La filosofia del Rinascimento e la nascita della prospettiva in Italia

Questi ordini di sú tutti s’ammirano E di giù vincon sì che verso Dio Tutti tirati sono e tutti tirano.

(Paradiso, XXVIII, 127-129)

1. La prospettiva nel contesto della cultura rinascimentale

In ogni epoca l’influenza reciproca delle teorie filosofiche e dei movimenti artistici si manifesta in modi variegati e indiretti, non chiari a prima vista e non facilmente riducibili a relazioni di tipo causale. Tuttavia, pur essendo consapevoli che non ci si trova mai di fronte a relazioni meccaniche e univoche, il lavoro dello storico dell’arte e dell’estetica, così come più in generale quello del filosofo, non può sottrarsi al compito di cercare di evidenziare tali relazioni quando queste si rivelino interessanti o decisive per comprendere un momento della storia dello Spirito e della cultura.

Senza giungere al giudizio perentorio formulato a suo tempo da John Ruskin, che definì «la filosofia dell’arte» come «la più oziosa delle discipline»,1 alcune riserve circa l’accertabilità dell’influenza delle teorie filosofiche attive in una certa epoca sulle correnti artistiche contemporanee sono state formulate da Arnold Hauser, secondo il quale «l’arte può aver preso dalla letteratura filosofica quanti problemi e motivi figurativi si vuole, ma il suo rapporto con la filosofia non fu quello di una forma secondaria con una primaria. Le idee filosofiche erano per essa solo materiale grezzo — massa estranea e resistente alla forma — come gli altri contenuti dell’esperienza. Che fra le sfere spirituali vi siano dei passaggi aperti, attraverso i quali esse comunicano, mentre dovunque, negli altri, s’aprono abissi invalicabili, è soltanto una finzione idealistica. Si dimentica troppo facilmente che un’idea, espressa nelle astratte forme concettuali della filosofia e nelle concrete forme sensibili dell’arte non è più la stessa idea e che, anche se qui si può parlare di idee comuni, i rispettivi modi di esprimersi sono così assolutamente diversi che non li si può mettere senz’altro in rapporto reciproco. Fra un’idea filosofica e la sua espressione artistica c’è in ogni caso una distanza altrettanto grande quanto quella che esiste fra le forme economiche e le forme spirituali di un’epoca, e tale da presupporre un numero di gradi di mediazione non inferiore. Parlare di procedimenti ideali come «manifestazione», «dimostrazione», «subordinazione», «conclusione» ecc. in un senso che abbracci entrambi i campi porta ad analogie incerte e ad equivoci fumosi».2

Nonostante le opportune precisazioni di Hauser, il problema che lui si pone ci pare corra il rischio di vincolare la questione ad una alternativa troppo perentoria e ristretta. Potremmo infatti interrogarci, piuttosto che sull’influenza delle teorie filosofiche sulle correnti artistiche di una determinata epoca, più in generale sullo sfondo culturale e ideale che entrambe hanno contribuito a creare e sulle eventuali ripercussioni rilevanti in ciascuno dei loro ambiti. La relazione tra le teorie filosofiche e le correnti artistiche si manifesta infatti attraverso il loro specifico contributo alla nascita di un certo clima culturale, di una visione del mondo e di una specifica concezione del ruolo e degli scopi sia dell’arte che della filosofia, di un humus dal quale entrambe saranno progressivamente in grado di attingere in maniera più o meno consapevole.

Lo stesso Hauser ammette, del resto, che nemmeno le condizioni sociali ed economiche di una data epoca hanno una relazione causale del tipo da lui ipotizzato con le correnti artistiche, e più in generali con i fenomeni culturali loro contemporanei. Come osserva Martin Kemp, le caratteristiche sociali ed economiche presenti a Firenze quando iniziò a diffondersi la tecnica della prospettiva sono riscontrabili anche in altri contesti, e quindi non possono essere considerate una concausa determinante del fenomeno artistico in oggetto. Più in generale, Kemp ritiene che «il termine ‘causa’ sia esso stesso al centro del problema, dato che suggerisce una relazione diretta fra causa ed effetto che male corrisponde a qualsiasi vera situazione storica. Quanto stiamo trattando è un insieme di condizioni necessarie, risoluzioni casuali, risorse disponibili, costrizioni inevitabili, stimoli concorrenti, inventività individuale e così via. Ognuno di questi fattori può essere analizzato come se fosse una ‘causa’ e può dirigere in modo particolare la nostra attenzione su una parte specifica della documentazione storica disponibile».3

In considerazione anche di questa riserva in merito alla nozione di causalità, il compito dello storico dell’arte e del filosofo non sarà soltanto di cercare di cogliere e spiegare l’eventuale influenza delle teorie filosofiche di una certa epoca sulle correnti artistiche emerse nello stesso periodo, ma anche quello di reperire nel loro comune sfondo culturale quelle analogie e quelle consonanze formali — talora vaghe e soltanto allusive, talora più evidenti e concrete — che possono aver agevolato l’insorgenza, per esempio, di un nuovo modo di dipingere, di costruire case e palazzi, o di pensare la posizione dell’uomo in rapporto al mondo, alla società e a se stesso.

Nel contesto di questa problematica, concentreremo ora la nostra attenzione sulla relazione che sussiste tra la cultura filosofica del Rinascimento e la nascita della prospettiva. È possibile sviluppare questo tema cercando di comprendere quale rapporto sussiste tra la nuova consapevolezza della centralità dell’essere umano rispetto alla conoscenza della natura — ovvero della possibilità per l’uomo di avanzare indefinitamente in tale impresa con la coscienza che il punto di vista di volta in volta adottato sarà necessariamente sempre particolare e dinamico, piuttosto che universale e statico — e il proposito, nella pittura, di riprodurre più realisticamente, con l’ausilio della geometria euclidea, l’oggetto o la scena raffigurati riducendo artificialmente su un piano bidimensionale un’esperienza visiva tridimensionale.

Durante il periodo che va dal XIII secolo al XVI secolo, il punto di vista dell’uomo su se stesso, il mondo e la natura cambia in un modo radicale, in un modo tale da rendere decisiva la stessa nozione di «punto di vista». Tutta la logica della prospettiva deriva essenzialmente dalla scoperta che noi possiamo vedere e conoscere il mondo solo da un punto di vista particolare e che da un tale punto di vista, come scrive Ernst Gombrich, «non possiamo vedere dietro l’angolo».4 Circa un secolo dopo questa scoperta, ma mentre essa era ancora in fase di elaborazione, s’incominciò anche, con le filosofie di Cusano e Bruno, a pensare che l’universo avesse dei confini indefiniti, o addirittura infiniti. Proprio un tale nuovo modo di concepire l’universo era però già suggerito nella tecnica della prospettiva, che mostrava come le linee ortogonali tendessero verso un punto di fuga che, se da un lato era geometricamente individuabile, dall’altro alludeva — in un modo che vedremo meglio nei prossimi paragrafi — alla dimensione infinita dello spazio e dell’universo. La convergenza delle linee ortogonali verso il punto di fuga dà forma infatti ad una sintesi tra il parallelismo delle linee — che per la geometria euclidea s’incontrano solo all’infinito, realizzando così uno spazio idealmente aperto — e la chiusura prospettica di uno spazio che culmina in un punto di fuga e ha origine in un preciso punto di vista, individuale e universale a un tempo: individuale perché si suppone occupato da un unico osservatore con un solo occhio aperto; universale perché qualsiasi altro osservatore potrebbe trovarsi esattamente in quel punto e ricostruire lo spazio che da esso prende forma secondo le leggi universali della geometria euclidea.

Durante l’epoca rinascimentale, quindi, per la prima volta, l’uomo comprese che in una dimensione finita poteva essere prospetticamente ridotta la dimensione infinita di Dio e che questa poteva rivelarsi in maniera proporzionata e geometrica da ogni singolo punto di vista. Se la precedente arte medievale era caratterizzata dal tentativo di riprodurre la struttura ideale e il significato simbolico dell’oggetto o della scena rappresentati, con l’Umanesimo e il Rinascimento gli artisti incominciarono a pensare che era più interessante riprodurre una concreta esperienza visiva in modo tale che essa potesse coinvolgere lo spettatore e consentirgli d’identificarsi con un determinato punto di vista. I quadri dei pittori iniziarono così ad includere il soggetto stesso che li guardava al loro interno, collocandolo idealmente all’origine stessa dello sguardo virtuale dal quale era stato costruito e/o visto l’oggetto della raffigurazione. Se nell’arte delle icone tale sguardo coincideva idealmente con quello di Dio ed era importante dare ad ogni parte della pittura il suo proprio spazio e significato simbolico, successivamente e gradualmente, dal tempo di Giotto5 fino al Rinascimento, la visione dell’uomo, di ogni singolo uomo, divenne sempre di più ricca di significato e di suggestioni. Ciò che si perse sotto il profilo simbolico e concettuale6 in questa nuova forma di rappresentazione fu compensato sotto il profilo dell’esperienza concreta dalla possibilità di riconoscere se stessi, ciò che ogni osservatore è nel mondo e nella società, all’interno del quadro stesso, dalla particolare prospettiva da cui poteva vedere ciò che il quadro mostrava. Con questo tipo di coinvolgimento dello spettatore nel quadro, la rappresentazione dell’esperienza visiva alludeva per la prima volta alla relazione tra l’Io e il mondo e alla capacità dell’uomo di conoscerlo nello stesso momento in cui ricostruisce, con un criterio realistico, la propria visione.7

Con la nascita della prospettiva si creò così uno spazio geometrico in cui ogni «Io» poteva riconoscersi in un determinato orizzonte visivo occupando il luogo ideale scelto per lui dall’artista. Questo esercizio a dislocarsi in punti di vista determinati costituì un aspetto saliente della nuova tecnica e della nuova concezione del dipingere che si svilupparono Firenze tra il XIV e il XVI secolo e che acquisirono piena consapevolezza nello stesso periodo in cui l’Accademia neoplatonica di Marsilio Ficino, voluta e finanziata dai Medici, proponeva una concezione del rapporto tra Dio, il mondo e l’uomo relativamente innovativa rispetto alla tradizione scolastica.

Nella teoria di Ficino l’anima è «copula mundi» e ha la funzione di connettere Dio alla natura e all’Essere umano, rendendolo così capace di percepire l’amore stesso di Dio e di ascendere in maniera efficace verso la sua contemplazione. Questa concezione fu successivamente sviluppata da Cusano e Bruno, per i quali era possibile, attraverso la conoscenza della natura, scoprire le segrete proporzioni e la bellezza della creazione e risalire all’unità divina. Come osserva Leo Spitzer, la bellezza accessibile ai sensi diviene così «immagine di quella bellezza intellettuale, attuata da Dio nella natura e dall’artista umano nell’arte».8

L’uomo è concepito da Cusano come un microcosmo, cioè «un piccolo mondo che ha un’anima»,9 la stessa che è in tutte le cose, ma che si manifesta in modi diversi, e non perché divenga sostanzialmente diversa, ma solo perché si manifesta diversamente in relazione al proprio medium sensoriale. Così, per esempio, «l’attività visiva nell’uomo non differisce dalla virtù auditiva secondo la sostanza, perché una sola è l’anima che è attività visiva e auditiva. Differiscono per accidente perché sopraggiunge per accidente alla virtù visiva che essa sia nell’occhio e non nell’orecchio, e [che essa si trovi] in un occhio in modo più conveniente che in altro, per eseguire la sua operazione».10 Ciascuno dei mediatori accidentali dell’anima esegue la sua specifica operazione conservando «un rapporto e una proporzione con l’universo», la cui perfezione risplende maggiormente — secondo Cusano — «in quella parte che si chiama uomo». È per questo motivo che l’uomo risulta essere «un mondo perfetto, sebbene sia un piccolo mondo e parte del grande mondo», ed è per questo che esso differisce dall’universo solo in quanto riproduce in un «modo particolare, proprio e distinto», ciò che «l’universo ha in modo universale».11

Sotto questo profilo, si può dire che, per Cusano, l’uomo articoli l’unità inscindibile dell’anima secondo riduzioni prospettiche determinate, che conservano nel microcosmo umano le proporzioni che caratterizzano il cosmo e la natura nella sua totalità.12 Quest’idea di Cusano verrà assecondata e sviluppata da Bruno, per il quale «l’anima umana individuale, per quanto non sia che una parte infinitesima dello spazio, può mettersi in accordo con il mondo intero».13 Più in particolare, il panteismo di Giordano Bruno insiste, secondo Spitzer, «su quella spazialità dello spazio che permette agli esseri individuali di fondersi con il tutto», comprendendo come «nello spazio infinito dell’universo permeato d’amore, tutte le cose si fondono insieme; a differenza del paesaggio medievale, nel quale i corpi celesti, l’umanità, bestie, piante, pietre, erano nettamente distinte, e soggiacevano tutte insieme a una divinità gerarchicamente superiore, nel paesaggio panteistico, nel «cosmorama» di Bruno, il divino è fuso con l’umano, suscettibile di farsi umano e viceversa».14 Spitzer sostiene poi che di un simile paesaggio filosofico si potrebbero trovare «figurazioni analogiche» nella pittura del Rinascimento,15 ed è proprio sul rapporto tra il primo e le seconde nel contesto della cultura rinascimentale che vorremmo ora, come ci eravamo proposti, soffermarci più dettagliatamente.

2. La «civiltà» del Rinascimento e la filosofia neoplatonica in Italia

Il primo storico ad usare il termine «Rinascimento» fu Jules Michelet nella sua opera sulla Storia della Francia (1955), ma il successo di tale termine — che contrassegnava per la prima volta il periodo storico che va da circa la seconda metà del XIV secolo alla seconda metà del XVI come un’epoca con caratteristiche autonome, mentre fino ad allora era stato assimilata all’età medievale — fu sicuramente dovuto a La civiltà del Rinascimento in Italia, una fondamentale e famosa opera di Jacob Burckhardt, edita per la prima volta nel 1860. Dopo la sua pubblicazione questa civiltà è apparsa caratterizzata non solo da alcuni mutamenti rilevanti in ambito sociale e politico, ma soprattutto da peculiari trasformazioni di carattere culturale, filosofico ed artistico.

