La bioetica tra filosofia, medicina e diritto

1. Introduzione

Tra i temi caldi della nostra cultura, quelli che hanno caratterizzato ed acceso progressivamente i dibattiti internazionali della seconda metà del secolo appena concluso, figurano in prima istanza gli orizzonti epistemologici della biomedicina e i problemi bioetici in essi coinvolti.

Nonostante la confusività linguistica nell’uso del termine bioetica, legata alla mancanza di assegnazione contenutistica univoca a tale nuova disciplina, essa tende comunque a caratterizzarsi per l’assunzione di un comune obiettivo metodologico: confrontarsi con le sfide poste dalle società occidentali tecnologico-scientifiche, per tentare di capire se, e come, sia possibile far loro fronte e sulla base di quali presupposti e criteri etico-antropologici. L’orizzonte della bioetica, intesa secondo Lecaldano1 come riflessione intorno alle innovative prospettive di nascita, vita e morte che si offrono sul «mercato» delle scelte individuali, in virtù dei progressi della biologia e della medicina, rappresenta dunque davvero l’area di nuovo incontro-scontro fra pensatori di settori diversi.

Nonostante il coinvolgimento di ambiti di conoscenza e professionalità differenti, la bioetica risulta, epistemologicamente, sostenuta e — si può dire — «abbracciata» da una prospettiva etica: si tratta di definire i diritti e i doveri di ogni singolo alla luce del codice deontologico proprio della medicina, ancora sotto il profilo giuridico, valutando la possibilità di conferire statuto normativo ai nuovi diritti rivendicati, nonché sul piano delle risorse economiche messe in campo. Ognuna di queste sfere apparentemente distinte si fonde in uno sguardo filosofico che si interroga sulla liceità morale di quanto nel contemporaneo contesto tecnologico è possibile realizzare e, sui nuovi o pregressi modelli di riferimento per la definizione della dignità della vita, del valore della morte, del bisogno di miglioramento della società umana nel suo complesso.

2. Il contributo complesso della filosofia alla bioetica

In prima istanza occorre sottolineare quali sono le ragioni, le cause di un rinnovato interesse nei confronti della disciplina etica. Essa si pone come strumento razionale di primaria analisi e valutazione e, di successiva potenziale risoluzione, dei dilemmi che le frontiere dello sviluppo medico-biologico pongono all’uomo contemporaneo. In tal senso le portentose possibilità di nascita, cura e morte non solo presentano nuove sfide per il pensiero occidentale, ma contribuiscono in modo determinante a creare un altrettanto nuovo orizzonte di percezione del mondo e una nuova sensibilità culturale.

A partire da tale rivoluzione cognitiva, la bioetica non si potrà limitare esclusivamente a rivisitare l’antico e moderno repertorio delle concezioni etiche formulate nel corso dei secoli. Per quanto infatti tale bagaglio intellettuale risulti irrinunciabile per orientarsi con maggiore consapevolezza all’interno delle varie forme di traduzione del concetto di bonum morale, pure la novità e l’arricchimento di prospettive tanto teoriche quanto pratiche dei temi biomedici, impone — a mio avviso — un radicale ripensamento di quegli stessi paradigmi. Inoltre, le tradizionali versioni della scienza della morale (aristotelismo, kantismo, utilitarismo) non appaiono adeguarsi, già solo da un punto di vista epistemologico, alle tematiche bioetiche. Benché ogni formulazione etica implichi una riflessione fondativa del valore e sul valore, questo lo si è sempre considerato nel suo aspetto teorico; sono state cioè sempre pensate la vita e la morte, l’etica non si è mai dovuta confrontare con l’urgenza di una responsività rispetto alle infinite modalità concrete in cui una vita e una morte si possono dare.

