Macedonio Fernández e la «poematica» del pensare

1. Alla scoperta di Macedonio

Image

Quando trovai, su una bancarella a Lido di Camaiore, una copia del Museo del Romanzo dell’Eterna di Macedonio Fernández, fui colpito sia dal titolo, sul momento difficilmente decifrabile, che dal retro di copertina, dove è riportata la seguente osservazione di Borges: «In quegli anni lo imitai, fino alla trascrizione, fino al devoto e appassionato plagio. Io lo sentivo: Macedonio è la metafisica, è la letteratura. Chi lo ha preceduto può risplendere nella storia, ma non restano che abbozzi di Macedonio, versioni imperfette e anticipatrici. Non imitare questo canone sarebbe stata un’imperdonabile negligenza».

Poiché mi fidavo, così come ancora mi fido, del giudizio critico di Borges, del quale credo non si possa sospettare che usi le parole in modo avventato, acquistai il libro. Oggi considero quell’acquisto uno dei più fortunati del mio apprendistato di lettore e l’incontro con Macedonio un dono prezioso.

Nel prologo dedicato alla sua opera lo stesso Borges così scrive: «Nel corso di una esistenza ormai lunga ho conversato con persone famose; nessuna m’impressionò come lui, neppure in modo analogo. Cercava di nascondere, non di sfoggiare, la sua straordinaria intelligenza; parlava come ai margini del dialogo, eppure ne era il centro. Preferiva il tono interrogativo, il tono di modesta consultazione, piuttosto che l’affermazione magistrale. Non pontificava mai: la sua eloquenza era di poche parole e perfino di frasi lasciate a mezzo. Il tono abituale era di cautelosa perplessità» (PR, 799-800).

Questo breve ritratto della sua conversazione è coerente con l’impressione che si può ricavare dal complesso dei suoi scritti, sia letterari che filosofici, così come risulta a posteriori credibile un’altra osservazione di Borges, secondo la quale Macedonio «commetteva il generoso errore di attribuire la sua intelligenza a tutti gli uomini» (PR, 802; cfr. MB, 43-44). Anche questo aspetto, come gli altri menzionati, risulta misteriosamente verosimile anche per il lettore che — come il sottoscritto — non ha avuto la fortuna di conoscerlo, forse perché tutta la sua opera ha un certo sapore socratico. Come Socrate infatti, nemmeno Macedonio sembrava tenere la scrittura in grande considerazione, o almeno non pareva attribuire molta importanza al versante pubblico della scrittura, che è stata peraltro la principale delle sue attività insieme a quella dedicata al pensiero.

«Scrivere — osserva Borges — non era un’occupazione degna di Macedonio Fernández. Viveva (più che alcun’altra persona a me nota) per pensare. Quotidianamente si abbandonava alla vicende e alle sorprese del pensiero come un nuotatore alle acque di un grande fiume, e quella maniera di pensare non gli costava nessuna fatica. Il suo pensiero era altrettanto vivido quanto la trascrizione del suo pensiero: nella solitudine della sua stanzetta come nell’agitazione di un caffè, tracciava pagine e pagine con la grafia profilata di un’epoca che ignorava la macchina da scrivere e per la quale una calligrafia nitida faceva parte delle buone maniere» (PR, 805).

Ancora Borges ricorda come, quando nel 1921 tornò in Argentina da Ginevra, l’incontro con quest’amico di suo padre si rivelò fondamentale per rendere meno opprimente la nostalgia delle librerie e delle atmosfere ginevrine. In Macedonio trovò un’altra cosa: «Era come se Adamo — scrive ancora nel prologo a lui dedicato — il primo degli uomini, pensasse e risolvesse nel paradiso terrestre i problemi fondamentali (PR, 800-801).

Borges non fu però il solo ad evocare a riguardo l’immagine del paradiso: un’impressione analoga dovette avere Juan Ramon Jimenez, se così poté esprimersi: "Il paradiso è quel posto senza spazio né tempo, dove ogni cosa è in nessun luogo. In questo nessun luogo, di Dante, per esempio, o Blake, o Hölderlin, si trova Macedonio Fernández, quest’uomo, per di più della Repubblica Argentina, sempre straordinario, uomo di mete trasparenti in un paradiso normale» (JM, 181).

Il confronto con Dante e Blake, ma anche con Eliot, è ulteriormente ripreso da Jimenez poche pagine dopo: «Gli elementi che Macedonio Fernández muove, incontra ed evidenzia nella vita e nella morte per realizzare il suo fenomeno sono sempre di prima qualità nell’idea e nel sentimento. E il suo linguaggio è una specie di esperanto di un luogo definitivo in cui ciascuno di noi parla il suo proprio linguaggio senza filologi, e dove, essendo tutti filologi, potremo comprenderci l’un l’altro. Incomparabile. Sta con Dante, Blake, Eliot» (JM, 185).

Le critiche macedoniane all’idea di spazio e di tempo, così come a quelle della materia e dell’Io, gli permettono in effetti di dar vita, nel suo romanzo più emblematico, Il museo del romanzo dell’Eterna, ad una sorta di mondo non spaziale né temporale in cui i personaggi, che non sembrano legati ad un corpo definito, si muovono liberamente in un luogo intercoscienzale, ovvero un luogo in cui il vissuto di ogni coscienza può trasferirsi in un’altra senza subire mutamenti sostanziali, tanto da far ritenere che esse siano prive di confini e facciano invece parte di un’unica dimensione coscienziale intersoggettiva, che a sua volta coincide con l’essere, con l’unica realtà. Ma nel trattare questa materia, così suscettibile di un approccio misticheggiante, Macedonio non rinuncia mai alla chiarezza né, dove necessaria, all’argomentazione razionale. In un pensatore come lui, che s’impegnò a lungo nel dimostrare l’assenza di una soluzione di continuità tra il sogno e la realtà, quest’aspetto può risultare sorprendente e rivelare l’indole un po’ chisciottesca del suo carattere, ma costituisce comunque un segnale eloquente della sua vocazione filosofica.

Vocazione che traspare anche dai ricordi del figlio, Adolfo de Obieta, che con dedizione e nostalgia ha raccolto gli scritti che il padre aveva lasciato un po’ in giro, dispersi tra i suoi vari e precari luoghi di residenza. Dopo la morte della moglie, nel 1920, Macedonio infatti vive per lo più da amici o in piccole stanze arredate, conducendo un’esistenza prevalentemente solitaria, pur senza rinunciare al piacere della «tertulia», quei luoghi di ritrovo dove s’incontrava con gli amici scrittori e intellettuali argentini di Buenos Aires, città dalla quale non si è quasi mai mosso e che costituiva per lui un po’ l’ombelico del mondo, forse perché riteneva che il centro del mondo fosse in ogni luogo, o meglio, in ogni coscienza, o, ancora meglio, come vedremo, in ogni «vissuto» di ogni coscienza.

Adolfo de Obieta racconta come sentisse tutto il privilegio di poter vivere vicino ad un uomo come suo padre, di poter sentire, lungo tutto l’arco della giornata, «questo fluire incessante di idee originali, questa mescolanza di umorismo, filosofia e poesia che era la sua conversazione» (ME, 95). Credo che raramente sia dato reperire testimonianze di figli relative ai loro padri tanto sinceramente entusiaste e devote come quella di Adolfo de Obieta, altrettanto piene di stima e di gratitudine.

Lo stesso Adolfo de Obieta ricorda come, quando si mettevano a conversare seriamente, fosse «uno scambio, un diramarsi di idee lucidamente allacciate, proposte con semplicità», che lui recepiva avidamente, ma che suo padre non gli lasciava accettare per autorità o passivamente. «M’insegnò a pensare — scrive — a soppesare atti correlati non solo per il loro suono — a distinguere tra apparenze simili, ad associare ciò che era in apparenza disunito, a sfumare, graduare, a percepire la continuità nel testo dell’essere, ad aborrire le interiezioni e a preferire l’osservazione consapevole […]. Nella conversazione, con umiltà innata si poneva sullo stesso piano dell’altro, con assoluta spontaneità; poteva starsene per ore con la donna che gli portava un po’ di cibo e che faceva sedere per mutare pensiero. Ascoltandola, riusciva a ricevere in sintesi la filosofia della vita che non abbandona nessun essere umano, perché desiderava incorporarla nelle sue riflessioni; nessuno poteva tralasciare di riferirgli una considerazione o qualche fatto ignorato […]. Era l’osservatore, il contemplatore più attento di ogni forma di vita e di esistenza, nell’aldiquà e ancor di più nell’aldilà. Gli piaceva rivelare, intravedere, scoprire la causalità soggiacente; indagare le cause, piuttosto che accontentarsi degli effetti. Era interesse, era necessità, non curiosità; la curiosità rimane alla superficie, al generale, all’apparenza, mentre il suo interesse intellettuale raggiungeva il centro delle cose, soprattutto in quanto concerneva la vita e la coscienza […]. Cercava con la stessa attenzione di capire perché un essere umano ha paura di un insetto, e perché un insetto teme l’essere umano. Perché io ero terrorizzato dagli scarafaggi, ma anche perché sicuramente gli scarafaggi mi avevano altrettanto poco simpatico. Ricordo anche che escogitò un modo per riconciliarmi progressivamente con questi animaletti; e anche se la riconciliazione, com’è normale, si realizzò lentamente, talvolta avvertii l’eco dei suoi sforzi non per coltivare ma, al contrario, dissuadere la mia repulsione. Non cercò di convincermi che uno scarafaggio non è meno bello di una farfalla (non aveva tanta fiducia nella mia sensibilità mistica), ma l’accento sul rispetto e il mistero di ogni vita non cesseranno di risuonare in me» (ME, 95-97).

