Teoria dei nomi e teoria delle idee in Platone

Esiste in Platone, accanto alla teoria delle idee, una «teoria dei nomi» legata in qualche modo a quella e ricostruibile attraverso l’interpretazione dei passi riguardanti gli onómata, ma soprattutto attraverso l’analisi del dialogo platonico dedicato espressamente a questa tematica? La lettura del testo platonico ci ha portato ad individuare nel Cratilo, in alcune sezioni del Sofista, nell’excursus sulla conoscenza della VII Lettera (342 a8-344 d2) e in un brano delle Leggi (895d 1-9) i luoghi testuali più indicati per determinare le caratteristiche essenziali della concezione platonica del nome. Si tratta in sostanza di utilizzare il Cratilo come chiave di lettura per comprendere la funzione gnoseologica che il nome acquista nel Sofista e di considerare la VII Lettera come un momento di passaggio decisivo per comprendere quanto viene affermato, riguardo al nome, nelle Leggi. I numerosi e sporadici accenni a questo tema presenti negli altri dialoghi confermano, sostanzialmente, ciò che risulta dall’analisi dei passi menzionati. In essi infatti le numerose osservazioni riguardanti i legami fra nome e idea, nome e definizione o nome ed essenza giungono ad organizzarsi in una vera e propria «teoria dei nomi»1 — ove con questo termine s’intenda uno schema di proposizioni organizzato e coerente sufficiente a spiegare un determinato problema.

1. Il concetto di «teoria dei nomi»

All’espressione «teoria dei nomi» si può attribuire tuttavia un altro senso. Il significato del termine greco theoría,2 cui si rifà il nostro uso di «teoria», vincola l’interpretazione di questa problematica ad un giudizio, o se si vuole ad un pregiudizio, ben determinato: secondo il nostro punto di vista la questione dei nomi viene fatta oggetto, nel testo platonico, di un puro theoréin, di uno studio contemplativo che si disinteressa di qualsiasi risvolto pratico nella tensione incessante al raggiungimento della visibilità delle forme pure del sapere. In questo senso la teoria dei nomi sarebbe una sorta di supplemento della teoria delle idee, un’integrazione epistemologico-linguistica necessaria per la questione della definizione e più in generale per il problema, decisamente centrale in Platone, dell’espressione linguistica della conoscenza.3 Accertarsi di questo, e del ruolo che la teoria dei nomi eventualmente svolge all’interno della teoria delle idee, è il compito specifico che questo studio si propone.

Il termine theoría possiede ancora un altro significato: sia l’assistere ad uno spettacolo o ad una festa (solitamente religiosa), sia la festa o lo spettacolo stesso erano indicati, al tempo di Platone, con questo termine; da ciò il significato dell’italiano «teoria» indicante file, processioni o serie.4 Nel Sofista, ma soprattutto nel Cratilo, si assiste effettivamente ad una specie di corteo o processione di nomi, nomi le cui etimologie espongono idee filosofiche fondamentali della cultura greca colte nel loro vicendevole presentarsi, nel testo platonico come nella coscienza del lettore. Questo scorrere dei nomi di fronte alla lettura5 e la natura diveniente del nome6 rispetto all’idea, hanno a che fare con l’influenza decisiva che l’eraclitismo ebbe sui primi dialoghi. Il Cratilo, com’è noto, prende il nome dall’allievo di Eraclito che fu uno dei primi maestri di Platone ed espone un momento di riflessione dedicato dal filosofo ateniese all’eraclitismo. Il problema gnoseologicamente più rilevante del dialogo consiste nel tentativo di risolvere un’aporia ben precisa: se il mondo, come sostiene Eraclito, è eternamente immerso nel divenire, come sarà possibile la conoscenza, visto che l’oggetto della conoscenza deve essere stabile? La risposta a questa domanda è, nella sua interezza, la teoria delle idee: affermiamo questo nel senso in cui la domanda in questione è stata forse, nello sviluppo del pensiero platonico, lo sprone principale per la determinazione del senso filosoficamente tecnico dei concetti di idéa e di éidos.7 Di poco posteriore al Fedone, che rappresenta la prima teorizzazione classica del concetto platonico di éidos nella direzione di una vera e propria teoria organica, il Cratilo nasce nel periodo di gestazione della teoria delle idee e rappresenta il tentativo di conciliare l’eternità del mondo ideale e il divenire del mondo sensibile attraverso lo studio dei nomi,8 in questo senso l’uso dell’espressione «teoria dei nomi» è un riconoscimento del peso esercitato da parte dell’eraclitismo sulla filosofia platonica.

Se il Cratilo segna il primo grande momento di confronto, da parte di Platone, col problema del linguaggio, il secondo momento di riflessione sul concetto di nome e sul problema del «discorso vero» è costituito dal Sofista. In quest’altro dialogo la questione del nome viene discussa da un punto di vista radicalmente diverso rispetto a quello del Cratilo. Una delle ragioni di questa circostanza è da ricercare nel fatto che al tempo della composizione del Sofista Platone ha già mosso i passi decisivi della teorizzazione delle idee. Se ai tempi del Cratilo la teoria delle idee era stata appena formulata e il suo autore non aveva ancora affrontato le aporie decisive del suo sviluppo, il Sofista costituisce un momento di «soluzione» dei problemi. Fra le questioni poste a partire dalla seconda navigazione del Fedone e risolte nel Sofista troviamo: la struttura e le caratterisitiche essenziali delle idee, il perfezionamento della dialettica diairetica (metodo delineato per la prima volta nel Fedro), la questione — appunto — della connessione fra verità e linguaggio posta nel Cratilo, il problema dell’esistenza del non-essere posto nel Parmenide, la questione dell’essenza della conoscenza posta nel Teeteto. Tutti questi problemi vengono nel Sofista risolti e inquadrati nello sviluppo di una problematica molto antica del testo platonico: la questione della definizione (lógos).