3. La riformulazione dell’etica filosofica per la bioetica

Propriamente in virtù della consapevolezza della difficoltà strutturale in cui appare trovarsi l’etica filosofica, quando intenda porsi come ideale regolativo dell’agire scientifico, alcuni filosofi hanno contestato l’utilità di questa stessa disciplina per la costruzione di un’adeguata bioetica risolutiva. Un’esemplare critica rivolta alla filosofia — che vorrebbe rivendicare il primato epistemologico sulla bioetica — è svolta dall’autrice Anne Maclean,2 la quale sostiene che gli esperti di etica applicata sarebbero incapaci di fornire contributi alla sanità in quanto sprovvisti della perizia specifica. Poiché infatti — continua la Maclean — la filosofia non presenta uno statuto disciplinare univoco, né un’univoca teorizzazione, non solo non potrebbe vantare alcuna pretesa volta ad incrementare il sapere, ma addirittura acuirebbe lo smarrimento rispetto a direttive operative medico-sociali. Altri autori hanno tentato di contestare questo nichilismo epistemologico; fra questi spicca, per acutezza e rigore, David Lamb che ha compiuto una serrata analisi dei deficit teoretici della filosofia. Raccogliendo in parte le provocazioni dell’autrice, questo autore si impegna a fornire statuto di validità ad una disciplina quale la filosofia ormai dimenticata e disprezzata come eccessivamente astrattizzante.

Lamb concorda con la Maclean sulla mancanza di conoscenze tecnico-mediche da parte del filosofo e sulla constatazione che non esiste nell’ambito delle decisioni di vita e di morte un’univocità di risposte morali, ma non per questo l’autore ritiene di poter escludere aprioristicamente un’utilità dell’indagine etica rispetto a tali problematiche:

L’affermazione che la filosofia sia incapace di rivolgersi ai maggiori problemi del nostro tempo è facilmente confutabile. Si può correggere la cattiva con la buona filosofia, che è in grado di dimostrare che la prima era inadatta ad affrontare i problemi che le venivano sottoposti. […] Può accadere che alcuni tipi di impostazione filosofica invalidino le pretese di accedere alla verità e alla ragione, ma gli argomenti tesi a dimostrare la debolezza e l’inadeguatezza di talune posizioni non possono venir estesi all’intero campo dell’indagine filosofica.3

Un esempio di «cattiva filosofia» che Lamb scarta come inutile e addirittura fastidiosa per la bioetica, deriverebbe dal «fondamentalismo etico», da quella prospettiva teoretica che costruisce e propone una morale saldamente fondata su valori e assunti che avrebbero pretesa di validità perenne e comune per tutti i problemi presi in esame. Potremmo definire tale posizione come deontologica, essa fa riferimento ad un insieme di norme e precetti morali che, una volta stabiliti in astratto, possono non solo rispondere alle necessità poste dalla pratica medica, ma trovare anche una loro applicazione concreta. Quest’impalcatura teoretica che Lamb definisce «ingegneristica» considererebbe l’etica applicata come disciplina che sottostà alle formulazioni teoriche elaborate in sede filosofica e dunque come una sorta di sua filiazione empirica. Un’ottica del genere, rischia in realtà di essere eccessivamente astratta e di non tener conto delle progressive innovazioni tecnico-mediche che prevedono un continuo aggiornamento morale. La sclerotizzazione di valori e principi, anche condivisibili, implicata in questa concezione etica, relegherebbe nuovamente la filosofia nella sfera dei dibattiti accademici, che nulla possono aggiungere rispetto alle scelte quotidiane dei singoli. Proprio l’etica ingegneristica finirebbe dunque per decretare la morte del contributo filosofico alla bioetica: il professionista sanitario non potrebbe, di fronte ad un dilemma etico, deresponsabilizzarsi delegando la direttiva della scelta adeguata al filosofo, vissuto in questa dinamica come un saggio a-storico. Tale modello etico non solo risulta incapace di ricavare da premesse astratte e generiche, prescrizioni in grado di orientare i singoli agenti morali, ma è foriero di conflitti fra diverse concezioni etiche, conflitti resi insanabili dalla rigidità intrinseca alla prospettiva deduttivistica. La costruzione gerarchica di valori e principi morali universali infatti, si presenta come ostacolo alla ricerca di punti di convergenza, in quanto finisce con il ricondurre tutti i contrasti morali a profonde divergenze di principio anche laddove queste non sarebbero de facto insormontabili.

Ciò dunque non può non implicare uno scarto fondamentale fra i paradigmi che l’etica tradizionale pur nella sua specificità formulativa ha utilizzato, e quelli che si devono probabilmente ancora edificare per applicarsi propositivamente ai casi della bioetica.