Quest’accento sul rispetto e sul mistero di ogni forma di vita di cui parla Adolfo de Obieta caratterizzarono l’opera e la riflessione di Macedonio, sia quando si misurava con la repulsione che gli scarafaggi suscitavano in suo figlio, sia quando indagava i problemi metafisici più impegnativi o proponeva quelle nuove coordinate della sua poetica che gli avrebbero consentito di porre in atto un modello di letteratura assolutamente originale. Qualsiasi fosse il campo di applicazione della sua riflessione o l’oggetto della conversazione, Macedonio portava avanti l’una e l’altra in modo sobrio e diretto, con quella sorta di franchezza intellettuale che è propria solo dei grandi pensatori e dei grandi scrittori. Così almeno risulta da autorevoli testimonianze; ma anche chi può soltanto leggerlo ha l’impressione che le sue parole non siano mai disgiunte da un’esperienza fenomenologicamente pertinente, da una prospettiva o visione delle cose realmente esperibile, riproducibile in altre coscienze, che sono tuttavia per Macedonio soltanto vaghe astrazioni, errori metafisici, perché l’unica realtà è costituita per lui dall’unica coscienza di cui tutte le coscienze fanno parte, come momenti, orientamenti, problematiche che eternamente ritornano al suo interno, ma che non sono proprie di alcun soggetto particolare, di alcun io inteso come sostanza separata e autonoma.

2. La negazione dell’io e della morte

«Un solo uomo è nato, un solo uomo è morto sulla terra» (OT, 493); «Nessuno è qualcuno, un solo uomo immortale è tutti gli uomini» (AL, 784). Questo verso iniziale della poesia di Borges «Tu», contenuta ne L’oro delle tigri, e la frase successiva tratta dall’ Aleph, mi pare possano costituire due succinte sintesi del pensiero di Macedonio, dipanando le quali credo sia possibile rintracciare tutte le coordinate essenziali della sua opera, perché presuppongono l’inesistenza dell’io inteso come sostanza individuale separata.

A titolo emblematico, potremmo però citare uno dei diversi resoconti che Macedonio fa della sua nascita per avere subito chiara un’idea centrale della sua metafisica: «L’universo o Realtà e io nascemmo il primo giorno di giugno del 1874 ed è semplice aggiungere che ambedue le nascite avvennero qui vicino in una città di Buenos Aires e il non nascere non ha nulla di personale, è semplicemente non avere mondo» (FR, 334). Anche l’equivalenza implicita in questo passo di Io e mondo può infatti costituire un buon viatico alla lettura dei suoi scritti, che sono percorsi dall’argomentazione di questa risoluta identità, la quale è a sua volta essenzialmente connessa con la negazione dell’Io e della materia, o di qualsiasi altra realtà presunta come indipendente e autonoma dal nodo che formano grazie alla loro necessaria, indissolubile e chiara coappartenza alla medesima e unica possibile coscienza o realtà.

La negazione macedoniana dell’io affonda le proprie radici nel pensiero di Hume e Shopenhauer, ma ha conseguenze metafisiche e mistiche non sviluppate nell’opera di questi due filosofi. Macedonio infatti deduceva, dall’inesistenza dell’Io, l’inesistenza della morte, in base alla semplice argomentazione per la quale se l’io non esiste, non può nemmeno morire. Questa convinzione lo avvicina in parte al buddismo, e proprio Borges ricorda come, in quel catechismo buddista chiamato «I dialoghi del re Milinda, una delle prime cose che il monaco insegna al re, il quale alla fine si convertì alla fede di Budda, è che l’io non esiste. È la tesi che in seguito sostennero Hume e Schopenhauer, e alla quale giunse, credo per conto suo — Macedonio Fernández.» (SU, 123).

La tesi intorno alla quale Hume, Shopenhauer e Macedonio concordano con il buddismo potrebbe essere riassunta con le seguenti parole dello stesso Borges, il quale, assecondando l’ipotesi macedoniana che non vi siano soggetti, ma solo serie di stati mentali, così argomenta: «se dico ‘io penso’, incorro in un errore, perché suppongo un soggetto costante e poi un’opera di questo soggetto, che è il pensiero. Non è così. Dovrei dire, sottolinea Hume, non ‘io penso’, ma ‘si pensa’, come si dice ‘piove’. Quando dico ‘piove’, non pensiamo che la pioggia eserciti un’azione; no, sta succedendo qualcosa. Allo stesso modo, come si dice fa caldo, fa freddo, piove, dobbiamo dire: si pensa, si soffre, ed evitare il soggetto» (BU, 79-80).

L’analogia con il buddismo non impedisce tuttavia di coglierne una ulteriore con Parmenide, che può essere considerato, tra i metafisici occidentali temporalmente più vicini a Budda, quello che ha più somiglianze con Macedonio. Parmenide infatti concepisce l’essere come un tutto, immutabile ed eterno. Solo questo tutto si può pensare, ed è tutto quello che si può pensare. Al suo interno il non essere non ha luogo, ed è privo di esterno. L’esterno è illusione, opinione, fantasia. Non si dà quindi in assoluto la possibilità di alcun divenire da dentro a fuori o viceversa, nessun passaggio dall’essere al non essere, né da un soggetto ad un oggetto o viceversa, perché in tutti questi casi vi sarebbero altrettanti passaggi dall’essere al non essere o viceversa. Analogamente, per Macedonio solo “l’estado”, l’intero del “sentido” costituisce l’essere. Tutto ciò che è conoscibile è il «sentido», il vissuto affettivamente, perché tale vissuto è privo di dualismo e là dove vi è dualismo vi è del non essere, che è di per sé inconoscibile e non esperibile, un puro non senso. All’interno dell’essere non si possono distinguere soggetto e oggetto, tempo e spazio, le cause e gli effetti: «l’Io, la materia, il tempo, lo spazio sono ciò che manca nel mondo» (NT, 256). Come il non essere, come la morte, che sono inconoscibili, irrappresentabili, impensabili, perché non vivibili, perché non sono identificabili con alcun vissuto, con alcun «sentido».

Ma quello di Macedonio potrebbe anche essere equiparato ad un idealismo assoluto; anzi, nelle sue intenzioni, costituisce l’unica forma d’idealismo che tragga fino in fondo le sue conseguenze dalle proprie premesse metafisiche. L’impossibilità di distinguere e giustapporre l’io e la materia, il soggetto e l’oggetto, comporta che la realtà possa consistere solo nel luogo ideale di un «sentido» transoggettivo, come se vi fosse, in senso lato, un’unica realtà e questa non potesse che coincidere con un’unica coscienza omnicomprensiva, sebbene popolata da prospettive diverse, da punti di vista differenti inconsapevolmente ossessionati dalla ricerca di uno scorcio globalizzante, ossessione che sublimano scivolando di sogno in sogno, attraverso prospettive molteplici. L’io e il tu costituiscono solo dei momenti all’interno dello stesso flusso monocoscienziale, che può realizzarsi solo attraverso punti di vista individuali senza tuttavia identificarsi con nessuno di essi. Da qui l’esigenza di un continuo slittamento fuori dall’io, che è mera apparenza, autodissolvendo la propria illusione ad ogni passo del proprio procedere. Piuttosto che unità discrete, le singole individualità diventano orientamenti fluidi, correnti ideali che fingono d’incarnarsi per incontrarsi e dare forma a un destino, che alla fine si rivela come un intreccio o un nodo di destini diversi.