Fin dai primi dialoghi era chiaro a Platone che la risposta alla domanda «che cos’è?» doveva essere una definizione;9 la determinazione dell’essenza della cosa ricercata doveva avvenire cioè sulla base di un discorso (lógos) che chiarisse gli aspetti essenziali della cosa. La soluzione dell’aporia riguardante l’inconciliabilità fra il carattere diveniente del mondo sensibile e la necessaria stabilità dell’oggetto della conoscenza, viene cercata e trovata, all’interno del Sofista, nel discorso definitorio, dunque, come si era prospettato nel Cratilo, nell’ambito del linguaggio. L’aporia e la sua soluzione legano in modo indissolubile il Cratilo al Sofista; il centro delle riflessioni sul legame fra nome e idea, dunque sulla possibilità di esprimere linguisticamente la verità e la conoscenza, rimane così il problema della definizione. La dialettica diairetica del Sofista, in questo senso, costituisce la conclusione di un percorso che giunge a statuire un parallelismo ben preciso fra lógos, inteso come connessione di nomi, ed essenza, intesa come connessione di idee.

Contemporanea, o di poco posteriore, alla stesura del Sofista dovrebbe essere la VII Lettera. L’excursus sulla conoscenza, considerato dal nuovo paradigma ermeneutico degli studi platonici un’autotestimonianza classica riguardo al problema delle dottrine non scritte,10 pone il nome all’inizio del percorso conoscitivo, ma in un sodalizio con l’idea — posta come elemento ultimo del percorso — che a nostro modo di vedere ribadisce, in sostanza, i risultati raggiunti nel Sofista sulla questione del nome. La cosa dovrebbe sembrare ancor più probabile se si pensa che la definizione (lógos) viene nominata come secondo elemento del percorso conoscitivo: nome e definizione — intesa questa come connessione di nomi — sono gli elementi che avviano la conoscenza; tutto ciò dovrebbe dare un indirizzo ben preciso all’interpretazione del Cratilo. La sostituibilità fra nome, essenza e definizione cui si accenna nelle Leggi conclude la teoria platonica dei nomi connettendo un’ultima volta la verità al nome. La strada seguita dopo Platone nello studio della connessione fra verità ed espressione linguistica vincolerà, con Aristotele, la verità al giudizio e alla forma della proposizione piuttosto che al nome. Questo sviluppo, di cui la logica e la filosofia in genere hanno risentito per più di duemila anni, è l’effetto di un abbandono sostanziale della concezione platonica del lógos.

2. Idee, nomi e conoscenza

La teoria delle idee, cui negli ultimi decenni si è affiancata per rilevanza la teoria dei principi,11 è stata storicamente presentata come il risultato fondamentale dell’interpretazione dell’essere e della gnoseologia platonica.12 L’ampiezza della sua portata è difficilmente delimitabile: quasi ogni problema filosofico considerato nei dialoghi, direttamente o indirettamente, viene analizzato alla luce di questa dottrina. Il suo peso è tale da fare affermare ad uno «storico» della filosofia come Heidegger che idéa è il nome imposto da Platone all’essente in quanto tale.13 Se la teoria delle idee, almeno in riferimento alla questione della conoscenza e alla questione del linguaggio, costituisce effettivamente l’argomento centrale della speculazione platonica,14 diviene difficile pensare che il filosofo dedichi un intero dialogo ai nomi per il desiderio di occuparsi di un problema talmente specifico come quello della correttezza dei nomi: evidentemente la questione del nome si era posta, a un certo punto dello sviluppo della teoria delle idee e della teoria della conoscenza, come aporia fondamentale della visione platonica del mondo.15 Il tentativo, e la volontà, di ricostruire la teoria platonica dei nomi nasce proprio dall’osservazione del forte legame evidenziato nel Cratilo fra nome e idea: il nome è correttamente imposto alla cosa nominata in virtù della capacità del nomoteta di scorgere quello che per natura è il nome della cosa e di porre quest’idea di nome nelle lettere e nelle sillabe come forma nella materia.16 Ma in che modo il problema della correttezza dei nomi s’inserisce all’interno della teoria della conoscenza? Qual è l’importanza della correttezza del nome rispetto alla funzione conoscitiva dell’idea? A questi interrogativi potremo dare risposta solo quando avremo determinato in modo sufficiente l’essenza del nome teorizzata da Platone, quando avremo chiarito la relazione sussistente fra ónoma e lógos, e quando avremo delineato il concetto platonico di verità in riferimento al problema della sua espressione linguistica.

Il problema della correttezza dei nomi, argomento principale del Cratilo, non esaurisce l’intero ambito delle tematiche trattate da Platone in riferimento alla questione del nome. La puntata scettica che chiude il dialogo suddetto, in base alla quale i nomi non sarebbero strumenti validi per conoscere le cose, connette in modo chiaro, sebbene per via negativa, il problema del nome a quello della conoscenza, vincolando in maniera decisiva la teoria dei nomi a quella delle idee. Al termine della lettura del Cratilo vedremo in che senso Platone affermi che per conoscere le cose è meglio rivolgersi alle cose stesse e non ai nomi, intesi come immagini delle cose: questo giudizio, come tenteremo di dimostrare, non pregiudica in assoluto il valore conoscitivo del concetto platonico nome. È opinione comune che nel Sofista, tramite la considerazione dell’ónoma come categoria sintattica, il filosofo fornisca gli elementi decisivi per quella teorizzazione della connessione fra ónoma e alétheia che costituisce il dato determinante di una dottrina — riguardante tanto il linguaggio quanto la conoscenza — che vede il lógos come fondato sulla differenza fra nome e verbo,17 cioè sulla proposizione. Contro con quest’opinione bisogna ricordare che la connessione fra nome e verità era già stata teorizzata nel Cratilo, ad un livello di riflessione sul linguaggio nel quale la differenza fra nome e verbo, intesa da Platone come differenza sintattica,18 non veniva ancora considerata. È necessario dunque di mettere in luce le radici del legame che sussiste fra ónoma e alétheia, al fine di mostrare l’evoluzione che la questione del rapporto fra linguaggio e conoscenza ha seguito nello sviluppo del pensiero platonico.

