La naturalizzazione dell’umano: una sfida per la filosofia. Itinerari sulle tracce di Wilfrid Sellars

A Silvana Cirrone, sine qua non

1. Introduzione

È stato Willard Quine a porre, per la prima volta, e in termini del tutto espliciti, il tema della naturalizzazione. Nell’articolo-manifesto Epistemology naturalized, apparso nel 1969, Quine tracciava le linee essenziali di questo programma di ricerca.1 L’epistemologia sembrava esser giunta al capolinea. Tutti i tentativi di fondare stabilmente la conoscenza, costruendo una struttura logica in grado di giustificare, dall’esterno, l’affidabilità dei suoi contenuti, erano maldestramente naufragati. L’opera che forse più di tutte incarnava lo spirito del fondazionalismo epistemologico novecentesco, rappresentandone l’anticipazione e in un certo senso, al tempo stesso, il suo supremo compimento, vale a dire la Logische Aufbau der Welt di Rudolf Carnap, era andata incontro a critiche — persino all’interno dello stesso Circolo di Vienna (si pensi ad esempio a Neurath) — molto severe e devastanti, talmente serie da indurre il suo autore a ritrattare, almeno in parte, alcuni assunti, e a cercare, in ogni modo e con ogni mezzo, delle possibili vie alternative.2 Quine stesso, del resto, nonostante la grande ammirazione nei confronti del lavoro di Carnap, e la sostanziale sintonia con le istanze di fondo del movimento filosofico viennese, era stato anch’egli responsabile di alcune tra le linee critiche più decisive. Nell’articolo, celeberrimo, Two dogmas of empiricism, scritto nel 1951, Quine sferrava un duro attacco al cuore della struttura del positivismo logico. La differenza analitico-sintetico da un lato, e il riduzionismo — cioè l’idea che una proposizione dotata di contenuto empirico, presa isolatamente, possa essere verificabile o confutabile — dall’altro, apparivano, dopo una lunga e acuminata disamina, gravemente compromessi.3

Se dunque l’empirismo, così come esso era stato fino ad allora concepito, andava riformato, un buon modo per farlo poteva essere quello di cercare di ricondurre i suoi tratti essenziali all’interno della scienza naturale. L’empirismo, in quanto disegno epistemologico, andava d’ora in poi visto nient’altro che come un capitolo della psicologia empirica:

Ma io penso che a questo punto possa essere più utile dire piuttosto che l’epistemologia va ancora avanti sebbene in un nuovo scenario e in una condizione purificata. L’epistemologia, o qualcosa di simile, trova il suo posto come capitolo della psicologia e quindi della scienza naturale. Essa studia un fenomeno naturale. […] La vecchia epistemologia aspirava a contenere, in un certo senso, la scienza naturale; la voleva costruire in qualche modo a partire dai dati sensoriali. L’epistemologia nel suo nuovo scenario, viceversa, è contenuta nella scienza naturale come un capitolo della psicologia.4

Questa tesi proposta da Quine può esser letta essenzialmente in due modi, uno, per così dire, minimale, e un’altro invece più estensivo. Secondo la prima linea, che potrebbe in prima istanza apparire persino più aderente alla lettera del testo appena citato, essa si limiterebbe, in fondo, a richiedere di sottoporre al dominio delle scienze naturali non la totalità dei problemi filosofici, ma solo una parte di essi. Si può infatti ritenere che il progetto di Quine, incentrato principalmente sul tema della (affidabilità della) conoscenza, lasci al di fuori dei confini della scienza tutto il resto; che cioè le venerande questioni filosofiche consegnateci dalla tradizione non corrano il rischio, neanche minimamente, di venir risucchiate nel vortice della conoscenza scientifica, potendo così continuare a vivere nel loro specifico dominio, quello della filosofia.5 Ma sarebbe questa — ci pare evidente — una interpretazione di superficie.

Se si tiene presente invece l’economia generale del discorso di Quine, risulta abbastanza chiaro che la tesi contiene una radicalità molto più profonda, per di più gravida di importanti conseguenze. La «riduzione» cui viene sottoposta l’epistemologia, assoggettandola alla scienza naturale, viene attuata dopo un’altra, altrettanto radicale, ma implicita riduzione, quella della filosofia — di tutta la filosofia — alla filosofia della scienza, vale a dire all’epistemologia. Quine, com’è noto, riteneva che il solo ambito in cui valesse la pena esercitare la riflessione filosofica fosse quello della scienza — philosophy of science is philosophy enough, recitava un suo celebre motto. La filosofia, o è filosofia della scienza, vale a dire riflessione sulla (e all’interno della) scienza, o non è. Sotto questo rispetto, non v’è dubbio, rivelava inequivocabilmente, e a pieno titolo, la sua appartenenza alla Stimmung neopositivistica. Non vi erano seri problemi filosofici, degni di considerazione, se non all’interno del dominio della scienza. Interrogarsi intorno alla logica e allo sviluppo della conoscenza scientifica era così il solo ed unico modo in cui poteva avere un senso portare avanti l’attività filosofica, naturalmente dopo essersi lasciati alle spalle tutti i nonsensi, le confusioni e le ambiguità della metafisica.6 Su tutto il resto, come lapidariamente aveva affermato Wittgenstein — senza dubbio tra gli ispiratori più significativi del movimento — sarebbe stato meglio tacere. La filosofia, o si occupava di questioni empiriche, fattualmente verificabili, o sarebbe stata destinata a produrre proposizioni verbose e inconcludenti.

È su questo sfondo concettuale che dunque va ad inserirsi lo specifico del lavoro di Quine, la sua critica corrosiva contro i «dogmi» residui dell’empirismo. Proprio a seguito di questa opera di demolizione Quine giunge alla conclusione, espressa in forma paradigmatica nel saggio del ’69, che la filosofia — l’epistemologia — deve diventare, non può che diventare, scienza; per meglio dire: scienza applicata alla scienza. La caduta della distinzione tra analitico e sintetico, da una parte, e l’attacco contro il riduzionismo, dall’altra, avevano avuto infatti, tra le loro numerose conseguenze, quella di determinare una sostanziale impossibilità di tracciare, in modo netto, un confine tra scienza e filosofia. Non era più possibile individuare, con precisione, il dominio dell’una o dell’altra, visto che ogni proposizione filosofica era, al tempo stesso, carica di contenuto empirico e, viceversa, ogni proposizione empirica era indissolubilmente intrecciata con una serie di presupposti concettuali. A voler filare la fortunata metafora di Neurath, si può ben dire che, nella prospettiva di Quine, il filosofo e lo scienziato stanno sulla stessa navicella, entrambi protesi nello sforzo di fronteggiare i pericoli incombenti, costretti dalla necessità a riparare lo scafo in mare aperto, e costantemente alla ricerca della rotta migliore. In questa prospettiva — dovrebbe apparir chiaro — la filosofia è continua con la scienza.

Ad ogni modo, e al di là di qualsivoglia problema esegetico, l’articolo di Quine aveva avuto comunque un merito indiscutibile, quello di portare alla luce (ma al tempo stesso contribuire ad imporre) una tendenza operante ancora, in quel tempo, in maniera abbastanza latente, ma che, negli anni a seguire, sarebbe divenuta, all’interno della filosofia anglo-americana, via via sempre più dominante.7 Quine aveva colto nel segno. Soprattutto a partire dalla cosiddetta «svolta cognitiva», situabile intorno agli anni ’70, ed in seguito alla quale lo studio dei processi mentali avrebbe progressivamente soppiantato la ricerca sul (e all’interno del) linguaggio, il programma di naturalizzazione dei problemi filosofici avrebbe ricevuto una spinta decisiva. La mente, la coscienza, la conoscenza, lo stesso linguaggio, e perfino l’etica, saranno d’ora in poi affrontati all’interno di un’ottica naturalistica.8

Due sono i filosofi, di area analitica, maggiormente impegnati a respingere, in modo radicale, questo paradigma. Uno è Michael Dummett, tenace assertore, sulla scia di Frege e Wittgenstein, della priorità, nell’ordine della spiegazione, del linguaggio sul pensiero. L’altro è Wilfrid Sellars.9

2. L’immagine manifesta e l’immagine scientifica dell’uomo

All’interno della vasta produzione sellarsiana — costituita da articoli di notevole interesse ma molto tecnici, perciò di non sempre agevole lettura — due saggi assumono indiscutibilmente, in relazione al nostro tema, un particolare rilievo. Si tratta di scritti che, oltretutto, hanno anche il merito di compendiare bene il senso generale della proposta filosofica di Sellars. Il primo, probabilmente il più noto, è Empiricism and the Philosophy of Mind (EPM),10 pubblicato nel 1956, in cui Sellars esamina, e puntualmente respinge, il Mito del Dato, vale a dire l’idea che possano esistere fondamenti della conoscenza empirica sganciati da ogni dimensione linguistica e concettuale. Il secondo, apparso quattro anni dopo, è Philosophy and the scientific image of man (PSIM).11 I due scritti esibiscono una stretta connessione, si possono rappresentare come due tappe conseguenti e decisive nello sviluppo del pensiero di Sellars. Il tema della naturalizzazione dell’umano è esplicitamente affrontato e sviluppato in (PSIM) ma appare anche, in modo sintetico ma nitido, in alcuni luoghi-chiave di (EPM). Per tale ragione la lettura di (PSIM) sarà condotta con l’ausilio di alcuni riferimenti intertestuali a (EPM), utili a chiarificare le dinamiche dei problemi di volta in volta implicati.

Il discorso sviluppato in (PSIM), come si intuisce già a partire dal titolo, è incentrato sulla valutazione delle possibili implicazioni filosofiche derivanti dall’assunzione di un modello di descrizione della dimensione umana desunto interamente dalle scienze naturali. In un passo, collocato all’incirca nella metà del saggio, è Sellars stesso ad esplicitare la domanda che anima la sua ricerca:

My primary concern in this essay is with the question ‘in what sense, and to what extent, does the manifest image of man-in-the-world survive the attempt to unite this image in one field of intellectual vision with man as conceived in terms of the postulated objects of scientific theory’?12

Sellars prova a prendere sul serio questa sfida, ad accettare positivamente l’idea che la conoscenza scientifica possa offrire una descrizione e una spiegazione complete dell’umano. Che l’«immagine scientifica» possa cioè completamente soppiantare l’«immagine manifesta». Costruisce pazientemente, pezzo dopo pezzo, una immagine scientifica integrata dell’uomo, secondo una plausibile «logica» di sviluppo tutta interna alla conoscenza scientifica. Se l’assunzione di fondo è corretta, il quadro così ricavato dovrebbe essere in grado di contenere interamente la dimensione dell’umano in tutte le sue molteplici articolazioni.

2.1. Il concetto di «immagine»

Prima di tutto, la questione del che cosa è «immagine». Potrebbe sembrare superfluo porre un simile problema, visto che il termine risulta essere comprensibile senza troppe difficoltà. Si potrebbe quasi dire — come Benedetto Croce, celiando, diceva dell’arte — che l’«immagine» è proprio quello che noi sappiamo (intuitivamente) essere. Ma, anche qui, si tratterebbe di celia apparente, oltre che sciocca.

