Essere ed esistenza nell’opera di Severino Boezio

1. Introduzione

L’analisi dell’universo metafisico di Severino Boezio costituisce l’oggetto principale di questo studio, che cerca di accostarsi all’autore alla scoperta del mondo concettuale che gli è proprio.

Lungamente considerato un pedissequo ripetitore delle tesi della filosofia classica, riteniamo invece che la sua riflessione sia il frutto dell’incontro e della fusione di idee di differenti matrici speculative, che egli riesce ad inquadrare all’interno di un’organica visione filosofica della vita.

Se attraverso i risultati della ricerca storiografica degli ultimi decenni siamo in grado di affermare con ragionevole certezza che Boezio, oltre ad essere l’autore della Consolatio Philosophiae, fu anche l’autore degli Opuscula theologica, dovremo inevitabilmente dedurne che egli fosse cristiano, e da questo dato, acquisito una volta per sempre, non prescindere mai nell’analisi delle diverse questioni che lo interessano, perché chiave di interpretazione di alcuni aspetti del suo pensiero.

L’attività di Boezio si muove, infatti, su due fronti: se da una parte si impegna a dare uno statuto autonomo alla filosofia, e nella fattispecie a quella neoplatonica, dall’altra parte è ben cosciente che la teologia cristiana possieda già la Rivelazione come bagaglio interpretativo del reale, ed è in questa precisa distinzione tra il ruolo e l’ambito delle due discipline che la sua vita, il suo pensiero e le sue opere, si muovono.

Ciò che invece non sempre è stato al centro dell’attenzione degli studiosi, è stata l’originale percezione che dell’essere quest’autore dovesse avere, perché più inclini a considerare la sua monumentale opera di traduttore e commentatore di Aristotele.

In particolare, il De hebdomadibus e il capitolo decimo del libro terzo della Consolatio Philosophiae, così come abbiamo cercato di presentarli nel primo e nel secondo capitolo di questo studio, costituiscono i testi in cui il problema dell’essere è affrontato con maggiore chiarezza ed evidenza, ed in particolare l’analisi dei concetti di “essere” ed “esistenza” ci è servita per mettere in risalto l’innegabile assonanza contenutistica nonché le numerose concordanze fra i due testi, che in questo modo risultano illuminarsi vicendevolmente.

Nella celebre ed assai enigmatica distinzione fra esse ed id quod est, enunciata nel secondo assioma del Liber de hebdomadibus, Boezio doveva svelare e allo stesso tempo celare il suo personale modo di intendere la partecipazione in senso metafisico, per poter risolvere una questione così importante come quella di sapere se le cose siano dette buone sostanzialmente o per partecipazione.

Questo medesimo concetto di partecipazione crediamo stia sullo sfondo di quella, di maggior peso e ben altro respiro, presente nel libro terzo della Consolatio Philosophiae, vale a dire la partecipazione a Dio, che rappresenta la meta dell’itinerario, che secondo Filosofia, ricondurrà Boezio a ritrovare se stesso, e che a ben vedere si identifica col medesimo fine che fonda l’intero piano dell’opera. Da ciò dovremo dedurne che per Boezio la filosofia rappresenti proprio questo ideale di partecipazione alla sapienza divina.

Sulla base di simili considerazioni, siamo giunti, nel terzo capitolo, a formulare un tentativo di ipotesi ermeneutica in grado di mettere in luce le matrici speculative che si stagliano sullo sfondo metafisico dei concetti di essere, esistenza, forma, partecipazione.

Questo ci ha permesso altresì di rilevare in Boezio un innegabile influsso di teorie di ascendenza cristiana e a buon diritto si è infatti meritato il titolo di «First of the Scholastics»,1 poiché uno fra i primi ad aver fatto uso della logica aristotelica per esprimere verità di fede.

Per simili ragioni, non ci è sembrato azzardato ipotizzare come, per poter mostrare, alla fine della sua opera di traduzione, il pieno accordo fra il pensiero di Platone ed Aristotele, come espresso nel De Interpretatione, Boezio fosse alla ricerca di una corretta base speculativa, che è già possibile intravedere attraverso le considerazioni che seguiranno in questo studio, che hanno come unica prerogativa quella di voler rimanere nel vasto campo delle ipotesi.

2. La nozione metafisica dell’essere nel De hebdomadibus

È soltanto nell’ultimo periodo della sua vita, dopo lunghi anni di studio dedicati alle scienze e alla logica, secondo quello che era il cursus studiorum proprio della filosofia classica, che Boezio si interessa espressamente a problematiche di natura metafisica e le soluzioni da lui proposte rendono ragione di quell’originalità di intuizioni, in una prospettiva di storia del pensiero, che soltanto alcuni studiosi oggi sono disposti a riconoscergli.

Il De hebdomadibus, com’è noto, differisce dagli altri opuscoli per il fatto di non aver alcun contenuto strettamente teologico ma di trattare, invece, un tema centrale di metafisica com’è quello del modo in cui le cose si possano dire buone, se sostanzialmente o per partecipazione al primo Bene.

Inoltre, come si apprende immediatamente dalla sua lettura, l’opuscolo, più che un trattato, costituisce una lettera scritta in risposta ad una richiesta di Giovanni Diacono. Un editore postumo, rifacendosi alle prime battute del testo, deve aver dato il titolo originale all’opera con cui successivamente venne designato: Quomodo substantiae in eo quod sint bonae cum non sint substatialia bona, mentre alcuni codici per brevità lo avrebbero intitolato De hebdomadibus, in riferimento all’accenno fatto da Boezio ad un altro scritto avente per l’appunto questo titolo (forse perché diviso in sette libri o capitoli), in cui probabilmente il tema in questione veniva trattato più estesamente.

Prima di rispondere direttamente alla questione sollecitata dall’amico, Boezio comincia la sua trattazione esponendo nove assiomi, da lui considerati come presupposti metodologici aventi valore metafisico, che costituiranno le fondamenta del suo discorso.

Il primo assioma così recita: «Communis animi conceptio est enuntiatio quam quisque probat auditam».2 Con questa affermazione egli si richiama esplicitamente alla teoria di ascendenza stoica per cui la communis animi conceptio è considerata misura della verità, perché partecipando tutti gli uomini con la loro ragione al logos, fonte ed origine di tutte le cose, devono perciò stesso esistere delle verità la cui chiarezza ed evidenza sia nota a tutti, non appena soltanto vengano enunciate, non necessitando per questo di alcuna dimostrazione.