Nell’ambito di questo percorso è fondamentale mettere in risalto, riguardo al problema della correttezza, la posizione naturalista sostenuta dal filosofo ateniese nel Cratilo.19 È opinione di molti studiosi che Platone abbia sostenuto o quantomeno abbia spianato la strada alla tesi convenzionalista.20 La cosa, a nostro giudizio, è funzionale ad una concezione che storicamente ha separato il linguaggio dalle cose che nomina e dal naturale istinto umano alla significazione per renderlo, con Aristotele, il principale strumento logico-classificatorio delle scienze. In questo senso la connessione fra giudizio e verità — riguardata come allontanamento del piano del linguaggio da quello della realtà rispetto alla connessione, sicuramente più intima, fra nome e verità21 — fa tutt’uno col dogma dell’arbitrarietà del segno linguistico: queste due posizioni teoriche, convenzione e proposizionalità della verità, si concretizzano e si saldano nell’esito che la lezione platonica ha avuto nel De Interpretatione aristotelico e condizioneranno in maniera decisiva la futura storia della logica e della gnoseologia. Nel Cratilo Platone prende la tesi naturalista molto più sul serio di quella convenzionalista e alla fine, nella sua teoria della significazione, si risolve per una conciliazione delle due tesi che individua nella correttezza naturale un alto valore veritativo. Il naturalismo platonico è connesso, secondo il nostro giudizio, ad una concezione del linguaggio, se si vuole, più arcaica, ma proprio per questo più autentica e originaria, nella quale i termini non sono semplicemente «parole», ma «nomi», cioè espressioni linguistiche legate in modo indissolubile a ciò che nominano. In tal senso, correttezza naturale del nome e concezione non proposizionale della verità, illustrerebbero un identico punto di vista sul rapporto fra l’uomo e il linguaggio.

3. Nome e lógos

È appunto conseguenza diretta dell’indagine sul concetto di nome lo studio del concetto di lógos. Il fatto che il lógos venga inteso dal filosofo ateniese come connessione di nomi,22 da un lato, fa del nome l’elemento privilegiato per lo studio del concetto platonico di lógos, dall’altro mette in campo l’interrogativo centrale di questa ricerca: qual è la natura della connessione sussistente fra la verità e l’espressione linguistica? Come vedremo, il testo platonico è proprio l’ambito nel quale la filosofia si pone, per la prima volta nella storia, questa domanda. Si assiste, con Platone, alla nascita della connessione fra espressione linguistica e verità e, più specificatamente, alla nascita del legame fra verità e proposizione (nel senso logico di «giudizio», «asserzione»). Per comprendere l’importanza e la vastità delle problematiche connesse a questi eventi basti ricordare che per un’analisi — e una messa in dubbio — dell’immagine corrispondentista della verità, nonché del legame fra verità e giudizio, bisognerà attendere le riflessoni di Heidegger.23

Il problema della verità e della sua espressione tramite il linguaggio s’innesta all’interno della discussione riguardante l’essenza del nome tanto nel Sofista quanto nel Cratilo, tale problema risulta decisivo nell’intero ambito della filosofia platonica: un’analisi del concetto di verità, condotta attraverso lo studio dei nomi, contribuirebbe dunque al raggiungimento di un più maturo punto di vista sull’intera speculazione platonica e ad un’utile chiarificazione dei tanti problemi di filosofia del linguaggio e di filosofia della conoscenza connessi, da un lato, al tema del nome e, dall’altro, al tema della verità stessa. Se la conoscenza è sempre conoscenza della verità e la verità, appunto da Platone in poi, ha a che fare con l’espressione linguistica, diviene naturale pensare ad un legame, prima affermato e poi negato nel Cratilo, ma sempre presupposto nel Sofista, fra nomi e conoscenza, appunto perché in Platone i nomi costituiscono gli elementi fondamentali del lógos.

La negazione dell’utilità del nome in fatto di conoscenza alla fine del Cratilo, posta accanto al forte scetticismo dimostrato dallo straniero di Elea circa la necessità di trovare a tutti i costi un nome per ogni specie individuata dalla divisione, ci indicano un altro ambito, specifico e fondamentale per la comprensione della filosofia platonica, attraverso il quale un’analisi del concetto di ónoma deve passare: l’ambito dell’imitazione. L’indirizzo teorico attribuito a Platone dalla maggior parte degli interpreti è, grosso modo, il seguente: in quanto imitazione dell’essenza il nome rappresenterebbe un allontanamento dall’idea, che costituisce la verità della cosa;24 in questo senso, come si dice nel Cratilo, per conoscere le cose è meglio rivolgersi alle cose stesse, non ai nomi, intesi come immagini delle cose.25 In questo atteggiamento interpretativo26 vi sono due capisaldi che a nostro modo di vedere andrebbero quantomeno rivisti: anzitutto il concetto di imitazione viene visto, in assoluto, come qualcosa che lavora contro la verità, un disvalore gnoseologico da osteggiare e da evitare in tutti i modi; ma ciò è in contrasto con l’alto valore conoscitivo attribuito all’imitazione nel Sofista, nel Timeo e nel Cratilo;27 in secondo luogo, quanti negano il valore conoscitivo del nome citando il passo nel quale si dice che «le cose (prágmata) bisogna apprenderle e ricercarle molto più dalle cose stesse che non dai nomi» (Crat., 439b 6-8), dimenticano che i prágmata di cui parla Platone in questo caso sono le idee, per conoscere le quali nessuna mediazione linguistica può avere valore. Quanti sostengono questa posizione dimenticano inoltre la fondamentale funzione attribuita al nome nel Sofista, nel Politico e nella VII Lettera in riferimento al problema della definizione.