Se infatti si vuole far luce sulle regole che governano l’uso del termine allora la faccenda si complica un po’. È qui, a questo livello, che entra in gioco l’analisi filosofica, la quale ci conduce a scoprire che tutte le parole, anche quelle che paiono essere semanticamente del tutto trasparenti, sono aggrovigliate in un fitto intreccio di presupposizioni e implicazioni concettuali. Ricostruire la trama di questo intreccio vuol dire portare alla luce la loro struttura inferenziale, quella che, con Wittgenstein, possiamo definire la loro «grammatica logica».

Partiamo dunque dall’uso, nei suoi diversi ambiti contestuali. Dell’«immagine» si parla in molti modi. Si può infatti intenderla:

  1. come insieme di caratteristiche di un individuo, così come esse sono percepite dalla collettività di riferimento: quando, ad esempio, di una personalità pubblica, si dice che ha una «buona immagine»;
  2. nel senso di riproduzione di tratti fisici e morali: «quel bambino era l’immagine esatta di suo nonno»;
  3. nel senso, proprio, della riproduzione (pittura, scultura, fotografia) di un oggetto, di un paesaggio o di un soggetto umano: qui si possono far rientrare molte cose, dai personaggi di Rembrandt alle statue di Lisippo, dalle foto dei tabloid alle immagini della tv;
  4. in senso astratto, quando il suo impiego serve a veicolare un concetto o un’idea di ordine generale: di un cavallo lanciato in corsa si può dire che è «l’immagine della potenza» o di un leone che è «l’immagine della regalità»;
  5. sempre in senso astratto, per metaforizzare i tratti salienti della personalità di un individuo: si pensi al manzoniano Don Abbondio, fragile vaso di terracotta in mezzo a tanti vasi di ferro;
  6. ancora in senso astratto: nella matematica — segnatamente in algebra lineare — si usa definire «immagine» quell’insieme di vettori che si ottiene mediante la legge di trasformazione di un’applicazione lineare.13

Analizzando tutti questi usi, se ne ricava che il concetto ha il significato fondamentale di «rappresentazione». «Immagine» è qualcosa che rappresenta qualcos’altro, che lo rende visibile agli occhi o catturabile dalla mente. Il termine, osserva giustamente Sellars,

suggests the contrast between an object, e. g. a tree, and a projection of the object on a plane, or its shadow on a wall. In this sense, an image is as much an existent as the object imaged, though, of course, it has a dependent status.14

Il concetto esibisce un carattere referenziale: «immagine» è qualcosa che rappresenta qualcos’altro, che rinvia a qualcos’altro, ed il cui status ontologico è dipendente dall’oggetto rappresentato. La sua essenza consiste in quella «relazione di raffigurazione» che, come dice Wittgenstein, fa dell’immagine un’immagine.15 Si può perciò dire, volgendo e svolgendo il discorso, che ha natura semiotica, dato che «segno» è, secondo tutte le definizioni classiche, un aliquid quod stat pro aliquo.16 Per tal ragione, oltre a rappresentare qualcosa, «immagine», analogamente a «segno», contiene anche indicazioni sulla modalità della rappresentazione, sul modo in cui l’oggetto rappresentato si rende visibile. L’immagine di A consiste nel darsi di A sotto un certo aspetto, da un certo angolo visuale, per cui si possono avere tante immagini di A quante sono le possibilità di rappresentarlo, gli angoli dai quali la figura può essere colta. C’è però un altro livello di analisi, non meno importante di quello appena considerato, e che per di più ne costituisce, in un certo qual modo, lo sfondo preliminare.

È opportuno non dimenticare che le «immagini» di cui parla Sellars non sono da intendere qualcosa di «dato», che ci si trova davanti quasi fossero elementi del mondo naturale. Si tratta, e Sellars stesso non manca di sottolinearlo, di schemi ideali, di modelli astratti creati ad hoc, con una ben precisa funzione strumentale, atti cioè a svolgere determinati compiti esplicativi. Difatti è lo stesso Sellars, prima di iniziare lo sviluppo del suo esperimento mentale, a ricordarcelo e a richiamare, allo scopo di evitare ogni possibile fraintendimento, i «tipi ideali» di Max Weber:

Before I begin to explain the contrast between ‘manifest’ and ‘scientific’ as I shall use these terms, let me make it clear that they are both ‘idealizations’ in something like the sense in which a frictionless body or an ideal gas is an idealization. They are designed to illuminate the inner dynamics of the development of philosophical ideas, as scientific idealizations illuminate the development of physical systems. From a somewhat different point of view they can be compared to the ‘ideal types’ of Max Weber’s sociology. The story is complicated by the fact that each image has a history, and while the main outlines of what I shall call the manifest image took shape in the mists of pre-history, the scientific image, promissory notes apart, has taken shape before our very eyes.17

Ora, il concepire l’«immagine» come qualcosa che è, nella sua essenza, una costruzione attiva del soggetto, e non una mera riproduzione passiva di un «dato» esterno, presuppone tutta una dimensione culturale che vale la pena di mettere in chiaro. Per meglio comprendere, oltre tutto, la fecondità e la pertinenza del ragionare di Sellars.

Il concetto di «immagine», nel senso in cui comunemente lo si usa, e che abbiamo sommariamente richiamato, è un concetto tipicamente moderno. La parola è certo presente nella cultura classica (cfr. il greco phantasía o il latino imago), ma il senso che essa acquista nella modernità è radicalmente nuovo.18 Gli storici della filosofia, com’è noto, individuano nel fenomeno della coscienza il tratto peculiare dell’età moderna, parlando così di «paradigma coscienzialistico» (o mentalistico) in opposizione al «paradigma ontologico», che è invece la prospettiva dominante nella filosofia greca. La differenza fondamentale tra queste due grandi framework concettuali risiede nella diversità di atteggiamento e di posizione dell’uomo rispetto al mondo: mentre i greci assegnavano priorità al mondo esterno, e definivano l’individuo all’interno e a partire dal tutto — la stessa razionalità umana, osserva Gadamer, era, per i greci, un semplice tratto della, più generale e comprensiva, razionalità dell’essere19 — i moderni rovesciano la situazione, mettendo al centro la soggettività e facendo dipendere da essa tutto il resto. A determinare questo radicale mutamento di prospettiva — cioè la priorità (assiologica, epistemologica) del soggetto sul mondo — è il cristianesimo, almeno secondo quanto suggerisce un influente lavoro diltheyano:

Nella seconda parte del grande libro incompiuto dedicato a una Einleitung in die Geisteswissenschaften, Dilthey traccia una storia della metafisica europea che si articola in due stadi: lo stadio metafisico degli antichi e quello dei moderni, quest’ultimo destinato a finire con la dissoluzione che si compie della metafisica nella critica kantiana e nei suoi sviluppi fino allo storicismo diltheyano. Ora, ciò che distingue la metafisica degli antichi da quella dei moderni è la svolta che si verifica con l’avvento del cristianesimo, che sposta il centro dell’interesse filosofico dal modo naturale all’interiorità umana. Il platonismo è per Dilthey l’emblema della metafisica antica; sebbene non si tratti di naturalismo in senso stretto, il suo valore emblematico consiste in questo, che l’essere (come dirà più tardi Heidegger, la cui visione della storia della metafisica dipende profondamente da questa ricostruzione diltheyana) è concepito da Platone come forma visibile — idea, eidos; e di conseguenza come un «dato» esteriore, collocato davanti agli occhi dello spirito come una forma oggettiva. […] Leggiamo nelle prime pagine del II libro della Einleitung: «Per lo spirito greco, sapere era riprodurre nell’intelletto un essere oggettivo. Ora (ovvero nel cristianesimo) il centro di tutti gli interessi delle nuove comunità (scil. cristiane) diviene l’esperienza vissuta, ma questa è semplicemente la presa di coscienza di ciò che si dà nella persona, nell’autocoscienza».20

La centralità del soggetto induce una completa ristrutturazione dell’architettura dei concetti filosofici fondamentali che d’ora in poi, e sempre con più decisione, saranno articolati in una maniera radicalmente nuova. Chiosa opportunamente Vattimo:

Il cristianesimo, per riassumere un po’ velocemente ma fedelmente, è la condizione che prepara la dissoluzione della metafisica e la sua sostituzione con la gnoseologia — vale a dire, in termini diltheyani, il kantismo; l’accento sul soggetto, la fondazione del sapere sulla base dell’interiorità certa di se stessa sono i principi che ispireranno Cartesio e Kant e che domineranno la filosofia moderna.21

«Modernità» significa dunque priorità del soggetto. Ciò comporta, lo si è già osservato, un radicale cambiamento di prospettiva, un vero e proprio riorientamento gestaltico dello sguardo filosofico. I concetti-base della filosofia antica — l’essere, il divenire, la conoscenza, la verità, il bene, il bello — vengono, per così dire, sganciati dalla sfera oggettiva e «visuale» dell’essere per essere proiettati interamente nella soggettività. Fondati, in ultima analisi, su di essa. Derivati da essa. Non è un caso che Kant — uno dei principali «esecutori» di questo programma filosofico — non esiterà a parlare di «rivoluzione copernicana».

Il concetto di «immagine» va inquadrato all’interno di questo contesto. Anzi, si può persino dire che di questo mutamento paradigmatico costituisce probabilmente uno degli snodi decisivi.22 Mentre nella prospettiva classica l’«immagine» (ad esempio l’éidos platonico) attiene essenzialmente alla dimensione passivo-contemplativa dell’uomo che si pone di fronte all’essere, o meglio, che lo incontra come mero dato esteriore, nella modernità il termine acquisirà sempre più marcatamente un senso attivo-produttivo. Il soggetto non si limiterà più a «rispecchiare», contemplativamente e passivamente, una struttura esterna ma è come se lui stesso la introducesse radicitus, così che l’immagine rispecchiante che ne risulta non è una semplice «copia» di ciò che è, ma piuttosto una ri-produzione, la produzione-creazione di qualcosa che non è già «dato», e la cui esistenza viene ora a dipendere unicamente da quest’atto ri-produttivo. L’«immagine», in senso moderno, è cioè (la conseguenza di) un processo di costruzione, il prodotto di un atto genuinamente creativo. Il «mondo» insomma (o l’essere) non è più semplicemente «rispecchiato» ma, piuttosto, e più essenzialmente, ri-prodotto. Rap-presentato. Nessuno, meglio di Heidegger, ha illuminato queste dinamiche:

«Immagine del mondo», intesa in senso essenziale, significa perciò non una immagine raffigurante il mondo, ma il mondo concepito come immagine. L’essente nella sua interezza viene ora visto in modo tale che esso è essente solo e unicamente in quanto posto dall’uomo pro-ponente e dis-ponente, rappresentante-producente. Là dove si giunge all’immagine del mondo, si compie una decisione essenziale riguardo all’essente nella sua interezza. L’Essere dell’essente viene cercato e trovato nella rappresentatezza dell’essente.23

Un aspetto assai rilevante ma anche — ci pare — alquanto sorprendente di questo discorso è che perfino il senso semiotico-referenziale dell’«immagine», così come lo abbiamo poco sopra illustrato, sembra costituirsi, nella sua essenza, proprio sulla base di queste articolazioni. È solo perché, innanzitutto, il mondo è posto come «immagine» che ci possono essere «immagini del mondo» (nel senso pienamente oggettivo del genitivo). È solo perché è concepito essenzialmente come «rappresentazione» che può essere «rappresentato». Ciò accade perché nella prospettiva moderna, inaugurata filosoficamente da Descartes, il soggetto è, al tempo stesso, il pro-ponente e il rispecchiante, e può essere il rispecchiante solo perché, innanzitutto, è il pro-ponente. È, insomma, solo a partire dalla priorità epistemologica del soggetto che può pienamente dispiegarsi il fenomeno della referenzialità dell’immagine.