Questa circostanza è resa possibile dal fatto che in ogni essere c’è tutto l’essere. Ciascun essere, così come tutto l’essere, è sempre nello stesso tempo, ed è pertanto privo di passato e di futuro, che non possono essere intesi come elementi di una successione. Quando due persone provano la stessa emozione, lo stesso desiderio o compassione, ciò che sentono è ubicabile solo nell’unico luogo che per loro può essere “lo stesso”, in quanto è occupato dallo stesso «sentido», e cioè nello stesso tempo. Per questo può non trattarsi soltanto di due vissuti coincidenti o simili. Questa appare a Macedonio come un’ipotesi ridondante: nulla infatti autorizza a supporre che non sia lo stesso «sentido» ad essere vissuto da coscienze solo apparentemente distinte, perché se il tempo è lo stesso non c’è ragione di ritenere che il «sentido» che lo riempie debba non esserlo. Il tempo infatti può essere riempito e definito solo da tale «sentido», dagli avvenimenti vissuti che lo caratterizzano, e se il tempo è lo stesso anche ciò che è simultaneamente sentito da più coscienze può essere concepito come «lo stesso».

La possibilità del sentire all’unisono testimonia così dell’esistenza di un unico tempo, di un perenne presente coscienziale, perché ogni «estado» può incontrarsi e riconoscersi solo nel presente e perché ogni nuovo vissuto è un rivivere e un ricordare che proietta il passato nel futuro e viceversa, ma ciò può avvenire solo nel presente. Così in ogni coscienza vi è tutto l’essere, la pienezza stessa dell’essere, che è eternità, e che pertanto coincide con lo stesso tempo immobile in cui l’essere stesso eternamente ricorda e rivive. Ma se in ogni coscienza vi è tutto l’essere, allora in ogni coscienza vi è lo stesso essere, perché tutto l’essere coincide sempre con ogni «sentido». Perché vi sia essere basta una sola coscienza; ma se basta una sola coscienza, e se una coscienza è indispensabile, allora ogni coscienza fa parte di una sola coscienza, di una sorta di io assoluto desoggettivizzato, sia perché privo di un non io, sia perché, quindi, privo di un io. Il supposto io nel quale l’essere prende forma non è infatti una sostanza, ma è un flusso di coscienza orientata che muta incessantemente il proprio orientamento perché è senza soluzione di continuità con l’essere tutto. Come in Berkeley, e in parte in Mach: «solo hai lo sentido», solo ciò che è sentito esiste. Nessuna cosa in sé, nessun “noumeno” giace oltre ciò che viene sentito da ciascun io, perché ciascun io è ogni possibile «sentido».

Secondo Macedonio non c’è idealismo a meno che non si affermi la costante sostanzialità dell’essere in ognuno dei suoi stati in ogni campo di coscienza e che questa costante sostanzialità è totalmente conoscibile. Per un motivo analogo, la sua teoria estetica si oppone, come vedremo, ad ogni forma di realismo. Macedonio si oppone così, da una prospettiva idealista, fin dai primi anni del novecento, al dualismo che caratterizza la tradizione metafisica, in un modo per certi aspetti non dissimile da quello che sarà proprio di Heidegger.

Non vi è un mondo al di fuori della coscienza. Il mondo, così come il corpo e la morte, sono illusioni della vecchia metafisica. Denominare uno stato di coscienza come «proprio», mio o tuo, è un errore imputabile allo stesso dualismo, alla credenza in corpi con i quali ogni singola coscienza potrebbe instaurare una relazione possessiva. Così come Wittgenstein sostenne, in un certo periodo della sua vita, l’inesistenza di un linguaggio privato, per Macedonio non esiste una coscienza privata, essendo ogni coscienza simultaneamente individuale e universale. Anche per questo sarebbe meglio per entrambi dire “si pensa”, piuttosto che «io penso». Nulla esiste oltre la coscienza perché la coscienza è in realtà unica, pur essendo sfaccettata in modi molteplici, cioè orientata secondo molteplici punti prospettici in grado di riflettere, come altrettante monadi o «Aleph», l’intero universo monocoscienziale di cui sono soltanto riflessi puntiformi e totalizzanti. Poiché da questo flusso monocoscienziale non si può uscire, poiché nessuno può cessare di essere una particolare corrente al suo interno, esso è tutto, coincide con l’unica totalità possibile, totalità che non può mai essere abbracciata con lo sguardo e che tuttavia può essere perfettamente conosciuta e prospetticamente ridotta, perché è la stessa evidenza di ogni «sentido», che è identica in ogni coscienza.

La tesi dell’unicità della coscienza — cioè dell’unicità della pienezza ed evidenza di ogni suo stato individualmente «sentito» — costituisce così la conseguenza principale dell’abbandono di ogni forma di dualismo, o viceversa: certo è che le due tesi sono decisamente correlate. Se non vi sono due realtà distinte, soggetto e oggetto, allora non può che esservi una realtà unica, e questa non può che essere l’unica di cui abbiamo qualche esperienza, ovvero la coscienza stessa, intesa come «stato di coscienza» o, ancor meglio, come stato d’animo, sensazione, sogno, immagine che è sempre suscettibile di divenire cosciente e che è senza soluzione di continuità con ogni altra possibile esperienza o «stato» cosciente.

La negazione di ogni forma di dualismo non sembra tuttavia implicare di per sé l’abolizione della differenza tra coscienze diverse, ma d’altra parte, se queste avessero uno statuto ontologico autonomo, tra ciascuna e tutte le altre vi sarebbe di nuovo quel rapporto di estrinsecità che Macedonio intende negare, perché tutte le altre sarebbero per ciascuna qualcosa di esterno alla coscienza supposta come propria, parte di un mondo esteriore pronto a spacciarsi per reale. Ma, come Cartesio, anche Macedonio sembra partire dalla constatazione che tutto quello che accade nella coscienza non occupa spazio, non si svolge nello spazio, per cui è impossibile che per ciascuna tutte le altre siano qualcosa di esterno, realtà dotate di una sostanza autonoma, parte di un mondo reale cui si troverebbe di fronte.

Queste considerazioni lo conducono anche a negare la distinzione tra vita e sogno, che considera come un ulteriore effetto del dualismo metafisico. Se la vita fosse percepita con la stessa immediatezza che caratterizza i sogni, e a suo parere si tratta di un’evenienza senz’altro esperibile, non ci sarebbe nessuna possibilità di distinguere i sogni dalla veglia. In Macedonio non v’è soluzione di continuità né tensione tra veglia e sonno: l’unica differenza tra i fenomeni del sonno e quelli della veglia è che questi ultimi hanno degli effetti, mentre i primi non ne hanno. Così, analogamente, nascita e morte sono per Macedonio due finzioni, introdotte dall’esistenza di punti di vista particolari che sono scambiati per realtà sostanziali dalla metafisica dualista, ma che la smentiscono in quanto mirano a produrre incessantemente il loro stesso superamento.

3. Perché secondo Macedonio la realtà non esiste

Abbiamo visto che, oltre all’esistenza dell’Io, Macedonio esclude anche quella di un «mondo», o di una «realtà», intesi come qualcosa di autonomo e indipendente dall’unica realtà vera, quella del nostro «sentido». Kant si limitò a dire che il mondo, la realtà in sé, era inconoscibile. Macedonio sostiene più radicalmente che la realtà non esiste e che l’unica cosa che esiste è la «todo-psiquidad» (cfr. MF, 416), ciò che potremmo tradurre con «l’essere tutto psichicità»; o con, usando una formula un po’ più involuta e meno letterale, ma forse più precisa, «l’essere tutto l’essere solo la totalità del sentido»

Per comprendere meglio le ragioni dell’argomentazione di Macedonio, potremmo domandarci se questa «todo-psiquidad» non possa sussistere anche in presenza di un mondo già dato. In quest’ipotesi, l’esistenza del mondo non sarebbe messa in discussione, ma tutto ciò che potrebbe essere verrebbe comunque a coincidere con tale «todo-psiquidad», cioè la qualità e la forma dell’essere verrebbero interamente a dipendere da quest’elemento assolutamente irriducibile; l’unico fatto che ne resterebbe escluso sarebbe appunto che vi è un mondo, esattamente ciò che Wittgenstein definiva «il mistico» (cfr. TW, prop. 6. 44: «Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è»), mentre Macedonio ritiene che l’affermazione centrale della mistica sia che «non c’è mistero, che tutto è conoscibile, che tutto è sostanza e tutto psichismo» (cfr, MT, 200).