Schematizzato in tal modo lo scetticismo platonico sul valore conoscitivo del nome, rimane da considerare un ultimo vasto settore di influenza del concetto di nome sulla filosofia platonica. In diversi passi dei dialoghi, in modo particolare nelle prime pagine del Sofista, il nome viene rapportato all’idea non perché imitazione dell’oggetto individuale e concreto, ma perché designatore di un éidos che assume il significato di classe di individui.28 Si profila in tal modo una prima considerazione «logica» della funzione del nome, una considerazione nella quale il linguaggio, come mondo di nomi, trova un legame diretto col mondo delle idee, ove il nome rappresenti la cifra e la concretizzazione sensibile dell’idea stessa.29 È proprio ciò che accade nel Sofista: la distinzione delle parole in nomi e verbi porta alla categorizzazione grammaticale del concetto di nome e fornisce un modello esplicativo delle relazioni sussistenti fra i cinque generi sommi. La tessitura del lógos,30 appunto la grammatica, anche come tecnica di corretta composizione delle parole, diviene immagine della struttura del mondo delle idee intesa come struttura di entità differenti: nella proposizione si cerca un legame fra mondo dei nomi e mondo delle idee, un legame fra linguaggio e conoscenza che permetta l’espressione della verità;31 ma c’è un antefatto a tutto questo: la teorizzazione del nesso fra nome e idea nel Cratilo. La nostra ricerca è volta allo studio e alla valorizzazione di questo antefatto. In ordine a questo tentativo bisogna notare come il termine lógos assuma nel testo platonico il significato tecnico di definizione, oltre che di proposizione: ebbene, è in questa accezione, molto più importante per Platone rispetto a quella di proposizione, che vedremo il concetto di verità fondato in modo più originario sul concetto di nome.32 La gnoseologia onomastica esposta nel Cratilo, infatti, guida la teoriazzazione della definizione nel Sofista: le divisioni del discorso definitorio tracciano le determinazioni mantenendosi all’interno del primo nome in relazione noetica al definiendum, la proposizione perde quest’unità perché espone un legame estrinseco fra soggetto e predicato.

Infine, l’analisi interpretativa non può rimanere chiusa in se stessa: il proposito di questa ricerca, fin da principio, è quello di tentare un approfondimento dell’essenza del nome ed un avvicinamento decisivo alla dimensione del linguaggio che permettano all’uomo una percezione più chiara della propria natura. La filosofia platonica del nome viene scelta come elemento di questo tentativo perché considerata, nel presente studio, uno dei vertici assoluti della riflessione umana sul linguaggio.


  1. È importante chiarire fin d’ora che, traducendo il termine ónoma con l’italiano «nome» non dimentichiamo, che ónoma significa spesso «parola», o che il Cratilo è dedicato allo studio delle «parole». La nostra traduzione è dovuta ad un fatto ben preciso: «[…] Il termine greco ónoma, parola, significa anche “nome”, e in particolare nome proprio. La parola è dunque inizialmente intesa in base al nome.» H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Tübingen 1960; trad. it. Verità e metodo, trad. e cura di G. Vattimo, Milano 1994. Scrive Gambarara: «Eredità indœuropea sono in greco gli strumenti metalinguistica minimi che ci si può attendere di trovare in ogni lingua, il sostantivo “nome” e il verbo “chiamare”. […] Nei testi greci arcaici “nome” è originariamente solo il nome proprio di persona (con poche assimilazioni; la strada da percorrere per arrivare al valore “parola” dell’epoca classica è molta); […].» D. Gambarara, Alle fonti della filosofia del linguaggio, Roma 1984, pp. 107-9. ↩︎

  2. Cfr. H.G. Liddell — R. Scott — H.S. Jones, A Greek-English Lexicon, Oxford 1940, with a revised supplement 1996. ↩︎

  3. Cfr. a questo proposito A. Francioni, Il «topos» della lingua nella filosofia di Platone, Napoli 1991, pp. 13-43; R. Demos, Plato’s Theory of Language, in «Journal of Philosophy», LXI, 1964, n. 20, p. 595; H. Joly, Le renversement platonicien: Logos, Episteme, Polis, Paris 1974; M.H. Partee, Plato’s Theory of Language, «Foundations of Language», 1972, 8, pp. 113 sgg.; K. Uphues, Sprachtheorie und Metaphysik bei Platon, Frankfurt a. M. 1973. In generale, la bibliografia sul problema dell’espressione linguisitica della conoscenza in Platone è sterminata; per un buon avviamento si possono consultare utilmente i repertori presenti in A. Soulez, La grammaire philosophique chez Platon, Paris 1991; F. Adorno, Introduzione a Platone, Roma-Bari 1998; G. Casertano, Il nome della cosa. Linguaggio e realtà negli ultimi dialoghi di Platone, Napoli 1996. ↩︎

  4. Cfr. P. Chantraine, Dictionnaire etimologique de la langue greque, Paris 1968; A. Walde, Lateinisches Etymologisches Wörterbuch, Heidelberg 1965; G. Devoto, Avviamento all’etimologia italiana, Firenze 1968. ↩︎

  5. Gaudin ha recentemente rilevato l’importanza del concetto di lettura nella filosofia platonica: «Le lecteur est dans la position d’un spectateur de théâtre; il doit prêter attention à l’entrecroisement des répliques des personnages et à tous les détails de la mise en scène. Platon est “homme de théâtre” comme l’a montré Nussbaum. […] La conséquence évidente de cette “lecture” des dialogues est que ceux-ci sont des “spectacles” puisqu’ils ouvrent un espace de représentation dont le spectateur peut apprécier les degrés de profondeur. […] La lecture comme paradigme du paradigme apparaît comme un choix pertinent. Le traitement qui lui est appliqué établit le lien nécessaire entre les tâtonnements de l’apprentissage et le résultat qui fait de la lecture un chemin vers l’intellection.» C. Gaudin, Platon et l’alphabet, Paris 1990, pp. 218-28. ↩︎

  6. Epist. VII 343a 9-b 4: «Quanto ai nomi, diciamo che nessuno di essi ha alcunché di stabile, e che nulla impedisce che le cose che ora sono dette rotonde vengano chiamate rette e che le rette vengano chiamate rotonde, e che le cose non sarebbero meno stabili per coloro che ne mutassero i nomi e le chiamassero in modo contrario». Leggendo il Cratilo vedremo che il nome, considerato una sorta di luogo di conciliazione fra il divenire del mondo sensibile e la stabilità delle idee, partecipi tanto della temporalità e della storicità della lingua (più volte Platone, specie nel Cratilo, accenna a trasformazioni diacroniche, variazioni fonetiche e semantiche, dell’ónoma) quanto dell’immutabilità dell’oggetto della conoscenza (il nome inteso come contrassegno dell’idea; cfr. Theaet. 157b 5). Il brano della VII Lettera che abbiamo citato potrebbe legare la natura diveniente del nome ad una visione radicalmente convenzionalista; nel Cratilo la questione verrà risolta in maniera differente: i nomi, nelle loro trasformazioni fonetico-semantiche, nel loro divenire, mantengono agli occhi di chi sa individuarla una traccia indelebile del loro legame all’idea; ciò, come tenteremo di dimostrare, garantirà sempre la loro naturalità. Nel Cratilo, in effetti, viene proposta una conciliazione fra convenzionalismo e naturalismo: nella comunicazione fra i parlanti i significati vengono legati ai nomi per abitudine e convenzione, mentre il conoscitore dei nomi, l’onomastikós, è in grado di individuare la motivazione naturale che lega il nome al suo significato. È in questo senso e da questo punto di vista che nella VII Lettera viene affermata la convenzionalità del nome. ↩︎