Nella lingua tedesca si possono cogliere tracce significative di queste sfumature concettuali. Essa custodisce alcuni nessi non rintracciabili nelle altre lingue moderne. La parola «immagine», in tedesco, si può esprimere con termini diversi, ciascuno corrispondente all’accezione in cui la si intende. Vale ad esempio Abbild (nel senso di «copia»), Ebenbild (nel senso metaforico di «ritratto», es.: «è il ritratto di suo padre»), Bildnis (il ritratto in senso materiale, come prodotto del lavoro dell’artista), Sinnbild (la rappresentazione simbolica). Tutti questi sostantivi afferiscono, com’è facile intuire, a Bild che ne rappresenta, diciamo così, il «cuore» semantico. Ora, la parola Bild, che indica l’«immagine» nel suo senso più generale — sta infatti per «quadro», «dipinto» ma anche per «simbolo», «metafora» —, si ritrova a sua volta nel verbo bilden, che significa «formare», «creare», «costituire», «comporre», e nel sostantivo Bildung, «creazione», «formazione», «educazione», «cultura». Otteniamo così la sequenza: Bild — bilden — Bildung. Si tratta di un importante nesso logico-semantico. Quello che si ricava è che l’«immagine» (Bild ) è un prodotto del costruire, del mettere-in-forma (bilden), la creazione di una forma significante; in altri e più espliciti termini, la produzione e al tempo stesso il prodotto della cultura (Bildung). Da «immagine» così siamo rinviati a «cultura», e quindi alla storicità. Bildung è infatti — a differenza di Kultur — un concetto eminentemente storico.

Siamo obbligati, a questo punto, a dare la parola ad Hans-Georg Gadamer:

Nel periodo che separa Kant da Hegel si compie per opera di Herder la trasformazione di questo concetto [scil. Bildung]. Kant non usa ancora il termine Bildung in un tale contesto. Egli parla di una Kultur della facoltà (o della disposizione naturale), che come tale è un atto della libertà del soggetto agente. Così tra i doveri verso sé stesso egli enumera anche quello di non lasciare arrugginire i propri talenti, senza adoperare per questo la parola Bildung.24

Già Hegel, per esprimere l’idea kantiana dei doveri verso sé stessi farà uso del verbo Sich-bilden (cioè: autoformarsi) così come di Bildung. È comunque a seguito della meditazione di Wilhelm von Humbdolt che si definisce in modo netto la differenza tra Bildung e Kultur. Mentre quest’ultimo termine sarà sempre più utilizzato per indicare l’educazione delle facoltà, i talenti, quindi l’acquisizione di abilità, Bildung indicherà precipuamente la «formazione» in senso originario, quella dimensione di apertura di senso a partire dalla quale e solo dentro la quale ogni Kultur delle facoltà può pienamente attuarsi; ovverosia l’ingresso dell’animale umano in quell’universo simbolico in cui solamente egli può diventare consapevole di sé stesso, del suo status in relazione-opposizione al mondo (l’oggettivo) e agli altri esseri (l’intersoggettivo). La Bildung è il ricco mondo simbolico dei concetti che, per un verso, determina, definisce, crea l’umano, per l’altro ne è invece definito, continuamente trasformato ed arricchito. In questa particolare dinamica interattiva consiste il suo essere perennemente in divenire, il suo essere costantemente processo. Troppo spesso, però, di ciò si perde memoria:

Dalla consuetudine di appiattire il divenire sull’essere dipende il fatto che Bildung (come l’altro termine moderno di Formation) stia ad indicare piuttosto il risultato di questo processo che il processo stesso. Questo appiattimento del significato è particolarmente unilaterale proprio in questo caso, giacché il risultato della Bildung non viene ottenuto come nel caso di una produzione tecnica, ma sorge dall’intimo processo della formazione e della cultura e, perciò, sussiste come permanente processo di sviluppo e di formazione ulteriore. Non è un caso che, in questo, la parola Bildung sia simile a quella greca di physis. Come la natura, la cultura non conosce mai fini al di fuori di sé stessa. […] Appunto per questa ragione il concetto di cultura trascende quello di una pura coltivazione di disposizioni preesistenti, dal quale deriva. La coltivazione di una disposizione è lo sviluppo di qualcosa di dato, sicché l’esercizio e la cura di essa non è altro che semplice mezzo in vista del fine. Così la materia di un manuale di lingua è puro mezzo e non fine essa stessa. L’assimilarla serve solo ad impadronirsi della lingua. Nell’autentica cultura, invece, ciò in cui e mediante cui ci si forma viene, come tale, fatto interamente proprio. In questo senso, ciò che entra nella cultura scompare in essa risolvendovisi, ma non come semplice mezzo che ha perduto la sua funzione. Anzi, nell’acquisizione di una cultura nulla scompare, ma tutto viene conservato. Cultura, in questo senso, è un autentico concetto storico, e proprio questo carattere storico di conservazione è quello che importa alle scienze dello spirito.25

Le «immagini» di Sellars non sono meri «dati», di fronte ai quali il soggetto funge da semplice e passivo ricettore-rispecchiante, ma hanno uno status culturale. Dunque storico. Le parole di Gadamer mostrano bene il perché.

2.2. L’immagine manifesta. I suoi tratti essenziali e la storia del suo costituirsi

Vi sono, dice Sellars, essenzialmente due modi — complementari piuttosto che alternativi — di caratterizzare l’immagine manifesta. Il primo di essi consiste nel pensarla come quella cornice-sfondo dentro cui l’uomo diventa consapevole di sé come uomo-nel-mondo, come quella entità ontologicamente definita proprio dal suo esser collocata nel mondo, dal suo esistere in un mondo. Questa concezione però, pur cogliendo tratti essenziali, può generare dei fraintendimenti. Il modo in cui essa è delineata potrebbe infatti suggerire di interpretare il rapporto tra immagine manifesta (IM) e immagine scientifica (IS) come un contrasto tra una concezione prescientifica, naïf, dell’uomo-nel-mondo e una invece pienamente critica, razionale; tra una concezione statica, astorica (trascendentale) e una invece dal carattere intrinsecamente evolutivo. Ciò crea inevitabilmente dei presupposti per una situazione di tensione o al limite di conflitto tra (IM) e (IS), che invece Sellars si ingegna in ogni modo di disinnescare. Ed è allora per bloccare questa possibile linea di sviluppo che cerca un’altra via, un altro modo di caratterizzare (IM), capace di rendere conto del suo carattere storico-evolutivo. Il suo intento consiste nel far vedere che (IM) e (IS), nella storia evolutiva (della coscienza) umana, il cui picco è rappresentato dall’acquisizione dell’autocoscienza, stanno sulla stessa linea, e che (IM) rappresenta lo stadio immediatamente precedente a (IS), lo sfondo da cui essa emerge, di cui costituisce lo sviluppo, e senza la quale non potrebbe nemmeno darsi. Sono, insomma, tappe diverse della stessa vicenda intellettuale.

(IM) si può anche descrivere in un altro modo:

For what I mean by the manifest image is a refinement or a sophistication of what might be called the ‘original’ image; a refinement to a degree which makes it relevant to the contemporary intellectual scene. This refinement or sophistication can be construes under two headings: (a) empirical; (b) categorial.26

Per mostrare l’articolarsi storico e dinamico di (IM) Sellars postula l’esistenza — anche in questo caso, in termini idealtipici — di un’altra immagine, l’immagine originaria (IO). (IO) è tutto ciò che l’uomo vede quando, ancor prima di aver scoperto se stesso, comincia a guardarsi intorno e osserva il mondo circostante. Lo sguardo dell’uomo all’istante zero, al principio della sua storia evolutiva. Il fotogramma iniziale.

Si tratta di una ricostruzione che vuole essere storica e al tempo stesso speculativa del processo di evoluzione dell’umanità, un processo che vede all’inizio, nelle fasi primitive, un essere — l’uomo — che dispone, a differenza degli altri, di uno sguardo sulle cose, ma che ancora è privo della consapevolezza di sé, del proprio essere una entità ben definita e dal carattere fondamentalmente unitario. È a partire da questo stadio originario, da questa immagine iniziale che (IM) progressivamente viene costruita, mediante un progressivo perfezionamento condotto secondo due linee essenziali, quella empirica e quella categoriale, per comodità espositiva da Sellars distinte ma, come si vedrà, fittamente e dialetticamente intrecciate.

Sotto il profilo empirico, il raffinamento di (IO) consiste principalmente nell’acquisizione di meccanismi di inferenza e di correlazione induttiva tra gli elementi che costituiscono l’oggetto dell’esperire. Il molteplice dell’esperienza viene trattato mediante correlazioni ipotetico-induttive, e diventa così «conoscenza». L’osservazione ripetuta del susseguirsi di due fenomeni naturali (ad esempio il lampo e il tuono) viene induttivamente connessa e generalizzata nella formula (o legge) «il lampo precede sempre il tuono». Si istituiscono cioè relazioni tra le cose, tra i fenomeni, e se ne traggono indicazioni per la formulazione di leggi generali. Ed è così, cioè: anche così, che (IO) «diventa», progressivamente, (IM).

Si potrebbe qui osservare che (IM), così costruita, non sia altro che (IS), condividendo con quest’ultima i modi essenziali di organizzare il molteplice dell’esperienza. La qual cosa è in parte vera. Tuttavia, rispetto a (IS) il quadro dell’immagine manifesta appare privo di un altro requisito che, come si vedrà meglio più avanti, marca inequivocabilmente la differenza: la postulazione delle entità impercettibili. Mentre, all’interno di (IM), si producono spiegazioni dei fenomeni unicamente mediante una loro, reciproca, correlazione basata sui meccanismi dell’induzione, in (IS) alla correlazione inferenziale induttiva si aggiunge la postulazione di entità inosservabili quali fattori esplicativi dei fenomeni osservabili. Si può così dire che, mentre l’uomo comune spiega il visibile con il visibile, lo scienziato spiega il visibile mediante (la postulazione del) l’invisibile. Per questa ragione, (IS) può anche esser definita come «immagine postulazionale». Ma torniamo ad (IM) ed alla sua evoluzione sotto il profilo categoriale.27

Una premessa di ordine teorico generale, intanto. Un aspetto fondamentale di cui bisogna tener conto nella caratterizzazione di un paradigma (framework) concettuale è quello relativo alla natura degli oggetti in esso contenuti. Sapere quali sono le entità che stanno dentro la cornice, e quali quelle che cadono al di fuori è assolutamente necessario per poter definire la cornice stessa. Compare qui una forma di circolarità: si individuano gli oggetti a partire dal quadro che li contiene e, d’altra parte, si definisce il quadro a partire dagli oggetti. Non si tratta però di un circolo vizioso. Può apparire tale solo se non si tiene presente che ogni descrizione ontologica non deve mai essere intesa come una mera lista di oggetti ma, piuttosto, come una classificazione, vale a dire un ordinamento a partire da determinati principi e in vista di determinati scopi:

Now to ask, ‘what are basic object of a (given) framework?’ is to ask not to for a list, but a classification. And the classification will be more or less ‘abstract’ depending on what the purpose of the inquiry is. The philosopher is interested in a classification which is abstract enough to provide a synoptic view of the contents of the framework but which falls short of simply referring to them as objects or entities.28

Tracciare un quadro ontologico significa cogliere gli oggetti a partire da una serie di principi e di scopi ordinamentali. Da ciò si ricava che ogni classificazione è al tempo stesso una legiferazione. (A rigore però, neanche una «semplice» descrizione — quella che Sellars definisce, contrastivamente, «lista» — sfugge a questa dinamica, dato che una descrizione è sempre, e pur sempre, una descrizione in vista di un obiettivo prospettico. Una «descrizione neutrale» di una situazione è, ad esempio, una elencazione di oggetti, azioni, eventi in vista di uno scopo ben preciso: la neutralità. Pertanto, se questa linea è corretta, si può tra le altre cose concludere dicendo che l’ontologia — ogni ontologia — è sempre, in ogni caso e comunque prescrittiva).29 Ma c’è di più. Una classificazione, per raggiungere il suo scopo, deve essere astratta quanto basta, sufficiente cioè a cogliere e definire quegli elementi che, del paradigma considerato, costituiscono la struttura portante. È necessario individuare quegli elementi fondamentali (basic objects) che catturano il quadro che si intende delineare, gli oggetti-confine che ne costituiscono il «perimetro» ontologico. All’interno del quale si può poi continuare nella scoperta di elementi sempre nuovi, secondo una procedura di specificazione e di differenziazione potenzialmente infinite. È evidente però che prima di dissodare il terreno alla ricerca di sempre più piccole e sconosciute entità è necessario aver ben presenti i confini logici dentro cui effettuare il dissodamento.

Riprendiamo ora il nostro punto. Il problema di Sellars era quello di tracciare lo sviluppo da (IO) a (IM) sotto il profilo categoriale. Sellars inizia col delineare i tratti ontologico-categoriali di (IM) e, successivamente, mostra come questi tratti siano emersi a partire da (IO). Quali sono dunque gli elementi fondamentali di (IM), i suoi oggetti-confine, i suoi limites?

Thus we are approaching an answer to the question, ‘what are the basic objects of the manifest image?’ when we say that it includes persons, animals, lower forms of life and ‘merely material’ things, like rivers and stones. The list is not intended to be complete, although it is intended to echo the lower stage of ‘the great chain of being’ of the Platonic tradition.30

Le persone in primissimo luogo, poi gli animali, le altre forme viventi, e poi ancora le cose meramente materiali, come pietre e fiumi. Questi sono gli «oggetti» che costituiscono (IM), che ne disegnano la configurazione ontologica. All’interno di questi confini categoriali si può poi andare oltre, raffinando ulteriormente il livello descrittivo (ad esempio distinguendo i generi, e poi le diverse specie animali o vegetali, e poi ancora le varietà, e così via) in un processo che può svilupparsi infinitamente, sempre però all’interno dei confini tracciati. Si può proseguire in un’attività di differenziazione infinita sempre all’interno dello stesso campo, senza che così si produca un oltrepassamento dei confini categoriali. Laddove questo avvenisse, e ci trovassimo in un nuovo paradigma categoriale, è chiaro che l’attività di raffinamento e sofisticazione non sarebbe più la stessa, poiché verrebbe ad essere esercitata in un altro campo, all’interno di un diverso spazio logico-concettuale. Ciò è dovuto al fatto che, per tornare alla metafora poco sopra proposta, l’attività del dissodare è logicamente dipendente dalla determinazione dei confini del campo. Cioè: solo dopo aver delimitato i confini è possibile il dissodamento. Senza i limites esso è, a rigore, impensabile. D’altra parte, vista questa stretta dipendenza, è chiaro che al cambiare dei limiti esterni, cambia anche la natura della attività «interne», cosicché il dissodamento del campo, poniamo A, non è lo stesso di quello svolto in B. Il cambiamento del perimetro ontologico produce una sostanziale modificazione degli elementi interni, e il quadro che ne risulta è del tutto incommensurabile al precedente. Qualcosa di simile bisogna immaginare nel percorso evolutivo da (IO) ad (IM), un cambiamento delle categorie ontologiche di base. Ed è pure qualcosa di simile ciò che accadrà nel passaggio da (IM) ad (IS). Anche qui avremo, come dice Sellars, a change in category, un salto ontologico che determinerà una «immagine» del tutto nuova, radicalmente incommensurabile (sebbene non irrelata) alla precedente. Ma di questo si dirà in seguito.

Abbiamo visto come è costituita (IM), quali sono i suoi elementi caratterizzanti. Si tratta ora di capire cosa differenzia (IM) da (IO), quali sono le caratteristiche che, nel corso della sua evoluzione, essa ha acquisito sì da diventare un’immagine logicamente — categorialmente — diversa. Diventa opportuno, a questo punto, delineare i contorni di (IO). Sellars, come abbiamo visto, nel tracciare il quadro categoriale di (IM) pone in assoluto rilievo le persone. E le persone, sebbene in un senso (logico) diverso, sono pure il tratto dominante di (IO):

The first point I wish to make is that there is an important sense in which the primary objects of the manifest image are persons. And to understand how this is so, is to understand central and, indeed, crucial themes in the history of philosophy. Perhaps the best way to make the point is to refer back the construct which we called the ‘original’ image of man-in-the-world, and characterize it as a framework in which all the ‘objects’ are persons. From this point of view, the refinement of the ‘original’ image into the manifest image, is the gradual ‘de-personalization’ of the object other than persons. That something like this has occurred with the advance of civilization is a familiar fact.31

Nella sua ricostruzione, che è, e vuole essere, storica e al tempo stesso speculativa, Sellars ipotizza che nella dimensione logica del pensiero umano ai suoi albori, tutti gli oggetti del quadro categoriale fossero considerati alla stregua di persone. Il passaggio evolutivo che da (IO) porta ad (IM) viene da Sellars descritto come una progressiva «de-personalizzazione» di tutti quelle entità (alberi, foreste, fulmini, tuoni, vento, animali) che persone, nel senso che noi conferiamo al termine — noi che viviamo dentro l’immagine manifesta compiuta —, non sono. Questo mutamento, però, si presta facilmente al rischio di essere frainteso. Si è infatti spesso interpretato il passaggio da (IO) a (IM) come un cambiamento dello status delle credenze, senza badare al fatto che la trasformazione avvenuta è invece di natura categoriale. Le conseguenze di questo tipo di interpretazione hanno effetti di vasta portata, ineriscono, in ultima analisi, proprio al senso del rapporto tra (IM) e (IS), interpretato anch’esso come un’evoluzione del sistema credenze (per cui quella successiva smentisce la precedente). Così come, in termini di mero cambiamento di credenze, è stato interpretato, sbagliando, il salto da (IO) a (IM). Vediamo come e perché.

L’uomo del quadro originario non credeva che un albero di fronte a lui fosse una persona, nel senso che era sì un albero ma, insieme, nello stesso tempo, una persona — così come si potrebbe dire di un mattone che è il battente della porta. Se così davvero fosse accaduto, al momento dell’ abbandono del quadro primitivo di (IO), mentre il suo concetto di «albero» sarebbe rimasto invariato, le sue credenze relative agli alberi avrebbero subito una sostanziale modifica, visto che ad essi, da quel momento in poi, egli non avrebbe più pensato in termini di «albero-persona», ma soltanto di «albero». Come è possibile ciò? Come si sarebbe potuto determinare — si chiede Sellars — un cambiamento delle credenze sull’«albero» se il concetto di «albero» fosse rimasto invariato? Il fatto è che la modificazione della credenza viene logicamente dopo il cambiamento concettuale. Le credenze sugli «alberi», nel passaggio da (IO) ad (IM) sono cambiate. L’uomo di (IM) non crede più che l’albero possa essere «persona», un «oggetto» cioè capace di decisione e di azione. Lo pensa invece come «oggetto inanimato», in contrasto con le «persone», entità invece dotate di «anima», vale a dire, «esseri intelligenti». L’espressione «in contrasto» è molto importante, giacché costituisce il segno più evidente della nuova dimensione logico-inferenziale. Quello che Sellars vuole mostrare è che l’«albero» di (IM) è qualcosa di radicalmente (cioè: logicamente) diverso dall’«albero» di (IO). Non si può pensare che l’«albero» di (IM) sia il medesimo «albero» di (IO). Mentre di un mattone si può dire che è il battente della porta, ma che è anche, o può essere, un elemento del muro portante o un elemento qualsiasi di una costruzione, e tuttavia resta sempre definito, essenzialmente, come «mattone», lo stesso non vale per l’«albero». Il suo essere «persona» non è infatti dentro (IO) una caratteristica accidentale (com’è invece, per il mattone, essere il battente della porta), ma piuttosto un tratto sostanziale. Più esattamente, dice Sellars, all’interno di (IO) «essere albero» è un modo di essere persona, allo stesso modo in cui essere una donna è un modo di essere una persona o essere un triangolo è un modo di essere una figura piana. La «personalità» appare come tratto sostanziale, venendo meno il quale viene meno anche il concetto nella sua interezza. Ecco il motivo per cui interpretare il passaggio da (IO) ad (IM) in termini di mero cambiamento di credenza è un errore. Vi è una trasformazione che non va in alcun modo intesa nel senso della smentita di ciò in cui prima si credeva: una smentita difatti avviene, e può avvenire, solo all’interno dello stesso paradigma logico-categoriale. In questo caso, invece, a cambiare è l’intero paradigma. Si determina un nuova articolazione del sistema dei concetti, un modo inusitato di vedere il mondo, di «immaginarne» spazio e confini. La struttura logica del credere e del sapere ne esce radicalmente trasformata.