Secondo Burckhardt, «nel medio-evo i due lati della coscienza — quello che riflette in sé il mondo esterno e quello che rende l’immagine della vita interna dell’uomo — se ne stavano come avvolti in un velo comune, come in sogno o in dormiveglia. Il velo era tessuto di fede, d’ignoranza infantile, di vane illusioni: veduti attraverso di esso, il mondo e la storia apparivano rivestiti di colori fantastici, ma l’uomo non aveva valore se non come membro di una famiglia, di un popolo, di un partito, di una corporazione, di una razza o di qualsiasi altra collettività. L’Italia è la prima a squarciar questo velo e a considerare e a trattare lo Stato e, in genere tutte le cose terrene, da un punto di vista oggettivo; ma al tempo stesso si risveglia potente nell’Italiano il sentimento del soggettivo: l’uomo si trasforma nell’individuo spirituale, e come tale si afferma».16 In questo modo, la civiltà del Rinascimento mette in luce per la prima volta in tutta la sua ricchezza e complessità la «figura dell’uomo», promovendo «un fortissimo sviluppo dell’individualità» e guidando «l’individuo al riconoscimento più fervido e molteplice di questo stesso elemento sotto tutti gli aspetti».17

In tale contesto storico anche la rappresentazione dello spazio muta radicalmente: come osserva Pierre Francastel, essa procede attraverso «un’analisi continua della posizione dell’uomo, in piedi sulla terra e immerso in un’atmosfera fluida. Tutto riconduce sempre alla conclusione che il Rinascimento ha avuto per punto di partenza il passaggio dall’idea che il mondo era una rappresentazione concreta del pensiero di Dio a quella che il mondo era una realtà in sé, una natura, e sia pure semi-divina, dotata degli attributi della stabilità e dell’eternità. Ci si è interessati, non più dell’avventura della specie umana in generale, ma di quella di ogni individuo, di ogni anima particolare. Si è concepita una specie di solidarietà generale degli uomini verso il mondo, e perciò si è intrapreso l’inventario di questo mondo e di quest’uomo che cessavano di essere unicamente il riflesso del pensiero di Dio».18

Durante il Medioevo si credeva «che tutto fosse in Dio» e che non vi fosse alcuna «distanza tra le cose», che erano considerate come la manifestazione di un’unica essenza. Lo spazio veniva rappresentato simbolicamente «per mezzo di valori, attributi di significato morale». Con il Rinascimento, invece, si è intuito, secondo Francastel, «il conflitto di Dio e del mondo»;19 quest’epoca è stata cioè essenzialmente dualista e ha rappresentato lo spazio figurativo in modo da far emergere le leggi eterne della natura quali potevano essere percepite dal punto di vista umano, dimostrando di nutrire piena fiducia nella «realtà delle leggi del mondo esterno».20

Ora, se volessimo cercare una regione geografica e una città in cui tutte queste trasformazioni e innovazioni sono comparse e si sono sviluppate per la prima volta, potremmo trovarlo solo in Toscana e, in particolare, a Firenze. C’è stato un lungo dibattito tra gli studiosi circa il motivo per cui il Rinascimento nacque proprio a Firenze non altrove. È noto come, durante il periodo in cui i Medici furono al governo commissionarono, come altre famiglie nobili fiorentine, molti lavori ai principali artisti della città. Secondo Burckhardt, fu un colpo di fortuna che così tanti artisti fossero nati in una città dove la famiglia che deteneva il potere disponeva anche del denaro per finanziare la loro attività. Anche in virtù di questa circostanza favorevole, egli pensa che nel Rinascimento italiano ci sia qualcosa di completamente nuovo rispetto all’età medievale e fu soprattutto per la sua interpretazione che questo periodo della storia della cultura venne in seguito considerato diverso da ogni altro: a suo avviso, infatti, la cultura del Rinascimento interruppe la situazione d’ignoranza ed il diffuso sentimento d’impotenza di fronte al compito di conoscere in maniera completa e oggettiva la natura che aveva caratterizzato la cultura medievale.21

Questa interpretazione, successivamente sviluppata anche da Dilthey22 e Cassirer, fu criticata da Johan Huizinga — che riconobbe in tale rinascita anche alcuni elementi d’involuzione, ritenendo che Burckhardt avesse «esagerato la distanza che separa il Medioevo dal Rinascimento e l’Europa Occidentale dall’Italia»23 — e da Konrad Burdach, secondo il quale c’è una relazione di sostanziale continuità tra Medioevo e Rinascimento, dato che i tratti che contraddistinguono quest’ultimo consistono essenzialmente in quello spirito di rinnovamento religioso che era già presente in alcune figure di primo piano dell’età medioevale e in quel risveglio dello spirito nazionale che in Italia non si era mai sopito.24

Più in generale, molti storici considerano che il successo di così tanti grandi uomini nella stessa città fu possibile perché a Firenze si realizzò la confluenza di particolari condizioni culturali. Gli Studia Humanitatis, la lettura delle opere letterarie e filosofiche dell’antichità e la particolare influenza del neo-platonismo su molti scrittori e artisti, il fatto che essi fossero pronti ad assimilare il linguaggio e la cultura della Grecia e di Roma, crearono una situazione unica in Europa.

In Italia, se Firenze fu la città del Neo-platonismo, Padova fu quella dove rimase più attiva e consistente la cultura aristotelica. Entrambe furono importanti per la crescita di una nuova mentalità, ma mentre la cultura aristotelica era già stata protagonista durante il Medioevo in tutte le università europee, la cultura neoplatonica ebbe in Firenze, durante questo periodo, una «rinascita» nella quale si concepì in maniera drasticamente innovativa la relazione tra il Cristianesimo, la cultura classica, la filosofia e l’arte.

Potrebbe sembrare strano che proprio in un periodo in cui i capitani di ventura guerreggiavano tra loro, pagati dai principi di città nemiche, mentre Niccolò Machiavelli teorizzava l’autonomia della politica dai valori morali e religiosi correnti e l’Italia era nelle mani di persone che spendevano molti soldi per organizzare guerre e assassinii al fine d’incrementare il loro denaro e il loro potere, che proprio in quel periodo un nuovo modo di guardare, di sentire e di dipingere abbia potuto prendere forma. Tuttavia, proprio in quest’epoca l’uomo poté rivendicare una maggiore libertà d’azione e d’iniziativa in ogni ambito: egli incominciò a cercare di essere più simile alla natura così come poteva conoscerla e ad assumersi pienamente la responsabilità della propria razionalità e della propria libertà, fino a considerare quest’ultima — come fa Pico della Mirandola nella sua Oratio de Hominis Dignitate — una prerogativa essenziale della sua esistenza. L’uomo è infatti collocato, per Pico, «nel mezzo del mondo» affinché possa imparare a determinarsi secondo il suo arbitrio e a scorgere «tutto ciò che è nel mondo»,25 diffondendo «la luce della filosofia naturale»26 man mano che apprende a conoscere se stesso, dato che proprio dal rispetto di questo famoso motto socratico dipende anche la sua capacità di conoscere «tutta la natura», di cui egli «è legame e connubio».27

La ricchezza e l’originalità della formazione culturale di Pico, la sua familiarità con Marsilio Ficino e con gli ambienti platonici fiorentini, contribuirono decisamente a fare anche di lui, nonostante la sua giovane età e la pubblicazione solo postuma di questa sua opera emblematica, uno dei protagonisti della scena culturale italiana proprio nel periodo in cui l’arte della prospettiva stava giungendo a piena maturazione, e anche la sua filosofia contribuì, sebbene indirettamente, a creare quello sfondo culturale che permise a questo nuovo modo di dipingere e costruire di svilupparsi con piena consapevolezza dei propri strumenti teorici e delle proprie premesse filosofiche.

Senza dubbio, come osserva Eugenio Garin, in Italia «le diverse situazioni di libere repubbliche e signorie, di principati, di potenze ecclesiastiche, si riflettono sul modo di operare di scultori, pittori, architetti, urbanisti. La presenza di circoli culturali nelle corti, l’influenza di teorie e movimenti spirituali, sono inseparabili dalle forme che le arti vengono prendendo»28 durante l’età rinascimentale. I problemi che ora vorremmo porci sono dunque da collocare in un contesto più ampio, e possono essere definiti tramite domande come le seguenti: in cosa consiste l’influenza di tali fattori culturali e spirituali su tali forme artistiche? E, reciprocamente, in che modo queste ultime potrebbero avere a loro volta influenzato o preannunciato tali elementi?

Durante il Quattrocento, i più significativi artisti fiorentini erano a conoscenza delle teorie neoplatoniche che circolavano in città, della nuova fede nell’uomo e nelle sue capacità conoscitive che tali teorie proponevano, e ciò sebbene alcuni, come l’Alberti, nutrissero anche una qualche diffidenza nei confronti del misticismo del Ficino e di Pico. Come sostiene Anthony Blunt, proprio l’Alberti ebbe però il merito d’integrare la misticheggiante metafisica neoplatonica, quale emergeva dall’Accademia ficiniana, con una tecnica che ne consentiva l’applicazione alla pittura del suo tempo.29

Sia per l’Alberti che per Leonardo la pittura era «una scienza, essendo basata sulla prospettiva matematica e sullo studio della natura».30 Essa si fondava su «scientifici e veri principi», la cui applicazione doveva però essere sempre confrontata con l’esperienza.31 L’esigenza di un tale confronto è facilmente comprensibile se si tiene presente che una delle principali finalità della pittura era per Leonardo quella d’imitare la natura,32 tanto che raccomandava ai pittori «di portare sempre con sé uno specchio» per controllare se l’immagine da questo riflessa corrispondeva esattamente a quella dipinta.33 Anche l’Alberti considera lo specchio «uno ottimo giudice»,34 ma Leonardo non si limita a questo: per lui il pittore non doveva solo imitare, ma anche creare, trasportando le idee che nascevano nella sua mente nelle sue mani, ed egli giunse «a paragonare — come ci ricorda sempre Blunt — la facoltà inventiva al potere divino di creare il mondo».35

Nel compimento di quest’impresa, la matematica assume un ruolo fondamentale fin dal primo Rinascimento: come scrive ancora Blunt, «con la prospettiva lineare essa forniva uno degli strumenti scientifici più importanti per lo studio della natura e i teorici vi si appellavano come a una vera e propria scienza»;36 essa conferiva alla stessa tecnica della prospettiva quel rigore scientifico che la rendeva affidabile agli occhi dei pittori rinascimentali, consentendogli così di superare «l’imitazione ingenua e sperimentale del mondo naturale» e rendendoli capaci di riprodurlo in maniera decisamente più realistica rispetto al passato.37

3. Il punto di vista umano e la tecnica della prospettiva

Se non è difficile constatare l’influenza che la geometria ebbe sull’arte del Rinascimento, può risultare però un compito più arduo spiegare come le teorie filosofiche si manifestarono concretamente nell’arte del tempo, ovvero rintracciarne alcuni tratti significativi nelle opere dei grandi maestri di quell’epoca. Più in particolare, per esempio, potremmo chiederci: qual è la relazione tra queste teorie filosofiche e quella logica della prospettiva che, come si è accennato, secondo Ernst Gombrich deriva dal fatto «che non possiamo vedere dietro un angolo»?

Questo tratto saliente dell’arte della prospettiva è illustrato «con magistrale semplicità» in una famosa xilografia di Dürer raffigurante un liuto.38 In quest’opera, l’Artista tedesco ha rappresentato «la linea retta dello sguardo con una cordicella e ha mostrato come il liuto debba risultare nella cornice considerato dal punto di vista dell’occhio del pittore, che si deve immaginare collocato nel punto in cui la cordicella è fissata al muro. Dalla dimostrazione di Dürer risulta anche che è possibile costruire quanti oggetti si vogliono tali che poi appariranno identici se visti dai fori di un apparecchio ottico».39

Questa possibilità ci fa comprendere come una singola immagine prospettica possa essere originata dalla proiezione su un piano di diversi oggetti tridimensionali e costituisce una scoperta dell’arte rinascimentale, che attraverso la regola negativa del «testimone oculare» conduce direttamente allo studio del punto di vista, dello scorcio e della prospettiva,40 la quale ci consente «di eliminare dalla rappresentazione tutto ciò che non è visibile da un particolare punto di osservazione».41

Se Gombrich propone una regola «negativa» per individuare un aspetto saliente della nuova tecnica della prospettiva, Erwin Panofsky ne coglie uno altrettanto essenziale in termini positivi. Dopo aver spiegato come l’uso della prospettiva che facevano gli antichi differisca essenzialmente da quello dei moderni — perché i primi, al contrario dei secondi, non potevano pensare uno spazio sistematico — Panofsky evidenzia come la chiusura dello spazio verso un punto di fuga centrale consenta, al tempo stesso, l’apertura dello spazio. Con la prospettiva rinascimentale la superficie pittorica non è più — secondo Panofsky — «la parete o la tavola su cui vengono disposte le forme delle singole cose e figure, ma è tornata ad essere il piano trasparente attraverso il quale noi possiamo pensare di guardare attraverso uno spazio aperto per quanto circoscritto in tutte le direzioni: un ‘piano figurativo’ nel senso più pregnante della parola. La ‘visione attraverso’ tale piano, preclusa dopo l’antichità, si fa di nuovo possibile poiché esso ricomincia ad aprirsi, e già si presenta la possibilità che il dipinto torni a diventare una ‘porzione’ di uno spazio più vasto e, rispetto all’Antichità, più saldo, organizzato unitariamente».42

Nell’Annunciazione di Ambrogio Lorenzetti (vedi copertina),43 «per la prima volta le ortogonali visibili del piano di base sono tutte orientate, e senza dubbio con piena coscienza matematica, verso un unico punto»,44 e questo contribuisce a creare — secondo Panofsky — l’effetto di un’apertura dello spazio, realizzando il moderno «spazio sistematico» in una sfera concretamente artistica.45 Lo spazio cessa così di essere concepito come resto delle forme dei corpi e diviene spazio organico e obiettivo, cui tuttavia si perviene attraverso la valorizzazione e la ricostruzione rigorosa di un punto di vista soggettivo.

La prospettiva appare perciò a Panofsky «un’arma a doppio taglio: […] essa crea una distanza tra l’uomo e le cose […], ma poi elimina questa distanza, assorbendo in certo modo nell’occhio dell’uomo il mondo di cose che esiste autonomamente di fronte a lui; essa riduce i fenomeni artistici a regole ben definite, anzi a regole matematicamente esatte, ma d’altro canto le fa dipendere dall’uomo, anzi dall’individuo, in quanto queste regole si riferiscono alle condizioni psicofisiche dell’impressione visiva, e in quanto il modo in cui agiscono viene determinato dalla posizione, che può essere liberamente scelta, di un ‘punto di vista soggettivo’. Così la storia della prospettiva può essere concepita ad un tempo come un trionfo del senso della realtà distanziante e obiettivante, oppure come un trionfo della volontà di potenza dell’uomo che tende ad annullare ogni distanza; sia come un consolidamento e una sistematizzazione del mondo esterno, sia un ampliamento della sfera dell’io».46

Dall’accettazione della limitatezza e soggettività del punto di vista umano si arriva dunque — seguendo Panofsky — alla creazione di uno spazio sistematico-obiettivo. Lo spazio trova una sua obiettivazione e cessa d’essere un semplice elemento simbolico giustapposto ad altri. L’Io, in questo senso, allarga il proprio orizzonte man mano che sa cogliere la trasparenza dello spazio, facendosi a sua volta trasparenza che tende a coincidere con la propria visione.

A parziale integrazione delle tesi di Panofsky, si può altresì notare come questa trasparenza conduca anche in una dimensione temporale, perché la nuova profondità della rappresentazione così conseguita allude ad un tempo orientato verso un punto di fuga, verso un limite finale. È facendo leva su tale limite finale che si può pervenire ad una rappresentazione «umana», perché solo attraverso la mediazione di tale limite lo spazio diviene sistematico e obiettivo e può suggerire la presenza dell’infinito nel finito, di un tempo aperto, illimitato, all’interno di uno chiuso e limitato.

Il tempo, quindi, entra metaforicamente a far parte della rappresentazione pittorica con l’avvento e lo sviluppo della prospettiva. L’oggetto della rappresentazione cessa di essere l’immagine di una configurazione simbolica eterna e introduce alla dimensione temporale e progettuale umana. È sull’effetto di chiusura del punto di fuga che si regge l’illusione prospettica ed è su di un analogo punto di fuga temporale che si regge ogni prospettiva di senso, ogni prospettiva progettuale di vita. Appoggiandosi al punto di fuga — che costituisce in realtà un punto di convergenza e chiusura — si ottiene dunque, in modo apparentemente paradossale, l’accesso ad uno spazio aperto: sistematico ed obiettivo da un lato, concretamente soggettivo e temporale dall’altro.

Come pone in evidenza Rudolf Arnheim, l’esperienza visiva mira a cogliere come un tutto il suo oggetto, perché «la simultaneità spaziale facilita la sinopsi e quindi la comprensione. La concezione teorica del mondo delle cose viene perciò fatta normalmente derivare da uno stato di immobilità o, per essere più precisi, da un punto statico nello spazio. Questo punto germinale ‘fa crescere’ le dimensioni spaziali l’una dopo l’altra sino a raggiungere la tridimensionalità. All’oggetto pienamente realizzato la mobilità viene ad aggiungersi come la quarta dimensione del tempo, separata dalle altre. [. .] Per comprendere un evento come un tutto — precisa ancora Arnheim — lo si deve vedere nella simultaneità, e cioè spazialmente e visivamente». […] «La sinopsi, come dice il termine stesso, è visiva».47

A parziale integrazione delle osservazioni di Arnheim, si può osservare che la tecnica della prospettiva riesce a suggerire però anche una dimensione temporale, e ciò proprio attraverso l’ambivalenza dello sguardo del soggetto sullo spazio circostante. Il punto di fuga della rappresentazione prospettica costituisce un simbolo ambivalente perché da un lato evoca l’infinità dello spazio e del tempo, dall’altro l’effetto di chiusura dello spazio e del tempo in una dimensione finita; in virtù di tale chiusura da un lato suggerisce un’idea di totalità, dall’altro d’individualità; per un verso lo spazio e il tempo si chiudono verso il punto di fuga, per altro verso essi conservano la loro dimensione infinita. Tale ambivalenza deriva essenzialmente da un fondamentale assioma della geometria euclidea: quello per il quale due o più rette parallele s’incontrano all’infinito. All’interno del quadro sinottico cui Arnheim fa riferimento, la prospettiva, rappresentando su una superficie bidimensionale uno spazio tridimensionale, allude anche, nel contesto di tale tridimensionalità, alla dimensione temporale che caratterizza la presenza dell’uomo nel mondo, insinuando così metaforicamente tale dimensione anche all’interno della stessa visione sinottica.