  7. Cfr. D. Ross, Plato’s Theory of Ideas, Oxford 1951; Trad. it. Platone e la teoria delle idee, Trad. it. di G. Giorgini, Bologna 1989, pp. 42-5. ↩︎

  8. Riguardo all’annoso problema della cronologia dei dialoghi, fondamentale per la ricostruzione dello sviluppo delle varie tematiche platoniche, facciamo riferimento a quanto scrive Adorno in F. Adorno, Introduzione a Platone, Bari 1998, pp. 19-26. In particolare riteniamo opportuno tentare una ricostruzione della teoria dei nomi facendo riferimento allo sviluppo della teoria delle idee; a tal pro ci serviremo della ricostruzione proposta da D. Ross, Plato’s Theory of Ideas, cit. Fra i due testi citati sussiste però una differenza notevole: Adorno pone il Cratilo dopo il Fedone, in un momento cioè posteriore alla prima teorizzazione delle idee; a parere di Ross, invece, il Cratilo precederebbe di poco la composizione del Fedone; per ragioni che verranno chiarificate nel corso dell’introduzione noi preferiamo la proposta di Adorno. Per una ricostruzione generale della cronologia dei dialoghi cfr. anche A. Diaz-Tejera, Die Chronologie der Dialoge Platons, in «Altertum», 1965, pp. 78 sgg.; G. Ryle, Plato’s Progress, Cambridge 1966; H. Thesleff, Platonic Chronology, “Phronesis”, 1989, pp. 1-26; L. Brandwood, The Chronology of Plato’s Dialogues, Cambridge 1990. ↩︎

  9. Scrive Adorno a proposito dei primissimi dialoghi: «Sempre nell’ambito degli scritti che vanno dalla Apologia al Protagora al Gorgia alla prima parte del Menone, Platone, proprio in contrapposizione allo strutturarsi del rapporto umano entro i limiti della retorica, delinea con forza, in una specie di esemplificazione per mostrare che la retorica non è “discorso”, non è ragionare, quali sono le condizioni mediante cui si apprende a ragionare, e cioè mettendo in primo piano quello che realmente dovette essere il modo di procedere confutatorio (dialettico) di Socrate. […] Si cerca in tale modo, attraverso lo stesso ragionare (dialettica), di confutazione in confutazione, di cogliere la “premessa”, […]. Di qui, per altro verso, prende un preciso significato la domanda: cosa è? (ti ésti?). Di fronte cioè alla premessa di un certo discorso, data e non colta razionalmente, e, dunque, particolare, opinabile, cui si convince retoricamente, si richiede di porre ciò di cui si tratta in una definizione corretta, alla quale si giunge discutendo le ipotesi e le “opinioni” […]. E allora, attraverso il dialogo, inteso come rigoroso e corretto modo di ragionare, come “saper ragionare”, Platone fa sì che Socrate di obbiezione in obbiezione, in una precisazione anche delle “parole” usate, procedendo pure “antilogicamente”, porti l’interlocutore a dare (o no) una definizione di ciò di cui si tratta, definizione non più controvertibile e su cui sia possibile un accordo, una comune comprensione anche linguistica, giungendo comunque a spogliarci delle “opinioni” correnti, sia pur restando sospeso ogni giudizio.» F. Adorno, Op. cit., pp. 31-3. ↩︎

  10. Per una storia della rinascita dello studio delle dottrine non scritte Cfr. H. Krämer, Platone e i fondamenti della metafisica, Milano 1982; Sul nuovo paradigma ermeneutico, in base al quale il nucleo fondamentale delle dottrine platoniche sarebbe contenuto nelle testimonianze indirette cfr. K. Gaiser, Platons Ungeschriebene Lehre, Stuttgart 1963; trad. it. La dottrina non scritta di Platone, trad. it. di V. Cicero, Milano 1994; AA. VV., Verso una nuova immagine di Platone, a cura di G. Reale, Milano 1994. I testi citati contengono ampi repertori bibliografici sull’argomento. ↩︎

  11. La questione dei rapporti fra teoria delle idee e teoria dei principi è decisamente complessa; il problema è strettamente connesso ad uno fra i più attuali punti del dibattito storiografico su Platone: il rapporto fra i dialoghi e le dottrine non scritte (a questo proposito cfr. H. Krämer, Op. cit., pp. 179-213). La teoria delle idee, esposta nei dialoghi, e la teoria dei principi, ricostruita attraverso le dottrine non scritte, pongono a principio di tutte le cose un’identica realtà: l’Uno-Bene. In Resp. 508e-517c il Bene, principio assoluto della filosofia platonica, identificato nelle dottrine non scritte con l’Uno, è un’idea; l’idea che fonda la possibilità di tutte le altre idee, superiore a queste in dignità e potenza, ma pur sempre un’idea. Ciò naturalmente testimonia l’unità della filosofia platonica, a prescindere dalla distinzione fra testimonianza indiretta e dialoghi. Sull’idea del Bene cfr. M. Heidegger, Vom Wesen der Wahrheit, Frankfurt am Main 1988; trad. it. L’essenza della verità, ed. e trad. it. a cura di F. Volpi, Milano 1997, pp. 121-143. Sull’identificazione dell’idea del Bene della Repubblica con l’Uno delle dottrine non scritte Cfr. G. Reale, Ruolo delle dottrine non scritte di Platone *Intorno al Bene nella Repubblica e nel Filebo**, in AA. VV., *Verso una nuova immagine di Platone, cit., pp. 295-322. ↩︎