Ma se le cose stanno così, se questa è la tesi della mistica, allora, ciò che è per esempio il mistico per Wittgenstein potrebbe passare in secondo piano ed essere tranquillamente ammesso; Macedonio potrebbe cioè ammettere che un mondo vi sia, riservando per la sua concezione della mistica ciò che le spetta: la sua completa conoscibilità. In questo caso, infatti, il mondo ci sarebbe, ma sarebbe perfettamente conoscibile. La critica macedoniana a Kant assumerebbe così una tonalità hegeliana. La Mistica è però per Macedonio anche la critica dell’essere, così come la metafisica è la critica della conoscenza, e «la sua opera è quella di depurare la contemplazione dell’Essere dai fantasmi della praticità. La sua affermazione unica è che gli stati sono tutto l’essere e ciò che solo è: sono le esistenze, e il Tempo, lo Spazio, La Causalità, la Materia o io dell’Esterno e il soggetto individuale o io dell’interno, sono inesistenze: né stati (intuizione di Schopenhauer) né forme dello stato, né del giudizio, che nulla è se non è stato» (ivi).

Quest’idea della metafisica non fa tuttavia che riproporci daccapo il problema: per sostenere l’esistenza di una tale «todo-psiquidad», o di un «almismo ayoico», come è stato anche definito il pensiero metafisico di Macedonio, cosa importa che non ci sia un mondo? In fondo, per sostenere la tesi di una «todo-psiquidad» come unica forma accertabile dell’essere non basterebbe dimostrare che l’esistenza dell’Io è illusoria e che tutta la conoscenza è «todo-psiquidad»? Infatti, pur esistendo un mondo, se questo fosse inconoscibile la sua esistenza non imporrebbe alcun limite o forma alla conoscenza così intesa, e se questo fosse conoscibile, nulla vieterebbe — a parte il «noumenismo» kantiano, che Macedonio però non condivide — che possa esserlo pienamente.

Il problema è che Macedonio non è solo un teorico della conoscenza — e in questo campo è comunque un idealista integrale — ma in ambito filosofico è soprattutto un metafisico e troverebbe l’esistenza di una simile «todo-psiquidad», accanto a quella di un mondo ritenuto inconoscibile, decisamente incongruente e vana: incongruente perché una simile compresenza eliminerebbe quel «todo», vana perché non eliminerebbe comunque il dualismo della metafisica.

Non ci resta allora che vedere come Macedonio argomenta questa sua tesi dell’inesistenza del mondo o realtà, almeno così come siamo per lo più abituati ad intenderla, e per questo ci soffermeremo su una serie di appunti successivi a «Non todo es vigilia la de los ojos abiertos», in seguito raccolti nel saggio che chiude l’ottavo volume delle opere complete. In questo scritto (l’aspetto di un saggio è infatti dovuto all’intervento di Alfonso de Obieta e degli altri curatori) — che reca anch’esso il titolo di Metafisica — Macedonio sostiene che l’esistenza simultanea di molteplici catene causali autonome annulla la possibilità di un’intercausalità globalizzante, e quindi di un mondo inteso come qualcosa di organico e indipendente (cfr. MF, 412).

Ma, già a questo punto, potremmo subito chiedergli: come facciamo a sapere che queste serie causali sono realmente indipendenti e autonome? Certo, ve ne sono molte, forse infinite, che non hanno tra loro relazioni dirette, ma potrebbero essere collegate indirettamente, attraverso la mediazione di altre catene causali. Per esempio, quanto succede ad un insetto nella foresta subsahariana e quello che capita ad un altro in una foresta amazzonica potrebbe essere in entrambi i casi fortemente condizionato dalle stesse leggi biologiche, mentre ciò che capita a entrambi gli insetti potrebbe essere collegato con quello che nel medesimo istante succede a un abitante della Cina da fenomeni atmosferici strettamente correlati tra loro. La coesistenza di molte catene causali direttamente non connesse, non comporta l’impossibilità di una loro connessione indiretta; e se questo tipo di connessione comporta il venir meno del criterio di simultaneità tale criterio rischia d’altra parte di risultare piuttosto pregiudizievole, in quanto, trattandosi d’interconnessioni tra serie causali, un certo lasso di tempo è necessario perché sia possibile coglierne la varietà degli effetti.

Ora, se propendiamo per l’ipotesi che le catene causali non connesse direttamente tra loro possano essere collegate indirettamente ad altre catene causali, allora potremmo immaginare che siano legate intercausalmente in una forma reticolare, come in un labirinto in cui sia possibile, con passaggi più o meno lunghi, passare da ciascun tratto a qualsiasi altro. Del resto, quanti fenomeni naturali, e quante serie causali, ad esempio, sono correlati, tanto per citare un esempio del nostro autore, sia con la fisica del sole che con la chimica dell’acqua? (cfr. MF, 412-413).

Anche volendo prescindere da questo tipo di obiezioni, è però giunto il momento di ricordare che Macedonio riconosce comunque nella questione dell’intersoggettività l’obiezione cruciale alla sua tesi dell’inesistenza di un mondo materiale, oggettivo e indipendente, ammettendo che il vero problema per «l’idealismo Psicologico Pluralistico» (scrive così dicendo di volersi esprimere nello stile di James) è quello della simultanea percezione, da parte di più soggetti, delle molteplici sensazioni che partono dal mondo esteriore, ossia da quella stessa materia la cui esistenza esterna, distinta dagli stati psichici che è supposta provocare, lui intende negare. La sua replica a quest’obiezione decisiva prende le mosse dalla constatazione che esperienze intersoggettivamente condivise non dimostrano comunque l’esistenza di alcuna materia o sostanza, «per il semplice motivo che non abbiamo alcuna concezione, rappresentazione, percezione, di questa ‘sostanza’» (MF, 414).

Certo, l’esistenza della materia o della sostanza non può essere automaticamente dedotta dalla possibilità di esperienze intersoggettivamente condivise, ma questa circostanza avrebbe almeno dovuto indurlo a valutare se questi fenomeni, esperibili intersoggettivamente, non meritassero l’attribuzione di uno statuto ontologico diverso rispetto a quelli che non sono in grado di provocare lo stesso tipo di esperienza. Il motivo per cui Macedonio non riconosce ai fenomeni intersoggettivamente percepibili una realtà autonoma dipende dal fatto che non crede esistano differenze intrinseche e sostanziali tra ciò che immaginiamo soltanto e ciò che sentiamo. Per lui infatti non c’è contraddizione tra negare la materia e affermare l’esistenza di altre coscienze in grado di provare le stesse cose che proviamo noi; e il fatto che diverse coscienze possano appercepire gli stessi fenomeni non costituisce una prova a favore dell’esistenza di una realtà oggettiva, di una materia o sostanza indipendente. L’unica differenza che esiste tra le sensazioni che provengono dall’esterno e le immagini che visualizziamo nella nostra mente dipende dalla circostanza che mentre per le seconde è sufficiente un atto della nostra volontà, per le prime questo atto deve essere seguito da un’azione del corpo, senza la quale la percezione dell’oggetto che si vuole vedere o sentire resterebbe preclusa. Così, «aprendo gli occhi, ci giriamo a vedere l’arancia sopra il nostro scrittoio, che cessiamo di vedere chiudendoli, ma c’è bisogno di questi movimenti corporei come aprire gli occhi, mentre per riuscire a tenere nella coscienza l’immagine di un’arancia questo movimento non è necessario. Insomma, il Mondo Esterno ha l’unica prerogativa di non dipendere dalla nostra volontà immediata e di presentarsi senza la nostra volontà, essendo uguale a fatti mentali come le immagini, che obbediscono alla nostra volontà, perché entrambi sono fatti psichici, e dunque presentano questa differenza di causazione senza alcuna differenza intrinseca. Per questo stesso motivo l’immagine si distingue dalla sensazione originaria nel fatto che questa sensazione originaria si altera nelle sue apparenze, appare e dispare per effetto non della nostra volontà, ma dei nostri movimenti e attitudini. Così, mentre l’arancia pensata si mantiene come immagine uguale mentre io mi sposto dal punto in cui mi accorsi di cominciare a pensarla; al contrario, il mondo esterno si altera per me di pari passo ai miei movimenti corporei: l’arancia brilla meno, il suono diminuisce, eccetera» (MF, 414-415).