Il problema che ora si apre concerne quindi il modo in cui la rappresentazione prospettica riesca ad assumere valori simbolici all’apparenza tanto contrastanti, e quale ruolo sia da attribuire alla geometria rispetto a tale assunzione; ma prima ancora di soffermarci su questo tema cruciale, ci pare necessario qualche approfondimento preliminare circa il dibattito che è si è sviluppato nel Novecento intorno al tema del «Realismo» della prospettiva.

4. Il dibattito sul «realismo» della prospettiva

I problema appena accennato, che attraversa molti degli studi principali sulla prospettiva, concerne la relazione che essa ha con l’esperienza visiva naturale. La tendenza a cogliere come un tutto l’insieme della propria esperienza visiva è il senso che la prospettiva riveste, secondo Pavel Florenskij, nella storia dell’arte: per lo studioso russo, con il Rinascimento la prospettiva «diviene un mezzo tale da unificare tutte le rappresentazioni del mondo, secondo il quale il mondo viene letto come una trama unitaria, indissolubile e impenetrabile di relazioni kantiano-euclidee, concentrate sull’‘Io’ di colui che osserva il mondo, ma in modo tale che questo ‘Io’ sia esso stesso un certo punto focale immaginario del mondo, inerte e speculare. In altri termini, la prospettiva è il procedimento che inevitabilmente risulta da una concezione del mondo, in cui si ammette un certo tipo di soggettività, la più priva di realtà, come vera base degli oggetti-rappresentazioni semireali».48

Nella concezione di Florenskij, l’adozione della prospettiva rivela dunque la tendenza dell’uomo a fornire un’immagine unitaria e complessiva, ancorché, a suo parere, «inerte» e «impersonale» del mondo. La sinopsi cui fa riferimento Arnheim sarebbe dunque pagata a caro prezzo, giacché essa, con l’avvento della prospettiva, tenderebbe a riprodurre in modo impersonale un punto di vista particolare, rinunciando ad intraprendere quella sintesi simbolica che è patrimonio creativo comune dell’arte pre-prospettica, in particolare di quella religiosa d’ispirazione cristiano-ortodossa.49

Per Florenskij lo spazio pittorico non coincide con lo spazio geometrico, kantiano-euclideo,50 e nemmeno con lo spazio quale è riprodotto dal presunto prospettivismo rinascimentale e che sembra accumunare nella medesima concezione del mondo Leonardo, Cartesio e Kant.51 Il nostro mondo non si trova in uno spazio euclideo, ma anche prescindendo da questa circostanza, anche qualora fosse questo lo spazio in cui il mondo si trova, resterebbe il fatto «che noi, probabilmente, non vediamo e non percepiamo affatto il mondo come un mondo euclideo-kantiano, ci limitiamo a discutere su di esso, per le esigenze della teoria, come se questo fosse il mondo visibile. Però la funzione del pittore è quella di abbozzare non astratti trattati, ma quadri, cioè rappresentare ciò che egli realmente vede. Poiché egli vede, per la struttura stessa dell’organo visivo, un mondo tutt’altro che kantiano, deve di conseguenza rappresentare qualcosa che non sia per niente sottomesso alle leggi della geometria euclidea».52

Il kantismo è secondo Florenskij «un approfondimento della visione del mondo umanistico-naturalistica del rinascimento»,53 ma lo spazio, e soprattutto lo spazio raffigurato in un quadro, «non è soltanto un luogo omogeneo e senza struttura, né una semplice casella, ma è a sua volta una realtà particolare, interiormente organizzata, dovunque differenziata, sempre dotata di una struttura e di un ordine interiore».54 Se per la raffigurazione prospettica ogni disegno deve avere «un solo punto di vista, un solo orizzonte, una scala omogenea di grandezze»; se «la giusta proporzione delle grandezze deve dominare in tutta la rappresentazione», ciò significa che «la trasgressione dell’unicità del punto di vista, dell’unicità dell’orizzonte e della scala delle grandezze, è trasgressione dell’unità prospettica dell’immagine».55

Ma questo tipo di spazio riprodotto prospetticamente non coincide affatto, secondo Florenskij, con lo spazio percepito: «nella percezione l’immagine visiva non viene osservata da un solo punto di vista, ma per l’essenza stessa della visione, è un’immagine di prospettiva poli-centrica».56 La prospettiva viene così a perdere la sua posizione privilegiata nell’ambito della tecnica figurativa: essa è «un mezzo di espressione simbolica, uno tra i possibili stili simbolici, il cui valore artistico può dipendere da un particolare punto di vista, ma proprio in quanto tale, si pone al di là dei giudizi senza appello sulla sua verosimiglianza, della pretesa di un ‘realismo brevettato’».57 E ciò perché «la rappresentazione è, sempre, un simbolo, ogni rappresentazione, qualunque essa sia, prospettica e non, e tutte le immagini delle arti figurative si distinguono l’una dall’altra non perché siano simboliche e altre, per così dire, naturalistiche, ma perché, essendo tutte parimenti non naturalistiche, sono simboli delle diverse facce di un oggetto, di diverse percezioni del mondo, di diversi livelli di sintesi».58

L’analisi di Florenskij, per quanto per larghi tratti condivisibile, non ci sembra analizzare compiutamente le implicazioni dell’aspetto «simbolicamente» più rilevante della prospettiva rinascimentale, ovvero della sua vocazione a un tempo realistica e soggettivistica: è infatti dalla sintesi di queste due dimensioni che essa trae la sua ispirazione fondamentale, e ciò a prescindere dal conseguimento del fine — che, più o meno consapevolmente, si prefigge — d’imitare o riprodurre un’esperienza naturale. In altri termini, il fatto che sia «soltanto uno» tra i mezzi di espressione simbolica non può pregiudicare la sua efficacia estetica, né può farla dipendere dal pieno conseguimento del suo intento realistico, perché anche a prescindere da tale conseguimento essa ha prodotto opere d’arte d’inestimabile valore annunciando una concezione della raffigurazione artistica consonante con una nuova visione del mondo, dell’uomo e dei loro rapporti.

Come Florenskij, anche Panofsky contesta l’adesione della prospettiva scientifica alla visione naturale, per interpretarla piuttosto come «l’espressione particolare di una costruzione dello spazio corrispondente a una specifica visione del mondo, quella della cultura rinascimentale, di cui la prospettiva sarebbe appunto, in termini cassireriani, «forma simbolica», cioè come «modo determinato di concepire spiritualmente, nel quale e mediante il quale costituisce ad un tempo un aspetto specifico del ‘reale’».59 Dall’analisi di nessuno dei due si evince tuttavia che la sua eventuale efficacia estetica e il significato di questa specifica «forma simbolica» debbano essere subordinati al pieno conseguimento del suo obiettivo «realistico»; Florenskij, in particolare, sembra piuttosto rivolgere le sue riserve su questo argomento a coloro che lo usano per sostenere che il realismo dell’arte rinascimentale costituirebbe un fattore di progresso sotto il profilo estetico.

Le teorie di entrambi hanno comunque contribuito ad aprire tra gli studiosi un dibattito circa la possibilità di considerare la prospettiva come una costruzione convenzionale o come una tecnica che rispecchia «fedelmente» la visione naturale. Se possiamo annoverare Gombrich fra i sostenitori della tendenza implicita nell’arte prospettica a riprodurre con la migliore approssimazione possibile l’esperienza della visione, la sua convenzionalità è stata invece sostenuta da Nelson Goodman. Come osserva Andrea Pinotti, per Gombrich «non si insisterà mai abbastanza sul fatto che l’arte della prospettiva aspira a realizzare un’equazione corretta: mira a che l’immagine appaia come l’oggetto, e l’oggetto come l’immagine», mentre per Goodman «i quadri in prospettiva, come tutti gli altri, devono essere letti; e la capacità di vedere deve essere acquisita»: occorre cioè imparare a leggere il linguaggio prospettico come qualunque altro linguaggio, imparandone le leggi costruttive».60 Sarà proprio quest’approccio a fargli considerare la prospettiva come un’astrazione che non può essere spacciata per una riproduzione realistica dell’esperienza della visione.

Goodman in effetti critica con decisione la posizione di Gombrich, che secondo lui «deride “l’idea che la prospettiva sia semplicemente una convenzione e non rappresenti il mondo come appare”». Gombrich — scrive Goodman — afferma «che «non si insisterà mai abbastanza sul fatto che l’arte della prospettiva aspira a realizzare un’equazione corretta; mira a che l’immagine appaia come l’oggetto, e l’oggetto come l’immagine».61 Analogamente, anche James J. Gibson sostiene una tesi anti-convenzionalistica, scrivendo a sua volta che «non sembra ragionevole affermare che l’uso della prospettiva nel disegno sia semplicemente una convenzione, che possa essere utilizzata o abbandonata a seconda di come preferisce il pittore… Quando l’artista trascrive ciò che vede su una superficie a due dimensioni, egli usa di necessità la prospettiva geometrica».62

Queste posizioni antirelativistiche di Gombrich e Gibson sono criticate da Goodman perché, per poter applicare le leggi della prospettiva al fine di conseguire un effetto realistico, «il quadro deve essere guardato attraverso un foro, frontalmente, da una distanza determinata, con un occhio chiuso e l’altro immobile», condizioni queste che rendono improbabile la somiglianza della rappresentazione alla visione quale può normalmente realizzarsi.63

In linea generale, secondo Goodman, invece, le condizioni d’osservazione «non sono per lo più identiche per il quadro e per l’oggetto»,64non sono cioè effetto della coincidenza con una disposizione naturale quale è testimoniata dall’esperienza della visione, tant’è vero che la capacità di leggere i quadri in prospettiva deve essere acquisita come per qualsiasi altro tipo di quadro,65 e ciò perché, «le leggi della prospettiva pittorica non discendono dalle leggi dell’ottica» e «l’artista che intende produrre una rappresentazione spaziale attualmente accettabile come fedele da un occhio occidentale deve trasgredire le “leggi della geometria”».66

Goodman cerca dunque di dimostrare che la rappresentazione non coincide con la visione: ma questa è, da un lato, una constatazione abbastanza ovvia, e dall’altro non sottolinea come sia proprio questa la coincidenza a cui mira la rappresentazione prospettica e come l’intento realistico di quest’ultima ne costituisca l’elemento forse più significativo indipendentemente dalla sua perfetta soddisfazione. Come fa opportunamente osservare Martino Feyles contestando la tesi di Goodman: «il fatto che ci siano degli elementi della visione naturale che nessun quadro può imitare non mostra altro che i limiti del quadro come mezzo di raffigurazione. L’oggettività della prospettiva non ne viene affatto scalfita. Sarebbe più appropriato parlare di limiti della raffigurazione pittorica, o di limiti del quadro, piuttosto che di limiti della prospettiva. Certo una veduta in prospettiva non è in grado di assecondare i movimenti dello spettatore; ma questo è un limite della raffigurazione pittorica non della prospettiva».67

Feyles giunge quindi alla conclusione che «la prospettiva è una astrazione, quindi è limitata, ma nei suoi limiti assolutamente esatta»,68 conclusione che, ad un tempo, integra e rovescia la tesi sostenuta da Goodman e, più indirettamente, anche quella avanzata da Francastel. Secondo quest’ultimo, infatti, «l’ideale d’una rappresentazione immediata, assolutamente fedele, del reale è un’illusione, e la coincidenza rigorosa dell’inquadratura geometrica e della trasposizione luminosa, un mito».69 Per lo studioso francese «il fatto stesso che il modo di rappresentazione plastica del Rinascimento corrisponda a un certo grado del progresso scientifico e sociale esclude ch’esso sia un linguaggio universale o l’espressione di una funzione costituzionale dell’essere umano. Credere al realismo della prospettiva lineare è come credere che un solo gruppo linguistico esprima tutti i bisogni semantici dell’umanità».70

Anche questa di Francastel ci pare tuttavia una conclusione forzata, in quanto il credere al realismo della prospettiva lineare significa semplicemente credere che essa sia in grado di conseguire un grado di approssimazione all’esperienza visiva di gran lunga maggiore rispetto a quello che si è raggiunto con l’arte pre-rinascimentale, o con altri tipi di rappresentazione artistica che non si propongono questo fine. Sebbene la rappresentazione prospettica non costituisca di per sé un progresso sotto il profilo estetico, le nuove tecniche proposte durante il Rinascimento hanno contribuito a creare le premesse perché potessero realizzarsi opere che denotano un rapporto tra l’uomo, se stesso e la realtà esterna complessivamente diverso rispetto al passato, che annunciano una nuova visione del mondo e addirittura una nuova civiltà. Ciò è del resto in linea con quanto afferma lo stesso Francastel, secondo il quale «la civiltà è un tutto e ogni modificazione sostanziale dell’attitudine umana si ripercuote poco o tanto in tutte le attività contemporanee, principalmente in quelle che, come le arti, sboccano, come tutti i linguaggi, in un’espressione simbolica del pensiero collettivo».71

Ancora in accordo con quanto sostiene Goodman, per Francastel «la lettura di un quadro è un esercizio attivo e non passivo. Non v’è, né può esservi soluzione plastica, fissa o mobile, che offra all’uomo la visione totale ed esatta del mondo. Un quadro non è il doppio della realtà, è un segno. Da una parte c’è il mondo con i suoi mille spettacoli; davanti ad esso c’è l’uomo, che non è mai immobile. […] L’opera d’arte è una cosa positiva, ma non può essere una registrazione né di ciò che è nella natura né di ciò che è nello spazio. C’è il mondo, l’immagine vissuta; c’è l’immagine percepita che è una realtà spirituale di ogni autore e di ogni spettatore; c’è l’immagine annotata che costituisce il segno di riconoscimento; e l’immagine virtuale che consente la trasmissione del pensiero dall’autore allo spettatore. Ammessa questa verità estetica e psicologica, è assurdo parlare del realismo del Rinascimento, né questo può più esser pensato distaccato dal tempo che lo precede e da quello che lo segue».72

Questa argomentazione ci pare però condivisibile solo nella parte iniziale, e invece poco efficace nell’ultima e conclusiva, perché il fatto che si tratti pur sempre di «una realtà spirituale» storicamente contestualizzabile non è infatti diminuito né contraddetto dalla vocazione «realistica» dell’arte rinascimentale, anzi, proprio tale vocazione costituisce la cifra della nuova dimensione spirituale da essa introdotta. Ciò che accade nell’arte rinascimentale è caratterizzato dal tentativo di rendere le immagini vissute di cui parla Francastel nel modo più realistico possibile, senza con ciò aver la pretesa di descrivere la realtà quale è in se stessa, prescindendo cioè dal decisivo intervento prospettico del soggetto che vede, o attribuendosi delle doti imitative così assolutamente efficaci da soddisfare i requisiti richiesti dall’idea di «realismo» adottata, più o meno esplicitamente, da Goodman e Francastel.