  12. La storia della filosofia, coi suoi autori più grandi, ha riproposto questa concezione: si pensi all’importanza che il concetto di idea riveste nell’opera di filosofi come Cartesio, Leibniz, Hegel. Tutti gli idealismi o i neo-idealismi presuppongono che la teoria delle idee rappresenti il più grande contributo di Platone alla filosofia e la parte più importante della sua opera. Anche la storia dell’interpretazione di Platone ha posto di continuo la teoria delle idee al vertice della filosofia platonica: cfr. a questo proposito F. Schleiermacher, Platons Werke, Berlin 1804; E. Zeller, Platonische Studien, Tübingen 1839; P. Shorey, The Unity of Plato’s Thought, Chicago 1903; P. Natorp, Patos Ideenlehre. Eine Einführung in den Idealismus, Leipzig 1903 L. Robin, La Théorie platonicienne des idées et des nombres d’après Aristote, Paris 1908; J. Stenzel, Zahl und Gestalt bei Platon und Aristoteles, Leipzig-Berlin 1924; D. Ross, Op. cit.; H. Cherniss, Studies in Plato’s Metaphysics, London-New York 1965. ↩︎

  13. Cfr. M. Heidegger, Nietzsche, Pfullingen 1961, tr. it. Nietzsche, tr. it. di F. Volpi, Milano 1994, p. 721. ↩︎

  14. Scrive Natorp nella premessa alla prima edizione della sua fondamentale opera su Platone: «Questo libro è destinato a tutti coloro che sentono il bisogno di farsi un’idea completa di ciò che il nome di Platone ha fin qui significato, e non potrà non significare ancora, per l’umanità. Non che qui si trascuri tutto quanto Platone ha detto di memorabile. Il libro intende piuttosto trasportare il lettore nel centro del cosmo speculativo platonico, affinché d’ora in avanti egli impari anche a riferire a questo centro ciò che viene conoscendo sui campi più periferici, e a intenderlo compiutamente nel senso autentico di Platone. Questo centro è e rimarrà sempre: la dottrina delle idee.» P. Natorp, Platos Ideenlehre. Eine Einführung in den Idealismus, Leipzig 1903; trad. it. Dottrina platonica delle idee. Una introduzione all’idealismo, trad. it. di V. Cicero, Milano 1999, p. 3. La patina di romanticismo presente nel giudizio di Natorp non deve nascondere il fatto, per noi fondamentale, che, almeno nei confronti del problema della conoscenza e del problema del linguaggio, la teoria delle idee rimane effettivamente il centro della filosofia platonica. ↩︎

  15. Scrive Di Cesare: «Come in tutta la filosofia greca, anche in Platone la questione del linguaggio nasce in connessione con la questione dell’essere; pertanto Platone si imbatte per così dire nel linguaggio allorché si pone il problema della conoscenza dell’essere. Sotto quest’aspetto l’interesse per il linguaggio, che in Platone è un interesse fondamentalmente epistemologico, è provvisorio, non definitivo, ossia è sempre in funzione dell’essere.» D. Di Cesare, Linguaggio e dialettica in Platone. Riflessioni sui fondamenti linguistici della ricerca filosofica, in «Annali dell’Istituto di filosofia di filosofia di Urbino», 1987, p. 340. ↩︎

  16. Cfr. Crat., 390e. Taylor chiarisce il processo di produzione del nome come unione di materia e forma rifacendosi alle similitudini platoniche: «Le lettere e le sillabe, come il legno del falegname, sono la materia nella quale egli deve immettere il “nome vero e proprio” […]. Le differenze di materiale non hanno importanza, in questo come nell’altro caso, se lo strumento formato risponde ai suoi scopi.» A.E. Taylor, Plato. The Man and his Work, London 1926, Trad. It. Platone. L’uomo e l’opera, tr. it. di M. Corsi, Firenze 1968, pp. 130-1. ↩︎

  17. Diversi interpreti hanno visto nella sezione del Sofista riguardante il linguaggio la chiave della connessione fra nome e verità teorizzata da Platone; in quest’ottica li Cratilo viene considerato dialogo aporetico, giovanile e speculativamente inferiore al Sofista. Scrive Derbolav: «Und schließlich hat die isolierte Betrachtung der Namen (als eines “partiellen” Moments am “Sprachergon”) unserm Denker begreiflicherweise die höchst gewichtige Einsicht verbaut, dab die Grundlagenproblematik der Sprache, die Dialektik von Sinn und Satz, sowohl dem Bedeutungsproblem des Wortes als auch dem Erkenntnisproblem insofern grundsätzlich vorgeordnet ist, als beide zu ihrer Formulierung Sprache als Sinnträger bereits voraussetzen. — Aus diesen Gründen ist im “Kratylos” eine Vermittlung der beiden Fragestellungen, der sprachphilosophischen und erkenntnistheoretischen, ausgeblieben.» J. Derbolav, Der Dialog “Kratylos”, Saarbrücken 1953, p. 85. A parere di Soulez i nomi esprimerebbero l’essenza delle cose solo se integrati entro la proposizione: «Cette deuxième partie entend expliciter en quel autre sens que “mimetique” — suite à la critique platonicienne de l’application de la mimesis aux noms dans le Cratyle — les noms intégrés dans les phrases expriment le typos des choses.» A. Soulez, La grammaire philosophique chez Platon, Parigi 1991, p. 113. Ma questa è una lettura derivante da una commistione teorica fra Cratilo e Sofista che non trova alcun conforto testuale; nel Cratilo, dialogo nel quale si teorizza l’espressione dell’idea tramite il nome, il concetto di proposizione è ancora inesistente. Scrive Casertano: «Con la nostra voce (1, 2) emettiamo dei segni (2) che servono ad indicarci e ad indicare agli altri cose e fatti concreti, reali, oggetto della nostra esperienza […]. Nella nostra ulteriore riflessione sul linguaggio, abbiamo deciso di classificare e memorizzare questi tipi di indicatori fonetici in due modi diversi: “verbi” quelli che si riferiscono alle azioni, “nomi” quelli che si riferiscono agli attori di quelle azioni. “Nome” e “verbo” dunque, per Platone, non hanno alcuna realtà autonoma, non sono significativi di per se stessi, se non nella misura in cui rimandano ad altro, ad un piano reale di cui sono “segni”.» G. Casertano, Op. cit., p. 195. Tutte queste interpretazioni subiscono in maniera evidente l’influenza di un giudizio, quello aristotelico, che si è propagato, attraverso la fortuna della logica, sino alla filosofia analitica: il nome, per Aristotele così come per i filosofi analitici, non possiede una realtà autonoma, è parte della proposizione. ↩︎