Tra l’immagine solo pensata e l’immagine vista vi è quindi, secondo Macedonio, soltanto «una differenza relazionale, non intrinseca; la pioggia cade o non cade prescindendo dalla volontà, ma il pensare alla pioggia dipende dalla mia volontà. Relazionale vuol dire che nella relazione causale la pioggia risponde a un ordine eteronomo rispetto alla volontà, così come le immagini della pioggia, quando sogno, immagino o penso a essa, dipendono dalla mia volontà. In come appaiono e in come scompaiono sta la differenza» (MF, 415).

Macedonio non crede dunque che esista una differenza intrinseca tra quei fenomeni che presumiamo «reali» e quelli che consideriamo «solo immaginati, pensati o sognati», ma che tale differenza sia solo relazionale. «Io nego — scrive ribadendo il concetto con maggior chiarezza — che al mondo esteriore spettino delle proprietà intrinseche: psicologicamente, non c’è nessuna differenza tra la pioggia effettiva e quella sognata. Ciò che conta è che abbiamo immagini delle stesse cose, alcune volte dipendenti dalla volontà e altre no. Si tratta dello stesso fatto in sé, immagine e sensazione; quando non appaiono per la nostra volontà lo chiamiamo Mondo Esteriore o Sensazione; quando sì, immagini. Qui sta l’origine dell’erronea sostanzialità che si attribuisce come contenuto alla nozione dell’essere e a quella del non essere, che risulta così equivalere al Sogno, mentre psicologicamente e metafisicamente sono altrettanto essere sia l’uno che l’altro, e, per meglio dire, psicologicamente e metafisicamente le parole essere e non-essere non hanno senso; se non sono accompagnate da una spazializzazione e temporalizzazione mancano di contenuto. Essere in un luogo o in momento, ha senso; essere semplicemente, non è nulla.» (MF, 415).

In questi lunghi passi che abbiamo riportato emergono dunque le ragioni per cui Macedonio rifiuta di assecondare le tradizionali contrapposizioni della metafisica: quella tra L’Io e la Realtà esterna, quella tra la veglia e i sogni, quella tra immagini e sensazioni; a suo avviso tutte fondamentalmente riconducibili a differenze solo relazionali, e non intrinseche agli stessi fenomeni.

«I realisti — spiega ancora Macedonio — vogliono che il mondo esteriore sia qualcosa in sé ed esista anche senza giungere ad essere un fatto psicologico. Ma ciò che non può passare dalla nostra coscienza non è niente. La materia non passa mai dalla coscienza; vi passano i suoni, i colori, i contatti, ma la materia che produce tale colore non esiste» (MF, 415-416). Per questo «il mondo è fantasmatico, perché nel sogno, senza nessun mondo esteriore, la sensibilità pone la stessa ricchezza di stati» (MF, 416).

Dunque, solo ciò che è psichico è concepibile, e pertanto esiste. «La todo-psiquidad, la totalità dello psichico, ossia lo psicorealismo, se si preferisce, ammette la pluralità di psiche come unica esternalità dell’esistenza. Questa realtà dello psichico, sommata alla negazione di ogni realtà e concepibilità del tempo e dello Spazio, comporta l’impossibilità che possa cessare, né iniziare né interrompersi questa unica realtà: lo psichico, poiché non è possibile concepire il tempo senza avvenimenti, né c’è nel tempo qualcos’altro oltre a degli avvenimenti» (Mf, 417).

Ma proprio questa concezione dello psichico come unico esistente e del tempo come di ciò che può essere solo pieno di avvenimenti, di «stati», di passioni e di pensieri, e insomma, di «sentido», ci spinge inesorabilmente a cercare di spiegare, nel breve spazio che qui ci siamo assegnati, la concezione estetico-letteraria di Macedonio.

4. La «poematica» del pensare, «l’umoristica concettuale» e la «narrativa di passione»

Secondo il critico César Fernández Moreno le chiavi di lettura dell’opera di Macedonio Fernandez sono tre: la poematica del pensare, l’umoristica concettuale e la narrativa di passione (cfr. FR; 337-338 e 338, nota 1), chiavi di lettura che, a quanto mi consta, sono inscindibili nel Museo del romanzo dell’Eterna, romanzo che può, per buone ragioni che sarebbe qui difficile sintetizzare, essere considerato il suo capolavoro letterario.

La poematica del pensare è l’arte di subordinare la scrittura al pensiero vivo, quale può scorrere realmente solo in personaggi non realistici, i cui pensieri si snodano all’interno di un unico flusso coscienziale; l’umoristica concettuale concerne l’attitudine dei personaggi a farsi paradossali e umoristici commentatori dei pensieri che si sono in loro appena chiusi, nel gusto per la non preliminarmente deliberata acrobazia intellettuale, nella piena accettazione degli scarti e degli scherzi che il pensiero genuino tende alla coscienza pensante; la narrativa di passione è una narrativa non brutta, ovvero che evita d’intrattenersi su tutti quelli stati d’animo che non tendono verso la massima pienezza dell’anima, pienezza che può essere conseguita rinunciando a soffermarsi arbitrariamente su tutto ciò che non abbia in sé un’implicita vocazione all’eternità.

Se per Cartesio è impossibile per il pensiero separarsi dalla coscienza, per i personaggi del Museo del Romanzo dell’Eterna è impossibile sottrarsi a quella coscienza universale in cui si muovono e s’incontrao: essi possono solo sognare, talvolta, di uscire dal romanzo, ma anche questo sogno fa parte del sogno dell’essere. I personaggi del Museo è come se fossero sognati dall’Essere dell’Eterna, che li ingloba nel proprio sogno. L’Eterna — che più di qualsiasi altro personaggio è anche un contenitore del romanzo stesso — è infatti divenuta tale perché qualcuno continuerà sempre a sognarla, mentre non sa di essere sognato da lei. Ogni volta che ogni prospettiva individuale accede alla propria dimensione transindividuale, essa può essere inglobata da chiunque acceda alla stessa dimensione, quasi fosse stata raggiunta una condizione archetipica dello spirito. L’amore costituisce, in questo senso, come per Plotino, una delle vie di accesso principali a questa dimensione, e l’Eterna ne costituisce l’impersonale personificazione. Ma una simile dimensione transindividuale è resa possibile dal fatto che la coscienza non è una proprietà del corpo, non ha luogo nel corpo. Infatti i personaggi del Museo — che è da intendere, tra l’altro, anche come un regno delle muse, ispirato ed emanato dalle muse — è come se sognassero di avere dei corpi: è per questo che possono aderirvi pienamente, come non può fare chi sia recluso in una veglia dualista o in un romanzo realista.

Il «Museo del romanzo dell’Eterna (Primo romanzo bello)», fa seguito ad «Adriana Buenos Aires (Ultimo romanzo brutto)», e nel progetto originario doveva essere pubblicato insieme a quest’ultimo, che sarebbe «brutto» per il fatto di essere ancora partecipe di una concezione narrativa più tradizionale. Difficile descrivere le caratteristiche fondamentali del Museo: certo non si tratta di un romanzo realista. Macedonio respinge ogni concezione realista dell’arte perché pensa, un po’ come Platone, che in questo modo non si fa che imitare imperfettamente e innecessariamente la vita (cfr. SM, 108). La bellezza nell’arte non è un’imitazione della bellezza nella vita. In una lettera a Pedro Jan Vignale, spiega che egli non crede all’esistenza di una bellezza in natura, mentre pensa che la bellezza possa essere prodotta dall’arte: «la bellezza esiste solo attraverso un’espressione indiretta», quindi non informativa né realistica. Il realismo non farebbe altro che intercettare la nostra visione della realtà ponendo delle copie davanti ai nostri occhi (cfr. SM, 109-110).

In maniera analoga, mutano nell’arte di Macedonio la funzione dei personaggi e dell’eroe. Come rilevano Patricia Garcia e Raquel L. Poblet, se per Lucáks «l’eroe nel romanzo è colui che emerge dalla scissione tra la pura empiria della vita e un senso (sentido) che si è perso», di modo che il romanzo scaturirebbe dalla loro contrapposizione, «Macedonio riformula il luogo dell’eroe per chi crea uno spazio da cui lui costruisce la finzione: questo sarà lo spazio dell’Eterna, eroe puro del Museo…, sarà il luogo della verità, in cui non abitano le parole» (DN, 52).