È appena il caso di far notare — osserva Sellars — che quest’opera di raffinamento e di evoluzione categoriale di (IO) — tramite la quale, da un lato, gli elementi naturali da «persone» diventano «oggetti» e, dall’altro, l’elemento umano diviene a pieno titolo persona proprio nel momento in cui si differenzia dal mondo degli elementi naturali interamente oggettivizzato — ha avuto uno sviluppo graduale. Il raggiungimento della configurazione stabile di (IM) è stato preceduto da stadi intermedi. Lo slittamento verso l’ultimo stadio si è realizzato con la definitiva depersonalizzazione degli oggetti della cornice originaria, ma prima di giungere alla consapevolezza della specificità delle «persone» in contrasto differenziale-oppositivo con tutte le altre entità si sono registrati graduali passaggi categoriali. Dentro il quadro originario tutte le entità vengono pensate come «persone». Ad esempio, l’enunciato «il vento ha buttato giù la casa», in questo quadro, è passibile di almeno due tipi di spiegazione; è possibile infatti che: o il vento si è comportato esattamente come una persona (ha cioè valutato, ponderato, e poi deciso) o ha agito senza pensare (per esempio per abitudine o impulso).32 Negli stadi immediatamente successivi ad (IO) si può osservare un leggero slittamento categoriale. Mentre, dentro (IO), si può interpretare l’azione del vento sia come effetto di deliberazione, sia come effetto di meccanismi irriflessi, ora il vento è sì ancora qualificabile come un agente ma non più come un deliberante. La sua azione (la distruzione di una casa) non è più spiegata come il frutto di un processo decisionale ma un gesto determinato da un impulso, da una spinta irriflessa, come quando un bambino ritrae la mano dopo aver toccato il fuoco, comportandosi così non come una persona a tutti gli effetti. Per tale ragione Sellars dice, giustamente, che nei primi stadi successivi ad (IO) la natura diventa il luogo delle «persone a metà» (truncated persons).33 Le «persone» come gli alberi, il vento, il tuono, la pioggia non sono più, come accadeva nella cornice originaria, delle persone complete, ma delle «persone a metà»; non più cioè «persone (potenzialmente) deliberanti» ma «persone meramente agenti». Questo passaggio, dalle «persone complete» alle «persone a metà» è anch’esso un cambiamento categoriale, poiché introduce già un importante livello di differenziazione tra l’azione delle persone in quanto tali e quelle del vento o di altri elementi del mondo naturale. (Si potrebbe già dire di quest’ultime, a mo’di esempio, che, essendo dettate da impulsi e non invece effetto di deliberazione, non hanno alcuna imputabilità morale: il vento, agendo sotto impulso, non è più responsabile delle conseguenze del suo agire). Lo scarto categoriale è dunque già molto netto. Nella transizione definitiva alla concezione matura, si determinerà il cambiamento categoriale più radicale: il vento — così come gli altri elementi naturali — sarà totalmente depersonalizzato. Non sarà più, in alcun modo, persona. Neanche «a metà». Mentre, d’altro canto, le persone — gli individui umani — diverranno pienamente «persone»

Un aspetto interessante di questa vicenda ricostruttiva è che lo sviluppo che da (IO) conduce ad (IM), così come Sellars lo delinea, può essere inoltre messo in relazione, anche se in modo sommario e solo a grandi linee, con la storia evolutiva del pensiero filosofico. È possibile tracciare un parallelo tra il percorso che porta alla formazione della cornice manifesta, nella sua versione definitiva, con alcune tra le principali tappe dello sviluppo della filosofia occidentale. Si tratta di un’operazione assai feconda, in special modo al fine di definire in modo corretto la costituzione di (IM) e, di conseguenza, l’articolarsi del suo rapporto con (IS) — che è poi l’obiettivo principale che (PSIM) cerca di perseguire.34

Uno dei compiti «eterni» della filosofia — di quella che Sellars qualifica come perennial philosophy — è stato quello di fornire una spiegazione della costituzione, nel soggetto pensante, delle idee in virtù delle quali il soggetto concepisce se stesso come una «persona-nel-mondo». In particolare, il compito è consistito nel cercare di ricostruire il ruolo che il mondo (naturale) esterno ha nella genesi e nella costituzione dei concetti dell’intelletto umano. Si prenda, come punto di partenza, il pensiero platonico. Secondo Platone, i concetti che costituiscono la base del nostro pensare vengono dal di fuori. Non stanno in origine dentro il soggetto ma piuttosto quest’ultimo li riceve, passivamente, da una fonte esterna, l’Essere Sovrasensibile,

a being — dice Sellars — which is analogous, to a greater or lesser degree, to a person.35

Con Aristotele si guadagna già una diversa prospettiva: l’uomo si può ancora considerare, per così dire, un ricettore interamente passivo degli imput provenienti dall’esterno — anche se dal mondo naturale e non dal mondo sovrasensibile delle Idee — ma affiorano, in questa concezione, elementi nuovi rispetto alla tradizione precedente. Vi è, in particolare, un incipiente, ma importante riconoscimento del ruolo della socialità. Aristotele delinea i tratti di un essere — l’uomo — che appare saldamente ancorato nella comunità costituita dai suoi simili. Questa conquista, però, viene ad essere limitata dal fatto che la teorizzazione della socialità-linguisticità-politicità come tratto distintivo dell’uomo è svolta all’interno di una ontologia interamente naturalistica. La fase aristotelica si può così pensare come un passaggio intermedio, dove la «persona» non ha ancora raggiunto il suo status autentico. La definizione dell’uomo come zóon politikón e, nel contempo, come zóon lógon échon, permette di cogliere nella dimensione della socialità e della linguisticità il tratto specifico dell’umano. Ma, nonostante ciò, l’elemento da cui dipende la costituzione di ogni aspetto dell’umano resta pur sempre la dimensione naturale. La descrizione aristotelica del mondo umano è pur sempre una descrizione di tipo naturalistico, e naturalistico è il modo di cogliere l’uomo — come peraltro attesta pienamente l’uso del sostantivo zóon: l’essere vivente, ciò che partecipa della vita.36 In Aristotele, il ruolo della natura nella determinazione non solo della componente fisica ma anche dello spazio linguistico e concettuale dell’umano è assolutamente decisivo. È la natura la dimensione metafisica ultima (o prima) che comprende e «spiega» l’umano, in tutte le sue forme e manifestazioni.37

Chi invece, a dire di Sellars, ha avuto il merito d’aver messo in luce il carattere integralmente sociale ed intersoggettivo del pensiero concettuale è Hegel. È, innanzitutto, la nozione, centralissima, del «riconoscimento» (Anerkennung) a determinare nella sua pienezza lo status ontologico della «persona». Solo allorquando gli individui si conoscono e si riconoscono reciprocamente acquisiscono la coscienza del loro essere, divenendo, ontologicamente, «persone». La transizione da «individuo» a «persona» implica il riconoscimento del carattere irrimediabilmente normativo delle interazioni umane, e consente così di rispondere, in modo determinato, alla domanda sull’origine del pensiero razionale:

Yet the essentially social character of conceptual thinking comes clearly to mind when we recognize that there is no thinking apart from common standards of correctness and relevance, which relate what I do think to what anyone ought to think. The contrast between ‘I’ and ‘anyone’ is essential to rational thought.38

Hegel, si potrebbe dire, riconduce la rete della normatività nella sfera delle relazioni umane, fornendo così un spiegazione del come gli individui si realizzano pienamente diventando «persone». Il mondo (naturale) esterno che in Aristotele costituisce la fonte della normatività, l’impianto categoriale dentro cui collocare ogni aspetto dell’agire umano, dalla politica alla poesia — si pensi alla giustificazione naturalistica della schiavitù o alla nozione di «catarsi» per spiegare gli effetti del teatro tragico, chiaramente derivata dalla medicina — passa in secondo piano, essendo ora il rapporto di reciprocità che gli individui istituiscono tra loro a costituire l’essenza del pensiero razionale. Sono le relazioni tra «persone» a determinare i doveri dell’agire, la correttezza o la pertinenza del pensare. È l’intersoggettività — l’inter-personalità — l’origine del pensiero concettuale. Si tratta di una acquisizione fondamentale, che Sellars non si lascia sfuggire, e che anzi assume e valorizza, facendone un elemento portante del suo discorso. Non è un caso, del resto, che l’influenza di Hegel, in (PSIM) ma soprattutto in (EPM), sia così marcata e, talora, persino apertamente rivendicata.39

Ad ogni modo, volendo individuare dei punti di contatto tra storia della filosofia (ma poi: è solo storia?) e sviluppo (IO) — (IM), si può affermare che il pensiero platonico e quello aristotelico rappresentano due fasi intermedie, successive alla cornice originaria, in cui i contorni delle «persone» non sono ancora pienamente definiti. Con Hegel si raggiunge la fase in cui la «persona» riceve la sua autentica caratterizzazione di entità ontologicamente relazionale e al tempo stesso unitaria. E, diremmo, unitaria perché relazionale, e relazionale perché unitaria. Si arriva, con l’autore della Fenomenologia, al compimento definitivo di (IM). Da qui l’interesse e l’apprezzamento di Sellars verso la filosofia hegeliana. E da qui anche inevitabilmente, in alcuni luoghi, la sua chiara dipendenza.40

C’è però un aspetto che va ulteriormente indagato, allo scopo di fornire una esatta caratterizzazione della cornice della immagine manifesta; un aspetto che inerisce proprio al peso e all’influenza che Hegel esercita nel pensiero di Sellars. È importante rilevare che Sellars, pur inoltrandosi coraggiosamente nel «mare aperto» hegeliano, denso di pericoli e carico di insidie, non stacca mai gli ormeggi dalla «terra ferma» kantiana. Fuor di metafora, quello che va detto è che l’hegelismo di Sellars è anche un hegelismo, per così dire, con riserva. Il fatto che Hegel, in maniera decisiva, abbia individuato nelle relazioni inter-personali l’ambito proprio della normatività e, di conseguenza, la dimensione da cui emerge il pensiero razionale, non deve però indurre a trascurare un altro aspetto importante. Il pensiero di Hegel rappresenta, come si sa, il vertice del soggettivismo dell’età moderna, il culmine e, possiamo dire, il compimento di quel paradigma. Ma anche però la sua assolutizzazione. La soggettività in Hegel viene infatti elevata al rango di una struttura — lo Spirito — che ha i tratti dell’assolutezza. Viene, in altri termini, totalizzata. Tutto — cioè: il Tutto — è pensato come ricadente interamente al suo interno. La natura, il mondo, la stessa storia, vengono ricondotti sotto la sua giurisdizione, intesi cioè come articolazioni e momenti dialettici del suo sviluppo. Si tratta di un processo che si sviluppa, certo, a partire da Kant, e che però va oltre Kant. Al centro di questo processo, la critica al concetto di «cosa in sé». Si può senza troppa difficoltà affermare che l’idealismo, in special modo quello hegeliano, pone le basi per l’«oltrepassamento del realismo»,41 vale a dire dell’idea che esista o possa esistere qualcosa (il mondo, la natura, l’essere) capace di vincolare, dall’esterno, il pensiero concettuale. In tal modo, l’attività del pensare non ha più alcun limite, è, per usare un’espressione di John McDowell, completamente frictionless, priva di qualsiasi attrito.42 Ed essendo tale, si avvolge autoreferenzialmente su se stessa, come un grosso serpente che si morde la coda — un serpente, non a caso, qualificato come «hegeliano».43 Sellars considera tutto questo uno spettro da fugare. In (EPM), ma soprattutto (PSIM) si adopera per preservare, all’interno di un contesto pragmatico-idealistico — e dunque hegeliano — un importante tratto kantiano: la nozione di indipendenza e di esternalità del mondo.44 Solo così è possibile ottenere una corretta caratterizzazione di (IM).