Già per il fatto di ritenere centrale un tale ripensamento della morale ci si colloca all’interno di una precisa opzione teoretica: solo se la bioetica vuole tentare di fornire contributi in qualche modo risolutivi dei casi che affronta, e non si vuole esclusivamente limitare a districare i nodi concettuali, a chiarificare i termini coinvolti nel confronto dialettico, elevando le consapevolezze degli interrogativi antropologici che si rintracciano in ogni problematica, dovrà riformulare la metodologia stessa dell’intervento razionale. L’apporto riflessivo che la filosofia può allora offrire alla bioetica dovrà basarsi su una sua rifondazione epistemica che tenga conto e si lasci contaminare dalla disciplina che propone tali sfide: la medicina. La razionalità astrattizzante e categorizzante propria della riflessione teoretica dovrà perciò lasciare spazio all’analisi del contesto in cui si inserisce il problema, all’indagine sulle variabili di quel contesto e all’auspicata conoscenza dei soggetti direttamente coinvolti. Certo il rischio di tale rifondazione è costituito dal venir propriamente meno del progetto filosofico inteso come indagine ultima ed universale sui fondamenti dell’essere, ma in realtà si può ancora mantenere saldo tale obiettivo — caratteristico del ragionare filosofico — invertendo i puntelli archimedei dai quali far originare la riflessione: come la metodologia induttiva guarda in prima istanza alla realtà complessa dei fenomeni tentando di arrivare ad uniformarli in griglie referenziali univoche, così l’etica bioetica dovrà sondare la peculiarità della contingenza problematica contestuale, per poi ardire di ancorare quella specificità all’interno di un ampio sostrato antropologico. Prima ancora cioè di stabilire quale teoria etica si confaccia maggiormente ad una bioetica che tenti di conciliare l’etica dell’autorealizzazione propriamente aristotelica con quella del rispetto, di matrice kantiana, si deve saldare il discorso sul valore nell’ambito di una più generale teoria metafisica del valore della vita.

La forte centratura epistemologica sull’etica, all’interno dell’interdisciplinarietà bioetica, non deve al contempo essere interpretata come un’ingerenza filosofica in una sfera tecnico-pratica: se per la metodologia scientifica esistono esclusivamente elementi fattuali, privi di connotazioni morali,4 la bioetica si vuole impegnare a fornire loro una dimensione qualitativa che metta in campo giudizi morali, garantendo una supervisione rispetto alle conseguenze prodotte. In tal senso dunque, non si intende — almeno in una fondazione «laica»5 della bioetica — vincolare i progressi conoscitivi della tecnica, né si pretende di imporre confini etici invalicabili e barriere giuridiche ad alcune sue applicazioni.

4. Quale diritto per la bioetica

Assodata dunque l’importanza dell’apporto filosofico nella chiarificazione e nella comprensione dei problemi bioetici, si pone un’ulteriore questione epistemologica: se precedentemente si era messa in discussione la rilevanza stessa dell’indagine filosofica per i dilemmi contemporanei, ora si può porre la questione inversa, se cioè la bioetica sia nel suo insieme una disciplina filosofica. Ritenere che lo statuto epistemico fondante la bioetica sia filosofico, implica riconoscere all’etica un primato che difficilmente lascerebbe spazio ad apporti di altre discipline; la sede filosofica diverrebbe l’unica deputata all’autentica riflessione biomedica, mentre le altre verrebbero ridotte a fonte di dati empirici da elaborare o a campi di applicazione delle decisioni elaborate a livello etico. La conseguenza di un tale modello riflessivo consisterebbe in un impoverimento della capacità dei vari saperi di riflettere su loro stessi, di interagire e comunicare fra loro.

I rapporti fra diritto e morale, da sempre argomento di dibattito filosofico, assurgono così, nel consesso bioetico, a pietra angolare della caratteristica propria di tale ambito di studio, ovvero l’interdisciplinarietà.