Ma se non si tratta di un romanzo realistico, non è neanche un romanzo fantastico, perché nell’arte macedoniana non c’è posto per la distinzione tra fantasia e realtà. Inoltre, il Museo non è dotato nemmeno di una vera e propria trama, perché procede in maniera digressiva e rapsodica, sviluppandosi quanto basta per legare passato e futuro in un unico eterno presente e per fornire sempre nuovi spunti di riflessione e di passione ai personaggi che lo abitano. Lo si potrebbe semmai definire un romanzo metafisico — che inizia grosso modo a metà del suo tragitto, dopo cinquantasette prologhi ricchi d’implicazioni etiche ed estetiche — in cui le coscienze dei singoli personaggi possono essere viste come aspetti, momenti o attitudini di un unico flusso monocoscienziale. Questo si attua in un ragionamento fluido, incalzante o divagante, in cui irrompono con una certa regolarità squarci di lirismo e interrogativi drastici, considerazioni minuziose quanto, a volte, spontaneamente umoristiche e paradossali.

Si potrebbe anche dire che è un romanzo sulla bellezza, sull’amore e l’amicizia, o, se vogliamo, sull’eternità della pienezza della coscienza. Secondo il suo autore la bellezza serve ad accarezzare l’ansia del mondo, ad assopire la peregrinazione di una ricerca, a mutare in delizia il dolore della sete, perché in tutto il sogno del reale vi è bellezza a sufficienza per trattenere tutto il dolore.

Secondo Macedonio infatti il valore dell’arte consiste nel saper dar vita a qualsiasi soggetto, e ciò è possibile solo con disperazione, con le lacrime e la rabbia del lavoro. La letteratura non consiste nel riuscire a foggiare soggetti o trame interessanti, o particolarmente verosimili, ma nel riuscire a centrare il destino di ogni personaggio riconoscendone la vocazione dominante ed esiziale, e lasciandogli poi fare e pensare quello che gli pare.

La tattica del romanziere dovrebbe quindi consistere innanzi tutto nello scartare un genere particolare di lettori: i lettori di scioglimenti. Ciò è reso possibile dall’espediente di offrirgli la sostanza di un racconto già compiuto e di anticiparne la fine. Il lettore che non legge il suo romanzo se prima non lo conosce tutto è viceversa il suo lettore, è il lettore artista, perché chi cerca la soluzione finale leggendo cerca quello che l’arte non deve dare, dimostra un interesse per il vitale, per una storia ed un esito particolari, non uno stato di coscienza. (cfr, MR, pp. 106-108).

Per il resto, la tattica del romanziere si basa sul proporre al lettore personaggi appena intravisti, tanto sgradevoli da non poterli per l’irritazione estirpare dalla memoria, agendo su i due precipui fissatori mnemonici opposti, uno gradevole e l’altro fastidioso, ovvero la delicatezza e il sapere incompleto, il sapere a metà.

Saputa in anticipo la storia, il lettore non farà tante storie e leggerà serenamente senza dare troppa importanza a quanto non capisce, senza impegnarsi troppo a comprendere ciò che è oscuro o incompleto.

Per questo, l’autore propone al lettore l’eventualità di entrare nelle sue pagine, onde perdere il suo essere e liberarsi della realtà e di ogni problema, cosa che potrebbe desiderare e fare rimanendo reale, o almeno credendosi tale. Il lettore è infatti supposto abbastanza forte da rimanere comunque reale, e abbastanza buono da desiderare per tutta l’umanità le migliori fortune, paventando nel contempo i peggiori dolori. Essendo poi ciascuno come la metà dell’umanità, cioè buono o cattivo, essere buoni è facile come essere cattivi, imperocché i buoni, gli autentici buoni, non sanno d’esserlo, in quanto non si accorgono né si preoccupano di ciò che sono (cfr. MR, p. 226).

Ma a parte queste digressioni sulle qualità etiche dell’umanità — nonché dei virtuali lettori del romanzo, che di tali digressioni è ricchissimo — circa la natura non realista dello stesso, l’autore, a scanso di ogni equivoco, dichiara che in esso accade tutto l’impossibile, dato che per il possibile è sufficiente la vita. Per questo il realismo non ha alcun senso. L’unica cosa di cui un lettore avrebbe buone ragioni di lamentarsi non è la mancanza di realismo, ma il non trovare in un romanzo qualcosa d’impossibile, dato che nell’arte deve succedere normalmente ciò che, rotolandosi nel letto o affacciandosi alla finestra, non trova. L’impossibile non è però semplicemente ciò che manca nel mondo, perché nel mondo c’è tutto, ma è ciò che manca quando lo desideriamo, anche se giunge o esiste prima o dopo averlo desiderato. In questo senso l’Eterna — ovvero l’eternamente amata dal Presidente, nonché dall’autore stesso, che a tratti sembra persuaso di coincidere col Presidente — è stata per molti anni, pur esistendo, per lui un impossibile, dato che era la perfezione. A suo avviso però l’unico vero impossibile è morire, che è impossibile almeno quanto la possibilità è illimitata, dato che a lui è stato possibile vivere lunghi anni senza l’amore dell’Eterna e senza conoscerla. (cfr. MR, p. 158).

Dal che si potrebbe trarre la conclusione che, essendo per l’autore tutto l’impossibile il morire, nel suo romanzo accada solo il morire.

L’autore — e forse il Presidente, che è qualcosa di più o di meno di un alter ego dell’autore nel romanzo e si direbbe piuttosto una sua proiezione nell’essere personaggio, e nell’esserlo con tutto ciò che comporta, compreso il desiderio saltuario di uscire nell’aperto della vita — si pone a un certo punto il problema di come giustificare la mancanza d’intelligenza dei personaggi, lettore compreso, mancanza che sarebbe a minor ragione giustificabile in un romanzo non realista (cfr. MR, p. 154). A questo proposito scrive, a parziale giustificazione della scarsa intelligenza dello stesso Presidente, che questi potrebbe aver fatto il suo ingresso nel romanzo durante un breve periodo d’eclissi della sua intelligenza, periodo in cui avrebbe prevalso un certo indebolimento psichico; ma che questo non deve indurre a pensare che egli non abbia in altre e più occasioni palesato, nell’arco della sua vita, senz’altro più lunga del succinto spezzone incastonato nel romanzo, la propria genialità. Pertanto, e a maggior ragione, sarebbe auspicabile non desumere dall’apparente scarsezza d’intelligenza del Presidente l’inintelligenza dello stesso autore, il quale, pur non considerandosi a sua volta un genio, ritiene d’esser riuscito a dare un ruolo al Presidente. In effetti questi — l’autore ci tiene a precisarlo — si è dimostrato tanto poco geniale nel romanzo quanto avrebbe potuto esserlo nella vita reale, dove sicuramente, nonostante il suo titolo altisonante, non si sarebbe perso dietro cerimonie varie e altre faccende tristanzuole, perché chi è potuto transitare nel “museo” non pare il tipo da lasciarsi affascinare dal compimento delle storie, essendo per natura propenso a immaginare che i fini risiedono tutti nell’intermezzo eterno del tragitto, nell’eterno ritorno di ciò che finge di passare con il tempo, e non nella ripetizione vana di scadenze morte.

Infatti, uno dei fini principali che si prefigge l’arte di Macedonio Fernández — o meglio dell’autore del Museo del Romanzo dell’Eterna — è il compimento della non storia, ovvero la soppressione delle cerimonie dedicate a capitani, generali, avvocati o governatori, che hanno l’abitudine di relegare in secondo piano le opere magnifiche delle madri e la fantastica grazia dei bimbi, come pure il suicidio inspiegabile di giovani sconvolti dalla vita. Una volta compiuta la bellezza della non storia la morte sarà lasciata ai morti, e si parlerà soltanto di ciò che vive: la minestrina, la tovaglia, il sofà, il lume, la medicina amara, le scarpette, la scaletta, il nido, il fico, il pino, l’oro, la nuvola, il cane, Presto!, le rose, il cappello, il sorriso, le violette, la cicogna (nulla è più bello di usare paroline di bimbi per parlare in allegria, suggerisce l’autore); piazze e parchi con il nome delle massime esperienze umane, senza cognomi; vie chiamate la Fidanzata, il Ricordo, il Fanciullo, il Ritiro, la Speranza, il Silenzio, la Pace, la Vita e la Morte, i Miracoli, le Ore, la Notte, il Pensiero, Giovinezza, Rumore, Seni, Allegria, Ombra, Occhi, Pazienza, Amore, Mistero, Maternità, Anima (cfr. ivi). L’uso del singolare non è casuale, anzi, è particolarmente indicativo: perché ogni cosa è unica e una, un universale-singolare assoluto e transcoscienziale.