Quello che a noi più specificatamente interessa è il secondo assioma, in cui viene esplicitata la composizione dell’essere di tutte le cose, laddove il termine essere è preso nell’accezione corrispondente al massimo della sua predicabilità: «Diversum est esse et id quod est, ipsum vero esse nondum est, at vero quod est, accepta essendi forma, est atque consistit».3 Dopo un’attenta lettura dell’intero trattato, si può giungere alla conclusione, peraltro condivisa tra vari studiosi, per cui l’id quod est boeziano debba identificarsi con quella che Aristotele chiama ousìa, tò tì esti o sostanza, essenza, letteralmente «ciò che è», l’essere nel suo significato più concreto, il primo tra i diversi significati dell’essere, unione di materia e forma. Diverse e più contrastanti sono state le accezioni che del termine esse o forma essendi sono state proposte, e che possono essere riassunte seguendo tre linee interpretative.4 L’interpretazione così detta “teologica” vorrebbe identificare l’esse con Dio stesso, ma questa lettura appare inadeguata visto che subito dopo Boezio dice che «ipsum vero esse nondum est», sebbene l’ipsum esse come forma essendi entri in composizione con l’id quod est, con la sostanza concreta. Quindi, seguendo questa interpretazione, si dovrebbe dire da un lato che Dio ancora non è, e dall’altro che entra in composizione con la realtà come se potesse diventare tutt’uno con essa, con l’immediata conseguenza del rischio di panteismo che ne deriverebbe. Per l’interpretazione che potremo chiamare “platonica”, invece, il termine esse coinciderebbe con il concetto di forma sostanziale, avente i caratteri propri dell’Idea platonica, la quale è considerata in termini di natura astratta puramente intelligibile, e che in quanto tale vive in un mondo soprasensibile. Essa costituisce l’archetipo e il modello per la generazione della realtà sensibile, e dà origine ad una sussistenza individuata, ragione per cui essa sola possiede la pienezza di essere, essendone le cose sensibili solo una copia. A ben vedere a questa ipotesi si possono muovere le stesse critiche formulate per la precedente: se l’Idea platonica è l’unica a possedere pienamente l’essere, come può poi dire Boezio di essa «nondum est»;? Inoltre, l’essere boeziano non è la forma di questa o quella cosa determinata ma la forma nella sua universalità e astrattezza massima, che proprio perché comune a tutte le cose, non coincide con nessuna di esse. Siamo con ciò arrivati alla terza linea interpretativa e colui al quale dobbiamo riconoscere il merito di aver per primo aperto una strada alla ricerca delle fonti dell’assioma boeziano, è senz’altro Pierre Hadot. Il risultato della sua indagine lo ha condotto a dire: «Ces deux termes se trouvent déjá distingués vers 363, chez Marius Victorinus, néoplatonicien latin que Boèce précisément a voulu en quelque sorte dépasser… Cette distinction n’est pas propre à Marius Victorinus. On la retrouve nettement dans un commentaire sur le Parménide, jusqu’ici anonyme, mais que je pense pouvoir attribuer à Porphyre».5 Sulla base di queste premesse può infine sostenere che «l’opposition entre l’esse et le id quod est, c’est donc finalement l’opposition entre l’être pur de toute détermination et l’être déterminé par une forme».6 Dunque l’Essere primo trascende totalmente ogni cosa e per questo Boezio dice che non è ancora niente di determinato, viene prima ancora degli esistenti perché esso stesso ne è la causa, mentre le essenze, le sostanze, l’id quod est, esiste soltanto non appena riceve l’essere da parte dell’Essere primo. Ancora più esattamente diremo che l’Ipsum esse, essendo puro essere, non ha nessuna forma, ma l’esistenza, per parte sua, per essere tale deve prima ricevere l’essere, poiché primitiva e originaria è la fondazione nell’essere. Boezio lascia così intendere chiaramente che la suddivione in id quod est ed esse, può indistintamente riferirsi sia alla differenza tra l’Esse omnium rerum e l’essere in quanto partecipato dalle sostanze, sia tra l’essere e l’essenza di ogni cosa, considerati separatamente sebbene uniti in natura. In questo modo il nostro autore si può dire che abbia voluto evidenziare, sia l’incommensurabile stacco che esiste tra l’Esse primum considerato come Dio e le creature, sia la struttura ontologica degli esseri.

Da questo fondamentale assioma, di cui abbiamo cercato di esplicitare le implicazioni metafisiche, scaturiscono e dipendono i restanti sette. Vediamo il terzo:

III. Quod est partecipare aliquo potest, sed ipsum esse nullo modo aliquo participat. Fit enim participatio cum aliquid iam est; est aliquid, cum esse susceperit.7

La distinzione precedentemente formulata ha messo in evidenza come ogni cosa per esistere debba ricevere una forma considerata come essere. Tuttavia è chiaro che questa composizione richiama immediatamente alla mente il concetto di partecipazione che è implicito nell’espressione «accepta essendi forma». In realtà questo terzo assioma non è altro che una esplicitazione del secondo, poiché qui Boezio distingue l’Essere primo, che per essere non ha bisogno di partecipare a niente, e l’essere degli esistenti, che è ricevuto per partecipazione dall’Essere primo.

Il quarto assioma parafrasa il terzo:

IV. Id quod est habere aliquid praeterquam quod ipsum est potest; ipsum vero esse nihil aliud praeter se habet admixtum.8

Ancora una volta viene accentuata la distinzione tra l’essere degli esistenti che entra in composizione concreta con le cose e pertanto può avere nella sua sostanza degli accidenti che lo compongono, e l’Essere inteso come principio e forma d’essere, il quale, non entrando in composizione con nulla, è semplice, puro e indiviso.

Il quinto assioma richiama la distinzione aristotelica fra sostanza ed accidente:

V. Diversum tantum esse aliquid et esse aliquid in eo quod est; illic enim accidens hic substantia significantur.9

Il discorso si muove sempre all’interno della dimensione dell’essere e Boezio approfondisce la riflessione sulla composizione delle cose: non tutto ciò che inerisce alle cose è qualche cosa che si riferisce al suo essere. Volendo fare un esempio diremo che in un cavallo bianco la qualità della bianchezza non sia qualcosa senza la quale il cavallo non sarebbe, ma il colore bianco, rispetto al suo essere, costituisce un accidente.

Di contro la differenza che ritroviamo tra l’essere uomo e l’essere cavallo è una differenza che si colloca nella linea dell’essere, e per ciò stesso è una differenza che si colloca sul piano sostanziale. Se ne deduce che nelle cose c’è differenza tra l’essere semplicemente qualche cosa che equivale all’accidente, e l’essere qualche cosa in ciò che è, cioè l’essere qualche cosa di inscindibilmente legato alla propria sostanza.

Il sesto assioma si lega al terzo già esposto e così recita:

VI. Omne quod participat, eo quod est esse, ut sit; alio vero participat, ut aliquid sit. Ac per hoc id quod est participat eo quod est esse, ut sit; est vero, ut participet alio quolibet.10

Viene ancora una volta ribadito il concetto di composizione e di partecipazione delle cose, una partecipazione che si estende sia sul piano verticale che orizzontale. Sul piano verticale tutto ciò che è, per essere, deve partecipare a qualcos’altro e cioè all’Essere primo, ma soltanto dopo aver ricevuto il suo essere inteso come forma, all’id quod est possono inerire altri predicati.

La fondazione nell’essere è principale e originaria, senza di essa le cose non potrebbero esistere. La partecipazione in senso orizzontale con gli altri esistenti si ha chiaramente soltanto dopo che le cose siano state tratte all’essere attraverso questa partecipazione all’Essere primo.

Il settimo e l’ottavo assioma costituiscono un dittico:

VII. Omne simplex esse suum et id quod est unum habet.

VIII. Omni composito aliud est esse, aliud ipsum est.11

Ciò che viene qui espressa è la diversa struttura ontologica dell’essere semplice e dell’essere composto, sulla base della distinzione tra esse ed id quod est formulata nel secondo assioma. Difatti nell’essere composto Boezio ha effettuato la distinzione tra il suo essere inteso come forma e la sua sostanza, ma nell’essere semplice, che non partecipa di nulla per essere, e che non ha al suo interno alcuna frattura o divisione perché in sé semplice e indiviso, il suo essere è identico alla sua essenza e viceversa la sua essenza è il suo essere.

Infine il nono assioma fa riferimento alla struttura metafisica del desiderio; leggiamolo:

IX. Omnis diversitas discors, similitudo vero appetenda est; et quod appetit aliud, tale ipsum esse naturaliter ostenditur quale est illud hoc ipsum quod appetit.12

Il desiderio letto in senso metafisico rappresenta il tendere di una realtà verso un’altra realtà, e secondo la teoria platonica per cui «il simile conosce il simile» questa tensione è determinata da una somiglianza tra le due realtà, poiché se non vi fosse una qualche affinità non vi potrebbe essere neanche tensione. Tendendo ogni cosa a ciò che gli è simile, tende allo stesso tempo alla ricerca dell’unità, perciò la somiglianza, intesa sempre in senso metafisico, va ricercata perché fonte di armonia, a differenza della diversità che è fonte di discordia.