Difatti, se il pensiero razionale è il frutto delle relazioni normative tra i soggetti, cosicché gli standard intersoggettivi sono assimilabili alle regole di un gioco, e, come queste, vengono appresi proprio partecipando al gioco dell’interazione, è però anche vero che il «gioco» del pensiero razionale è un gioco sui generis. Contiene un elemento, diciamo così, speciale, che fa di esso non un gioco tra tanti, ma uno gioco centrale, dal quale tutti dipendono ed al quale tutti afferiscono:

It is current practice to compare the inter-subjective standards without which there would be no thinking, to the inter-subjective standards without which there would be no such a thing as a game; and the acquisition of a conceptual framework to learning to play a game. It is worth noting, however, that conceptual thinking is a unique game in two respect: (a) one cannot learn to play it by being told the rules; (b) whatever else conceptual thinking makes possible — and without it there is nothing characteristically human — it does so by virtue of containing a way of representing the world.45

In favore del punto a), l’impossibilità di poter imparare a «giocare» il gioco del pensiero concettuale in termini meramente astratti, militano ragioni teoriche molto forti. Sellars è, lo abbiamo visto, un tenace assertore di una concezione social-pragmatica dell’apprendimento linguistico (e concettuale). Analogamente a Wittgenstein, Sellars è convinto che imparare il gioco linguistico del pensiero concettuale non è come imparare le regole di un qualsiasi altro gioco. Si può giocare a scacchi o a tennis una volta conosciute le regole, nel senso che si possono eseguire mosse corrette sia nell’uno che nell’altro caso semplicemente attenendosi a ciò che le regole prescrivono. Naturalmente, se non si ha la dovuta esperienza, i risultati non saranno eccellenti. Ma ciò non inficia il punto: in questione è qui il seguire correttamente una regola, non l’abilità nel seguirla. Vi possono essere, e di fatto vi sono, diversi giocatori di scacchi: alcuni pessimi, altri mediocri, altri discreti, altri ancora ottimi. Tutti però, anche se con diversi livelli di abilità, seguono le stesse regole, dopo averle mentalmente — proceduralmente — acquisite. Basta imparare a memoria la sequenza delle regole, ripeterla nella mente prima di eseguire la mossa, e poi eseguire la mossa. Lo stesso non può accadere con l’apprendimento del linguaggio naturale, mediante il quale apprendiamo a costruire i concetti. Qui non possiamo avere una situazione come quella del gioco degli scacchi o di qualsiasi altro gioco dove, essendo già dotati di una struttura concettuale, apprendiamo delle regole formulate in una lingua che esprime e si esprime mediante la stessa struttura concettuale che noi già possediamo, vale a dire la nostra stessa lingua (noi italiani ad esempio impariamo le regole del gioco degli scacchi leggendole su un manuale scritto in lingua italiana, un tedesco le leggerà in tedesco, un francese in francese e così via). La situazione del linguaggio ordinario è assolutamente diversa, poiché, in questo caso, apprendere il linguaggio equivale ad apprendere i concetti e, viceversa, apprendere i concetti equivale ad apprendere il linguaggio. Non c’è un prima e un dopo, i due eventi sono coessenziali. Immersi nella forma di vita dentro cui veniamo allevati, imparando a parlare, impariamo a pensare.46

Il punto b) si riferisce al tratto più peculiare del pensiero concettuale. La tesi di Sellars è netta: senza quella che possiamo chiamare la «proprietà rappresentazionale» non ci può essere pensiero concettuale. Non ci può essere cioè pensiero umano. Il pensiero è, essenzialmente, un modo di rappresentare il mondo, di porre di fronte a sé gli oggetti sì da poterli riconoscere reciprocamente come entità esterne, altre, indipendenti dall’attività stessa del rappresentare.47 «Rappresentare» significa mostrare che c’è qualcosa che sta fuori dalle nostre menti. E questo qualcosa è, naturalmente, il mondo, ma, congiuntamente ad esso, sono gli stessi soggetti, gli «altri» che, insieme a «noi», formano una comunità di comunicanti, una società di inter-agenti:

A group isn’t a group in the relevant sense unless it consist of a number of individuals each of which thinks of himself as ’I’ in contrast to ’others’. Thus a group exist in the way in which members of the group represent themselves. Conceptual thinking is not by accident that which is communicated to others, any more than the decision to move a chess piece is by accident that which finds an expression in a move on a board between two people.48

La nozione di rappresentazione costituisce il fulcro del pensiero concettuale. È la sua radice profonda. Il soggetto diventa consapevole di essere una entità unitaria quando è in grado di pensare se stesso in relazione-opposizione agli altri individui e agli elementi del mondo, segmentando così il continuum indistinto dell’esperienza. Allorché l’uomo riesce a «vedere» se stesso, «vede» anche gli altri. Ugualmente, «vedendo» gli altri fa luce su se stesso così come sul mondo che gli sta intorno. A ragion (ben) veduta dunque Sellars può dire che la caratteristica essenziale, e al tempo stesso peculiare, di una comunità umana consiste nel fatto che i suoi membri sono delle «entità» da cui emerge un linguaggio-pensiero di tipo rappresentazionale, che li rende capaci di rappresentare se stessi, gli altri e, insieme, il mondo circostante.49 L’inestricabile interdipendenza tra mondo della natura, mondo psichico-interiore e mondo sociale-intersoggettivo va rintracciata a livello del linguaggio. Il vocabolario che usiamo per parlare di noi stessi non ha infatti un carattere speciale, sui generis, ma ha la stessa natura di quello che ci serve per descrivere tutto ciò che si dà esternamente alla nostra prospettiva visuale. Il linguaggio — anche quello personale-introspettivo — è cioè sempre pubblico. Ontologicamente pubblico. E lo è perché di natura rappresentazionale, perché rappresenta sempre — e dunque: si riferisce a — qualcosa: idee, oggetti, fatti, situazioni, stati mentali. Su ciò si fonda la possibilità della comunicazione, dello scambio reciproco di contenuti tra i membri della comunità.

Sulla base di queste osservazioni, articolate per la verità in modo fin troppo succinto, si può arrivare a comprendere perché quello del «mondo esterno» è, a ben vedere, un problema apparente. Negarne l’esistenza significa cadere vittima di una di quelle pericolose trappole filosofiche da cui pensatori come Wittgenstein e Sellars vogliono tenerci a distanza. Il mondo «c’è», e la sua esistenza va cercata e trovata nella grammatica: esso va inteso come elemento depositato nella struttura logica del nostro linguaggio. Che contiene anche, certo, le possibilità della negazione — del mondo, delle altre menti o del carattere pubblico del linguaggio stesso —, ma che però possiede anche i mezzi per mostrare che questi tentativi sono in realtà l’esito della posizione di pseudo-problemi, l’effetto dell’insorgenza di crampi mentali, le conseguenze, non prive di esiti potenzialmente rovinosi, della caduta in grossolani errori di grammatica logica.50

Il «mondo» esiste. Le «altre menti» esistono. E forse, dopo tutto, è meglio che sia così. Anche perché «perdere felicemente il mondo» — come non esiterebbe a fare un hegeliano di stretta osservanza — potrebbe non essere un buon affare. Potrebbe significare, in ultima analisi, perdere se stessi.51

2.3. La costruzione logica dell’immagine scientifica dell’uomo

Nell’elaborazione dell’immagine scientifica complessiva dell’uomo Sellars mette pienamente a frutto il suo il suo ingegno speculativo. Com’è stato notato, si tratta di una suggestiva costruzione, un vero e proprio Gedankenexperiment — purtroppo, come vedremo, generalmente frainteso.52 Il procedimento ha una complessa struttura anulare, comincia da un punto, se ne allontana, per poi ritornarvi, realizzando così una chiusura logicamente compatta: dalla fisica alla fisiologia, passando per la biochimica; e dalla fisiologia, attraverso il comportamentismo, di nuovo alla fisica. Il percorso è ricco di spunti e di invenzioni teoriche. Vale perciò la pena di seguirlo passo per passo.

Non appena si mette mano al compito di delineare un’immagine scientifica dell’uomo ci si rende subito conto che, in realtà, di immagine ve n’è più d’una. Non esiste un’immagine scientifica unitaria dell’uomo, ma vi sono tante «immagini» quante sono le discipline scientifiche che più o meno direttamente trattano come oggetto di studio l’essere umano. Così, si avrà l’immagine fisica dell’uomo, poi quella biochimica, quella fisiologica, quella sociologica e, infine, quella psicologica. Ciascuna di queste discipline fornisce una quantità di informazioni, propone spiegazioni, formula previsioni, e tutto questo elaborando un sistema teorico edificato su alcuni principi generali, messo continuamente alla prova dei fatti mediante specifici strumenti di indagine, per essere confermato o eventualmente smentito. Il problema che Sellars si trova ad affrontare riguarda innanzitutto la possibilità di ottenere una immagine scientifica unitaria a partire dalla varietà delle scienze che si occupano dell’uomo.

Il punto di partenza di Sellars è la fisica. Essa è, ontologicamente, la scienza vera, quella che fornisce la risposta alla domanda sulla struttura dei costituenti ultimi del mondo. La fisica è scienza «elementare», cioè la scienza degli elementi di base, dei «mattoni» che costituiscono la materia, vivente e non. Accanto alla fisica, tra le scienze che più riguardano l’essere umano, vi è la biochimica. Il primo passo nella costruzione dell’«immagine scientifica» consisterà allora nella integrazione di fisica e biochimica.

Si comincia, innanzitutto, con lo stabilire una relazione di corrispondenza tra gli oggetti della biochimica con quelli della fisica, per far sì che le entità teoriche dell’una siano riconducibili a quelle dell’altra. Attraverso opportune procedure di riduzione si giunge a «identificare» i composti biochimici con entità fisiche: un composto biochimico è, da un altro punto d’osservazione, pur sempre un aggregato di particelle fisiche. Questo tipo di collegamento tra le due discipline permette di realizzare un’integrazione dentro un nuovo, unico, quadro teorico:

to make this ‘identification’is simply to say that the two theoretical structures, each whit its own connections to the perceptible world, could be replaced by one theoretical framework connected at two levels of complexity via different instruments and procedures to the word as perceived.53

Dentro la nuova cornice teorica sussistono così due diversi sottosistemi teorici, ognuno coi propri principi e con le proprie leggi, collegati e «identificabili» tra loro attraverso enunciati di riduzione. Si ottiene un quadro teorico unitario che è fisico per ciò che riguarda il livello-base di rappresentazione del mondo, ed è invece biochimico per quanto attiene ad un differente livello di complessità. Da un punto di vista ontologico, abbiamo a che fare con particelle subatomiche; il loro organizzarsi è, ad un primo livello, spiegato dalle leggi della fisica, ad un secondo livello da quelle della biochimica.54

Un discorso analogo vale per il rapporto biochimica-fisiologia. Anche qui è possibile ottenere un’immagine unitaria applicando lo stesso procedimento di riduzione, riconducendo le entità postulate dalla fisiologia (in particolare dalla neurofisiologia) a quelle della biochimica. Alcune difficoltà si presentano invece nel tentativo di inserire la componente più «scientifica» della psicologia, il comportamentismo, dentro il quadro fisico-biochimico-fisiologico così costruito. Il problema, essenzialmente, risiede nel significato del termine «comportamentismo», dato che vi sono per lo meno due modi di intenderlo: uno di essi è compatibile con il quadro fisico, l’altro no.

Il comportamentismo nel primo senso non è logicamente integrabile con (IS). Esso rappresenta in realtà una sofisticazione degli aspetti correlazionali di (IM). Come si ricorderà Sellars, nel caratterizzare (IM) in rapporto a (IS) aveva individuato una precisa discriminante, l’osservabilità delle entità mediante cui fornire una spiegazione dei fenomeni. Mentre nel quadro di (IM) ciò accade attraverso l’applicazione di meccanismi induttivi e di «correlazione» tra le entità osservabili, dentro (IS), in aggiunta, si postula l’esistenza di oggetti inosservabili. E non è una differenza da poco.