Una volta compiuta la bellezza della non storia, nella città del presente saranno deportate tutte le statue che aduggiavano le piazze e al loro posto saranno piantate le rose più belle; soltanto la piazza di Josè de San Martin verrà sostituita da un’allegoria del «Dare e Andarsene». Il problema è infatti quello di sostituire il tempo immobile, come la storia, con un presente fluido, in cui vi sarà memoria solo di ciò che quotidianamente torna ad essere, non di ciò che non si ripete, come gli anniversari. Perciò il calendario della città avrà 365 giorni con un solo nome: «Oggi», e il corso principale si chiamerà anch’esso «Oggi».

Avranno anche termine molte altre cose di minore importanza, la cui minuscola tristezza potrebbe altrimenti contrassegnare l’orrore della vita, le cose avare e meschine, come, ad esempio, il bicchiere riempito a metà, o la lampadina dalla luce fioca o la cravatta rigirata o i fiori artificiali sulle tombe. Si tratta infatti di depurare il racconto per attenderne il ritorno nell’angolo gaio e paradossale in cui tornano solo le barzellette, il solo angolo dove l’amicizia del lettore fa scrivere meglio, tanto che a giusta ragione l’autore può accrescerne la reputazione (cfr. MR, p. 147).

Infine il Presidente assegnerà, in virtù dei principi sopra esposti, alle due piazze centrali di Buenos Aires — perché lui è di Buono Aires — i nomi di «Città senza morte» e «Degli uomini non identici»; infatti questi appellativi sono destinati a completarsi a vicenda nel punto di unione delle due piazze, perché il non identico è esente da morte. Almeno, verrebbe da aggiungere, nel senso che il non identico è il modo in cui l’Eterna e l’unico flusso monocoscienziale che attraversa il romanzo si manifestano, l’equivalente di ogni singola monade, o di ciascun «Aleph», in cui si riflette l’universo di cui non è parte, ma, appunto, un poliedrico omnicomprensivo riflesso.

5. «Solo hay lo sentido»

In quale misura la vita e la morte di Elena de Obieta incisero sulla vita e sull’opera di Macedonio Fernández, nonché sul significato che egli attribuì alla morte, all’impossibile morte, è complesso valutare con esattezza, ma certo pare arduo volerne prescindere.

Elena e Macedonio si sposarono nel 1901; insieme ebbero quattro figli; lei morì nel 1920. La sua figura costituisce un riferimento essenziale per l’Eterna del Museo, oltre che per la maggior parte delle poesie di Macedonio, dove la sua nostalgica evocazione si converte sempre nell’opposto della sua assenza, e cioè nella sua eterna presenza, nella prova vissuta dell’ineluttabile trasfigurazione della morte nella bellezza, nell’eternizzazione della presenza di un’assenza.

L’amore è solo reciproco e solo chi non ama può morire. Per questo Elena è eterna, e per questo la vita di Macedonio, dopo la morte fisica del corpo di lei, è stata interamente attraversata dalla sua presenza. Lui stesso immortale per l’inesistenza del proprio io, per l’essere annullato e percorso da un unico pensiero destinato a riproporsi in eterno, come in un sogno, appunto, dell’Eterna, o in un romanzo-museo privo di corpi, o almeno in cui i corpi non nascondono di essere solo idee viventi di corpi, come si può evincere anche dalla produzione poetica di Macedonio.

Così, nella poesia intitolata «Supplica alla vita» (PC, 25), il tema della morte e della «vita ingannatrice» si trasfigurano in quello dell’eterno ricongiungimento nella coppa ricolma di una passione celeste, dove due anime possano essere sempre cullate «da un unico sogno», fino alla spiaggia di un «unico sospiro». Ne «La morte non è il nulla» (PC, 55) poi, le implicazioni metafisiche e mistiche dell’assenza dell’amata sono tratte fino alla conseguenza più paradossale: «che nulla è», per lo scambiarsi di posto della vita e delle morte e il loro reciproco inverarsi, per entrambe l’unico possibile riconoscimento, necessariamente reciproco, come soltanto reciproco può essere l’amore. In un’altra poesia, «Credevo Io» (PC, 44), lo stesso tema, già proprio per esempio della poesia cortese, dell’amore come ascesa ad un’esistenza autentica, interamente dedicata, e priva pertanto di paura, perché interamente pervasa dall’eternità di un sentire, è risolto con una modulazione ancora più classica e geometrica, più euritmica, metafisicamente essenziale e persuasiva.

Ma in tutti questi casi, come del resto nelle altre poesie di Macedonio, il tema della «bella morte» e dell’eterna trasfigurazione dell’assenza in una pura, incontaminata e incontaminabile presenza, è una costante decisiva, sia sotto il profilo poetico che sotto quello filosofico.

La coessenzialità dei temi ricorrenti della sua poetica e della sua metafisica può risultare più evidente entrando in contatto diretto con l’opera filosofica di Macedonio, con il suo linguaggio originale e lo stile a tratti diaristico, ricco di incisive a volte piuttosto lunghe e involute, quasi per l’urgenza di appuntare rapidamente tutte le possibili digressioni e i possibili chiarimenti sul tema in di volta in volta in oggetto.

In uno dei diversi scritti intitolati perentoriamente La Metafisica — che precede di vent’anni No todo es vigilia la de los ojos abiertos, la sua opera filosofica più organica — l’argomentazione di Macedonio, tanto asintotica e densa da poter risultare a volte poco chiara o approssimativa, contiene però alcune idee centrali che ricorreranno anche nell’opera maggiore, quali la negazione dell’Io e della realtà intese come realtà preliminari e indipendenti rispetto al «sentido» (cfr. LM, 80-81), la concezione della metafisica come «visione» e l’inefficacia delle sue prove o argomentazioni (cfr. LM, 63 e segg.), la piena intelligibilità dell’essere quando sia correttamente inteso come vissuto assoluto. Inoltre, già qui si avverte distintamente l’influenza dei pensatori che più di altri furono dal nostro meditati e apprezzati, quali, in primo luogo, Hume e Schopenhauer.

In altre parti della sua produzione filosofica — e soprattutto in No todo es vigilia la de los ojos abiertos, è possibile avvertire meglio l’influenza del nominalismo hobbesiano (cfr. NT, 248 e segg.) e dell’idealismo di Berkeley (cfr. NT, 244 e 248) ma anche di Spencer (cfr. NT, 280 e segg.) e di William James (cfr. NT, 237 e segg.) con il quale tra l’altro ebbe un franco e prolungato scambio epistolare. Inoltre, il lettore filosoficamente più esperto credo potrebbe anche riscontrare — soprattutto nell’opera maggiore, interessanti assonanze, spesso sorprendenti, con alcuni momenti della riflessione d’illustri pensatori del novecento, come per esempio Wittgenstein e Heidegger, del quale, come testimoniano alcune osservazioni, Macedonio doveva aver letto qualcosa in traduzione (cfr. NT, 369-371).

Ma al di là di certe somiglianze piuttosto occasionali è forse possibile individuare nel suo principale interlocutore negativo un riferimento fondamentale per lo sviluppo delle sue posizioni decisamente antirealistiche: è infatti proprio nel pensiero di Kant (cfr. NT, 270 e 295-297; MS, 107) e in particolare nella sua idea di «noumeno», che si può riconoscere il polemico perno introduttivo a tutta l’elaborazione metafisica di Macedonio, che pare condannare ogni forma di noumenismo proprio prendendo spunto da considerazioni humiane e berkeleyane. Come Hume, infatti, Macedonio non condivide la distinzione tra le cose e le impressioni sensibili, la cui coerenza e costanza non autorizzano a supporre l’esistenza di alcuna cosa in sé. La sola realtà di cui siamo certi è anche per lui l’impressione avvertita, lo stato d’animo vissuto, che tuttavia non consente di dedurre l’esistenza né di alcuna materia né di alcun io. Se per Hume esso è soltanto un “fascio di sensazioni”, per Macedonio è solo il luogo in cui, del tutto arbitrariamente, tali sensazioni vengono ubicate da teorie filosofiche approssimative, e in particolare da quella metafisica dualista cui non si stanca, in molti suoi scritti, di attribuire l’origine di quello che gli pare un errore decisivo.

Con Berkeley poi condivide l’idea che solo esista ciò che si sente, e quindi il senso del famoso «esse est percipi» del filosofo irlandese, mentre non condivide il ricorso a Dio come garante dell’esistenza delle cose, le quali, essendo reali solo in quanto «sentite» all’interno di una percezione dotata sempre di un propria tonalità emotiva, non hanno per lui bisogno di alcun supporto o fondamento metafisico al di fuori dello stesso «sentido». Infatti, finché questo permane almeno in una coscienza, c’è mondo; e quando dovesse cessare, in qualsiasi coscienza, svanirebbe ogni volta anche un mondo. Il mondo, l’assoluto mondo — che in questo senso non sarebbe nient’altro che l’ultima occasione di un incontro tra due inesistenti, l’Io e la materia, in grado di dar vita al mondo, l’unico esistente — verrebbe quindi meno con la scomparsa dell’ultima coscienza.