Fra i diversi settori che concorrono alla costruzione di una riflessione in merito alle nuove possibilità di intervento medico-tecnologico, sulla nascita, cura e morte umane, il diritto si pone fra i più significativi, data la ricaduta socio-politica della normazione positiva. La scienza del diritto applicata alle tematiche biomediche viene propriamente definita biogiuridica. Essa dovrebbe impegnarsi a disciplinare i comportamenti dei singoli e ad organizzare quelli collettivi, al fine di preservare la società da un uso arbitrario delle portentose capacità scientifiche. Il sapere sperimentale sembra infatti non riuscire, in prima istanza da un punto di vista etico, ad individuare criteri in grado di guidarne lo sviluppo, stabilendone al contempo i limiti di liceità. Ciò che dunque si chiede al diritto è la codificazione di norme intese non come formalizzazione di scelte politiche che sono sempre ideologiche, neanche quindi l’individuazione di direttive esposte secondo la dialettica — propriamente politica — maggioranza-minoranza, ma la costruzione di articolati legislativi che tendano a promuovere il comune interesse al fine di una giusta convivenza sociale. In tal senso si pretende dal diritto un’edificazione autonoma rispetto alle ingerenze costituite tanto dalla morale, quanto dalla politica. Di fronte a tale compito la biogiuridica non appare dare risposta, né sul piano della riflessione teorica, né inevitabilmente su quello di una normazione concreta. Le motivazioni di tale ritardo sono legate da una parte al fatto che gli stessi problemi che devono essere disciplinati hanno una recente nascita, dall’altra che la giurisprudenza si trova specificamente negli ultimi decenni del Novecento in una difficoltà strutturale, ovvero in un conflitto fra i doveri dei soggetti contraenti il patto sociale e i loro diritti rivendicati in continua progressione.6

5. Il liberalismo moderato come paradigma per il biodiritto

Il proliferare di sempre nuove richieste di riconoscimenti giuridici è dettato dalla caratteristica dei contratti statuali contemporanei, ovvero dalla unanime accettazione del liberalismo politico.7 Si è infatti abbandonata la concezione etica dello Stato che vedeva, nella piattaforma valoriale comune, l’imposizione di una determinata concezione del Bene e del Giusto, concetti giuridici che si identificavano, nelle versioni paternalistiche dello Stato, nelle traduzioni normative delle regole e prescrizioni individuate dalla riflessione morale. In effetti, si assiste in tempi contemporanei al passaggio dalla comunità — quel gruppo umano che possedeva qualcosa in comune — alla società — il gruppo umano che deve tentare di porre e costruire qualcosa in comune. Emerge dunque negli Stati attuali la rivendicazione di una separazione fra la sfera della morale e quella del diritto, una distinzione che consente alle società democratiche di garantire, secondo l’ottica del pluralismo, ogni forma ideologica, tentando di conferire pari dignità e riconoscimento alle diverse articolazioni morali, alle differenti Weltanschauung, senza che lo Stato si veda impegnato ad imporne una sulle altre. In tale prospettiva lo Stato diviene garante dell’esercizio della libertà di coscienza ed azione di ciascuno, individuando quelle condizioni di possibilità formali che rendano ciò possibile. Naturalmente si può profilare all’interno di tale pluralismo giuridico la possibilità che le rivendicazioni di alcuni soggetti vadano a ledere la libertà di altri, generando così il bellum omnia contra omnium; proprio tale rischio rappresenta una delle critiche espresse dai fautori del modello statuale giusnaturalistico classico. Un modello questo, che vede la coincidenza della sfera della morale con quella del diritto, per cui ciò che viene ritenuto giusto eticamente, non sulla base di una concordanza contrattuale, ma sulla base di un ordine trascendente che ne tutela l’apoditticità e l’universalità referenziale, deve essere tradotto in termini di justum giuridico. Tale concezione è sostenuta dalla prospettiva confessionale che ritiene inconciliabile la rivendicazione di un’autonomia morale dei singoli con l’esistenza di una società pacifica. In merito allora alle scelte biomediche, il diritto si troverà a dover discutere rispetto al riconoscimento o meno di un determinato diritto rivendicato — ad esempio quello di morire tramite eutanasia — verificando al contempo che tale libertà concessa non leda quella di altri che da un punto di vista morale non condividono quella stessa rivendicazione. Si tratterà di stabilire i limiti di intervento dello Stato su tali temi, partendo dall’assunto e dal riconoscimento di una sfera di autonomia personale inviolabile. Specificamente di fronte all’eutanasia allora, il diritto si dovrà interrogare sulla tipologia della richiesta: se essa cioè individui un nuovo diritto o se non rappresenti piuttosto un delitto. Per stabilire quali siano le linee di demarcazione occorrono però paradigmi teorici che il diritto non ha ancora elaborato, o meglio, quelli che già lo costruiscono, appaiono incapaci di legiferare su ambiti al confine fra l’intimità coscienziale dei soggetti e le ricadute collettive di quelle innovative possibilità offerte dall’evoluzione biotecnologica.