D’altra parte, lo stesso Francastel riconosce bene come nell’arte del Quattrocento si realizza una caratteristica essenziale e innovativa della realtà quando nota come in tale epoca si tenta di rappresentare «lo spazio infinito del mondo divenuto infine una realtà accessibile allo spirito».73 Egli osserva giustamente come «la scoperta, ai tempi del Brunelleschi e del Manetti, di Paolo Uccello e di Piero, di un sistema di proiezione geometrica fondato sull’adozione di un punto di vista unico non è che il sintomo di una più vasta trasformazione spirituale. La tecnica sola non spiega l’apparizione di un nuovo stile; un nuovo stile implica una nuova attitudine dell’uomo verso il mondo. Solo perché gli uomini del Quattrocento hanno mutato la gerarchia generale dei valori sono stati condotti a modificare parallelamente la rappresentazione figurativa della posizione degli oggetti del mondo».74

A difesa delle tesi realistiche, e di quella di Gombrich in particolare, ci pare comunque opportuno ribadire come quest’ultimo non individui nell’esatta corrispondenza della riproduzione prospettica con l’esperienza visiva il punto cruciale della svolta prospettivistica — giungendo così a negare alcune differenze evidenti tra la prima e la seconda (come per esempio quella, rilevata dallo stesso Goodman, ma anche da Leonardo,75 che essa nasce come ricostruzione monoculare anziché bioculare) -, e colga piuttosto un tale momento cruciale nella dimensione soggettiva e parziale della ricostruzione prospettica (il parametro del non poter vedere «dietro un angolo»), e quindi, di conseguenza, anche nella maggiore prossimità all’esperienza della visione che il prospettivismo rinascimentale propone rispetto al passato nonché, più in generale, nel suo proposito e nella sua tendenza a riprodurre la stessa visione in maniera più simile al particolare punto di osservazione di uno spettatore virtuale.76

5. Dio, lo spazio e la «fuga» prospettica

Nel contesto del dibattito sorto tra «convenzionalisti» e «naturalisti» a proposito dell’arte rinascimentale, la brusca antinomia che emerge dalle loro rispettive tesi pare tuttavia, a molti studiosi, datata e superata: Tomás Maldonado, per esempio, ritiene che ormai non sia più «oggetto del contendere se lo spazio figurativo costruito con l’aiuto della prospettiva lineare corrisponda perfettamente allo spazio reale. Al presente, nessuno oserebbe sostenere una tesi del genere. Ora si sa, fuori di ogni ragionevole dubbio, che la prospettiva lineare, come qualsiasi altro dispositivo atto alla riproduzione illusoria dello spazio su un piano, ha una natura in parte convenzionale. Ciò non toglie però che la rappresentazione prospettica sia stato un passo a dir poco rivoluzionario nella storia delle tecniche finalizzate a fornire una rappresentazione sempre più verosimile della realtà».77

Si è visto come proprio questa sua vocazione a conseguire una spiccata verosimiglianza con l’esperienza visiva individuale costituisca per Florenskij la sua caratteristica e, al tempo stesso, il suo limite più rilevante, limite che non deriva però, a suo avviso, specialmente dall’impossibilità di realizzare un simile obiettivo, ma che è già insito nel suo orientamento culturale e spirituale. La critica avanzata da Florenskij è comunque riferibile alle stesse premesse filosofiche che stanno alla base di questo proposito e di questa tendenza; essa è cioè riconducibile ad entrambe le tipologie di riserve previste da Panofsky: la prima, che può essere fatta risalire a Platone, condanna la prospettiva perché essa deformerebbe le «’vere misure’ delle cose» e porrebbe «l’arbitrio e l’apparenza soggettiva al posto della realtà e del Nomos»; la seconda, propria di teorie estetiche più moderne, le muove invece «il rimprovero di essere strumento di un razionalismo limitato e limitante».78 L’impersonalismo riscontrato da Florenskij nella tecnica della prospettiva è connesso con entrambe queste impostazioni critiche, riconducibili all’atteggiamento passivo di fronte alla realtà percepita che la prospettiva, a suo avviso, incoraggia e veicola; ma proprio le caratteristiche che risultano negative agli occhi di Florenskij sono anche quelle più difficilmente scorporabili dalla stessa esperienza visiva individuale: se questa può infatti garantire una visione più organica a ogni tipo di conoscenza che s’ispiri al suo modello, ciò può verificarsi solo al prezzo di una riduzione soggettivistica che può precludere la possibilità di una più libera e articolata rielaborazione simbolica della stessa esperienza visiva quale è interiorizzata dall’artista, così come si verificava, secondo Florenskij, nell’arte medievale antecedente alla «scoperta» della prospettiva.

Marshall McLuhan avanza al riguardo considerazioni simili, integrando quelle svolte da Florenskij sullo stesso tema. Per McLuhan, infatti, «il Rinascimento era inconsciamente impegnato a creare un diffuso spazio visivo uniforme, continuo e connesso»,79 perché al centro della rappresentazione medievale si trovava l’idea, «piuttosto che le connessioni narrative psicologiche fra le figure. Non c’era quindi bisogno di uno spazio ‘razionale’ o continuo in cui le figure potessero trovare un’interazione psicologica. Se si porta questo concetto rinascimentale all’estremo lo spettatore trova facile inserirsi nel quadro come se il suo spazio e quello del dipinto fossero lo stesso. Questo divenne possibile quando il ‘punto di fuga’ venne fissato ‘all’interno’ del quadro. Con la fuga prospettica venne l’illusione che lo spazio fosse un continuo fra lo spettatore e la situazione artistica. Lo spettatore diventa parte delle linee di forza che trovano il loro fulcro nel punto di fuga».80 Per queste ragioni, anche secondo McLuhan «la prospettiva in sé è un tipo di percezione che per sua stessa natura tende allo specialismo e alla frammentazione. Insiste sul singolo punto di vista (per lo meno nella fase classica) e ci coinvolge automaticamente in un singolo spazio».81

Tuttavia, fu proprio grazie al rispetto di tale limitazione — sottolineata sia da Florenskij sia da McLuhan — che la tecnica della prospettiva poté suggerire a molti artisti rinascimentali un nuovo modo per rappresentare lo spazio, fornendogli uno strumento che, in maniera più o meno consapevole, era destinato a incidere profondamente sulla attività conoscitiva di filosofi e scienziati, modificando anche inconsciamente il loro modo di vedere se stessi e il mondo.82

La critica di Florenskij si basa su una valutazione più generale del naturalismo nell’arte, naturalismo di cui la prospettiva costituirebbe un aspetto rilevante e preclusivo. Nella pittura naturalistica secondo Florenskij si sradicherebbe infatti «dalla percezione del mondo tutto ciò che è prezioso ed eterno» andando a caccia di «casuali scintillii» e «riflessi colorati» che caratterizzano non «la cosa in quanto tale, ma soltanto il suo contesto». […] «Al posto della cosa si dà qui un luogo vuoto, nel quale convergono le funzioni che appartengono alle cose al di fuori del campo della rappresentazione. Riguarda questi procedimenti nichilisti anche la prospettiva lineare, a loro omologa nel significato, il cui fine è quello di non permettere all’occhio di soffermarsi in contemplazione di almeno una cosa, ma di passare sempre vicino a ciascuna di esse, in un vuoto sconfinato, dove si annullano a poco a poco tutte le immagini concrete e qualsiasi cosa sfuma nel nulla. Sia la prospettiva, sia altri procedimenti molto amati dal naturalismo del tipo di quelli indicati, sono simili all’avarizia, che spinge a trascurare tutto ciò che si ha davanti per qualcos’altro e a gettare poi via questo per una terza cosa. E così via. Questa è la pena eterna di uno spirito caduto nel vuoto».83

Una simile pena è per Florenskij la stessa che ha accompagnato nella loro avventura umana Faust e Don Giovanni: «l’opera realizzata in questo spirito, perennemente insaziabile, mostra qualsiasi essere come un buco prospettico, cioè come un esodo nello spazio illimitato che può essere tenuto insieme solo dal punto di fuga, o da un punto illusorio, irraggiungibile e inesistente nella realtà, punto che adesca da lontano per annullare qualsiasi forma e le sue diverse articolazioni concentrandole nel punto del non-essere, nel quale non esistono più parti differenziate».84

Proprio questo scivolamento verso il vuoto potrebbe però non alludere soltanto — come sostiene Florenskij — ad una tendenza a sfumare nel nulla di ogni cosa concreta, all’esodo verso un punto di fuga illusorio e il non-essere, ma anche, e per le stesse ragioni brillantemente addotte da Florenskij, a quel passaggio sottile che lega, lasciando scivolare lo sguardo verso il punto di fuga, uno spazio infinito alla sua proiezione e presenza nello sguardo dell’uomo, il cosmo infinito al microcosmo umano, lo stesso Dio bruniano, che può essere colto solo in assenza e in un futuro remoto, al punto di osservazione di ogni singolo uomo. Le implicazioni colte da Florenskij sarebbero in questo senso solo alcune tra quelle possibili, e non consonanti con quanto l’arte della prospettiva riuscì a far intravedere anche in una dimensione filosofica, alludendo all’infinità di uno spazio che pur tendeva a ritrovare la propria unità orientandosi verso il punto di fuga della visione.

6. Il mondo si manifesta allo sguardo

Abbiamo visto come, nell’ambito di questo nuovo tentativo di ricostruire l’esperienza visiva, la geometria euclidea, che già nel medioevo costituiva un riferimento importante per l’accesso ad una conoscenza sottratta alla contingenza dell’esperienza sensibile, costituisca uno strumento essenziale. Come osserva Michael Baxandall, «molta gente nel Quattrocento era piuttosto abituata all’idea di applicare la geometria piana al più ampio mondo delle apparenze, poiché ciò veniva loro insegnato per misurare gli edifici e gli appezzamenti di terreno»85 e «l’educazione attribuiva un valore eccezionale a certe capacità matematiche come la misurazione e la Regola del Tre. Questa gente non conosceva molto più matematica di noi, anzi la maggior parte di loro sapeva meno della maggior parte di noi. Ma essi conoscevano benissimo il settore in cui erano specializzati»86 e sapevano applicare le regole geometriche di cui erano a conoscenza e che gli erano utili in tale ambito.

Se a questo aspetto si aggiunge che, fin dal tardo medioevo, la visione è considerata, insieme alla geometria, un medium privilegiato per accedere alla sapienza divina, si può comprendere come la pittura potesse costituire, durante il Rinascimento, un modo particolarmente felice per simulare la relazione tra l’Uomo e Dio.87 La scienza della prospettiva era infatti un settore cui la ricerca accademica si era intensamente dedicata fin dal Tardo Medioevo,88 sebbene solo con il Brunelleschi e l’Alberti essa giunga a formulare delle rigorose regole specifiche, regole che saranno anche in grado di mostrare in concreto l’affidabilità del punto di vista individuale e, più in generale, della conoscenza e dell’esperienza visiva umana. Sotto questo profilo, la scoperta della prospettiva è in sintonia con alcune acquisizioni della cultura neo-platonica rinascimentale, nel senso che condivide con essa alcune fondamentali coordinate metafisiche ed estetiche.

In sintonia con il pensiero neo-platonico, il Rinascimento tende nel complesso ad attribuire all’uomo la prerogativa di costituire la sede originaria delle proprie idee, pur ritenendo che esse provengano, attraverso tutta una serie di mediazioni, dall’intelletto divino, e non pare quindi costituire una concomitanza casuale che, nella stessa epoca, si diffonda una concezione della pittura come di un’arte che era in grado di raffigurare dei modelli ideali partendo dall’esperienza individuale.89

Questa capacità della prospettiva di consentire l’accesso ad una riproduzione pittorica più in sintonia sia con l’esperienza visiva sia con le regole della geometria ebbe effetti sorprendenti e talvolta stupefacenti, e questo non soltanto per il pubblico, ma anche per gli stessi artisti. Come ricorda, citando il Vasari, ancora Gombrich, Paolo Uccello fu talmente impressionato dagli effetti e dalle possibilità della prospettiva «che trascorreva notte e giorno in tentativi prospettici, sempre sottoponendosi nuovi problemi. I suoi compagni d’arte erano soliti raccontare che egli era tanto immerso in questi studi da non distogliere lo sguardo neppure quando la moglie lo chiamava per andare a dormire, limitandosi ad esclamare: «Che dolce cosa la prospettiva!». Del fascino che lo soggiogava qualcosa trapela nella sua pittura.»^[90]

Come si è visto, furono soprattutto artisti come il Brunelleschi e l’Alberti a mettere a punto gli strumenti matematici che permettevano di comprendere come poteva essere riprodotto un tratto saliente dell’esperienza visiva: quello per cui, come scrive Gombrich, «gli oggetti diminuiscono di grandezza man mano che s’allontanano verso lo sfondo».90 Con le loro opere — e con quelle di altri grandi maestri rinascimentali della prospettiva, come Masaccio, Piero della Francesca e Leonardo -, il punto di vista individuale, che per l’uomo medievale costituiva un aspetto trascurabile nel contesto delle gradazioni della conoscenza, acquistò nuova dignità proprio in virtù del fatto che esso poteva essere ricostruito con un metodo oggettivo e geometrico, in grado di rendere conto sia della sua particolarità che del suo rapporto con una dimensione universale, sia della sua finitezza che della sua relazione con una dimensione infinita, sia della sua costante struttura geometrica che della circostanza storica e ambientale di cui ogni punto di vista umano è necessariamente espressione.

Con questo nuovo modo di riprodurre lo spazio circostante e la visione si intreccia infatti, durante il Rinascimento, anche un nuovo modo di percepire il passato e di trattare le tradizionali tematiche filosofiche. Come osserva Eugenio Garin, se lo scrittore medievale «tendeva ad appiattire veramente tutto il passato in un’unica dimensione, confondendo uomini ed eventi, preoccupato solo di valori eterni ed assoluti, non temporali»,91 e se la storia non era per lui, alla luce del pensiero metafisico, che «lo svolgimento del disegno divino», con l’Umanesimo e poi con il Rinascimento «comincia la ricerca precisa del volto di ognuno: diventa essenziale ritrovare l’aspetto di un uomo».92

È così che l’incontro con il passato cessa di essere «la confusione di una impersonale verità in cui è tutt’uno la mia e l’altrui mente», per diventare piuttosto «un colloquio ove io e l’altro scendiamo, ciascuno con i propri panni, con la parola che più schiettamente traduce di ognuno quello che è più suo».93 L’uso tanto diffuso della forma dialogica nei testi filosofici dell’età rinascimentale — da Petrarca fino a Erasmo, Bruno ed oltre — si propone per Garin come il tentativo di mostrare il gioco di punti di vista individuali nella loro relazione dinamica e, in questo senso, è in sintonia con l’idea che l’approssimarsi dell’uomo alla verità si declini attraverso specifiche «prospettive» individuali.

Anche la relazione che il Rinascimento ebbe con l’antichità non assume la forma di una sintesi eterna, statica e impersonale, come accadeva durante il medioevo, ma assume una dimensione «storicizzante». Per questo, come scrive ancora Garin, «il mito rinascimentale dell’antico, proprio nell’atto in cui lo definisce nei suoi caratteri, segna la morte dell’antico. Per questo fra antichità e Medioevo non v’è rottura, o ve né assai meno che non fra Medioevo e Rinascimento; perché solo il Rinascimento, o meglio la filologia umanistica si è resa cosciente di una rottura che il Medioevo aveva maturato portandola all’esasperazione».94

Questa maturazione raggiunge il suo momento culminante proprio quando s’incomincia a considerare in modo diverso il rapporto tra individuo e cosmo, ma anche tra la visione e la «rappresentazione» artistica. Con la nascita della prospettiva e la diffusione della filosofia neoplatonica sorge infatti una nuova concezione del mondo destinata a diffondersi oltre gli ambienti colti e accademici e che si traduce progressivamente in un nuovo modo di vedere e pensare negli ambiti più diversi. Tra questi due fenomeni culturali s’instaura cioè una sorta di virtuosa consonanza foriera di diverse suggestioni ed evocazioni, tanto da indurre a ritenere che, se le teorie filosofiche circolanti in Italia durante il XV e il XVI secolo hanno contribuito ad alimentare quel particolare sostrato culturale che ha fatto da sfondo allo sviluppo della prospettiva, probabilmente anche quest’ultima ha avuto un ruolo rilevante nel rendere percettibile il significato metafisico di tali teorie, evidenziandone le implicazioni nelle concrete modalità in cui l’uomo rappresentava la natura e se stesso.