A questo riguardo riportiamo la traduzione che E. K. Rand ed altri studiosi ne hanno dato, perché dotata di grande senso esplicativo:

IX. All diversity repels, likeness must be attracted. That which seeks something else is demonstrably of the same nature as that which it seeks.13

Così tradotto questo assioma richiama alla mente il principio fondamentale della gnoseologia platonica per il quale conoscere significa, per l’appunto, rendere simile il pensato al pensante14 attraverso una progressiva ascesa dei gradi di realtà dell’essere cui corrispondono i diversi livelli della conoscenza (dóxa, epistéme, nóesis). Quindi con l’aumentare dei gradi conoscitivi aumenta anche il grado di somiglianza della cosa conosciuta con il soggetto conoscente, fino a raggiungere l’identità assoluta nella conoscenza dialettica delle Idee in sé stesse e della suprema idea del Bene.

C’è da aggiungere però che per Platone, come è noto, in questa ricerca l’uomo non raggiunge nulla di nuovo, la conoscenza è in realtà reminescenza, e cioè un ricordare, da parte dell’anima, le eterne entità ideali che ha scorto prima di essere incarnata in un corpo mortale, e che si fonda dunque, in ultima istanza, sulla preesistenza dell’anima.

Vedremo più avanti, nel testo della Consolatio, l’uso che Boezio ha fatto di questo assioma, fondendolo col tema specifico dell’antropologia cristiana dell’uomo ad immagine e somiglianza di Dio.

L’interpretazione finora esposta del concetto di essere per Boezio è coerente con la soluzione del quesito da cui il trattato aveva preso il suo avvio e cioè: se le cose sono sostanzialmente buone, in che cosa differiscono dal bene in sé, che è Dio? Ecco la soluzione da lui proposta: «Quae quoniam non sunt simplicia, nec esse omnino poterant, nisi ea id quod solum bonum est esse voluisset, idcirco, quoniam esse eorum a boni voluntate defluxit, bona esse dicuntur».15 Le realtà ciò di cui si sta discutendo sono, per l’appunto, sostanze composte che hanno ricevuto la loro forma essendi perché tratte all’essere da quello che è il primo Essere e insieme il primo Bene, e per questo stesso motivo si dovrà dire che esse sono buone, poiché sono scaturite dalla volontà di questo primo Bene.16 Notiamo immediatamente l’inserimento di un elemento del tutto originale ed apparentemente estraneo all’impostazione aristotelica del problema dell’essere, di cui Boezio è profondo conoscitore, come quello della volontà. Ciò che di originale contiene la soluzione del problema così esposta da Boezio, è il fatto di aver posto l’accento sulla radicale distanza ontologica che esiste tra le cose e Dio, così come rileva il De Rijk:

Ainsi le méthode de Boèce dans ce traité consiste dans l’application très approfondie et consistante des distinction sémantiques q’on a mentionnées plus haut. Leur application revient à souligner les différences formelles entre la Forme d’être Trascendante (Ipsum Esse), la forme d’être immanente (ipsum esse), et le composé matériel (id quod est). Ce qui compte dans l’argumentation de Boèce, c’est surtout la différence (sémantique et ontologique à la fois) entre la forme immanente et la Forme Trascendente. L’immanence (= non-trascendance) de la forme participée assure l’être à la chose périssable, lequel est tout à fait différent de l’Être absolu et parfait dans lequel toutes les propriétés (bonus, iustus etc.) coincident aussi bien que l’essence et l’existence. D’autre part, le caractère d’essence formelle qu’a la forme immanente elle aussi, fait que l’être (participé) en tant qu’être (en tant que ipsum esse) est essentiellement (substantialiter) bon (« un bien participé », bien entendu).17

Notiamo un costante oscillamento fra due prospettive di differente matrice speculativa, da una parte troviamo elementi mutuati dalla concezione cristiana, per cui Dio ha creato il mondo e ha voluto che le cose fossero buone secondo quanto le Scritture rivelano, in specie nel libro della Genesi, dall’altra parte questo autopossesso dell’essere non si può certo dire che non sia proprio anche del motore immobile aristotelico. Ciò ci autorizza a pensare che attraverso la distinzione dei due principi di sostanza (id quod est) ed esistenza (esse), la cui valenza, lo ribadiamo, è pienamente metafisica, Boezio abbia voluto mettere l’accento sulla contingenza propria delle cose create, che per esistere necessitano di un atto d’essere che le porti all’esistenza. Spostando il ragionamento sulla linea dell’essere, in altri termini, diremo che la loro insufficienza ontologica, chiede di essere giustificata proprio perché non possiede in sé la sua ragion d’essere; ma se un essere non ha in sé la sua ragion d’essere, deve, in ultima istanza, averla in un altro, il quale sia assolutamente autosufficiente: esiste dunque un Essere assolutamente autosufficiente che è fondamento ultimo di tutti gli esseri insufficienti nella linea dell’essere. La dottrina della partecipazione trova in questo modo la sua ragion d’essere nella volontà dell’atto libero della creazione da parte di Dio. Se ne dovrà dedurre che la dottrina della partecipazione per Boezio si fondi sull’analogia,18 poiché è solo attraverso di essa che i due estremi, costituiti dalla contingenza delle cose create e dall’Essere per essenza, possono essere tenuti uniti. L’interpretazione e la soluzione del problema proposta da Boezio, ha il pregio di evitare ad un tempo ogni caduta in ogni forma di panteismo o immanentismo, poiché Dio, essendo il Bene per eccellenza, crea buone tutte le cose, ma non per questo le cose sono buone allo stesso modo in cui lo è Dio, poiché se da un lato l’analogia comporta che ciò che è causato sia molto di più che un effetto al quale sia stata aggiunta accidentalmente una somiglianza con la propria causa, dall’altro lato l’analogia ci dice chiaramente che per quanto numerose e sostanziali possano essere le somiglianze delle realtà create con il Creatore, le diversità resteranno sempre maggiori, o per meglio dire incommensurabili.

A questo proposito illuminanti sono le osservazioni fatte da C. Moreschini quando dice: «Ma contemporaneamente Boezio è senza dubbio cristiano, perché la sua dottrina della derivazione è caratterizzata costantemente da una precisazione che è aliena quant’altre mai dal neoplatonismo e da ogni forma di emanatismo: le cose defluxerunt, ma grazie alla voluntas boni».19

Ad avvalorare tale ipotesi c’è anche un altro significativo passo del nostro autore che vale la pena di citare, quando a proposito delle realtà composte dice: «… et quoniam actu non potuere exsistere, nisi illud ea quod vere bonum est produxisset, idcirco et esse eorum bonum est et non est simile substantiali bono id quod ab eo fluxit».20

Avevamo precedentemente esposto sinteticamente le varie interpretazioni che dell’“esse” boeziano erano state date, adesso siamo in grado di avanzare l’ipotesi per cui questo “esse” corrisponda all’“esistenza attuale” che Dio fa scaturire dalla sua libera volontà, e l’espressione usata dal nostro autore “quoniam actu non potuere esistere” avvalora questa ipotesi, ed anche questo costituisce un importante elemento di originalità, «anzi, il testo diventa incomprensibile, quando gli si sottragga il suo significato esistenziale».21

Ancora più determinante, ai fini della comprensione del testo, ci sembra sia la scelta operata dal nostro autore per il verbo producere, nel testo citato, che può essere tradotto semplicemente con “produrre”, ma che nella sua accezione più forte può significare anche “creare” o “trarre all’essere”. Il mondo, dunque, è in Dio ma Dio come tale non è nel mondo ma chiama all’essere il mondo con la Sua libera iniziativa creatrice. Ogni realtà composita comincia ad esistere e viene attualizzata allorquando riceve la sua forma essendi, e ciò che ne scaturisce è per l’appunto uno stato di esistenza attuale, ma il dato di maggiore originalità di questa interpretazione dell’essere è quello di voler far scaturire questo stato di esistenza attuale da quella stessa libera volontà creatrice che aveva voluto che tutte le cose fossero buone.