Propriamente nel modello del liberalismo giuridico,8 entrato nelle fondazioni statuali a partire dalla seconda metà del Novecento, ed incarnatosi nella pariteticità di incontro e confronto fra diverse impostazioni ideologiche e sociali, si è riconosciuto uno dei valori di cui la bioetica, e più specificamente la biogiuridica, si dovrebbe nutrire. La speculazione intorno alla natura propria ed autonoma del diritto contemporaneo ha offerto la possibilità di estendere tali conquiste culturali al campo dell’etica, terreno intrinsecamente e storicamente caratterizzato da dicotomiche e conflittuali (dunque non fra loro armonizzabili) porzioni di percezione dell’agire umano. Da un punto di vista metodologico si assiste così ad un’inversione di contributi: non più la morale nutre il diritto, ma questi può illuminarla, arricchendone teoreticamente la capacità riflessiva. La centralità del riconoscimento della libertà ed autonomia umane, che sostanziano il rispetto di ogni forma di pensiero e di qualsiasi tipologia di costruzione di percorsi esistenziali, rappresenta e testimonia il principio fondante una bioetica che si dichiari pluralista.

Il tentativo elaborativo di adottare una forma di pluralismo, dunque di integrazione di portati concettuali differenti, anche in etica, è però risultato minacciato da una peculiare interpretazione del laicismo, quella liberale, che altro non individua che una radicalizzazione ed estremizzazione del contributo fondativo che il diritto può in epoca contemporanea rendere all’etica, in special modo a quella biomedica. La versione laicista liberale, partendo dall’assunto che nulla può essere asserito sotto un profilo etico in modo univoco, universale e definitivo, poiché la morale si configura come prodotto storico alla stregua di altre manifestazioni del pensare — e dunque immanente all’evoluzione delle idee ed espressioni umane, sempre rivedibili e mai date per sempre — giunge ad una paradossale forma di nichilismo, per la quale ogni formulazione teorica risulta adeguata e responsivamente legittima rispetto ad altre. L’impostazione non può che dimostrarsi paradossale in quanto, se da un lato pretende di assurgere al rango di scienza morale, ovvero a quella forma di teorizzazione dell’agire che, per definizione, dovrebbe fornire paradigmi referenziali dirimenti per il dover essere, e sostrati fondativi determinanti l’essere, giunge dall’altro ad un esito riduzionista di mera applicazione empirica di ciò che convenzionalmente e contrattualisticamente una certa società, in un dato momento storico, ha stabilito essere nella pratica lecito e legittimo. Questa forma di laicismo, rimanendo ancorata a contingenti e storiche coordinate concettuali, rinuncia al progetto propriamente filosofico di elevarsi a fenomenologia antropologica, quella espressione del pensiero che da sempre si è pretesa capace di trascendere i limiti spazio-temporali imposti alla natura umana.

La bioetica laica intesa attraverso tale concezione del pluralismo, finisce così con l’essere una semplice e non più svincolata filiazione di quei codici comportamentali che il diritto ha scelto per identificare il giusto e il bene. Sembra quasi non potersi dare una realtà di autonomia e di parallelo percorso teorico fra le regole strutturanti la morale e quelle costituenti la normazione positiva: o la prima impone i suoi paradigmi alla seconda, facendone così derivare uno Stato paternalistico e dogmatico, o questa detta i criteri attraverso i quali riconoscere ciò che si deve intendere per rettitudine morale.

L’obiettivo ulteriore sul piano teoretico, al fine di formulare adeguati paradigmi per una bioetica laica, dovrà allora incentrarsi — secondo il parere della redattrice dell’articolo — sulla possibilità di edificare una forma di etica laica che, accettando la novità del pluralismo scorto nel diritto, pure si radichi nell’ontologia (nell’essere), dunque propriamente nella filosofia. Se infatti abbiamo riconosciuto nella indipendenza ed autonomia della giurisprudenza dalla morale uno dei tratti peculiari e positivi della riflessione contemporanea, si ritiene altrettanto positiva e stimolante, la capacità dell’etica di rimanere fedele al compito di fondazione di principi di riferimento generali per determinare la liceità dei differenti atti umani, senza appiattire il dovere morale sull’obbligazione giuridica.