Nell’età rinascimentale la raffigurazione artistica allude infatti ad un contesto di relazioni conoscitive e di proiezioni immaginative che è espressione di una nuova concezione del mondo e della stessa visione. Come osserva Alberto Ambrosini, «’vedere’ una data ‘cosa’ è indissolubile da riconoscere il sistema complessivo dei rapporti di posizione che la stringono a ciò che la circonda. Per questo motivo la molteplicità degli elementi che, nella superficie di una data situazione, l’individuo osserva si dispone, sul fondamento dell’unica dimensione dell’ampiezza, nella forma di una distribuzione coerente, organizzata tutto intorno al ‘punto’ di stazione dell’‘occhio’». Il mondo può così manifestarsi allo sguardo «nella forma di una totalità che appare in ogni parte misurata», per cui non è possibile «’vedere’ senza riconoscere il sistema universale delle coordinate nel quale dà prova di sé il regime originario di solidarietà che integra la ricchezza molteplice dei fenomeni all’unità costitutiva del mondo».95

Grazie a tale sistema di coordinate, «le estreme lontananze sino alle quali l’individuo, vedendo, spinge lo sguardo risultano prossime e familiari quanto appare familiare ciò che, per essere vicino, può essere raggiunto con l’assiduità di una frequentazione quotidiana. Così la linea dell’orizzonte, se individua un valore massimo della distanza, non costituisce per questo l’indice di una separazione. Poiché è vista si manifesta sul controluce dell’animarsi della profondità della mente ed è dunque compresa entro le maglie di una confidenza effettiva». Per questo, il «vedere» costituisce anche, secondo Ambrosini, «una sollecitazione potente ad andare, attraverso paesi e campagne, così da restituire ad un grado di intimità tanto più liberata e confidente il legame di appartenenza che, originariamente, stringe l’uomo alla totalità del mondo».96

La prospettiva rinascimentale propone quindi anche una nuova modalità concreta di interagire con lo spazio fisico circostante, per immergersi in esso e instaurare con la natura tutta una nuova sintonia. La prospettiva, cioè, non costituisce soltanto — come scrive Leonardo Benevolo — «un metodo per rappresentare, controllare ed eventualmente modificare lo spazio fisico»;97 ma essa suggerisce anche un’idea diversa e originale dello spazio geografico e cosmico. Le teorie dei filosofi e degli scienziati del XVI e XVII secolo e i precedenti o contemporanei viaggi d’esplorazione geografica sono così ugualmente preannunciati dalla nascita della prospettiva, che «serve a unificare, in una trama di riferimenti geografici oggettivi, i vari sistemi di rappresentazione e di controllo dell’ambiente fisico, utilizzando i trattati di ottica della seconda metà del Trecento ma generalizzandoli e rendendoli applicabili all’esperienza concreta».98

7. La prospettiva nella filosofia rinascimentale e la «Scienza dell’arte»

Sebbene la pratica della prospettiva non abbia di per sé portato alla scoperta di un principio ottico nuovo rispetto al tardo medioevo, segnando solo «una tappa nella storia della geometria descrittiva, […] essa determina — scrive Alessandro Parronchi — un nuovo modo di guardare il mondo, e dunque un nuovo modo di esistere e di pensare, che è pure in largo senso una premessa del progresso scientifico».99

Questa considerazione di carattere generale ci riporta alle domande che ci eravamo posti nella parte iniziale di questo saggio e che concernevano il rapporto tra la filosofia e la nascita della prospettiva in Italia. Il nuovo modo di guardare il mondo cui fa riferimento Parronchi aveva avuto inizio con la riscoperta dei classici della letteratura e delle filosofie di Platone e di Plotino. Specialmente nell’opera di quest’ultimo si possono rintracciare le premesse di quanto accadrà durante l’Umanesimo e il Rinascimento, perché egli propone una concezione del rapporto che sussiste tra ogni cosa particolare e l’Essere divino da cui prenderanno le mosse molti pensatori moderni. Per Plotino, infatti, ogni cosa particolare è «l’immagine, nella materia, di una ragione-principio che, in sé, è l’immagine di una ragione-principio pre-materiale: in tal modo, ogni entità particolare è collegata a quell’Essere divino, a cui somiglianza è fatta».100 Ma il rapporto tra tale principio e le sue emanazioni, si manifesta in un processo di dispiegamento discendente e in una successiva ascesa dalle sue articolazioni verso il punto di origine, e consiste pertanto in un percorso all’interno del quale ogni momento costituisce il gradiente di un processo convergente verso un unico «punto di fuga», ad un tempo storico e prospetticamente individuabile, in quanto mira a ricongiungere lo sguardo del soggetto all’unità divina.

L’uomo potrà così riconoscersi progressivamente nel proprio «sguardo» e ogni anima diventare «ciò che guarda»;101 l’attività contemplativa potrà dirigersi verso il suo oggetto fino ad identificarsi con esso e chi contempla potrà diventare quell’oggetto, trasponendo al suo interno, attraverso i propri occhi, quella bellezza che sarebbe altrimenti destinata a rimanere celata. Tutto diviene trasparente, «perché ogni cosa le racchiude in sé tutte e vede in ciascuna tutte le altre, in modo che in qualunque luogo ci sono tutte le cose, ognuna è tutte e tutte sono ciascuna cosa e lo splendore non ha limiti».102

Come osserva Pierre Hadot, tra il mondo delle forme e il mondo sensibile si viene così ad instaurare per Plotino una relazione trasparente: «se si può vedere il primo attraverso il secondo, se la visione dello spirito può prolungare la visione dell’occhio, vuol dire che vi è continuità tra i due mondi; vuol dire che sono la stessa cosa, ma a due livelli diversi».103 Reciprocamente, infatti, la visione dello Spirito «prolunga e rende più acuta la visione dell’occhio», facendoci intravedere, «dietro al mondo materiale, un mondo di Forme; il mondo materiale non è che la «visibilità» di quelle Forme; può essere spiegato, insomma, attraverso di esse»:104 è per questo che occorre, dopo essere diventati spirito, «farsi visione», perché non esiste «distinzione tra percezione esteriore e percezione interiore».105

Nel contesto della cultura rinascimentale, una simile sostanziale identità non può essere ignorata da chiunque desideri giungere alla consapevolezza della propria posizione rispetto al Mondo e rispetto a Dio. Marsilio Ficino svilupperà infatti quest’idea centrale di Plotino ritenendo che le idee dell’Intelletto divino si riflettano nelle rispettive immagini o forme dell’anima del mondo, dalle quali esse vengono di nuovo riflesse nelle forme materiali. In questo modo queste stesse immagini diverrebbero — come osserva Francis Yates — «forme delle idee, o mezzi per intercettare le idee a un livello intermedio fra la loro forma puramente intellettuale, che esse posseggono nella mens divina, e il loro riflesso più opaco nel mondo sensibile o corpo del mondo».106

Per Ficino, l’unità immobile di Dio si riflette nell’immobile molteplice delle intelligenze angeliche, e queste nella mobile molteplicità dell’anima, la quale, a sua volta, irradia le forme così ricevute verso la materia, assumendo un ruolo interfacciale che le permette di portare a compimento quella trasformazione, già iniziata al livello intellettuale dell’Angelo, verso la multiforme realtà materiale.107 Nella stessa percezione visiva, in cui si concretizza il primo passaggio a ritroso di tale trasformazione dal punto di vista del soggetto umano, l’oggetto percepito è posto in relazione con l’insieme di cui è parte: in ogni atto visivo si realizza cioè il senso stesso del termine perspicere quale è adottato da Ficino e con il quale egli fa riferimento ad una visione che è al tempo stesso puntuale e globale, coincidente con un punto di vista realistico e perspicuo, perché da un lato tende a inquadrare il campo visivo secondo una proporzionalità regolare108 — quella stessa che l’Alberti considerava un requisito essenziale della buona architettura -109 e dall’altro è in grado di cogliere simultaneamente una totalità di oggetti in maniera armonica e ordinata, evocando così lo stesso ordinamento armonico del cosmo e proponendosi al tempo stesso come una sua parziale proiezione all’interno del microcosmo della dimensione umana.

La mente umana è infatti — secondo Ficino — in condizione di ripercorrere l’ordine spaziale e temporale che conduce da un tempo e uno spazio particolari e individuali allo spazio complessivo e alla stessa eternità, perché anche «ogni mente è in qualche modo eterna, e ciò che è eterno, quantunque sia indivisibile sotto il rispetto dello spazio, tuttavia si protende per tutto lo spazio. Il tempo, d’altra parte, sta, nei confronti dell’eternità, nello stesso rapporto in cui ciò che è temporale sta nei confronti di ciò che è eterno»,110 è cioè naturalmente proteso a ricongiungersi con la sua stessa origine, così come la percezione visiva individuale è protesa, nonostante la sua posizione particolare, verso la totalità dello spazio, della quale tende a riprodurre prospetticamente sezioni geometriche che ne rivelano l’ordine armonico complessivo.

Nella stessa ricostruzione prospettica può così attuarsi un tratto essenziale dell’esperienza percettiva umana, che è ad un tempo — come anche Arnheim ha posto in evidenza — puntuale e sinottica: essa ha infatti origine in un punto preciso ed è diretta verso un punto altrettanto preciso (il punto di fuga, verso cui convergono le linee ortogonali), e costituisce una buona approssimazione ad una visione panoramica e complessiva, o almeno a quella che lo è di più partendo da un determinato punto di vista, perché accenna alla armonica disposizione di tutto lo spazio circostante proprio nel momento in cui adotta un punto di vista particolare, limitato e individuale.

Certo, su una superficie piana è possibile rappresentare la tridimensionalità solo indirettamente e, in generale, «ogni mediazione indebolisce l’immediatezza della dichiarazione visuale». Anche il procedimento prospettico è dunque «costretto ad alterare le dimensioni, la forma, la distanza e gli angoli spaziali per poter esprimere la profondità, facendo così non poca violenza non soltanto al carattere del medium bidimensionale ma anche agli oggetti del dipinto». Si capisce allora perché — continua Arheim — «il critico cinematografico André Bazin abbia definito la prospettiva ‘il peccato originale della pittura occidentale’. Nel manipolare gli oggetti per dar luogo all’illusione della profondità, l’arte pittorica perde l’innocenza».111

Una tale perdita d’innocenza è connessa con il paradosso più significativo con cui la prospettiva centrale deve fare i conti, ma che costituisce al tempo stesso una delle ragioni della sua fecondità culturale ed estetica: tale apparente paradosso consiste nel tentativo di operare una sintesi tra centralità e infinitezza, che fin dall’antichità erano considerati concetti contraddittori. Con la prospettiva centrale si raffigura infatti, per Arnheim, «un mondo che ha un centro: il suo punto focale è un punto reale sulla tela, sul quale l’osservatore può mettere il dito; nella proiezione completa dello spazio tridimensionale, questo centro giace su piano frontale»; ma, d’altra parte, adottando la tecnica della prospettiva «l’artista per la prima volta formula un’affermazione sulla natura dell’infinitezza. Non è certo una coincidenza se questo avvenne nel secolo in cui Nicolò Cusano e Giordano Bruno proponevano alla filosofia moderna lo stesso problema. […] La prospettiva centrale ritrae l’infinito come una corrente orientata in una direzione specifica: e trasforma così la simultaneità senza tempo dello spazio tradizionale non deformato in un avvenimento nel tempo, cioè in una sequenza guidata di avvenimenti. Il tradizionale mondo dell’essere viene re-definito come un processo di eventi. In tal modo la prospettiva centrale preannuncia e inizia uno dei fondamentali sviluppi nella concezione occidentale della natura e dell’uomo».112

Proprio queste considerazioni di Arnheim, ci confermano però che la prospettiva centrale propone un modo assolutamente innovativo e originale per fondere in un’unica rappresentazione il punto di vista finito e temporale dell’uomo e l’infinito divino,113 saldando al tempo stesso il naturale orientamento dello sguardo umano verso un punto di fuga con il linguaggio e la strategia impersonali della matematica. Attraverso il suo ausilio e la sua efficacia anche in un contesto creativo, l’uomo può così convincersi appieno che è in grado di riconoscere la sua stessa Ragione sia nell’ordine armonico della propria rappresentazione che nel mondo che essa raffigura e di cui essa riesce comunque a fornire una riproduzione complessivamente attendibile.

Il fatto che in Italia, durante l’età rinascimentale, fosse usuale trattare anche «l’organismo urbano come un’opera d’arte»,114 conferma l’attitudine di quest’epoca a considerare le costruzioni e i progetti umani, di cui le città sono rappresentanti emblematiche, come microcosmi ordinati secondo un’ispirazione geometrica ideale, realizzando così in una dimensione particolare e limitata le segrete proporzioni e simmetrie che dovevano caratterizzare l’intelletto divino. In questo contesto, anche l’interesse per lo studio della prospettiva è dunque testimone — unitamente a quello per la filologia, per l’astrologia e la magia — di un nuovo modo di concepire la storia, il rapporto dell’uomo con il cosmo e la sua azione nei confronti della stessa natura e della società: in tutti questi interessi e ambiti d’indagine è infatti presente — come osserva Garin — un riferimento concreto a «l’unità essenziale del tutto» inteso come «natura dinamica», e nel contempo alla «posizione preminente dell’uomo, che attraverso l’azione rovescia il motivo del microcosmo, inteso come formula abbreviata del tutto, in quello dell’uomo signore della cose; e finalmente il carattere pratico del sapere».115

Un simile carattere include quindi la nuova propensione dell’arte figurativa a rendere conto della peculiarità di ogni punto di vista individuale, cercando nel contempo di penetrare nella struttura geometrica e universale della sua esperienza concreta, della sua individuale prospettiva sul mondo circostante e sulla natura, ponendo altresì in evidenza il legame stesso che salda la forma geometrica di tale ricostruzione prospettica con ogni esperienza specifica e la sua relazione con quella totalità divina la cui conoscenza complessiva era stata, durante il Medioevo, ritenuta preclusa per qualsiasi prospettiva soggettiva particolare.

Il fatto che sia stata proprio la geometria a costituire la base di tale ricostruzione prospettica e che attraverso di essa sia stato possibile mostrare come ciascun punto di vista, pur nella sua finitezza e limitatezza, sapesse alludere al rapporto che intercorre tra l’esperienza individuale e il tutto — concepito sempre di più, dopo Cusano e Bruno, come aperto e infinito — prelude al ruolo centrale che la geometria stessa, e più in generale la matematica, avranno durate il XVII secolo, quando con Galileo e Cartesio esse diverranno strumenti irrinunciabili per leggere e interpretare il libro della natura.

La scienza aristotelica era fondata sulla percezione sensibile e si accordava — scrive Alexandre Koyré — «molto di più all’esperienza comune di quella di Galilei e Descartes. Dopotutto, i corpi pesanti cadono naturalmente in basso, il fuoco tende naturalmente a salire, il Sole e la Luna si alzano e si coricano, e i corpi proiettati non continuano indefinitamente il loro moto in linea retta». Viceversa, «il moto inerziale non è certamente un fatto di esperienza, la quale, in effetti, lo contraddice tutti i giorni. Quanto all’infinità dello spazio, essa non può, con ogni evidenza, costituire un oggetto di esperienza. L’infinito, come Aristotele aveva già sottolineato, non può essere varcato, né dato».116 La nascita della scienza moderna è dunque concomitante con una radicale mutazione filosofica, costituita dal «rovesciamento del valore attribuito alla conoscenza intellettuale paragonata all’esperienza sensibile, della scoperta del carattere positivo della nozione d’infinito».117

Proprio il ridimensionamento della fiducia nell’esperienza sensibile in quanto tale, utilizzata cioè senza la mediazione di strumenti conoscitivi logico-razionali, costituisce uno degli aspetti salienti della rivoluzione prospettivistica, che prelude alla rivoluzione scientifica dell’età moderna in quanto salda la geometria euclidea all’esperienza sensibile, promovendo una sintesi che riesce a mostrare come tra i due ambiti non vi sia un’opposizione necessaria e come le due dimensioni, quella dell’esperienza visiva e quella della conoscenza intellettuale e matematica (rivitalizzate dal riscatto della cultura platonica, neoplatonica e pitagorica) non divergano inesorabilmente, né siano reciprocamente immuni.

Lo stesso Cogito cartesiano, che riconduce all’evidenza ultima dell’autocoscienza ogni altro tipo di esperienza, evidenza e certezza, può essere interpretato come effetto di una nuova consapevolezza che è progressivamente maturata man mano che ci si è familiarizzati con la tecnica della prospettiva: qualsiasi percezione della realtà, così come qualsiasi sua interpretazione teorica, è stata infatti sempre di più ricondotta a quell’evidenza di un vissuto interno che trova nel soggetto vedente e pensante la sua origine e il fondamento della sua possibilità, identificandolo con quel «punto geometrale», o «punto di prospettiva» intorno al quale, come sottolinea Jacques Lacan, si organizza la pittura rinascimentale.118 In questo senso, se le teorie filosofiche hanno contribuito a creare quel clima culturale e ideale, così ricco di suggestioni figurative, che ha favorito la nascita e lo sviluppo della prospettiva, anche quest’ultima può aver contribuito alla genesi di un nuovo modo di osservare la natura e di concepire la propria posizione nella natura.