Quanto finora detto, abbiamo ritenuto che fosse una premessa indispensabile per poter comprendere a fondo i parametri e le coordinate metafisiche entro cui la riflessione boeziana si muove.

Come abbiamo già avuto modo di notare, infatti, lo stesso itinerario finora presentato, lo troviamo nel libro terzo della Consolatio in cui Boezio, per l’appunto, si propone di dimostrare ciò che nel De hebdomadibus aveva sinteticamente accennato, in più ritroviamo quelle argomentazioni a favore dell’esistenza di Dio considerato come primo Bene e la necessaria dipendenza di tutte le cose dalla sua perfezione massima.

In altri termini, se nel De hebdomadibus si era soffermato a considerare Dio in quanto Essere e in quanto Somma Bontà, nel terzo libro della Consolatio oltre a riprendere questi attributi analizza anche gli altri come quello dell’Unità e del Bene, della Giustizia. Ma cosa sono questi che abbiamo appena accennato se non i trascendentali dell’Essere inteso come Bene, Uno, Vero, Buono, Giusto? A buon diritto i medievali svilupperanno infatti la dottrina dei trascendentali come perfettamente convertibili tra loro in quanto tutti quanti esprimono la semplicità della natura divina che per ciò stesso non può avere al suo interno qualcosa di composto.

A questo proposito è quanto mai suggestiva l’ipotesi avanzata da Obertello, per cui il testo delle ebdomadi di cui Boezio fa menzione nel De hebdomadibus, potrebbe essere identificato con il terzo libro della Consolatio in cui si discute proprio il tema se le sostanze siano buone per partecipazione o sostanzialmente.22

Questa ipotesi, nell’attesa di essere ulteriormente comprovata, ha indubbiamente il merito di aver portato un nuovo contributo alla miglior comprensione della storia della composizione della Consolatio, poiché, secondo il parere di molti studiosi, essa non poté materialmente compiersi nel breve periodo dell’incarcerazione, ma sarebbe il frutto di una lenta maturazione avutasi nell’ambito delle discussioni di quel circolo culturale cui Simmaco, Giovanni Diacono e Boezio facevano parte.

3. La partecipazione a Dio nella Consolatio philosophiae

Scritta con ogni probabilità negli ultimi anni di vita trascorsi in prigionia (524 ca.), la Consolatio Philosophiae è destinata a rimanere per sempre come il testamento della triste vicenda che vide Boezio e Simmaco coinvolti in un vero e proprio intrigo alla corte del re ostrogoto Teoderico.23

Non si può certo dire che quest’opera appartenga propriamente al genere della letteratura consolatoria antica poiché quest’ultima aveva come sua finalità quella di consolare l’afflitto che aveva subito la perdita di una persona molto cara, ponendolo dinanzi ad un’alternativa: o l’anima è immortale o, se è mortale, la morte ha senz’altro posto fine alle sue sofferenze.

Nel caso di Boezio invece non è il problema della morte ad essere la causa maggiore della sua afflizione quanto l’esperienza del male che regna nel mondo, per cui la consolazione che la Filosofia propone a Boezio si muove interamente a partire da considerazioni che riguardano la vita e non la morte. Le argomentazioni portate dalla Filosofia ci consentono di pensare a questo testo come ad una vera e propria teodicea.

Si deve perciò dire, in accordo con quanto afferma P. Courcelle e altri studiosi sostengono, che si tratti di un Protreptikós eis Theón,24 un vero corso di metafisica in forma di rivelazione o di apocalisse.

Questo testo si presenta dunque come una sorta di teologia naturale, scandito in cinque libri nei quali i dialoghi si alternano alla poesia in versi, una tecnica che ritroviamo anche in Marziano Capella ed Ennodio e che risale in particolare al greco Menippo di Gadara, vissuto nel III sec. a. C. e la cui opera, andata perduta, è possibile rintracciare attraverso le «Satire Menippee» di Varrone.

Boezio giace prostrato in prigione consolato dal solo canto delle Muse quando gli appare una donna che dapprima stenta a riconoscere, una donna anziana ma dal vigore giovanile, la cui altezza sorpassa le proporzioni ordinarie di un essere umano, talvolta infatti con la testa sembra raggiungere il cielo, le sue vesti sembrano molto antiche e logore, in basso porta scritta una Π collegata in alto con gradini ascendenti ad una Θ, e in mano tiene dei libri insieme ad uno scettro. Tutto ciò che riguarda questa donna è carico di simbolismo a cominciare dai simboli alfabetici, che chiaramente fanno allusione alla distinzione aristotelica tra filosofia pratica e teoretica, la medesima suddivisione delle scienze che Boezio espone ampiamente nel suo opuscolo teologico intitolato De Trinitate.25 Le sue vesti sono strappate perché, come dirà lei stessa più avanti, molti sono coloro che hanno cercato di impossessarsi della sua sapienza rubandole brandelli di verità e andandosene poi in giro a vantarsene come fossero proprie. In definitiva, attraverso questa finzione letteraria, è possibile comprendere cosa esattamente rappresenti la filosofia agli occhi di Boezio, e quale il suo ruolo nella conoscenza umana.

Numerose sono le interpretazioni che sono state date di essa da parte dei vari studiosi, ma facendo attenzione ad alcuni passi chiave del testo è possibile stabilire con certezza che si tratti della saggezza umana, ed in particolare di quella che i maggiori e più grandi filosofi hanno portato a perfezione, questo il parere di P. Courcelle.26

Dopo aver congedato bruscamente le Muse, essa si siede ai piedi del letto di Boezio asciugando le lacrime dei suoi occhi, ed è soltanto allora che egli riesce ad uscire dalla sua prostrazione per riconoscere in quella donna la Filosofia. Dopo aver ascoltato tutto lo sfogo pieno di livore del suo discepolo, ella ha già compreso la vera causa del suo malessere e fa in modo che egli stesso se ne avveda sottoponendolo ad una serie di interrogativi, tra i quali il più significativo è quello che così suona: «hominemne te esse menimisti?».27 Boezio è in questo modo sollecitato a dare una definizione del concetto di uomo ed ecco ciò che risponde: «rationale animal mortale».28

Questa definizione di Aristotele, senz’altro esatta, tradisce la grave dimenticanza in cui Boezio è incorso, poiché egli ha dimenticato la vera natura e il destino dell’uomo,29 la radice spirituale del proprio essere. Alla maniera socratica diremo che soltanto conoscendo veramente se stesso egli potrà uscire dall’oblio in cui è caduto, che è l’itinerario proprio del libro terzo.

L’unica certezza incrollabile che al filosofo romano è rimasta è quella che lui stesso esprime in questi termini: «verum operi suo conditorem praesidere deum scio nec umquam fuerit dies, qui me ab hac sententiae veritate depellat».30

Questa singola consapevolezza, tuttavia, costituisce già il punto di partenza e come dire il primo passo, di quel faticoso cammino intellettuale e morale che il Nostro sta per cominciare e che lo condurrà direttamente ad una più esatta considerazione dei rapporti tra Dio e il suo creato e difatti la Filosofia con queste parole lo consola: «nihil igitur pertimescas, iam tibi ex hac minima scintillula vitalis calor illuxerit».31

Tuttavia ci sono almeno altre due gravi dimenticanze da parte di Boezio che lo costringono in questo stato di letargia intellettuale e la Filosofia non manca di puntualizzarle:

Quoniam vero, quis sit rerum finis, ignoras, nequam homines atque nefarios potentes felicesque arbitraris; quoniam vero, quibus gubernaculis mundus regatur, oblitus es, has fortunarum vices aestimas sine rectore fluitare: magnae non ad morbum modo, verum ad interitum quoque causae.32

Ecco che gradualmente il piano stesso dell’opera si dipana lentamente ai nostri occhi, perché proprio il libro quarto si soffermerà a considerare il problema del male nel mondo, mentre il libro quinto costituirà una lunga riflessione sui rapporti tra la provvidenza e dunque la prescienza divina e il libero arbitrio.