A differenza di Berkeley, Macedonio non crede che le idee siano impresse in uno spirito da un altro spirito trascendente, come quello divino, che continuerebbe a pensarle senza soluzione di continuità, ma che ogni singola idea o percezione possa essere pensata e sentita con la stessa evidenza da ogni coscienza, il che rende superflua la supposizione di coscienze individuali distinte e separate, e quindi di ciò che comunemente si chiama Io.

L’inesistenza dell’Io va di pari passo con quella della materia, del tempo, dello spazio e della realtà in genere, a meno che con questo termine non s’intenda la realtà di ogni «sentito», che è ad un tempo «unica» e «piena», cioè coincidente con tutto l’essere, che costituisce l’oggetto della metafisica. Questa è infatti per Macedonio la conoscenza dell’essere, non delle sue leggi o relazioni, e deriva dallo stupore che l’uomo prova di fronte all’esistenza, stupore che a sua volta dà vita e forma a interrogativi insolubili. Mentre la scienza e la filosofia si propongono infatti di esaminare i rapporti che ogni ente intrattiene con tutti gli altri, la metafisica non cerca di ridurre l’essere all’insieme delle relazioni che ne caratterizzano le dinamiche e gli sviluppi, ma al suo eterno presentarsi mutevole e tuttavia identico, alla sua consistenza molteplice e tuttavia irriducibile a qualsiasi catena causale (cfr. LM, 63). Sotto questo profilo, la metafisica non pare avere un oggetto diverso dalla mistica — la cui affermazione principale, come abbiamo già ricordato, è che «non c’è mistero, che tutto è conoscibile» e che è definibile come «critica dell’essere» (MT, 200) — sebbene cada, al contrario della mistica, nella tentazione di problematizzare il proprio «problema», facendosi così «critica della conoscenza» (ivi) e lanciando tuttavia interrogativi che possono indirettamente rivelarci, proprio attraverso il loro impossibile scioglimento, la piena intelligibilità dell’esistenza. Sebbene infatti l’essere ci appaia come un «impossibile attuale», come una «perfetta impossibilità presente» (LM, 69), sarà paradossalmente proprio a partire da quest’impossibilità che Macedonio giungerà ad avere completa fiducia in una sua possibile comprensione autentica e piena.

Questa comprensione prende le mosse dal riconoscimento «della radicale non sostanzialità di tutto ciò che non è fenomeno» (EI, 179), come Macedonio si esprime in un altro breve saggio. In Esistenze e Inesistenze egli afferma infatti, «con tutta semplicità», che «tempo, spazio, soggetto eccetera non esistono, non sono niente e, in conclusione, sono parole: azzurro, amaro, freddo, dolore, ecco ciò che solo esiste, che costituisce l’essere, o la realtà». E ciò perché «oltre il dolore non esiste un soggetto che lo prova, né un luogo in cui si produce, né un istante di tempo in cui succede, né una coscienza in cui si fa sentire, né una materia in cui opera e in cui è ubicato» (ivi). Ed è proprio quest’assenza di una qualsivoglia ubicazione che ne garantisce la comprensibilità, in quanto preclude la possibilità di ogni dualismo, di qualsiasi contrapposizione gnoseologica tra soggetto e oggetto, essendo ogni «stato» soltanto sé stesso, e quindi pienamente vivibile e comprensibile, giacché la sua comprensione si fonda interamente sulla possibilità di viverlo pienamente e incondizionatamente.

Di conseguenza, anche la morte potrà essere concepita in una luce diversa e nelle considerazioni che Macedonio dedica a ciò che definisce «Il dato radicale della morte» — questo il titolo di un suo brevissimo scritto dedicato a questo tema — riaffiorano distintamente le conclusioni che abbiamo già trovato al centro di alcune delle riflessioni poetiche già menzionate. Infatti «non è possibile che noi ci accorgiamo un giorno di non esistere. Per parlare della vita bisogna esistere e per parlare o pensare sul nulla lo stesso. La morte non è il nulla, ma ciò che nulla è. Non c’è l’opposto della vita; il suo contrario non esiste». Non esiste per lo stesso motivo per cui non esiste l’opposto della coscienza, o della materia, o della realtà. La vita è tutta la realtà, pienamente intelligibile proprio perché «tutta», e la morte non fu mai niente di attuale nel pensiero «perché pensare è esistere» e «nulla è se non è sentito, e solo mentre è sentito», perché «se qualcuno per un istante non sentisse nulla si sarebbe verificata per quell’istante la perfetta inesistenza del mondo (mondo e sensibilità sono due parole per una sola cosa). Se per un minuto io non esistessi il mondo, durante quel minuto, sarebbe cessato, sarebbe un minuto senza mondo» (DR, 215-216).

Così, se dopo queste incalzanti riflessioni dal sapore un po’ epicureo volessimo, per concludere questo nostro breve omaggio a Macedonio, provvisoriamente riassumere con un laconico gioco di parole la sua concezione dell’essere, potremmo dire che il suo senso («sentido») è il suo «sentito» («sentido», participio passato di «sentir», sentire), è ciò che si è sentito e si potrà aver sentito, perché null’altro potrebbe renderne piena testimonianza e perché non vi è un altro luogo in cui tale «senso» dell’essere possa rendersi pienamente conoscibile.

Sigle bibliografiche

AL
Jorge Luis Borges: L’Aleph, trad. it. in Borges. Tutte le opere (vol. I), Mondadori, Milano, 1985, pp. 771-808.
BU
Jorge Luis Borges: «Il Buddismo», trad. it. in Sette notti, Feltrinelli, Milano, pp. 65-83 .
DN
AAVV: Diccionario de la Novela de Macedonio Fernández, Ricardo Piglia (editor), Buenos Aires, 2000.
DR
Macedonio Fernández: «El dato radical de la muerte» (1928); in Obras completas, volumen 8 (pp. 215-216), Corregidor, Buenos Aires, 2001.
EI
Macedonio Fernández: Existencias e Inexistencias, in Obras completas, volumen 8 (pp. 178-182), Corregidor, Buenos Aires, 2001.
FR
Fabio Rodríguez Amaya: «Postfazione al Museo del Romanzo dell’Eternadi Macedonio Fernández»; in Museo del Romanzo dell’Eterna trad. it. Il Melangolo, Genova, 1992.
LM
Macedonio Fernández: La Metafisica (1908), in Obras completas, volumen 8 (pp. 63-85), Corregidor, Buenos Aires, 2001.
JM
Juan Ramón Jiménez: «Lado de Macedonio Fernández», in La corriente infinita: crítica y evocacíon; Aguilar, Madrid, 1971, pp. 181-186 .
ME
Adolfo de Obieta: Memorias Errantes, Corregidor, Buenos Aires, 1999.
MB
Jorge Luis Borges: «Macedonio Fernández e Borges», trad. it. in Conversazioni, Bompiani, Milano, 1986, pp. 42-49.
MF
Macedonio Fernández: Metafisica (1930-1950), in Obras completas, volumen 8 (pp. 385-417), Corregidor, Buenos Aires, 2001.
MR
Macedonio Fernández: Museo del romanzo della Eterna, trad. it. Il Melangolo, Genova, 1992.
MS
Jo Anne Engelbert: Macedonio Fernández and the Spanish American New Novel, New York University Press, New York, 1978.
MT
Macedonio Fernández: Metafisica (1920), in Obras completas, volumen 8 (pp. 199-214), Corregidor, Buenos Aires, 2001.
NT
Macedonio Fernández: No todo es vigilia la de los ojos abiertos; in Obras completas, volumen 8 (pp. 229-342), Corregidor, Buenos Aires, 2001.
OT
Jorge Luis Borges: L’oro delle tigri, trad. it. in Borges. Tutte le opere (vol. II), Mondadori, Milano, 1985, pp. 449-559.
PC
Macedonio Fernández: Poesías completas, Visor, Madrid, 1991.
PR
Jorge Luis Borges: «Mace/donio Fernández», in Prologhi, trad. it. in Borges. Tutte le opere (vol. II), Mondadori, Milano, 1985, pp. 799-810 .
SU
Jorge Luis Borges: «Su Socrate», trad. it. in Altre conversazioni, Bompiani, Milano, 1986, pp. 119-124 .
TW
Ludwig Wittgenstein: Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino, Einaudi, 1961.