Le considerazioni di Florenskij circa l’impostazione implicitamente kantiano-euclidea della prospettiva rinascimentale, il fatto che essa introduca alla successiva «rivoluzione copernicana» operata da Kant, chiarisce d’altra parte, una volta di più, che non si tratta di una scoperta priva di conseguenze in ambito metafisico, gnoseologico e scientifico, perché l’idea stessa della centralità del soggetto nel contesto del processo conoscitivo può essere considerata come l’epilogo e l’incrocio di due percorsi dapprima separati e distinti: da un lato quello reso possibile dall’utilizzo nuovo della geometria per la ricostruzione prospetticamente attendibile di ogni punto di vista individuale; dall’altro quello favorito dalla consapevolezza di poter comprendere la relazione tra tale punto di vista necessariamente particolare e la conoscenza complessiva della natura e del cosmo — di cui nel XVII secolo la metafisica spinoziana mira ancora a fornire una ricostruzione geometrica — anche al cospetto del nuovo ruolo che l’esperienza sensibile viene ad assumere in questo contesto e quale viene posto in evidenza, in modi diversi, sia da Bacone sia da Galileo: non più quello di fonte di per sé attendibile di conoscenza, ma piuttosto riferimento di controllo di procedimenti conoscitivi razionali, riferimento che durante l’epoca rinascimentale fu per la prima volta avvertito come momento conclusivo e irrinunciabile tanto dei processi conoscitivi quanto delle raffigurazioni artistiche.

Le osservazioni di Kemp in «coda» a La scienza dell’arte riassumono in maniera efficace il nuovo ruolo che l’esperienza visiva assume durante l’età rinascimentale in relazione alla nuova fiducia nelle prerogative della matematica nel contesto della creazione artistica: «una delle caratteristiche più cospicue delle scienze fisiche dal Rinascimento al XIX secolo — scrive Kemp — era il desiderio di costruire un modello visivo del mondo come appare a un osservatore razionale e obiettivo. Questo modello era costruito sulle certezze invariabili o leggi matematiche, indipendentemente dai ‘casi’ individuali, ma era fondato al tempo stesso sulla nozione che un singolo osservatore, in circostanze particolari, possa ‘vedere attraverso elementi accidentali’ le invariabili sottese».119 Kemp si dichiara così pronto a supporre «che si debba ad un fenomeno storico che le funzioni dell’arte e della scienza giunsero quasi nello stesso tempo alla premessa che il loro compito fosse quello di ricostruire in maniera ordinata la verità dell’apparenza come è percepita da uno specifico osservatore. Ma questa premessa, una volta stabilita, apriva la strada ad un dialogo sorprendentemente ricco tra mezzi e fini in certi generi di arte e di scienza. Che il mondo immaginario e quello dell’intelletto, abitati da un numero considerevole di artisti e di scienziati, avrebbero condiviso tante caratteristiche comuni nell’era della ‘scienza dell’arte’ è chiaramente segno di attenzione storica. Potrebbe anche possedere un durevole significato nella nostra continua richiesta per una totalità della percezione dell’uomo nel mondo».120

Il «durevole significato» ipotizzato da Kemp trova in effetti nel Rinascimento una delle sue più emblematiche esemplificazioni, ma esso riappare ogni volta che gli artisti sanno unire nelle loro opere verosimiglianza e immaginazione, possibilità e realtà, soggettività e oggettività, variabili imprevedibili e coerenza costruttiva, riferimenti al contesto sociale, culturale e paesaggistico con l’espressione e la valorizzazione del tipo peculiare di sguardo che l’artista consegna in dono a chi vede la sua opera, sguardo in cui questi può ogni volta riconoscersi proprio in virtù della capacità della rappresentazione artistica di evocare, ad un tempo, un’esperienza visiva concreta e un momento spiritualmente significativo, per quanto la loro stessa sintesi debba risultare mediata da paradigmi culturali ed estetici che ne rendono talora irriconoscibili i riferimenti reali. Solo all’interno di questa dialettica, sulla quale a lungo si sono soffermati sia Schiller che Hegel, la fruizione di un’opera d’arte non rischia di ridursi a quella di provocare mere imprese decodificatorie di linguaggi più o meno creativi, simbolicamente complessi, originali o improvvisati, ma conserva il suo rapporto essenziale con la percezione che l’uomo ha del mondo e della vita nel suo complesso, assegnando alle inevitabili mediazioni culturali che veicolano tale rapporto solo la funzione d’intermediari utili per giungere a quella «totalità della percezione dell’uomo nel mondo» di cui parla Kemp, piuttosto che quella di «metalinguaggi» destinati a trasfigurarsi incessantemente in altrettanti nuovi «linguaggi oggetto» nel momento della loro fruizione critica, oltre la quale nulla è destinato a restare dell’esperienza originaria della visione.

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  1. J. Ruskin, Mattinate Fiorentine, trad. It. Milano, 1991, ed. cit. 1998, p. 80. ↩︎

  2. A. Hauser, Le teorie dell’arte — Tendenze e metodi della critica moderna, trad. it. Torino, 1969; ed. cit. 1979, pp. 215-216. ↩︎

  3. M. Kemp, La scienza dell’arte, trad. it. Firenze, 1994, ed. cit. 2005, pp. 370-371. ↩︎

  4. E.H. Gombrich, Arte e illusione, trad. it. Torino 1965; ed. cit. Milano, 2003, p. 229. ↩︎

  5. Alessandro Parronchi osserva come sia merito di Giotto il tentativo di «migliorare la condizione prospettica partendo dall’interno stesso del quadro», in quanto «fu Giotto a incominciare a valersi […] delle leggi elementari dell’ottica, e a sentire quante meravigliose novità veniva a rivelare un’attenta considerazione dell’occultamento, della distanza, del numero, della opacità-trasparenza, ruvidezza-lisciezza, bellezza-deformita… e delle altre intentiones visibili di cui parlavano i trattati di perspectiva» (A. Parronchi, Studi sulla dolce prospettiva, Milano, 1964, p. 142). Anche Martin Kemp attribuisce a Giotto il merito di aver gettato i primi germi della raffigurazione prospettica: l’opera di Giotto testimonia infatti secondo Kemp «un’attenzione costante, ordinatamente e profondamente ponderata, verso la rappresentazione delle figure e dello spazio. Quando si apprestava a rappresentare lo spazio architettonico per la Conferma della regola di San Francesco, l’artista aveva già fatto una sua scelta tra una serie di soluzioni sempre più raffinate per la creazione di spazi di diverso tipo utili alla rappresentazione di particolari contesti narrativi. Fu con le vedute di interni del tipo illustrato qui che Giotto si avvicinò a un sistema sempre più prospettico. I suoi dipinti mostrano che egli aveva già da lungo tempo formulato e obbedito a delle regole generali che possono essere sintetizzate come segue: le linee e i piani posti sopra il livello dell’occhio dovrebbero apparire inclinati verso il basso via via che si allontanano dall’osservatore; quelli posti sopra il livello dell’occhio dovrebbero essere inclinati verso l’alto; gli elementi posti a sinistra dovrebbero essere inclinati verso destra; e quelli posti a destra dovrebbero analogamente essere inclinati verso sinistra; dovrebbe esserci inoltre un certo senso di divisioni orizzontali e verticali, che marchino i confini fra le diverse zone; e lungo tali divisioni, le linee dovrebbero avere un’inclinazione minima se non addirittura nulla» (M. Kemp, La scienza dell’arte, trad. it. p. 15). ↩︎

  6. Nell’arte pre-prospettica arcaica non ci si preoccupa di rappresentare ciò che sarebbe visibile ad un occhio umano, ma di giustapporre su una superficie tutti gli oggetti e le figure che hanno per l’artista un valore simbolico. Così, ad esempio, ne Lo stagno con giardino, un dipinto di un artista egiziano del XV secolo avanti Cristo attualmente conservato al British Museum, si raffigura uno stagno dall’alto in modo da poter far vedere tutti gli oggetti rappresentati (i pesci di profilo, gli alberi e gli uccelli) nel modo più riconoscibile proprio per sottolineare il loro significato simbolico. Molto più tardi, nel periodo gotico, cioè circa un secolo prima dell’Annunciazione di Ambrogio Lorenzetti cui si è fatto riferimento, in una formella di un bassorilievo sul Pulpito del Duomo di Siena, Simone Martini lascia pochissimi spazi vuoti tra le figure e viene a mancare completamente ogni effetto di distanza tra quelle in primo piano e quelle scaglionate verticalmente verso l’alto. Anche in questi primi tentativi di ottenere qualche effetto di tipo prospettico (mediante un abbozzo di «scaglionamento verticale»), l’intento ad un tempo drammatico e didascalico dell’opera costituisce la sua migliore chiave di lettura, ed è ben diverso da quello che caratterizzerà la prospettiva rinascimentale. ↩︎

  7. Jean Hyppolite scrive che con l’età moderna inizia per Hegel un’epoca in cui il mondo assume «una verità e una presenzialità sua propria»: per la prima volta la coscienza è certa che nel mondo potrà fare in realtà «esperienza soltanto di sé» (J. Hyppolite, Genesi e struttura della «Fenomenologia dello Spirito» di Hegel, trad. it. Firenze, 1972, p. 270). La conoscenza del mondo equivale così alla conoscenza di se stessa, perché il mondo è «lo specchio di lei stessa» (cfr. ibidem). In questo nuovo contesto storico e culturale, l’arte, e in particolare l’arte figurativa, assume un ruolo particolare, perché essa è in grado di rivelare l’anima a se stessa. Attraverso l’occhio e il particolare tipo di sguardo che l’arte è in grado di produrre, l’anima umana può riconoscersi in ciò che, dal suo punto di vista particolare, è in grado di vedere. Se ci chiediamo infatti «in quale organo particolare l’intera anima appaia come tale, noi pensiamo subito all’occhio» e ciò perché «l’anima si concentra nell’occhio, e non solo vede per mezzo suo, ma vi è anche vista» (G. F. Hegel, Estetica, trad. it. in due voll. Milano, 1967, ed. cit. 1972, vol. I, p. 175). Proprio durante l’epoca rinascimentale, e quindi all’inizio dell’epoca moderna, si realizza così un aspetto fondamentale di ciò che Hegel definisce «l’individualità bella» . In quest’epoca infatti s’incomincia a considerare in modo diverso «non solo la forma corporea, la sembianza del volto, i gesti, l’atteggiamento, ma anche le azioni e gli eventi, i discorsi e i suoni, tutto il loro corso attraverso tutte le condizioni dell’apparire», perché queste tendono a «diventare in ogni punto, in virtù dell’arte, l’occhio in cui si dà a conoscere l’anima libera nella sua interna infinità» (ivi, p. 176). ↩︎

  8. L. Spitzer, L’armonia del mondo — Storia semantica di un’idea, trad. it. Bologna, 1967, p. 164. ↩︎

  9. N. Cusano, Il gioco della palla, trad. it. Roma, 2001, p. 76. ↩︎

  10. Ivi, p. 77. ↩︎

  11. Ibidem. Circa il ruolo della filosofia di Cusano nel contesto del Rinascimento, è da essa che dovrebbe prendere le mosse, secondo Cassirer, «ogni studio ‘tendente’ a concepire la filosofia della Rinascenza come unità sistematica» (cfr. C. Vasoli, Il Rinascimento tra mito e realtà storica, in AAVV, Le filosofie del Rinascimento, Milano, 2002, pp. 3-25, p. 15). ↩︎

  12. L’arte, in virtù della sua somiglianza con la natura, potrà allora per Cusano aiutarci a comprendere le forze in essa attive, perché «in quanto l’arte imita la natura, arriviamo a comprendere le forze della natura da ciò che scopriamo in modo sottile nell’arte» (ivi, p. 55). ↩︎

  13. L. Spitzer, L’armonia del mondo — Storia semantica di un’idea, cit., p.166. Ciò dipende in generale, nel contesto della filosofia bruniana, dalla convinzione, già di Plotino e Ficino, che «necessità, fato, natura, consiglio, voluntà nelle cose giustamente e senza errore ordinate, tutti concorreno in uno» (G. Bruno, De gli eroici furori, Parte prima, Dialogo III, in G. Bruno, Dialoghi italiani, Firenze, 1958, ed. cit. 1985, in 2 voll. Vol. II, p. 1003) e che questa unità concerne una caratteristica del tutto in ogni sua declinazione individuale, perché, sulla scia di Cusano, Bruno è convinto che «l’individuo non è differente dal dividuo, il semplicissimo da l’infinito, il centro dalla circonferenza» (G. Bruno, De la causa, principio e uno, Dialogo V, in G. Bruno, Dialoghi italiani, cit., vol. I, p.321). ↩︎

  14. Ivi, p. 168. Ciò può essere evinto anche dalla relazione che sussiste tra le forme spirituali, o le idee, l’azione divina e l’azione umana. Come osserva Robert Klein, l’azione divina, per Bruno, «si compie attraverso forme […] «che traducono o ‘significano’ un pensiero» e «l’idea stessa, le sue impronte nella natura, le sue ombre nello spirito sono forme. Nulla può essere colto se non mediante la forma: lo spirito non conosce o non concepisce se non ciò che è composto, non conosce nemmeno se stesso se non in speculo (nel mondo), in immagine. L’arte universale di Bruno (e in questo consisteva la sua attualità per la sua epoca) è un’arte di guardare e comprendere immagini disposte a Theatrum Mundi metafisico», (cfr. R.Klein, La forma e l’intellegibile, trad. it. Torino, 1975, pp. 67-68) teatro metafisico in cui si traduce e realizza l’azione divina rendendosi così intelligibile all’azione conoscitiva e immaginativa dell’uomo. ↩︎

  15. L. Spitzer, L’armonia del mondo — Storia semantica di un’idea, cit., p. 168: «Bruno — scrive Spitzer - non respinge l’idea cristiana della provvidenza divina, ma la cala nella magnifica vicissitudine della legge della metamorfosi. Il suo paesaggio panteistico è pervaso di «Stimmung». Nella pittura del Rinascimento si potrebbero trovare le figurazioni analogiche di questo paesaggio filosofico». ↩︎

  16. J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, trad. it. Firenze 1876; ed. cit. Firenze, 2000, p. 125. Per questo — continua Burckhardt - «l’Italia del secolo XIV conobbe poco la falsa modestia e l’ipocrisia in generale, perché nessun uomo fu schivo di emergere, di essere, di apparire, diverso dagli altri» (ivi, p. 126). ↩︎

  17. Ivi, p. 280. ↩︎

  18. P.Francastel, Lo spazio figurativo dal Rinascimento al Cubismo, trad. it. Torino, 1957, ed. cit. Milano, 2005, p. 82. ↩︎

  19. Ivi, p. 129. ↩︎

  20. Ibidem. ↩︎

  21. Per una ricostruzione del dibattito sorto intorno alla interpretazione di Burckhardt, con la quale ogni studio successivo ha avvertito l’esigenza di confrontarsi, si veda il volume di W. K. Ferguson, The Renaissance in Historical Thought, Cambridge (Mass.), 1948; M. Ciliberto, Il Rinascimento: storia di un dibattito, Firenze, 1975; D. Hay, The Italian Renaissance in its historical Background, Cambridge, 1961 e 1976 e, specialmente, C. Vasoli, Il Rinascimento tra mito e realtà storica, cit., in particolare alla pagine 8-9 e 18-22. In questo saggio Vasoli riassume le principali riserve sorte intorno alla tesi del Burckhardt, passando rapidamente in rassegna, tra le altre, quelle avanzate da Gebhart, Thode, Burdach, Huizinga, Cassirer, Gentile, Croce, Nordström, Boulanger, Gilson, Chabod, Cantimori e Garin. Tra tutte, forse la più distante dalle tesi del Burckhardt risulta essere quella di Nils Johan Nordström, il quale, come riporta Vasoli, «respingeva esplicitamente il «carattere di riforma rivoluzionaria» attributo da Burckhardt al Rinascimento italiano. Lo studioso svedese negava che questa età fosse stata davvero «una vittoria sul Medioevo» o «un rinnovamento della vita civilizzata e dell’umanità grazie alla resurrezione della cultura classica». Al contrario, si trattava semplicemente di «un ramo fiorito sull’albero possente della cultura medievale», di una cultura i cui caratteri e presupposti erano tutti rintracciabili nella civiltà del XII e del XIII secolo «che abbracciava tutto l’Occidente e di cui la Francia era stata la più gloriosa artefice» (C. Vasoli, Il Rinascimento tra mito e realtà storica, cit., p. 21). Nonostante tutte le riserve e le critiche che ha sollevato, la tesi del Burckhardt continua ancora oggi ad avere una posizione centrale all’interno del dibattito cui ha dato vita. L’epoca dell’Umanesimo e del Rinascimento si configura infatti, dopo la pubblicazione della sua opera principale, come caratterizzata da un sistema di riferimenti culturali proprio, da una visione del mondo e dell’universo fortemente innovativa, da una nuova concezione dello spazio, dell’esperienza e della conoscenza, da stili di vita particolarmente audaci e da una fervida intraprendenza artistica, filosofica e scientifica; (alcuni di questi aspetti sono stati posti bene in luce anche da Francisco Rico, nel suo Il sogno dell’umanesimo, Torino, 1998, in particolare alle pagine 31-32). ↩︎