Lo stato di malattia in cui Boezio versa è talmente grave che è necessario ricorrere dapprima a dei rimedi leggeri per poi passare a quelli più pesanti.

Secondo Henri Chadwick «il discorso sale gradualmente da un moralismo stoico ad una visione metafisica platonica dell’intervento divino che reca ordine in un mondo apparentemente caotico».33

La consolazione vera e propria, difatti, comincia nel secondo libro in cui la Filosofia invita Boezio a soffermarsi sulla considerazione della natura estremamente bizzarra della Fortuna.

La matrice stoica delle sue riflessioni è evidente laddove appare un mondo dominato da un inevitabile determinismo. Se in giovane età Boezio ha potuto godere dei beni che la Fortuna gli ha concesso in beneficio, adesso non può lamentarsi se per una ragione inspiegabile gli sono stati tolti, piuttosto deve cercare di discernere ciò che è bene in sé, da ciò che lo è solo perché ritenuto tale dalla stragrande maggioranza degli uomini, e accettare la nuova condizione cercando di adeguarvisi per quanto gli è possibile.

Il tono delle argomentazioni comincia a cambiare con il libro terzo, poiché dopo aver attentamente considerato la falsa felicità, Boezio viene invitato a rivolgere il suo sguardo nella direzione opposta dove troverà la vera felicità: «Deflecte nunc in adversum mentis intuitum; ibi enim vera, quam promisimus, statim videbis».34

L’ascesa a Dio è cominciata, l’itinerarium mentis ad Deum ha il suo inizio. L’invito della Filosofia a rivolgere lo sguardo non più in dimensione orizzontale verso i beni materiali ma in dimensione verticale, verso qualcosa che stia aldilà di essi, si accorda perfettamente con la necessità, espressa prima, di cercare di cogliere ciò che in natura è semplice e indiviso.

Apprezzabili, a questo proposito, le osservazioni del Ghisalberti, il quale ha giustamente affermato come questo modo di procedere Boezio lo abbia preso in prestito da Calcidio, nel suo commentario al Timeo:

Boezio mette in atto il procedimento denominato resolutio da Calcidio e che consiste propriamente nel risalire da ciò che «prima sunt ad nos versum»,35 a ciò che è a noi secondo, ossia ai veri principi e alle vere cause delle realtà sensibili. Per determinare la consistenza di questa ulteriorità del reale occorre procedere mediante la compositio, ossia l’ordinamento puntuale dei generi, delle qualità e delle figure, in conformità all’istanza di armonia, di analogia e di razionalità che sorregge il piano divino.36

Se nei primi due libri la Filosofia aveva metaforicamente somministrato a Boezio ancora confuso e debole, soltanto medicine leggere, rappresentate dalle considerazioni intorno alle facce ambigue della natura estremamente mutevole della fortuna, nel libro terzo egli è adesso in grado di accogliere i rimedi più energici, costituiti dalle riflessioni intorno al primo Bene, le quali saranno capaci di aiutarlo ad uscire dall’oblio in cui si trova, ciò che è la causa più grave del suo male, e a ricordare che cosa egli stesso sia.37

Dopo aver legittimato la possibilità di pensare il Bene perfetto come esistente,38 la Filosofia non reputa necessario soffermarsi oltre sull’argomento, e questo perché a Boezio non interessa sviluppare una prova dell’esistenza di Dio ma, una volta dimostrata l’esistenza di questo primo Bene, la sua coincidenza con Dio. La trattazione che segue infatti verterà sui nomi e gli attributi che a questo Bene perfetto possono riferirsi.

Il primo nome che a questo sommo Bene deve attribuirsi è quello di Dio e le argomentazioni portate a favore di questa identificazione sono due: la prima è quella per cui se Dio possiede il massimo della bontà questo non ci deve indurre a ritenere che l’abbia ricevuta dall’esterno, perché se così fosse chi gliel’ha data sarebbe a lui superiore, il che contraddice evidentemente l’argomento da cui si è partiti, cioè quella di considerare Dio come l’essere perfettissimo al di sopra del quale non può esservi nulla di più grande.39

La seconda argomentazione, a favore di questa identificazione, è quella secondo la quale non è possibile considerare il Sommo Bene come effettivamente distinto da Dio, poiché non possono esistere in natura due beni sommi proprio perché, essendo diversi, si dovrà ritenere che uno manchi della perfezione dell’altro, il che contraddice espressamente la nozione stessa di Sommo Bene, così come finora l’abbiamo voluta considerare.40

In questo modo Boezio tornerà a comprendere cosa egli sia soltanto attraverso la conoscenza del vero Bene, ed ancora più precisamente, poiché il simile conosce il simile, conoscendo il primo Bene conoscerà al tempo stesso se stesso e la propria natura come in un processo di divinizzazione, per cui: «Nam quoniam beatitudinis adeptione fiunt homines beati, beatitudo vero est ipsa divinitas, divinitatis adeptione beatos fieri manifestum est. Sed uti iustitiae adeptione iusti, sapiente sapientes fiunt, ita divinitatem adeptos fieri simili ratione necesse est. Omnis igitur beatus deus. Et natura quidam unus; participatione vero nihil prohibet esse quam plurimos».41 Questa adeptione unitatis esprime proprio la confluenza di tutti i beni secondi nel sommo Bene per via di partecipazione. Nel testo della Consolatio, la somiglianza divina, difatti, è considerata ora come quell’immagine di Dio impressa in ogni uomo, patrimonio genetico esclusivo dell’essere umano, che la possiede per il solo fatto di esistere poiché creato per Suo libero volere, ora come quello stato di beatitudine perfetta al quale ogni uomo deve tendere costantemente con tutti i suoi sforzi e il cui raggiungimento comporta il diventare dèi non per natura ma per partecipazione.

Benché l’argomentazione abbia un evidente richiamo a quella assai più nota di Platone della homoiosis Theó, si deve dire che qui si parla di “partecipazione alla natura divina” e non di “assimilazione a Dio” della natura umana.

Il nocciolo del problema metafisico della partecipazione sta proprio in questo punto, poiché la partecipazione a Dio delle cose buone, lo abbiamo visto, potrebbe far cadere in una qualche forma di panteismo, quod dictu nefas est.

In questo modo Boezio ha mostrato come il bene e la felicità abbiano la medesima sostanza, ed ha anche risposto al quesito da cui la trattazione aveva preso il suo avvio, cioè quello di riuscire ad indicare la direzione verso cui rivolgersi per trovare la vera felicità.

L’ascesa boeziana a Dio trova in questo capitolo decimo del terzo libro il suo culmine, poiché dopo aver giustificato e rivendicato la possibilità dell’esistenza del Sommo Bene, ne ha poi indagato i nomi come quello di Dio e di essere perfettissimo, e la natura, vale a dire la sua piena coincidenza con la Bontà e la beatitudine somma, che sono insieme l’essenza della felicità.

La trattazione segue con il libro quarto in cui Filosofia cercherà di mostrare al nostro autore come il prendere coscienza che il mondo sia sorretto e governato dalla divina provvidenza vuol dire, concretamente, accettare che non tutto vada secondo le nostre aspettative, e comporta quindi lo sforzo di situarci continuamente nella prospettiva di Dio, i cui pensieri resteranno sempre per l’uomo imperscrutabili.42

Il problema è molto complesso, ma il fulcro di tutta l’argomentazione si snoda attorno ad un unico principio esplicativo, ancora una volta di origine neoplatonica, vale a dire quello dei gradi della conoscenza:

Cuius erroris causa est, quod omnia, quae quisque novit, ex ipsorum tantum vi atque natura conosci aestimat, quae sciuntur. Quod totum contra est; omne enim, quod cognoscitur, non secundum sui vim, sed secundum cognoscentium potius comprehenditur facultatem.43

Ciò vuol dire quindi che non c’è e non ci può essere incompatibilità assoluta tra la prescienza divina e il libero arbitrio dell’uomo, poiché essendo «la natura del grado di conoscenza correlativa all’essere di cui è proprio»,44 ciascuno conosce non a partire dalla natura dell’oggetto conosciuto ma a partire dalla natura della facoltà stessa con cui conosce.