Il comportamentismo nel primo senso ricade interamente all’interno di (IM), perché tenta di spiegare i fenomeni psicologici in termini di comportamenti o disposizioni comportamentali, assumendo come data la terminologia mentalistica del senso comune. Tutti i termini del discorso mentalistico, piuttosto che riferirsi ad entità psichiche reali, vengono intesi come denotanti comportamenti o disposizioni al comportamento. È, potremmo dire, una teoria semantica verificazionista degli stati mentali: ad ogni termine mentalistico corrisponde una particolare disposizione.55 I concetti psicologici vengono assunti così come si manifestano nel discorso degli stati mentali e, successivamente, ricondotti ad evidenze intersoggettivamente osservabili:

It has no anxieties about the concept of sensations, image, feeling, conscious or unconscious thought, all of which belong to the manifest framework; but requires that the occurrence of a feeling of pain, for example, be asserted only on behaviour grounds.56

I termini mentalistici ordinari — «sensazione», «sentimento», «piacere», «dolore» — sono messi in relazione a fatti fisicamente osservabili, i comportamenti.

Chiaramente, dice Sellars,

Behaviourism, thus construed, is simply good sense. It is no necessary to redefine the language of mental events in terms of behavioural criteria in order for it to be true that observable behaviour provides evidence for mental events. And, of course, even in the common sense world, even in the manifest image, perceptible behaviour is the only intersubjective evidence for mental events.57

Questa prospettiva, dato che non implica una messa in discussione, a monte, del linguaggio mentalistico, non consente di spingersi molto oltre il semplice buon senso (comune), dove risulta plausibile pensare che un evento mentale può avere piena evidenza solo mediante l’osservazione di un comportamento manifesto. Inoltre, una simile impostazione non preclude nemmeno la possibilità di prestare attenzione persino ai resoconti autobiografici degli individui, per il semplice fatto che fare uso di simili resoconti come strumenti per comprendere ciò che una persona pensa o sente, non significa, ipso facto, approvarli, cioè impegnarsi sulla loro attendibilità e dunque, in ultimo, sull’esistenza di più o meno misteriose entità introspettive cui essi dovrebbero riferirsi. La qual cosa, com’è noto, accade anche dentro la cornice manifesta:

If a person says, ‘I am in state ψ’, it is reasonable to believe that he is in the state ψ; the probability ranging from almost certainty in the case of, ‘I have a toothache’, to considerably less than certainty in the case of ‘I don’t hate my brother’. The discounting of verbal and non-verbal behaviour as evidence is not limited to professional psychologist.58

Non occorre essere psicologi di professione per valutare l’attendibilità di un resoconto autobiografico. Anche l’uomo comune, nella vita di tutti i giorni, lo fa. Si può certo tentare, di volta in volta, e a seconda dei casi e dei contesti in cui tali resoconti vengono proferiti, di precisare il grado di attendibilità da assegnare a ciascuno di essi, ad esempio attraverso una rigorosa procedura di riduzione a disposizioni comportamentali. Ma, anche in tal caso, non si giunge ad una situazione in cui il linguaggio degli eventi mentali che accadono dentro la cornice manifesta si trova ad essere semanticamente ridefinito. Lo psicologo comportamentista, in definitiva, non mostra alcun tratto peculiare aggiuntivo. È, semplicemente, un uomo comune «sofisticato». Assume come dato il linguaggio mentalistico. E sviluppa una «scienza» che altro non è se non un tentativo di portare a rigore la tendenza, già presente all’interno della cornice manifesta, a ri(con)durre i concetti mentalistici a basi comportamentali intersoggettivamente osservabili.

Il comportamentismo, nel senso, postulazionale, dell’immagine scientifica, è cosa diversa:

Behaviourism in a second sense not only restricts its evidential base to publicly observable behaviour, but conceives of its task as that of finding correlations between constructs which it introduces and defines in terms of publicly accessible features of the organism and its environment.59

La differenza essenziale, rispetto alla prima forma, è che in questo caso alcuni termini (ad esempio, quelli mentalistici) vengono concepiti come costrutti teorici introdotti o postulati — e dunque non direttamente, e preliminarmente, osservabili —, in maniera del tutto analoga a quanto accade nelle teorie scientifiche. Il vocabolario di base può ad esempio essere costituito da termini come «ambiente», «stimolo», «risposta», «azione», «successo», «insuccesso», «condizioni standard», «processo interno». A correlare questi termini una concezione del loro rapporto in termini probabilistici, le «iffy properties». Cioè: date una serie di condizioni iniziali, le possibilità previsionali del comportamento, poniamo, di un animale sono sempre di natura probabilistica, condizionate da una serie di fattori. Le difficoltà aumentano allorquando si prende in considerazione il comportamento umano. Qui le «iffy properties» incorporano un numero più consistente di variabili, che rendono così assai più faticosa l’elaborazione di schemi previsionali. Per poter abbozzare uno schema di come un soggetto, in certe condizioni, e sotto l’impulso di certi stimoli, può comportarsi, abbiamo bisogno di assumere un numero abbastanza elevato di informazioni, allo scopo di potere così avere sufficientemente sotto controllo le variabili relative. È importante osservare inoltre come questa concezione non escluda la possibilità di ipotizzare che ogni comportamento sia corrispondente a, o provenga da, un processo interno al soggetto, il quale può trovare a sua volta, e di volta in volta, espressione in comportamenti verbali manifesti. Ciò può persino tornare utile, a patto però di non commettere l’errore di immaginare questi «stati interni» come costruiti, sin dall’inizio, su basi neurofisiologiche. Gli «stati interni», cui il comportamentismo di più marcata ispirazione verificazionista aveva tentato di negare la benché minima dignità ontologica, vengono così «recuperati» e concepiti come «oggetti postulazionali», che svolgono un essenziale ruolo funzionale-esplicativo all’interno di una teoria scientifica comportamentistica. La quale, proprio in virtù del suo carattere postulazionale — cioè grazie al fatto che, come le altre scienze postula, a livello teorico, entità inosservabili —, si presta ad essere logicamente integrata con la fisiologia in un modo pressoché analogo a quello in cui la fisiologia lo è con la biochimica, e la biochimica, a sua volta, con la fisica. Essa, semplicemente, individua un livello descrittivo diverso da quello della fisiologia, un livello che si può ben definire a larga scala.

L’«incastro» delle diverse immagini scientifiche — Sellars parla proprio della necessità di «telescoping some of the ‘partial’ images into one image»60 — funziona allora pressappoco così. I comportamenti sono descritti da variabili di larga scala. Ad ogni comportamento corrisponde, scendendo di livello, un ben preciso stato fisiologico. Lo stato fisiologico è però anche uno stato biochimico che, in ultimo, è uno stato fisico. Il passaggio da un livello all’altro è un passaggio logico di scala, dal macroscopico al microscopico. Inoltre, e infine, resta comunque il fatto che lo strato ontologico di base, che regge l’intera impalcatura del sistema, è costituito dalla fisica. Da lì tutto comincia, lì tutto finisce.

3. L’immagine scientifica. Il suo spazio, i suoi confini

Già in (EPM) Sellars aveva delineato una forma di comportamentismo — da lui definito «comportamentismo metodologico» — che chiaramente presenta una fisionomia molto simile alla forma postulazionale presentata in (PSIM).61 Anche lì i termini mentalistici venivano infatti introdotti come entità teoriche, così come accade per le entità introdotte dalle teorie scientifiche. E si era posto anche il problema della integrabilità di questa variante del comportamentismo all’interno della scienza naturale, prefigurando così l’esperimento mentale cha sarà poi compiutamente delineato in (PSIM):

It is essential to note that the theoretical terms of a behavioristic psychology are not only not defined in terms of overt behavior, they are also not defined in terms of nerves, synapses, neural impulses, etc., etc. A behavioristic theory of behavior is not, as such, a physiological explanation of behavior. The ability of a framework of theoretical concepts and propositions successfully to explain behavioral phenomena is logically independent of the identification of these theoretical concepts with concepts of neurophysiology. What is true — and this is a logical point — is that each special science dealing with some aspect of the human organism operates within the frame of a certain regulative ideal, the ideal of a coherent system in which the achievements of each have an intelligible place. Thus, it is part of the Behaviorist’s business to keep an eye on the total picture of the human organism which is beginning to emerge. And if the tendency to premature identification is held in check, there may be considerable heuristic value in speculative attempts at integration; though, until recently, at least, neurophysiological speculations in behavior theory have not been particularly fruitful. And while it is, I suppose, noncontroversial that when the total scientific picture of man and his behavior is in, it will involve some identification of concepts in behavior theory with concepts pertaining to the functioning of anatomical structures, it should not be assumed that behavior theory is committed ab initio to a physiological identification of all its concepts, — that its concepts are, so to speak, physiological from the start.62

Dal punto di vista di una certa «logica» della scienza si può ipotizzare una integrazione «finale» tra le diverse scienze che si occupano dell’uomo, sì che, allorquando tale integrazione sarà completata, si può pensare di ottenere una immagine scientifica complessiva. Sebbene dunque, in origine, la teoria comportamentistica non sia correlata alla fisiologia o alla neurologia — e non può esserlo; ostano, fa notare Sellars, delle ragioni essenzialmente logiche — è tuttavia possibile che si giunga ad una situazione in cui almeno qualche concetto comportamentistico potrà essere identificato con una nozione anatomo-neurofisiologica. Nulla esclude in linea di principio che ciò possa accadere, e che anzi le diverse scienze specialistiche che si occupano dell’uomo possano raggiungere un sufficiente grado di integrazione.

Orbene, il discorso che Sellars svolge in (PSIM) — in particolare nelle sezioni finali — si può considerare uno sviluppo di questa specifica problematica aperta in (EPM). A pochi anni di distanza dalla pubblicazione di (EPM) Sellars ritorna su questo tema, centralissimo all’interno della sua prospettiva, per meglio metterlo a fuoco. Ne sviluppa nessi e implicazioni, che alla fine lo conducono a tematizzare esplicitamente il problema del rapporto tra le due «immagini», quella scientifica e quella manifesta, vale a dire, tra scienza e senso comune; problema che peraltro, e non è un caso, scorre carsicamente, per apparire qua e là, sotto la crosta di (EPM).63

Sellars cerca di abbozzare una immagine scientifica complessiva dell’umano, provando a connettere speculativamente i diversi domini teorici delle singole scienze. Ma il suo scopo, ora pienamente esplicitato, non è quello di offrire una possibile modellizzazione unificante delle discipline scientifiche che si occupano dell’uomo, magari riattualizzando così, in qualche modo, l’ideale neopositivistico dell’unità della scienza. La costruzione logica dell’immagine scientifica dell’uomo in (PSIM) va piuttosto considerata, come ha giustamente notato Habermas, un Gedankenxperiment, un percorso ipotetico-speculativo elaborato principalmente con l’intento di fare emergere, della struttura costruita, i limiti intrinseci. Generalmente il senso di questo esperimento di pensiero è stato — e lo è anche tuttora — frainteso. Il lavoro di Sellars è stato per lo più letto come un tentativo di delineare un programma di naturalizzazione. Osserva giustamente Habermas che alcuni allievi di Sellars (tra cui Paul Churchland)

hanno del tutto frainteso la natura aporetica dell’esperimento mentale del loro maestro, facendone un programma di ricerca.64

Il punto è in verità un altro. Fare di Sellars uno scientista naturalizzatore à la Quine è un chiaro travisamento interpretativo. L’indiscutibile affermazione della centralità del sapere scientifico non ha, in Sellars, alcuna implicazione naturalizzante. L’obiettivo di un lavoro come (PSIM), in cui questi problemi vengono esplicitamente tematizzati, non è, come si è spesso stati inclini a pensare, quello di «naturalizzare» l’umano ma, al contrario, quello di mostrare i limiti insuperabili di ogni tentativo di questo genere. In altri termini, quello di delimitare lo spazio dell’immagine scientifica tracciandone, in modo visibile, i confini.