  22. Si veda, in particolare, W. Dilthey, Concetto e analisi dell’uomo nei secoli decimoquarto e decimoquinto (1891), in Analisi dell’uomo e l’intuizione della natura. Dal Rinascimento al secolo XVIII, trad. it. Firenze, 1974. ↩︎

  23. J. Huizinga, L’autunno del medioevo, trad. it. Firenze, 1978, p. 89. Huizinga sostiene in linea generale che «chiunque cerchi con serietà di segnare una netta linea di separazione tra Medioevo e Rinascimento, si avvede sempre che i confini gli si vanno allargando e spostando. Scopre nel lontano Medioevo forme e movimenti, che sembrano già recare l’impronta del Rinascimento; ed il concetto di Rinascimento vien allora stiracchiato, per poter accogliere anche questi fenomeni, fino a perdere ogni elasticità» (ivi, cit., p. 391). ↩︎

  24. Cfr. K. Burdach, Dal Medioevo alla Riforma. Ricerche sulla storia della cultura tedesca», trad. it. Firenze, 1964. ↩︎

  25. Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo, trad. it. Brescia, 1987, p. 5. ↩︎

  26. Ivi, p. 15. ↩︎

  27. Ivi, p. 25. ↩︎

  28. E. Garin, La cultura del Rinascimento, Milano, 2006, p. 158. ↩︎

  29. Cfr. A. Blunt, Le teorie artistiche in Italia. Dal Rinascimento al manierismo, trad. it. Torino, 1977, p. 34. ↩︎

  30. Ivi, p. 39. ↩︎

  31. Cfr. ibidem. ↩︎

  32. A. Blunt cita a riguardo la seguente osservazione di Leonardo (ivi, p. 43): «Quella pittura è più laudabile, la quale ha più conformità co’ la cosa imitata», scrive Leonardo (cfr. H. Ludwig, Leonardo da Vinci: Das Buch von der Malerei, Wien, 1882, § 411, cfr. § 408 e 410). Lo stesso Leonardo afferma, nel suo trattato sulla Pittura, che «chi sprezza la pittura non ama la filosofia, né la natura» (Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, § 8,). L’opera del pittore rappresenta infatti l’opera della natura e per questo egli si erge a «signore d’ogni sorta di gente e di tutte le cose» (ivi, § 9). Tutto ciò che è nell’universo «per essenza, presenza o immaginazione, esso lo ha prima nella mente, e poi nelle mani, e quelle sono di tanta eccellenza, che in pari tempo generano una proporzionata armonia in uno solo sguardo qual fanno le cose» (Ibidem). ↩︎

  33. A. Blunt, Le teorie artistiche in Italia. Dal Rinascimento al manierismo, trad. cit., p. 43. ↩︎

  34. L. B. Alberti, Della Pittura, in Trattato della Pittura di Lionardo da Vinci. Nuovamente dato alla luce, con la vita dell’istesso autore, scritta da Raffaele de Fresne. Si sono giunti i tre libri Della Pittura, e il trattato Della Statua di Leon Battista Alberti, con la vita del medesimo, Parigi, MDCLI, L. II, p. 20 ↩︎

  35. A. Blunt, Le teorie artistiche in Italia. Dal Rinascimento al manierismo, cit., p. 50. ↩︎

  36. Ivi, p. 62. ↩︎

  37. Cfr., ivi, p. 63. Circa il ruolo che la geometria venne ad assumere nel contesto artistico del Quattrocento, esso potrebbe essere ben sintetizzato dalle parole dedicate da Ruskin a questa scienza: «La geometria è arbitra delle leggi del lavoro pratico che si traduce in bellezza», J. Ruskin, Mattinate Fiorentine, cit., p. 166. ↩︎

  38. E.H. Gombrich, Arte e illusione, cit., p. 229. ↩︎

  39. Ivi, pp. 229-230. L’uso della prospettiva consentì a Dürer di immedesimarsi in ogni situazione umana sviluppando quel realismo intimista che fu rilevato anche da Goethe, il quale, vedendo nell’artista tedesco un rappresentante della vera germanicità cinquecentesca, afferma che «Dürer era sorretto da una visione intima e realistica al massimo grado, da una umana ed amabile capacità d’immedesimarsi in tutte le circostanze e situazioni del suo tempo» (J. W. Goethe, Gedenkausgabe der Werke, Briefe und Gespräche, in 24 voll., Zürich, 1950, vol. XIII, p. 333). ↩︎

  40. Ivi, p. 299. ↩︎

  41. Ivi, p. 303. ↩︎

  42. E. Panofsky, La prospettiva come ‘forma simbolica’, trad. it. Milano 1961; ed. cit. 1995, pp. 61-62. ↩︎

  43. L’Annunciazione di Ambrogio Lorenzetti è conservata nella Galleria dell’Accademia di Siena. Sebbene Panofsky ravvisi in quest’opera un modo per «creare un punto di concorso alle ortogonali del piano di base», Parronchi fa notare come lo stesso Panofsky ritenga in linea generale che «mai in un dipinto del Trecento si arriva a unificare tutti i punti di concorso dei singoli piani» (A. Parronchi, Studi sulla dolce prospettiva, cit., p. 147, nota 1). ↩︎

  44. E. Panofsky, La prospettiva come ‘forma simbolica’, cit., p. 63. Per quanto riguarda invece l’origine della prospettiva geometrica vera e propria, Klein ci fa osservare che «un biografo tardivo di Brunelleschi, probabilmente Antonio Manetti, afferma che la prospettiva geometrica era stata inventata dal suo eroe, che ne aveva dato pubblica dimostrazione con due tavolette raffiguranti il Battistero visto attraverso la porta centrale del Duomo e il Palazzo Vecchio visto in tralice da uno degli angoli di Piazza della Signoria». Klein precisa poi in nota che l’autore de La vita di Brunelleschi (1480 circa) «assicura di aver visto e toccato con mano la prima delle due tavolette» la cui realizzazione può essere fissata in un periodo compreso tra il 1418-19 e il 1424-25 (R. Klein, La forma e l’intelligibile, cit., p. 301). Secondo Kemp, il Brunelleschi avrebbe tratto dallo studio dell’Abaco, che aveva imparato da ragazzo, gli elementi essenziali della raffigurazione prospettica. Lo testimonia una lettera dello stesso Antonio Manetti, in base alla quale si evince che la scoperta della Prospettiva risale alla prima fase dell’opera del Brunelleschi: «le notizie del Manetti sono di fondamentale importanza per la comprensione della scoperta — scrive Kemp - in quanto rappresentano l’unica testimonianza oculare di ciò che Brunelleschi realizzò veramente. Manetti descrive due tavolette prospettiche dimostrative, entrambe perdute da molto tempo. Questi dipinti rappresentavano due dei più celebri edifici di Firenze: il battistero di San Giovanni e il Palazzo della Signoria. Dalle descrizioni del Manetti possiamo dedurre in modo sufficientemente accurato i punti di stazione adottati da Brunelleschi per ognuna delle sue dimostrazioni, e, dato che gli stessi punti sono più o meno accessibili anche all’osservatore odierno, possiamo farci un’idea di ciò che l’artista aveva rappresentato» (M. Kemp, La scienza dell’arte, trad. it. p. 21; cfr. ivi, pp. 381-383). In linea generale può essere interessante notare come, per tutta l’antichità e fino al tardo medioevo, l’ottica, ovvero la scienza della visione, e la perspectiva (dal latino perspicere: «vedere chiaramente e in profondità»), coincidessero. È solo con il Rinascimento che la scienza della visione e quella della rappresentazione, la prospettiva appunto, iniziarono a distinguersi, pur conservando stretti legami. Circa la datazione delle prime opere prospettiviste proposta da Panofsky, anche lo storico della scienza A. C. Crombie la riconduce all’opera di Ambrogio Lorenzetti (riprodotta nella nostra copertina), il quale avrebbe così fatto fare un importante un progresso all’ottica medievale. Scrive infatti il Crombie: «gli inizi dell’uso ragionato della proiezione centrale risalgono al senese Ambrogio Lorenzetti, alla metà del Trecento; era una novità destinata a rivoluzionare la pittura italiana nel Quattrocento» (A. C. Crombie, Augustine to Galileo; trad. it. Da S. Agostino a Galileo. Storia della scienza dal V al XVII secolo, Milano, 1970, p. 97. ↩︎

  45. Cfr. E. Panofsky, La prospettiva come ‘forma simbolica’, cit., p. 64. ↩︎

  46. Ivi, p. 72. ↩︎

  47. R. Arnheim, Intuizione e intelletto, trad. it. Milano, 1987, pp. 100 e 101. ↩︎

  48. P. Florenskij, La prospettiva rovesciata e altri scritti, trad. it. Roma, 1990, (pp. 73-135), pp. 126-127. ↩︎

  49. Florenskij si riferisce in particolare alla pittura di icone, che egli considera basata su «un’esperienza spirituale» (P. Florenskij, Le porte regali, trad. it. Milano, 1977; ed. cit. 1990, p. 73). L’icona è infatti per lui «reminiscenza d’un archetipo celeste» (ivi, p. 87) e si differenzia essenzialmente dall’arte occidentale moderna per il fatto che, «la pittura d’icone raffigura le cose come prodotti della luce, e non come illuminate da una fonte di luce» (ivi, p.170). ↩︎

  50. Cfr. P. Florenskij, La prospettiva rovesciata e altri scritti, cit., p. 124. ↩︎

  51. Cfr. ivi, p. 126. ↩︎

  52. Ivi, p. 128. ↩︎

  53. Ivi, p. 90. ↩︎

  54. Ivi, p. 91. ↩︎

  55. Ivi, p. 99. ↩︎

  56. Ivi, p. 131. Ciò dipende dal fatto che, secondo Florenskij, «l’uomo, finché vivo, non può entrare in uno schema prospettico, e lo stesso atto della visione con un occhio immobile, e fisso […] è psicologicamente impossibile» (ivi, pp. 131-132). ↩︎

  57. Ivi, p. 117. ↩︎

  58. Ivi, p. 116-117. ↩︎

  59. A. Pinotti, Estetica della pittura, Bologna, 2007, p. 39; cfr. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, in 3 voll. , trad. it. Firenze, 1987, vol. I, Il linguaggio, p. 10. ↩︎

  60. Ivi, p. 40; cfr. N. Goodman, I linguaggi dell’arte, trad. it. Milano, 1976, ed. cit. 2008, p. 21. ↩︎

  61. N. Goodman, I linguaggi dell’arte, cit., p.17. ↩︎

  62. Ivi, pp. 17-18; Goodman cita al riguardo J.J. Gibson, Pictures, Perspective, and Perception «Daedalus» (Gennaio, 1960), p. 227. ↩︎

  63. N. Goodman, I linguaggi dell’arte, cit., pp. 19-20. L’ostacolo principale consiste, secondo Goodman, «nel fatto che le condizioni specifiche d’osservazione sono macrospicamente anormali. Su quali basi si può assumere la corrispondenza di raggi luminosi inviati in condizioni così eccezionali come misura della fedeltà? In condizioni non maggiormente artificiali, con l’interposizione ad esempio di lenti apposite, si potrebbe far sì che un quadro disegnato senza far uso della prospettiva trasmetta anch’esso raggi luminosi con rapporti identici a quelli che sussistono fra i raggi trasmessi dall’oggetto» (ibidem). ↩︎

  64. Ibidem. ↩︎

  65. Che la pittura in prospettiva non sia più facilmente comprensibile di altri tipi di raffigurazione pittorica è testimoniato secondo Goodman dal fatto che «l’occhio avvezzo solamente alla pittura orientale non comprende immediatamente un quadro in prospettiva» (ivi, p. 21). Ci pare tuttavia che anche per uno spettatore orientale un quadro in prospettiva assomiglierebbe probabilmente di più di un quadro non-prospettico alla sua esperienza visiva. ↩︎

  66. Ivi, p. 22. ↩︎

  67. M. Feyles, La prospettiva secondo Nelson Goodman: spunti per una piccola polemica, in www.giornaledifilosofia.net - Febbraio 2008, p. 5. ↩︎

  68. Ivi, p. 8. ↩︎

  69. P. Francastel, Lo spazio figurativo dal Rinascimento al Cubismo, cit., p. 52. ↩︎

  70. Ivi, p. 47. ↩︎

  71. Ivi, p. 53. Una simile espressione simbolica ci è fornita, secondo Francastel, proprio dall’approccio contraddittorio del Brunelleschi, il quale «considerava da un lato le superfici e i piani della cupola come prolungamenti di elementi impalpabili ma concreti dell’universo; ma costruiva, d’altra parte, il famoso congegno ottico che precorre la scatola di Poussin e rappresenta un mondo assolutamente chiuso. Da un lato, si afferma l’unità irriducibile dello spazio infinito, dall’altro la riducibilità dell’universo e la possibilità di rappresentarlo. Nel pensiero matematico del principio del Quattrocento v’era un inconsapevole conflitto tra l’idea dello spazio chiuso, cubico, e quella dello spazio aperto che comprende egualmente gli oggetti prossimi e distanti ed esclude ogni riproduzione «identica» per riduzione di scala o eliminazione del piano retrostante. Non è vero che nella pittura del Quattrocento le due tendenze si siano ravvicinate: la prima tendenza ha trionfato. Ed ecco perciò distrutta la famosa teoria dell’unità meravigliosa e del realismo illusivo di una formula trovata una volta per sempre» (ivi, p. 59). ↩︎

  72. Ivi, p. 61. ↩︎

  73. Ibidem. ↩︎

  74. Ivi, pp. 81-82. ↩︎

  75. Come ci ricorda A. P. McMahon, Leonardo afferma, nel suo Trattato sulla pittura, che per quanto un dipinto possa essere eseguito in maniera perfetta è impossibile «far apparire i rilievi come nel modello naturale, a meno che non lo si guardi da una grande distanza con un solo occhio» (A. P. McMahon, Treatise on painting (Codex Urbinas Latinus 1270) by Leonardo da Vinci, Princeton, 1956, p. 177). ↩︎