In altri termini, questo vuol dire che Dio conosce le cose in maniera sostanzialmente diversa da come le conosce l’uomo con la sua ragione e questo è ancora più vero se consideriamo che Dio non vede le cose attraverso la medesima successione temporale scandita dall’animo umano, piuttosto è più appropriato pensare che vivendo Dio nel possesso intero e insieme perfetto di una vita senza fine,45 conosca le cose come se fossero situate su di una linea retta continua, quella dell’eterno presente.

Sulla base di queste considerazioni, non si può certo dire che Dio conoscendo gli avvenimenti per ciò stessi questi ultimi diventino necessari, e in questo modo la libertà e la responsabilità umana, fondamento e presupposto della moralità, rimangono salve.

Le ultime battute del testo, infatti, hanno un chiaro intento parenetico poiché sono un invito rivolto a tutti a seguire sempre quella legge morale interiore che ci dice: Bonum est faciendum male vitandum.46

4. Conclusioni

Abbiamo già avuto modo di notare come tra il De hebdomadibus e la Consolatio vi sia un’assonanza contenutistica ma adesso, alla luce di queste considerazioni, occorre fare ulteriori precisazioni.

Se abbiamo rettamente compreso il modo di procedere di Boezio, siamo adesso in grado di rilevare nei due testi lo stesso modulo razionale, poiché come in geometria si sono dapprima fissati gli assiomi da cui partire, in maniera tale che tutta la trattazione successiva scaturisse nel rispetto di tali assiomi e conducesse direttamente alla conclusione tanto ricercata, infine, a cornice di tale modulo esplicativo ha aggiunto dei corollari, o porismi come lui li chiama dal greco.

Sebbene i contenuti della trattazione siano i medesimi, essi costituiscono, sul piano logico, come due momenti distinti: nel De hebdomadibus si è esaminata la fondamentale composizione di ogni cosa per scoprire che esse vengono tratte all’essere da Colui che possiede l’essere in senso pieno, e questo momento precede il loro stesso partecipare e dunque tendere al primo Bene; nella Consolatio, invece, si esamina il momento successivo, quello in cui le cose sono già dette buone in quanto tendono a Colui che è il primo Bene.

Questa precisazione ci da il senso e l’orientamento per approfondire la percezione che del problema metafisico il nostro autore dovesse avere.

Tenendo conto delle innegabili flessioni esistenzialistiche presenti nel pensiero di Boezio, quali abbiamo avuto modo finora di mettere in risalto, possiamo ritenere come la partecipazione al bene implichi, per questo filosofo, la presenza del bene in tutte le cose per il solo fatto di esistere.

A questo riguardo C. Moreschini dice:

Queste oscillazioni, o meglio, questi diversi piani di pensiero, che sono emersi dalla problematica della partecipazione, hanno verisimilmente origine nel più profondo del ragionamento boeziano, vale a dire, in quella ambiguità sostanziale che deriva dall’accomodare in senso cristiano una dottrina così spiccatamente anticristiana (nonostante le apparenze), quale è stata il neoplatonismo.47

La differenza è sottile ma assai significativa: se le cose sono buone in quanto esistono, l’immediata conseguenza è che tutte le cose tendono e partecipano al sommo Bene e il bene è in tutte le cose. La prospettiva platonica per cui le cose sono buone in quanto tendono al Bene è rovesciata, e l’istanza del fondamento in senso cristiano riaffermata.48

Primitiva e originaria è la fondazione di ogni cosa nell’essere, prima, per così dire, che le cose tendano al Bene, infatti Boezio, nel De hebdomadibus, chiarisce ulteriormente la virtualità che è compresa all’interno della diversificazione operata tra l’esse e l’id quod est dicendo:

VI. Omne quod participat, eo quod est esse, ut sit; alio vero participat, ut aliquid sit. Ac per hoc id quod est participat eo quod est esse, ut sit; est vero, ut participet alio quolibet.49

Nel passato si era soliti risolvere tali incongruenze accentuando il dualismo tra il paganesimo della Consolatio e il cristianesimo degli Opuscula theologica, come a voler sostenere per Boezio una teoria della doppia verità, finanche a mettere in dubbio l’autenticità degli stessi opuscoli.

Sappiamo come egli avesse in animo di dimostrare la perfetta concordanza tra Platone e Aristotele, e non ci sembra azzardato pensare come egli avrebbe potuto portato a termine tale progetto all’interno di una sintesi di tipo cristiano come è anche il parere di un illustre studioso quale è C. Fabro:

Ma quello che preme notare si è che il programma della speculazione filosofica di Boezio è quello stesso del Neoplatonismo, quale lo poteva assumere un cristiano: realizzare una sintesi del Platonismo e dell’Aristotelismo, quale preparazione alla speculazione teologica nella quale la ragione sarà congiunta alla Fede e la Fede alla ragione.50

Il concetto di participatio boni che è presente nelle pagine della Consolatio, oltre al fatto evidente che si tratta di una partecipazione in senso metafisico, ha sullo sfondo quella già enunciata nel De hebdomadibus, ma che qui è di ben maggior peso e significato.

Il problema non è di scarso rilievo, poiché, lo abbiamo già visto, se l’essere composito ha il suo fondamento radicale dall’Essere assoluto, dall’Essere primo, allora si rischierebbe di cadere nel panteismo nel pensare che essi siano in tutto simili.

Si tratta, in altri termini, di trovare il modo di attribuire la bontà alla sostanza senza identificare l’esse della sostanza e la sua bontà, senza ridurre la bontà ad un semplice accidente.

La risposta la troviamo nel terzo assioma: «Quod est partecipare aliquo potest, sed ipsum esse nullo modo aliquo participat. Fit enim participatio cum aliquid iam est; est autem aliquid cum esse susceperit».51

Nel primo Bene, che è anche il primo Essere, esistenza e bontà coincidono in virtù della sua semplicità divina, e la bontà delle cose deriva proprio dal fatto che il loro essere defluxit dalla volontà di questo Bene. In altre parole, il loro essere poteva anche non essere buono ma lo è perché così ha voluto che fosse Colui che oltre ad essere il primo Bene è anche il primo Essere.

Ancora una volta, centrale, nella svolgimento della argomentazione boeziana dei due testi esaminati, ci sembra l’enunciato del secondo assioma in cui veniva espressa la fondamentale composizione di ogni cosa in essenza ed essere, che ha reso possibile il nascere di questo senso forte del concetto di partecipazione poiché: «l’identità dell’essere e del bene nell’Essere primo fonda l’identità dell’essere e del bene negli esistenti. Ma essa non comporta l’identità di questi con l’Essere primo».52

Non vi è traccia di emanatismo nella essenza e nella bontà ed ecco il punto esatto in cui i due testi, a nostro avviso, convergono l’uno con l’altro e si illuminano reciprocamente: il concetto di partecipazione è un modo come un altro per riaffermare il concetto di composizione, ancora meglio potremo dire che si tratta di esplicare una composizione per partecipazione. Una prima partecipazione fonda l’esistenza della sostanza, una seconda permette alla sostanza di ricevere tutte le determinazioni accidentali compatibili con la forma di questa sostanza.

L’analisi fino qui affrontata ci ha condotto a raffigurarci la visione che del mondo Boezio dovesse avere, una visione coerente e unitaria il cui fondamento speculativo sta in quella distinzione tra esse ed id quod est, di cui abbiamo cercato di esplicitare tutte le implicazioni possibili.

