra loro non in fondo sono altro che un insieme di doxai, e in quanto tali sono assolutamente uguali, identici, allo stesso modo validi o non validi. A causa di ciò la lotta è eterna, o originaria, tanto è vero che il politeismo si rivela già agli albori della storia della civiltà. In questo senso potremmo ricordare ancora le parole di Hobbes, che sembrano ben illustrare le implicazioni della questione: egli in De cive afferma che «la guerra è per sua natura perpetua, perché non può concludersi con nessun vittoria, a causa dell’uguaglianza dei contendenti».17 Egualmente, nessuna doxa, può a ragione pretendere un diritto di superiorità sulle altre, una volta che la razionalizzazione, il disincanto, la scienza, hanno definitivamente liberato il campo dall’influenza negativa della metafisica e della religione. Non può esistere nel mondo dei valori neanche una sorta di Grundwert che — pur essendo esso stesso un valore-opinione, alla maniera della Grundnorm teorizzata da Hans Kelsen nella «dottrina pura del diritto», e non una verità metafisica — possa rappresentare un principio trascendentale in grado di unificare la molteplicità dispersa dei valori.

Nella prospettiva di Weber, il grande contributo della scienza è allora proprio l’aver evidenziato l’inconsistenza di ogni pretesa di rivelare il senso del mondo dell’esperienza, della vita. Conseguentemente, la razionalità scientifica ha mostrato indirettamente come la dimensione metascientifica dell’esistenza, dell’agire umano, in un’«epoca estranea a dio e senza profeti», sia costituita da un’indefinita molteplicità di dèi-valori-doxai, di cui è necessario prendere atto. In ultima analisi, la scienza è, al tempo stesso, progresso (in senso limitato) e decostruzione, potenza tecnica e impotenza a decidere sul senso e sul valore del mondo; riveste una funzione metodologica e, insieme, delinea una prospettiva teoretica. È proprio nel difficile punto di equilibrio tra queste due diverse anime che essa trova la sua peculiare consistenza.


  1. M. Weber, La scienza come professione, a cura di P. Volonté, Rusconi, Milano, 1997, p. 85. ↩︎

  2. Cfr. P. Natorp, Die logische Grundlagen der exakten Wissenschaften, 2ª ed. (1ª ed. 1910), Teubner, Leipzig, p. 21: «Der Fortgang, die Methode ist alles; im lateinischen Wort: der Prozess. Also darf das “Faktum” der Wissenschaft nur als “Fieri” verstanden werden […]. Das Fieri allein ist das Faktum: alles Sein, das die Wissenschaft “festzustellen” sucht, muß sich in den Strom des Werden wieder lösen. Von diesem Werden eber, zuletzt nur von ihm, darf gesagt werden: “es ist”». ↩︎

  3. M. Weber, La scienza, cit. alla nota 1, p. 87. ↩︎

  4. M. Weber, La scienza, cit. alla nota 1, p. 89. ↩︎

  5. Weber già ad Heidelberg raccoglie intorno a sé un gruppo di intellettuali, Lask, Jaspers, Sombart, e poi Bloch e Lukács, che si oppone alla tendenze dell’irrazionalismo estetizzante di cui era, tra gli altri, esponente Stefan George. ↩︎

  6. Sul nesso tra modernità e razionalizzazione insiste giustamente F. Bianco in Le basi teoriche dell’opera di Max Weber, Bari, Laterza, 1997; cfr. in particolare il capitolo I, pp. 3-26. ↩︎

  7. M. Weber, La scienza, cit. alla nota 1, p. 89. ↩︎

  8. Hegel afferma in Scienza della logica che l’unico punto, per ottenere il progresso scientifico è la conoscenza «di questa proposizione logica, che il negativo è anche il positivo», ossia che ciò che si contraddice non si risolve nello zero, nel nulla astratto, ma solo ed essenzialmente nella negazione del suo contenuto particolare. Importante in questo senso è la tesi generale per cui «il regressivo fondare il cominciamento, e il progressivo determinarlo ulteriormente, cadono l’un nell’altro e son lo stesso». Secondo questa impostazione, nel quadro della «regressiva fondazione del fondamento», progredire oltre il cominciamento significa determinarne ciò che ne costituisce il termine iniziale, originario; cfr. Scienza della logica, trad. it. di A. Moni, (1ª ed. 1924-25), 2 voll., Laterza, Bari, 1988, II voll., p. 954. ↩︎

  9. Per alcune precise considerazioni sulla posizione di Weber rispetto all’idea di «progresso», nel contesto dello Historismus, si veda G. Sasso, Tramonto di un mito. L’idea di «progresso» tra Ottocento e Novecento, Il Mulino, Bologna, 1988, p. 264 e ss. ↩︎

  10. F.W. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere di F. Nietzsche, Adelphi, Milano, vol. V, tomo II 1965, p. 206. ↩︎

  11. Riguardo ai temi e alla fisionomia della Wissenschatftslehre weberiana si può vedere N. M. De Feo, Introduzione a M. Weber, Laterza, Bari, 1970, pp. 28-73. ↩︎

  12. Questa prospettiva era già stata presentata da Weber nel suo importante saggio del 1904 L’«oggettività» conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, che rientra nelle Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre: l’uomo «misura e sceglie tra i valori in questione secondo la propria coscienza e secondo la sua personale concezione del mondo. La scienza può condurlo alla coscienza che ogni agire, e naturalmente anche, secondo le circostanze, il non-agire, significa nelle sue conseguenze una presa di posizione in favore di determinati valori, e perciò — il che è oggi così volentieri dimenticato — di regola contro altri. Compiere la scelta è però cosa sua»; cfr. M. Weber, Il metodo delle scienze storico sociali, trad. it. di Pietro Rossi, Einaudi, Torino, 1958, pp. 59-60. ↩︎

  13. Si rimanda per una attenta ricostruzione di questi temi in Windelband e Rickert, ma anche per quanto riguarda Weber stesso, ai relativi capitoli del volume di Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Einaudi, Torino (I ed. 1956), 1971. ↩︎

  14. M. Weber, Il metodo, cit. alla nota. 12, p. 51. ↩︎

  15. Giustamente F. Bianco in Le basi teoriche dell’opera di Max Weber, op. cit., rileva che «quella selezione è chiamata a supplire la mancanza di un senso “trascendente”, “oggettivo”, di un significato del divenire che sia alla portata di tutti, accertabile con il semplice ricorso alla ragione»; cfr. p. 105 e ss. ↩︎

  16. M. Weber, Il metodo, cit. alla nota. 12, p. 62. ↩︎

  17. Th. Hobbes, De cive, a cura di T. Magri, Editori Riuniti, Roma, p. 87. ↩︎