  18. La differenza fra nome e verbo è una differenza grammaticale, ma il passo del Sofista cui ci riferiamo, 261e 5-263d 4, mostra chiaramente che Platone, tracciando la differenza fra nome e verbo, fonda la differenziazione fra soggetto e predicato su cui si basa la proposizione. ↩︎

  19. Sebbene, riguardo alla questione della comunicazione linguistica nel Cratilo si sostenga, come vedremo, una sinergia fra naturalismo e convenzionalismo (Crat. 434c-e), riteniamo che Platone propenda per la tesi naturalista. Dello stesso avviso, fra gli altri, G. Anagnostopulos, Plato’s “Cratylus”: The Two Theories of the Correctness of Names, in «Review of Metaphysics», 25 (1972), pp. 691-736; M. Leroy, Théories linguistiques dans l’Antiquité, in «Les Etudes Classiques», XLI, 1973, 4, pp. 385-401; G. Genette, Mimologiques. Voyage en Cratylie, Paris 1976, pp. 10-35. ↩︎

  20. Si sono espressi a favore dell’esito convenzionalista del Cratilo numerosi interpreti, fra questi: R. Robinson, Essays in Greek Philosophy, Oxford 1969, pp. 100-117 e 118-138; T.W. Bestor, Plato’s Semantics and Plato’s Cratylus, Phronesis, 25 (1980), pp. 306-30; A. Pagliaro, Nuovi saggi di critica semantica, Firenze-Messina 1956; M. Schofield, The Dénnouement of the “Cratylus”, in M. Schofield and M. Nussbaum, Language and Logos, Cambridge 1982; R. Dionigi, Nomi Forme Cose, Bologna 1994. ↩︎

  21. Il giudizio comporta una connessione fra linguaggio e realtà più debole di quella presupposta dal nome: la forma proposizionale, infatti, implica un legame con ciò su cui verte che scavalca i singoli riferimenti dei suoi elementi (i nomi) ai singoli elementi della realtà. Quanto Wittgenstein sostiene nel Tractatus, a questo proposito, è illuminante: «3. 2 Nella proposizione il pensiero può essere espresso così che agli oggetti del pensiero corrispondano elementi del segno proposizionale. 3. 201 Questi elementi io li chiamo “segni semplici”; la proposizione, “completamente analizzata”. 3. 202 I segni semplici impiegati nella proposizione si chiamano nomi. 3. 203 il nome significa l’oggetto. L’oggetto è il suo significato. (“A” è lo stesso segno che “A”). 3. 21 Alla configurazione dei segni semplici nel segno preposizionale corrisponde la configurazione degli oggetti nella situazione. 3. 22 Il nome è il rappresentante, nella proposizione, dell’oggetto.» L. Wittgenstein, Op. cit., p. 35. In queste proposizioni, in modo molto chiaro, affiora la dipendenza del filosofo viennese dalle tesi esposte nel De Interpretatione: il nome assume un suo ruolo solo nel contesto preposizionale e la proposizione, in quanto primo livello articolatorio vero o falso, si costituisce come “unità di misura del linguaggio”. Il Tractatus, che rappresenta probabilmente la più importante teorizzazzione novecentesca della forma proposizionale della verità, mostrando la proposizione come un livello di articolazione linguistica superiore al nome, la mantiene ad un livello di generalizzazione più alto: in questo senso essa è più lontana dal mondo di quanto non lo sia il nome. Anche nei Sätze che abbiamo letto affiora chiara l’idea che una proposizione ha senso solo in funzione del fatto che i singoli nomi significano i singoli oggetti. ↩︎

  22. Cfr. Theaet. 202b 4-6, Soph. 262b 9-c 6, Crat. 387c 5-6, Polit. 267d 5. ↩︎

  23. Scrive Heidegger riguardo a questo problema: «Qual è l’“essenza” della verità? Conosciamo singole verità: ad esempio 2+1=3, la terra gira intorno al sole, all’autunno segue l’inverno, […], e così via. Queste sono “singole verità”; le chiamiamo così perché contengono qualcosa di “vero”. E in che cosa è “contenuto” il vero? Che cos’è che, per così dire, “reca in sé” il vero? Sono le asserzioni che abbiamo appena pronunciato. […] Ora ci domandiamo: che cos’è la verità in generale, in assoluto? E cioè, in base a quanto detto, che cosa fa sì che ciascuna di queste asserzioni sia un’asserzione vera? È il fatto che essa, in ciò che dice, concorda con le cose e con gli stati di cose su cui dice qualcosa. L’essere vera dell’asserzione significa dunque questo concordare. Che cos’è allora la verità? La verità è concordanza, e tale concordanza sussiste perché l’asserzione si conforma a ciò su cui asserisce. La verità è conformità. La verità è quindi la concordanza, fondata sulla conformità, dell’asserzione con la cosa. […] Dicevamo: vera è l’asserzione. Sennonché, noi chiamiamo “vera” anche una cosa o una persona. Diciamo: “oro vero”, “un vero amico”. Che cosa significa qui “vero”? Se essere vero significa concordanza, con che cosa concorda l’oro vero? Forse con un’asserzione? Evidentemente no. “Vero” è in ogni caso un termine ambiguo. Ma com’è che noi diciamo “vere” anche cose e persone, e dunque non solo asserzioni? […] La verità intesa come concordanza (come carattere dell’asserzione) è pertanto ambigua, non sufficientemente delimitata in sé e indeterminata quanto alla sua provenienza — […]! Come fu intesa in passato quella che è stata presentata in maniera ovvia come essenza della verità e come essenza dell’essenza? La definizione del medioevo e del periodo successivo era: veritas est adaequatio rei et intellectus sive enuntiationis, […]. E prima ancora in che modo pensavano gli antichi il concetto di verità e il concetto di essenza? La verità veniva allora definita come omóiosis ([…]) tón pathématon tés psychés kái tón pragmáton […]. Che cosa ricaviamo da queste indicazioni che si trovano, per il Medioevo, in Tommaso d’Aquino (quaestiones de veritate, qu. I, art. 1), e per gli antichi in Aristotele (perí hermenéias, cap. I, 16a)? Ciò che balza subito agli occhi è che quella che abbiamo esposto come definizione ovvia dell’essenza della verità è valida come tale fin dall’antichità.» M. Heidegger, Vom Wesen der Wahrheit, Frankfurt am main 1988, ed. it. a cura di F. Volpi, L’essenza della verità, Milano 1997, pp. 24-31. Heidegger sostiene dunque che l’idea contemporanea di verità, fondata sulla corrispondenza fra l’asserzione e la realtà, risale ad Aristotele; a questo proposito cita il De Interpretatione. Il nostro studio analizza proprio l’antefatto platonico della statuizione, operata da Aristotele, della verità nel giudizio. ↩︎