I fini della scienza giuridica e di quella etica, pur nel centrale apporto reciproco per l’inveramento dell’interdisciplinarietà bioetica, non solo sono diversi, ma devono anche esserlo: la giustificazione di un obbligo giuridico codificato, risulta in virtù del potere conferito ad un’autorità che sola stabilisce i confini fra reato e correttezza comportamentale; la giustificazione di un dovere morale, al contrario, proviene da fonti inesauribili di argomentazione razionale che non si reggono sulla base di un potere assunto, ma sulla forza stessa del ragionamento, in tal senso essa implica una relazionalità decisionale paritetica, mentre il diritto consacra una relazionalità impositiva, verticalistica e gerarchica.

6. Conclusioni

All’interno di questa generale formulazione metafisica laica, che dunque accantona impostazioni fondative che fanno capo alla trascendenza — mai razionalmente argomentabili, non situabili sul terreno di un confronto dialettico — si deve compiere un ulteriore passo nell’arrestare derive nichiliste etiche, che pure sorgono da un certo modo di interpretare il pluralismo etico. Il sostenere, secondo l’approccio liberale estremo, che ogni teoria è foriera di una sua verità, equivale a dire che non è possibile stabilire alcuna priorità fra valori differenti, né impegnarsi a dimostrare qualche posizione: da ciò deriverebbe — a mio avviso — una paralisi sociale che rischia di naufragare nel vuoto motto radicale del «se ogni valore è paritetico all’altro, tutti i valori vanno bene». Il mio approccio, che vuole mediare non solo tra le diverse impostazioni epistemologiche peculiari ai vari saperi coinvolti, ma anche le differenti opzioni teoriche interne alle singole discipline, intende giungere ad una più ampia configurazione antropologica. Ritengo realmente fondante una bioetica laica quella versione del valore della vita costruttivista e antirealista: una formulazione per la quale non esistono i meri fatti, o le cose in sé, ma esiste un soggetto che li percepisce, li struttura e li qualifica come fonti di fenomeni percettivi. Centrando così l’attenzione sul principio dell’autonomia umana e della qualità dell’esistere, si costruirà un pensiero etico laico che guarderà alla realtà più come prodotto culturale che come fatto naturale, più alla biografia umana che alla sua biologia.


  1. Cfr. E. Lecaldano, Bioetica. Le scelte morali, Laterza, Roma-Bari 1999. ↩︎

  2. Per un approfondimento di carattere epistemologico sul rapporto che intercorre fra filosofia, etica medica e bioetica, cfr. Anne Maclean, in The Elimination of Morality, Routledge, London 1993. ↩︎

  3. D. Lamb, L’etica alle frontiere della vita, Il Mulino, Bologna 1998, p. 14. ↩︎

  4. La presunta neutralità della scienza contemporanea è ben decostruita, sul piano argomentativo, dal filosofo tedesco Hans Jonas nel testo Tecnica, medicina ed etica, Einaudi, Torino 1997. ↩︎

  5. Per la comprensione di ciò che si intende con l’espressione «bioetica laica», si rimanda alla famosa definizione data da U. Scarpelli in Bioetica laica, Baldini & Castoldi, Milano 1998. ↩︎

  6. Per un approfondimento sulla natura peculiare del «biodiritto», vedasi F. D’Agostino, «Bioetica e diritto», in Medicina e morale, 4/1993. ↩︎

  7. Per comprendere l’origine del termine e delle sue implicazioni politico-sociali si consulti il famoso Saggio sulla libertà di J.S. Mill. ↩︎

  8. Il contenuto concettuale innovativo di questo termine può essere ben esemplificato dalla tesi dell’autrice Letizia Gianformaggio: «Così questo modo moderno di fare filosofia morale e giuridica è una forma di razionalismo, […] che però non tematizza la Ragione, ipostatizzata, al singolare e con la maiuscola, ma le ragioni.»; Id., «Rapporti tra etica e diritto», in C.A. Viano (a cura di), Teorie etiche contemporanee, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 153. ↩︎