Tutto ciò è stato reso possibile perché, in questa precisa ottica, Boezio, crediamo, sia riuscito ad indicare una valida e corretta base speculativa filosofica che cercasse di avvicinare il più possibile l’uomo al modo stesso in cui Dio conosce le cose, una conoscenza che di per sé è stata già resa storicamente nota in forma compiuta attraverso la Rivelazione, benché questa non sempre si esprima attraverso l’uso delle categorie della ragione umana, quanto piuttosto con quelle proprie della fede, ma che non è da ostacolo, in ogni caso, ad un esercizio cristiano della ragione.

Un’applicazione esemplificativa del modo di lavorare del nostro autore, quale finora abbiamo cercato di evidenziare, lo possiamo rintracciare proprio a partire dal tema della somiglianza divina che inevitabilmente implica anche quello della partecipazione a Dio.

Nel testo della Consolatio troviamo un Boezio in preda ad un grosso smarrimento dovuto alla situazione di oblio della verità, la Filosofia perciò «ritiene di dover avviare con lui, grazie allo strumento didattico-dimostrativo del dialogo, un procedimento metodologicamentte ordinato di interrogazioni particolari e successive, ossia un processo di comprensione scientifica della realtà nei suoi diversi aspetti».53

La stessa concezione della Filosofia doveva rappresentare il suo ideale della partecipazione umana alla sapienza divina, difatti, il vero compito della filosofia, per Boezio, è quello di condurre l’uomo verso la conoscenza di Dio, per portarlo al livello in cui Dio stesso conosce l’universo, e diventare così a Lui simili.

Sappiamo come il tema della somiglianza divina sia presente sia in ambiente pagano come in quello cristiano, basti ricordare il nono assioma del De hebdomadibus in cui veniva enigmaticamente pronunciato il nucleo fondante la dottrina platonica dell’anamnesi, vale a dire l’identificazione dell’oggetto conosciuto con il soggetto conoscente.

IX. Omni diversitas discors, similitudo vero appetenda est; et quod appetit aliud, tale ipsum esse naturaliter ostenditur quale est illud hoc ipsum quod appetit.54

Da parte cristiana, l’immagine di Dio impressa nell’uomo, così come le Scritture rivelano, costituisce in termini metafisici, quel connotato spirituale attraverso cui ritrovare il fondamento del proprio essere e dunque della propria bontà, ed è il mezzo attraverso cui riappropriarsi di se stessi ed essere al contempo partecipi della natura divina.

Nel testo della Consolatio, la somiglianza divina, difatti, è considerata ora come quell’immagine di Dio impressa su ogni uomo, patrimonio genetico esclusivo dell’essere umano, che la possiede per il solo fatto di esistere poiché creato per Suo libero volere, ora come quello stato di beatitudine perfetta al quale ogni uomo deve tendere costantemente con tutti i suoi sforzi e il cui raggiungimento comporta il diventare dèi non per natura ma per partecipazione.

A questo oscillamento, tra tematiche appartenenti a due differenti matrici speculative, ci siamo già abituati poiché è presente lungo tutto il testo del nostro autore, ed è questa una spia evidente del suo tentativo di esprimere la summa del pensiero neoplatonico, senza per questo entrare in aperto contrasto con le verità che il Cristianesimo ha già conquistato attraverso la Rivelazione. A questo proposito G. d’Onofrio osserva:

E allora, poiché il movente primo della filosofia è una naturale ed inarrestabile ricerca di felicità, e poiché il raggiungimento del bene che è premio a se stesso, in base all’idea platonica dell’auto-identificazione del conoscente con l’oggetto conosciuto, si risolve nell’identità con Dio, ne segue che, per un’inattesa conciliazione di opposti, di umano e divino, sarà il possesso di sé medesimo (mezzo) ad assicurare all’uomo il raggiungimento della somiglianza con il divino (fine).55

A ben vedere, l’autore del libro della Genesi utilizza due termini apparentemente sinonimi per esprimere la partecipazione della natura umana a Dio, leggiamo il celebre passo: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra».56

C’è da dire subito che il tema dell’uomo immagine di Dio, è per ammissione unanime da parte dei teologi, e in special modo dei padri della Chiesa, il nucleo centrale e fondante l’intera antropologia cristiana.

Questa, infatti, è una caratteristica specifica dell’uomo che lo distingue dal resto dell’universo materiale, e tale somiglianza si esprime e si manifesta soprattutto nella sua intelligenza e nella sua volontà, che gli permettono di indirizzarsi consapevolmente e liberamente verso Dio, ed esprimono anche come egli sia naturalmente preordinato alla Sua conoscenza.

Ebbene, per i padri della Chiesa esiste un dinamismo etico tra l’immagine ricevuta con la nascita e la somiglianza da raggiungere nella vita, poiché, con l’immagine, l’uomo risulta essere l’unico luogo nel mondo visibile nel quale Dio è riconoscibile come spirito personale, in quanto egli rinvia a Dio non solo nel suo esistere ma anche nel suo esser tale.

La somiglianza con Dio può invece essere deformata allorquando l’uomo si distacca e si allontana dalla conoscenza della suo essere, del fine cui la sua natura tende che è quello di essere destinato alla contemplazione del divino.

La malattia cui è affetto Boezio è proprio quella di essere incorso in tale dimenticanza, e difatti solo:

Nel possesso compresente ed inalienabile della conoscenza diretta di tutta la realtà, l’uomo potrà intravedere, come Dio vede eternamente, la semplicità non contraddittoria del tutto, dove nessun male si contrappone al bene, nessuna libertà è limitata da necessità esterne, nessuna previsione condiziona lo spontaneo scorrere della realtà.57

In questo senso Boezio armonizza pienamente i dati dell’antropologia cristiana con quelli della dottrina platonica della conoscenza, in quanto la conoscenza della verità per l’uomo non dipende dalla preesistenza della sua anima ma dalla condizione naturale in cui Dio lo ha posto nel momento in cui gli ha donato l’essere, rendendolo in questo modo a lui simile.

5. Bibliografia

Fonti

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  1. E. K. Rand, Boethius, the First of the Scholastics, in Founders of the Middles Ages, Cambridge, Mass., 1928 (rist. New York 1957), pp. 135-180. ↩︎

  2. Quomodo substantiae, op. cit., 17-18. ↩︎

  3. De Consolatione Philosophiae. Opuscula theologica. Boethius., a c. di Claudio Moreschini, Monachii et Lipsiae, in aedibus K. G. Saur, Biblioteca Scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana, 2005, 26-28. ↩︎

  4. Cfr. Severino Boezio, La consolazione della Filosofia, Gli opuscoli teologici, 1ª ed., a c. di Angioletta Ribet (La consolazione della Filosofia) e Luca Obertello (Gli opuscoli teologici), Rusconi, Milano 1979, (I classici del pensiero, Sezione II, Medioevo e Rinascimento), introduzione. ↩︎

  5. Pierre Hadot, «La distinctioin de l’être et de l’étant dans le De Hebdomadibus de Boèce», in Die Metaphysik im Mittelalter, «Miscellanea Mediaevalia», 2 (Berlin, V. De Gruyter, 1963), pp. 148-149. Cfr. anche dello stesso autore «Forma essendi. Interprétation philologique et interprétation philosophique d’une formule de Boèce», in «Les études classiques», XXXVIII (1970), pp. 143-156. ↩︎

  6. Pierre Hadot, ibidem, p. 152. ↩︎

  7. Quomodo substantiae, op. cit., 29-31. ↩︎

  8. Ibidem, 32-34. ↩︎

  9. Ibidem, 35-36. ↩︎

  10. Ibidem, 3740. ↩︎

  11. Ibidem, 41-43. ↩︎

  12. Ibidem, 43-46. ↩︎

  13. Boethius. The Theological Tractates, with an english translation by H. F. Steward, E. K. Rand, S. J. Tester, Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press, London 1978, p. 43. ↩︎