  24. A. Soulez ritiene che riguardo al rapporto fra linguaggio e mondo, nomi e cose, il concetto platonico di mímesis entri in crisi; il Cratilo è, a suo parere, l’esposizione di questa crisi: «Le langage n’imite pas les chose, car les noms ne sont pas sur le meme plan que le chose sensibles qui, d’après Platon, “participent” aux Idées d’après lesquelles elles sont en effet dénommées. Le modèle de la mimesis vaut bien pour le choses dans leur rapport aux Idées, mais appliqué au langage, on s’aperçoit qu’il s’effondre. Le Cratyle nous met en face de cette crise […]» A. Soulez, Op. cit., p. 18. ↩︎

  25. Cfr. Crat., 439a-b. ↩︎

  26. Fra le interpretazioni che esprimono in modo inequivocabile questo punto di vista ricordiamo V. Goldschmidt, Essai sur le Cratyle, Paris 1940; J. Derbolav, Op. cit.; A. Pagliaro, Nuovi saggi di critica semantica, Firenze 1971; A. Soulez, Op. cit.; D. Di Cesare, Op. cit.; M.D. Palmer, Names, Reference and Correctness in Plato’s Cratylus, New York 1989; T. Baxter, The Cratylus: Plato’s Crtitique of Naming, Leiden 1992; R. Dionigi, Nomi Forme Cose. Intorno al Cratilo di Platone, Bologna 1994. ↩︎

  27. Nel Timeo la creazione del mondo avviene tramite un’atto imitativo del demiurgo; buona parte del Sofista è incentrato sulla divisione e sulla definizione dell’imitazione, la quale viene divisa in imitazione fedele e imitazione falsante; il Cratilo, come vedremo, pone a fondamento del potere semantico dei nomi il fatto che il nome è imitazione dell’essenza della cosa nominata. Scrive Gadamer in riferimento al concetto platonico di imitazione, e alla sua funzione conoscitiva: «Il concetto di imitazione può servire a descrivere il gioco dell’arte solo nella misura in cui si tiene presente il significato conoscitivo insito nell’imitazione. Il rappresentato è presente: questo è il rapporto mimetico fondamentale. Chi imita qualcosa, fa essere presente ciò che conosce e nel modo in cui lo conosce. […] Da tutto ciò deriva una conclusione, e cioè che il senso conoscitivo della mimesis è il riconoscimento. […] Il rapporto mimetico originario, che abbiamo prima ricordato, non implica dunque soltanto che il rappresentato è presente in esso, ma che esso viene in luce in modo più autentico e proprio. Imitazione e rappresentazione non sono soltanto ripetizione e copia, ma conoscenza dell’essenza.» H.G. Gadamer, Op. cit., pp. 145-7. ↩︎

  28. Cfr. Ad es. Leg. VII 823b 2; Men. 74d 5; Prot. 349b 3, 6, 349b 3, 349c 1; Tim. 83b 8. Ross mette bene in evidenza che l’idea platonica corrisponde a ciò che noi chiameremmo “universale”, cfr. D. Ross, Op. cit., pp. 291-311. ↩︎

  29. Cfr. Resp. 596a 6-7: «Infatti siamo soliti porre un’unica forma per ogni serie di cose, alle quali attribuiamo il medesimo nome.». ↩︎

  30. Cfr. Soph., 262 c9-11. In questo passo ciò che viene chiamato «ton lógon prótos kái smicrótatos» è per così dire l’antesignano di ciò che i logici intendono oggi con proposizione. Sul lógos inteso come proposizione cfr. Epist. VII 342c. ↩︎

  31. A tale proposito A. Soulez, accennando al rapporto che Platone instaura fra linguaggio e conoscenza, fa riferimento a quello che lei chiama «dimensione proposizionale della conoscenza»: «Pour moi en effet le Cratyle n’est pas aporétique. Platon par la bouche de Socrate défend sa thèse de la justesse, thèse qui n’est pas que linguistique au sens étroit, mais engage aussi une théorie du rapport entre langage et connaissance. Le langage est important pour la connaissance à deux régards: parce que, en tant que véhicule expressif, il sert à connaître, et parce qu’il formule la connaissance et qu’ainsi la connaissance peut s’articuler. […] l’évaluation du rapport entre langage et connaissance, nom et Idée, me parait devoir passer par la reconnaissance de ce second aspect, à savoir la dimension propositionelle de la connaissance […].» A. Soulez, La grammaire philosophique chez Platon, Parigi 1991, p. 44. ↩︎

  32. In pieno contrasto con quanto sostiene Gadamer nella sua analisi del Cratilo: «L’intenzione di Platone mi sembra assolutamente chiara, […]: Platone, attraverso questa discussione delle contemporanee teorie del linguaggio, vuole mostrare che nel linguaggio e nella pretesa di una giustezza delle parole […] non si può raggingerer una verità oggettiva […] e che bisogna conoscere l’ente solo in base all’ente stesso […] senza le parole […].» H.G. Gadamer, Op. Cit., p. 467. ↩︎