  76. Lo stesso Gombrich afferma del resto che il suo Arte e illusione era stato «essenzialmente un tentativo di spiegare il fallimento di una teoria dell’arte che si concentrava sulla necessità di imitare il mondo fenomenico» (E. H. Gombrich, L’immagine e l’occhio, trad. it. cit. p. 188). Bisogna infatti considerare «incompleta qualsiasi spiegazione dell’immagine artistica che non tenga conto di quella che Baudelaire ha definito «la regina delle facoltà», ossia l’immaginazione» (ivi, p. 197). Più specificatamente, a commento delle tesi di Goodman, Gombrich così riassume la sua posizione: «Se si vuole adottare quello che mi piace definire «principio del testimone oculare», se, in altri termini, si vuole rappresentare con esattezza ciò che si vede, o che la macchina fotografica potrebbe registrare da una data posizione, lo strumento indispensabile è la prospettiva. Fotografando un mappamondo sapremo in precedenza quali paesi saranno visibili nell’immagine; e, parimenti, fotografando la Terra da un satellite artificiale, è sempre possibile calcolare con precisione quali zone del globo saranno inquadrate in un dato momento. Si può anche ordinare ad un computer di fornirci i dati relativi ad un problema di questo genere, e in tal caso l’informazione conterrà anche le regole della proiezione prospettica» (ivi, pp. 332-333). Certo, questo non significa che la rappresentazione prospettica sia esattamente uguale all’esperienza visiva, ma soltanto che la prima costituisce una approssimazione efficace alla seconda. Gombrich illustra la differenza tra l’uguaglianza e una rilevante somiglianza, che è cosa ben diversa da una convenzione, con un esempio: «il pesce che abbocca alla mosca non chiede al logico per quali aspetti l’esca assomigli ad una mosca, e per quali ne differisca. L’animale classifica gli stimoli che attraverso gli occhi giungono al cervello secondo criteri semplici, a seconda che essi provochino una reazione d’appetito o di fuga. Se tuttavia il pesce non può interrogare il logico, il logico, o lo scienziato, può domandare al pesce, o a qualunque altro animale, che cosa abbiano in comune le immagini che provocano una reazione. In altri termini, lo scienziato può anche sostituire ad una parola problematica come «somiglianza» l’idea di «equivalenza», e studiare così il comune significato biologico che certe forme possono avere per una determinata specie» (ivi, p. 337). Quanto cioè Gombrich vuol ricordare ai fautori di un relativismo integrale è che «le immagini della natura non sono segni convenzionali, come le parole delle lingue umane, ma presentano un’autentica somiglianza visiva con gli oggetti cui si riferiscono, e questo non solo ai nostri occhi, influenzati dalla cultura, ma anche per gli uccelli e gli altri animali» (ivi, p. 338). In questo senso, le rappresentazioni in prospettiva che caratterizzano l’arte rinascimentale conseguono un grado di rassomiglianza con l’esperienza visiva che è almeno in condizione di farcela riconoscere come tale, per ciò che è stata o per ciò che potrebbe essere nella nostra immaginazione. ↩︎

  77. T. Maldonado, Reale e virtuale, trad. it. Milano, 1992; ed. cit. Milano, 2007. Maldonado nota come si debba un importante chiarimento al riguardo a Decio Gioseffi. Nella sua relazione a un convegno sulla prospettiva rinascimentale, tenutosi a Milano nel 1977, Gioseffi affermava: «In quanto lingua o sistema di segni la prospettiva è arbitraria o convenzionale: è naturale viceversa come legge atta a descrivere un complesso di fenomeni fisici e percettivi» (cfr. D. Gioseffi, Prospettiva e semiologia, in La prospettiva rinascimentale: codificazioni e trasgressioni, vol. I, Firenze 1980, p.13). Così, continua Maldonado, «sulle tracce dell’operazionismo di P. W. Bridgman e di H. Dingler, egli si richiama a una teoria operativa della verità. In disaccordo esplicito con altri studiosi, in particolare con N. Goodman, egli rifiuta come ‘curiosa’ la teoria della ‘non-naturalità’ della prospettiva in quanto legge naturale» ( T. Maldonado, Reale e virtuale, cit., p. 18). ↩︎

  78. E. Panofsky, La prospettiva come ‘forma simbolica’, cit., p. 75. ↩︎

  79. M. McLuhan, Il punto di fuga, trad. it. Milano 1988; ed. cit. 1994, p. 28. ↩︎

  80. Ibidem. ↩︎

  81. Ivi, p. 29. ↩︎

  82. Circa il rapporto tra la prospettiva e i riflessi inconsci di tale nozione in un contesto psicologico ed estetico si veda G.. Micheletti, Lo sguardo e la prospettiva, Firenze, 2009, in particolare pp. 189-191, 208-212 e 238-246. ↩︎

  83. P. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, trad. it. Firenze, 1995, pp. 95-96. La teoria della prospettiva sostituirebbe così lo spazio euclideo allo spazio psicofisiologico, arrivando a fondare lo spazio visivo «sul modello privo di significato del raggio luminoso rettilineo» (ivi, p. 233). Identificando lo spazio dell’esperienza diretta «con lo spazio astratto della geometria euclidea», la teoria della prospettiva mostra d’ignorare che colui che vede e conosce non entra a far parte della prospettiva come «se stesso, ma come una fra le cose del mondo, o più esattamente come un punto geometrico da cui lo studioso di geometria sopra indicato conduce delle linee rette, tangenti un qualche oggetto. Lo studioso di geometria non discute le relazioni fra colui che vede e ciò che vede, fra il soggetto della visione e l’oggetto della visione, ma le correlazioni geometriche fra l’oggetto visto da lui stesso e l’oggetto visto da quella persona, cioè le correlazioni fra due oggetti suoi» (ivi, p. 234). ↩︎

  84. Ivi, pp. 111-112. ↩︎

  85. M. Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, trad. it. Torino, 1978, ed. cit. 2010, p. 98. ↩︎

  86. Ivi, p. 94. ↩︎

  87. M. Baxandall menziona le tesi che si trovano esposte a riguardo in un saggio assi diffuso nell’Italia del Rinascimento, il Libro del occhio morale et spirituale, di Pietro di Limoges, nel quale tra l’altro si legge: «E’ manifesto che la considerazione del occhio e di quelle cose che ad esso si apartengano è assai utile ad havere più piena notitia de la sapientia divina», (Petrus Lacepiera, Libro del occhio morale et spirituale, Venezia, 1496, p. aIIIr; cfr., M. Baxadall, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, cit., pp. 96-97). ↩︎

  88. Già Dante, ricorda ancora Baxandall, aveva osservato nel Convivio che «sensibilmente e ragionevolmente è veduto… secondo che per un’arte che si chiama perspectiva, e [per] arismetrica e geometria» (Dante Alighieri, Convivio, II, III, 6). I fondamenti matematici della prospettiva attrassero alcuni pittori che videro in essi ciò che la rendeva una scienza sistematica. Anche questa relazione era stata colta da Dante, il quale, sempre nel Convivio, afferma che «la geometria è bianchissima, in quanto è sanza macula d’errore e certissima per sé e per la sua ancella, che si chiama Perspectiva» (Dante Alighieri, ivi, XIII, 27; cfr. M. Baxadall, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, cit., p. 119). ↩︎

  89. Una simile convinzione, supportata dalla fiducia nella geometria e nella possibilità di estenderne indefinitamente il campo di applicazione, può essere succintamente evidenziata ricordando un’emblematica osservazione di Dürer, il quale notò come un buon pittore sia «interamente pieno di figure, e se fosse possibile che egli vivesse eternamente, avrebbe comunque sempre qualcosa di nuovo da riversare nelle opere da quelle idee interiori di cui parla Platone»(cfr. A. Dürer, Lob der Malerei. Salus 1512, in Id., Schriften und Briefe, Leipzig, Reclam, 1993, p. 119; citato da A. Pinotti, in Estetica della pittura, cit., p. 47). ↩︎

  90. Ivi, p. 217. ↩︎

  91. E. Garin, Medioevo e Rinascimento, Roma-Bari, 1954; ed. cit. 2007, pp. 188-189. ↩︎

  92. Ivi, p. 189. In questo senso, non è un caso che proprio durante l’età rinascimentale l’arte del ritratto sia sempre più importante e diffusa, tanto da indurre Burckhardt a sostenere che «la realizzazione definitiva e grande del ritratto moderno, che sorge in Italia, costituisce un ramo dello stile così detto classico. Essa comprende pure i pittori che si cimentano contemporaneamente con opere storiche anche celebri e di grande respiro. L’arte costituiva infatti allora ancora un insieme» (J. Burckhardt, La pittura italiana del Rinascimento, trad. it. Venezia, 2001, pp. 372-373) Fu l’Alberti, nel De Pictura (L. II, p. 39) a inaugurare «la trattazione del potere e della fama della pittura in generale con il tema della magia del ritratto: la pittura, che ha forse un’essenza divina, non ha solo la capacità di rendere presenti persone assenti, come si dice faccia l’amicizia, ma ha anche il potere di rendere vivi - «quasi vivi» - i defunti a distanza di secoli, e di provocare grande gioia e grande ammirazione per l’artista» (ivi, pp. 308-309). ↩︎

  93. E. Garin, Medioevo e Rinascimento, cit., p. 190. ↩︎

  94. Ivi, p. 100. ↩︎

  95. A. Ambrosini, Immaginazione visiva e conoscenza. Teoria della visione e pratica figurativa nei trattati di Leon Battista Alberti, Lorenzo Ghiberti, Leonardo da Vinci, Pisa, 2008, p. 61. ↩︎

  96. Ivi, pp. 61-62. In questo modo il mondo si rende infatti visibile e — continua Ambrosini - «attraverso il divenire delle capacità di pensiero, costituisce qualcosa di simile ad un ritratto di sé. Per questo motivo quanto più l’uomo, movendo i passi, percorre l’ampiezza entro la quale i fenomeni, senza esclusione o difetto, trovano il proprio posto, quanto più, così facendo, rinnova senza posa il ‘vedere’, tanto più intimamente si stringe a se stesso: instancabilmente, viaggia e percorre le profondità della propria mente. Ma un simile risultato si origina poiché questi, aprendo gli occhi, si anima come fosse un mondo. Riflette difatti entro se stesso, con la docilità spontanea di uno specchio terso, la varietà indefinita dei fenomeni coi quali, proseguendo nel cammino, entra in contatto» (ibidem). ↩︎

  97. L. Benevolo, La cattura dell’infinito, Bari, 1991, p. 7. Secondo Benevolo potremmo contrassegnare tale metodo altrettanto bene «con l’aggettivo «scientifico» e l’aggettivo «artistico», che la cultura rinascimentale non considera alternativi»; perché il primo sottolinea l’oggettività dell’approccio, il secondo l’intenzione operativa» (ibidem). ↩︎

  98. Ibidem. ↩︎

  99. A. Parronchi, Studi sulla dolce prospettiva, cit., p. 5. Questa accolta di saggi del Parronchi ci pare costituisca ad oggi — insieme alla già citata Scienza dell’arte di Kemp - la più esauriente storia della prospettiva, delle sue origini e del contesto storico e culturale in cui è sorta. L’autore infatti inizia con il prendere in esame l’atmosfera culturale trecentesca, quando la Perspectiva naturalis sive communis di cui si occupavano gli uomini di scienza non aveva ancora dato vita a quella prospectiva artificialis che sarà utilizzata dagli artisti del Quattrocento, per giungere, negli ultimi saggi, ad affrontare le relazioni della prospettiva con la letteratura e la filosofia moderne, dal XVI al XIX secolo. ↩︎

  100. Plotino, Enneadi, IV, 3, XI. ↩︎

  101. Ivi, IV, 3, 8, 15-16. ↩︎

  102. Ivi, V, 8, 4, 4-8. ↩︎

  103. P. Hadot, Plotino o la semplicità dello sguardo, trad. it. Torino, 1999, p. 32. ↩︎

  104. Ivi, p. 27. ↩︎

  105. Ivi, p. 33. ↩︎

  106. F. A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, trad. it. Roma-Bari, 1969, p. 80. ↩︎

  107. Cfr. M. Ficino, Teologia Platonica, Liber I, Caput VI: trad. it. Firenze, in 2 voll., vol. I, 1965, pp. 120-123. ↩︎

  108. Cfr., M. Ficino, Teologia platonica, cit., vol. I, p. 126, nota 2, a cura di Michele Schiavone, il quale fa presente come, nel lessico ficiniano, i termini perspicio, perspicentia, perspectio indichino «una visione puntuale e integrale che ha il suo riscontro nella contaminazione di d???a~? e di s????a~?, ove al «vedere» è data la massima pregnanza sia nel senso della profondità della penetrazione, sia di quello della comprensione della totalità degli oggetti, sia in quello della capacità di cogliere simultaneamente al di sotto dell’apparenza fenomenica gli aspetti essenziali della realtà». ↩︎

  109. Cfr. L. B. Alberti, De Re Aedificatoria, Firenze, 1485, l. IX, cap. V. A. Blunt, nel suo Le teorie artistiche in Italia. Dal Rinascimento al manierismo, (cit., p. 33), precisa che «all’Alberti non interessava in modo essenziale la speculazione estetica astratta, cosicché quando passa ad esaminare tali qualità d’ordine generale spesso attinge a teorie tradizionali derivate dagli antichi. Dal canto suo egli distingue le leggi di origine filosofica che regolano la bellezza egli edifici nel loro insieme, da quelle altre leggi relative alle singole parti delle costruzioni, le quali, essendo basate sull’esperienza, costituiscono il campo particolare dell’architetto e il vero fondamento dell’architettura». ↩︎

  110. M. Ficino, Teologia Platonica, cit., liber II, caput V, p. 153. ↩︎

  111. R. Arnheim, Arte e percezione visiva, trad. it. Milano, 1962, ed. cit. 1999, p. 215. ↩︎

  112. Ivi, pp. 242-243. Arnheim ci ricorda che «la centralità e l’infinitezza sono sin dall’antichità concetti contraddittori. Un mondo centralizzato di concezione aristotelica implica un sistema finito di gusci concentrici; il mondo infinito degli atomisti Democrito ed Epicuro, d’altro lato, esclude la possibilità di un centro, come si legge nel loro seguace Lucrezio: ‘Tutto intorno a noi in ogni direzione da entrambe le parti e sopra e sotto in tutto l’universo non c’è limite, così come ho dimostrato; il fatto stesso lo grida a tuta voce, e la natura della profondità insondabile lo elucida.’ L’idea che non Dio solo è infinito, come avevano affermato i filosofi del medioevo, ma che anche il mondo è infinito è un portato dell’età rinascimentale. Cusano cercò di riconciliare centralità e infinitezza descrivendo Dio e il mondo come sfere infinite, i cui confini e centri sono dappertutto e in nessun luogo. Nella prospettiva centrale la precarietà del rapporto tra le due concezioni spaziali si fa evidente. Gli artisti preferiscono nascondere il conflitto evitando di definire il punto di fuga, la cui posizione è implicita nelle direzioni convergenti delle linee e delle forme ortogonali, mentre il punto d’incontro concreto è di solito lasciato nel vago. Solo nei dipinti dei soffitti e nei paesaggi barocchi troviamo l’immagine di un mondo francamente aperto che continua eternamente» (ibidem). ↩︎

  113. L’identificazione, da parte di Andrea Pozzo, del ‘punto di fuga’ con ‘Dio’ quale è realizzata nella decorazione illusionistica della volta della navata di Sant’Ignazio a Roma testimonia mirabilmente di questa sintesi, operata grazie alla prospettiva, tra punto di vista umano e divino (cfr. M. Kemp, La scienza dell’arte, trad. it. pp. 157-158 e p. 372). ↩︎

  114. A. Chastel, Storia dell’arte italiana, trad. it. Roma-Bari, 1983, p. 29. ↩︎

  115. E. Garin, Medioevo e Rinascimento, cit., p. 176; cfr. M. Ficino, Teologia Platonica, cit., liber II, caput IX, p. 181: ciò dipende in linea generale dal fatto che secondo Ficino, «non potendo dunque il meraviglioso ordine del mondo essere stabilito dal caso privo di ordine, è necessario che si trovi nell’intelligenza stessa del suo artefice quella forma sul modello della quale l’ordine dell’Universo sia stato plasmato». ↩︎

  116. A. Koyré, Filosofia e storia delle scienze, trad. it. Milano, 2003, p. 31. ↩︎

  117. Ivi, p. 32. ↩︎

  118. Per Jacques Lacan, «è intorno alle ricerche sulla prospettiva che si incentra un interesse privilegiato per l’ambito della visione — di cui non possiamo non vedere la relazione con l’istituzione del soggetto cartesiano che è anch’esso una sorta di punto geometrale, di punto di prospettiva. E, intorno alla prospettiva geometrale, il quadro […] si organizza in modo del tutto nuovo nella storia della pittura» (J. Lacan, Il Seminario, libro XI. I quattro concetti fondametali della psicoanalisi, trad. it. Torino, 1979, p. 88). Tuttavia, per Lacan, «nella prospettiva geometrale si tratta solo di reperimento dello spazio, non di vista» (ibidem); ciò dipende proprio dal fatto che il soggetto del cogito cartesiano, coincidendo con il punto geometrale, vede solo ciò che pensa di poter vedere grazie alla sua ricostruzione geometrica dello spazio, mentre gli sfugge proprio ciò che è tipico della visione, e che va oltre la di una ricostruzione spaziale geometricamente coerente. Sull’interpretazione lacaniana della prospettiva vedi G. Micheletti, Lo sguardo e la prospettiva, cit., in particolare pp. 179-181. ↩︎

  119. M. Kemp, La scienza dell’arte, cit., p. 377. ↩︎

  120. Ibidem. ↩︎