  14. Timeo, 90d: «bisogna pertanto che ciascuno segua questi movimenti, correggendo, quando si guastano, le rivoluzioni del divenire che vi sono nella nostra testa mediante l’apprendimento delle armonie e delle rivoluzioni dell’universo, e renda simile, secondo la sua antica natura, il contemplante al contemplato, e dopo aver reso simile, giunga al culmine di quell’ottima vita che gli dèi proposero agli uomini per il presente e per il tempo futuro». ↩︎

  15. Quomodo substantiae, 108-118. ↩︎

  16. Non è trascurabile questa esplicita identificazione operata dal nostro autore tra il primo Essere e il primo Bene che nella Consolatio al libro terzo verrà assimilato a Dio stesso: «… cum illud ipsum bonum primum est et ipsum esse sit et ipsum bonum et ipsum esse bonum», Quomodo substantiae, 139-140. ↩︎

  17. Lambert M. De Rijk, Boèce logicien et philosophie : ses positions sémantiques et sa métaphysique de l’être, in Atti del Congresso Internazionale di Studi Boeziani (Pavia, 5-8 ottobre), a c. di L. Obertello, Editrice Herder, Roma 1981, pp. 141-156. In questo articolo il De Rijk mette in evidenza la dipendenza delle posizioni metafisiche di Boezio da quelle logiche. ↩︎

  18. Il termine “analogia” non compare mai nello scritto del nostro autore, come non compare quello di “contingenza”, tuttavia soltanto attraverso di essi il testo acquista un’unità di senso che insieme all’esegesi proposta da L. Obertello ed altri studiosi ci sentiamo di condividere. ↩︎

  19. Claudio Moreschini, Neoplatonismo e cristianesimo: ‘partecipare a Dio’ secondo Boezio e Agostino, in AA. VV., Sicilia e Italia suburbicaria tra IV e VIII secolo, Catania 1991, p. 290. ↩︎

  20. Quomodo substantiae, op. cit., 130-136. ↩︎

  21. Severino Boezio, La consolazione della Filosofia. Gli opuscoli Teologici, op. cit., Introd. a c. di L. Obertello, p. 29. ↩︎

  22. Cfr. Luca Obertello, Severino Boezio, I, op. cit., pp. 254-256; vedi anche Severino Boezio, La consolazione della Filosofia, Gli opuscoli teologici, op. cit., p. 379-380. ↩︎

  23. Cfr. Luca Obertello, Severino Boezio, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, Genova 1974, pp. 67-138; Dagmar Gottschall, Teodorico il Grande: Rex Philosophus, in Mutatio Rerum. Letteratura Filosofia e Scienza tra tardo antico e altomedioevo, a c. di Maria Luisa Silvestre e Marisa Squillante, Atti del convegno di studi, (Napoli, 25-26 novembre), La città del sole, Napoli 1997, (Istituto per gli studi filosofici, Il pensiero e la storia 37), pp. 251-272. ↩︎

  24. Pierre Courcelle, La consolation de Philosophie dans la tradition littéraire, Antécédent e Postérité de Boèce, Études Augustiennes, Paris 1967, p. 18. ↩︎

  25. Opuscula theologica, De Sancta Trinitate, op. cit. ↩︎

  26. Cfr. P. Courcelle, La Consolation de la Philosophie dans la tradition littéraire, op. cit., pp. 17-28. ↩︎

  27. De Consolatione Philosophiae, op. cit., I, 6, 31-32. ↩︎

  28. Ibidem, I, 6, 34. ↩︎

  29. Ibidem: «Iam scio, inquit, morbi tui aliam vel maximan causam, quid ipse sis, nosse desisti», op. cit., I, 6, 36-37. ↩︎

  30. Ibidem, I, 6, 9-11. ↩︎

  31. Ibidem, I, 6, 51-52. ↩︎

  32. Ibidem, I, 6, 41-47. ↩︎

  33. Henri Chadwick, Boethius. The Consolation of Music, Logic, Theology and Philosophy, Oxford 1981, p. 289. ↩︎

  34. Ibidem, III, 9, 72-73. ↩︎

  35. Calcidio, Commentarium in Timaeum, cap. 302, ed. J. H. Waszink, Londra — Leida 1975, ed. altera p. 304. ↩︎

  36. A. Ghisalberti, L’ascesa boeziana a Dio nel libro III della Consolatio, in Atti del Congresso Internazionale di StudiBoeziani (Pavia, 5-8 ottobre), op cit., p. 183. ↩︎

  37. De Consolatione Philosophiae, op. cit., I, 6, 57-58: «Iam scio, inquit, morbi tui aliam vel maximam causam; quid ipse sis, nosse desisti». ↩︎

  38. Ibidem, op. cit., III, 10. 7-15: «Sed quin exsistat sitque hoc veluti quidam omnium fons bonorum, negari nequit; omne enim, quod imperfectum esse dicitur, id imminutione perfecti imperfectum esse perhibetur. Quo fit, ut si in quolibet genere imperfectum quid esse videatur, in eo perfectum quoque aliquid esse necesse sit; etenim perfectione sublata, unde illud, quod imperfectum perhibetur, exstiterit, ne fingi quidem potest». ↩︎

  39. Ibidem, op. cit., III, 10, 26-34: «Ita vero bonum esse deum ratio demonstrat, ut perfectum quoque in eo bonum esse convincat. Nam ni tale sit, rerum omnium princeps esse non poterit; erit enim eo praestantius aliquid perfectum possidens bonum, quod hoc prius atque antiquius esse videatur; omnia nacque perfecta minus integris priora esse claruerunt. Quare ne in infinitum ratio prodeat, confitendum est summus deum summi perfectique boni esse plenissimum». ↩︎

  40. Ibidem, op. cit., III, 10, 64-69: «Respice, inquit, an hinc quoque idem firmius approbetur, quod duo summa bona, quae a se diversa sint, esse non possunt. Etenim quae discrepant bona, non esse alterum, quod sit alterum, liquet; quare neutrum poterit esse perfectum, cum alterutri alterum deest.». ↩︎

  41. De Consolatione Philosophiae, III, 10, 82-86. ↩︎

  42. Cfr. Ibidem, V, IV, 17. ↩︎

  43. Ibidem, V, 4, 70-75. ↩︎

  44. L. Obertello, Severino Boezio, op. cit., I, p. 514. ↩︎

  45. De Consolatione Philosophiae, op. cit., V, 6, 9-10: «Aeternitas igitur est interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio». ↩︎

  46. Ibidem, V, 6, 169-171: «Magna vobis est, si dissimulare non vultis, necessitas indicta probitatis, cum ante oculos agitis iudicis cuncta cernentis». ↩︎

  47. C. Moreschini, Neoplatonismo e cristianesimo: «partecipare a Dio» secondo Boezio e Agostino, op. cit., p. 291. ↩︎

  48. In altri termini, le cose sono buone per il fatto che esistono e non perché tendono al primo Bene che ne è solo una conseguenza. ↩︎

  49. Quomodo substantiae, op. cit., 37-40. ↩︎

  50. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d’Aquino, op. cit., p. 99. ↩︎

  51. Quomodo substantiae, op. cit., 29-31. ↩︎

  52. L. Obertello, Severino Boezio, op. cit., I, p. 646. ↩︎

  53. G. d’Onofrio, Boezio filosofo, op. cit., p. 396. ↩︎

  54. Quomodo substantiae, op. cit., 49-52. ↩︎

  55. G. d’Onofrio, Boezio filosofo, op. cit., p. 413. ↩︎

  56. Gen 1, 26. ↩︎

  57. G. d’Onofrio, Boezio filosofo, op. cit., p. 418. ↩︎