L’argomento funziona pressappoco così: se anche fosse possibile costruire un’immagine scientifica integrata e completa dell’uomo — e Sellars, in via ipotetica, prova a farlo — resterebbe sempre e comunque al di fuori di questa cornice qualcosa di molto importante. Le persone e il loro mondo vitale resterebbero fuori, e resterebbe fuori, soprattutto, la loro dimensione morale. Si potrebbe anche tentare di ricostruire, con categorie scientifiche, la struttura del mondo abitato da persone, vale a dire da agenti responsabili, che effettuano scelte tra diverse alternative possibili, e che sovente si trovano in conflitto con norme che ostacolano i loro impulsi e i loro desideri. Ma, osserva Sellars,

even if the proposed reconstruction could meet what might be called the ‘free will’ objection, it fails decisively on another count. For it can, I believe, be conclusively shown that such a reconstruction is in principle impossible, the impossibility in question being a strictly logical one. […] To say that a certain person desired to do A, thought it his duty to do B but was forced to do C, is not to describe him as one might describe a scientific specimen. One does, indeed, describe him, but one does something more. And it is this something more which is the irreducible core of the framework of persons. In what does this something more consist? First, a relatively superficial point which will guide the way. To think of a featherless biped as a person is to think of it as a being with which one is bound up in a network of rights and duties. From this point of view, the irreducibility of the personal is the irreducibility of the ‘ought’ to the ‘is’. But even more basic than this (thought ultimately, as we shall see, the two points coincide), is the fact that to think of a featherless biped as a person is to construe its behaviour in terms of actual or potential membership in an embracing group each member of which think of itself as a member of the group.65

La dimensione morale dell’umano appartiene ad un registro logico distinto da quello della conoscenza scientifica. Se anche una ricostruzione scientifica accurata riuscisse a far fronte alla obiezione della libera volontà del soggetto — l’uomo agisce liberamente, a differenza del resto del mondo animale — fallirebbe però sotto un altro aspetto. Pensare ad un bipede implume come ad una persona significa infatti almeno due cose essenziali. Primo, che essere persona vuol dire essere un ente definito a partire da una rete di diritti e doveri. Secondo, vuol dire ricostruire i suoi comportamenti nei termini di appartenenza ad un gruppo speciale, dove ciascun membro pensa a se stesso come membro dello stesso gruppo. In termini più espliciti, dove ciascun membro, per effetto della relazione con gli altri, sa chi è, è dotato cioè di autocoscienza. La consapevolezza di essere immerso in una rete normativa di relazioni con altri esseri che abitano lo stesso mondo storico determina il sapere della propria finitezza — l’animale muore, ma solo l’uomo è «mortale», cioè: sa di dover morire —, e fonda così l’insormontabile differenza logica (e ontologica) tra l’uomo e gli altri esseri. Ciò che si osserva a livello della moralità ha qui la sua radice profonda. Si potrebbe persino giungere ad affermare che l’uomo è morale proprio perché è mortale, la mortalità e la finitezza essendo l’origine dell’etica, di quella dimensione che, in maniera visibile, differenzia l’uomo dall’animale, la persona dal resto dei viventi. E che segna dunque i confini dell’immagine scientifica. Il bene e il male, il giusto e l’ingiusto — ma anche il vero e il falso — sono propri solo dell’uomo. Pertanto, così come interpretare l’azione di un leone che dilania una gazzella in termini di categorie morali è privo di senso (non possiamo dire «il leone è cattivo»: il leone è solo il leone; fa, diciamo, il suo mestiere), allo stesso modo, e rovesciando le parti, una descrizione naturalistica dei comportamenti morali umani non ha alcun significato. Essa si arresterebbe, per così dire, al di qua del bene e del male.66

Ora, l’impossibilità di far rientrare all’interno di una descrizione scientifica la dimensione morale delle relazioni umane — quelli che Sellars chiama «the fundamental principles of a community, which define what is ‘correct’ or ‘incorrect, ‘right’ or ‘wrong’, ‘done’ or ‘not done’»67 — deve indurci a riflettere. Giustamente, commentando il senso dell’esperimento mentale di Sellars, Habermas conclude:

L’intento di modernizzare scientificamente la nostra psicologia quotidiana ha portato addirittura al tentativo di costruire una semantica volta a spiegare biologicamente i contenuti del pensiero. Ma anche queste, che sono le punte più avanzate di quel pensiero, sembrano fallire in quanto il concetto di funzionalità (Zweckmässigkeit) — che noi aggiungiamo al gioco linguistico darwinistico di mutazione e adattamento, selezione e sopravvivenza — si rivela troppo povero per riuscire a marcare quella differenza tra «essere» e «dover essere» cui vogliamo alludere quando violiamo una legge (quando usiamo un verbo sbagliato o ci scontriamo con un imperativo morale). Quando descriviamo come una persona ha fatto una certa cosa che non voleva fare (o che non avrebbe dovuto fare), noi descriviamo certo quella persona — ma appunto non come un oggetto delle scienze naturali. In queste descrizioni, infatti, rientrano tacitamente momenti dell’autocomprensione prescientifica che è tipica di soggetti capaci di azione e linguaggio.68

L’intento di Sellars, che l’esegesi di Habermas ha il merito di esplicitare, è quello di far rilevare che, non appena il discorso dall’uomo come ente naturale si sposta sull’uomo come «persona» — il cui tratto essenziale è la capacità di azione morale, di agire «bene» o «male», in modo «giusto» o «ingiusto», «correttamente» o «scorrettamente» — si transita in una dimensione logica radicalmente diversa, si passa inavvertitamente e inevitabilmente, come nota con precisione Habermas, dalla «prospettiva dell’osservatore» alla «prospettiva del partecipante».69 Ci si trova subito immersi in un diverso spazio logico, più originario se si vuole. Si continua, certo, in qualche modo a «descrivere», ma non più come accade nella conoscenza oggettivante-impersonale della scienza naturale. La descrizione in questo caso incorpora tacitamente la struttura delle relazioni inter-personali, la dinamica dei rapporti tra «entità» la cui qualità essenziale consiste nell’essere sorgenti di moralità, centri di irradiazione di normatività diffusa. La rete delle relazioni umane è fittamente intessuta di fili normativi. La forbice naturalistica è lo strumento meno adatto a dipanarne le trame.

4. The synoptic view. La scienza, le immagini del mondo e il compito infinito della filosofia

L’impossibilità di trattare la persona, coi suoi attributi morali, nei termini descrittivi della conoscenza scientifica — la quaestio iuris di cui si è detto — è, come si è visto, strettamente connessa alla questione del rapporto-conflitto (IM) — (IS), la cui origine, grosso modo, si può far risalire alla comparsa della fisica newtoniana. La nascita della scienza moderna determina un enorme sconvolgimento. Per la prima volta si presenta, nella storia dell’uomo, la concreta possibilità dell’esistenza di un mondo radicalmente diverso da quello in cui gli esseri umani si trovano abitualmente a vivere. Si tratta di una dolorosa scissione, che ha subito assunto la forma di un conflitto, un vero e proprio scontro (clash):

Vi è tuttavia qualcosa di cui Newton — e non solo Newton, ma la scienza moderna in generale — può ancora essere ritenuto responsabile: l’aver spaccato il mondo in due. Ho già detto che la scienza moderna abbatté le barriere che separavano cielo e terra unificando l’universo. E questo è vero. Ma essa realizzò tale unificazione sostituendo al nostro mondo delle qualità e delle percezioni sensibili, il mondo che è il teatro della nostra vita, delle nostre passioni e della nostra morte, un altro mondo, il mondo della quantità, della geometria reificata, nel quale, sebbene vi sia posto per ogni cosa, non vi è posto per l’uomo.70

Secondo questa efficace e al tempo stesso drammatica caratterizzazione di Alexandre Koyré, la scienza pone le basi per lo spodestamento dell’uomo, gli toglie la signoria sugli altri esseri e lo caccia fuori dal mondo. In questo scontro, la vita dell’uomo, con tutto ciò che la contraddistingue, viene messa fortemente in questione, e la visione scientifica tende a soppiantare interamente quella che comunemente l’uomo ha di sé e del mondo. Al «mondo del pressappoco», il mondo genericamente definito, visto a occhio nudo, si affianca l’universo, invisibile e sofisticato, «della precisione».71 I sensi, sino a quel punto preziosi veicoli di conoscenza, cedono il posto agli strumenti. In un certo senso, si potrebbe persino dire che il nuovo universo che la scienza dispiega è, nel senso letterale, metafisico, dato che le entità che lo costituiscono non sono più percepibili direttamente mediante i sensi: ciò che appare, spesso non è, e ciò che è non appare. Dunque, stanno al di là del visibile.

Si pensi all’affermazione dell’eliocentrismo. La tesi eliocentrica, chiaramente, confligge con il senso comune. Il sole sembra muoversi, la terra sembra immobile. Ma, in realtà, accade il contrario. La filosofia deve fare i conti con questo nuovo universo. Fedele alla sua tradizionale vocazione di indagine sul tutto, di sguardo sul tutto — The eye on the whole, nelle parole di Sellars —, assume la sfida che proviene dalla scienza. Se fino ad allora, fino all’imporsi della nuova scienza, le immagini scientifiche erano state perfettamente integrabili con quelle del senso comune, anzi si potrebbe persino dire che le immagini scientifiche erano le immagini del senso comune (Aristotele, quando fa fisica, ragiona dentro la cornice dell’immagine manifesta), ora l’imporsi della scienza moderna produce effetti altamente problematici.72 La conoscenza scientifica procede secondo un percorso tutto suo, che appare del tutto indipendente dalla dimensione del mondo manifesto, ed il cui esito è quello di produrre immagini dall’effetto estremamente perturbante sul mondo-della-vita. L’uomo sente di essere progressivamente spodestato dal mondo, relegato in zone sempre più marginali. La sua centralità è fortemente intaccata.

La filosofia — quella moderna, ma anche quella dell’epoca contemporanea — ha assunto fondamentalmente due posizioni rispetto a questa sfida: assegnare priorità alla scienza, e alle sue immagini, riducendo sempre più lo spazio della dimensione manifesta, sino ad eliminarla del tutto o, al contrario, mettere in primo piano il senso comune e in posizione subordinata, e degradata, il sapere scientifico.73

La tesi di Sellars è che entrambe le linee sono da rifiutare. Entrambe si fondano su un fraintendimento, quello di interpretare come conflitto ciò che invece è una differenza di livello logico — con le sue parole: a change in category. (IM) e (IS) non possono logicamente confliggere perché differenti stadi logici di una stessa linea evolutiva, di cui (IS) rappresenta uno sviluppo (storico, teorico) più recente. (IS), per così dire, non può «impattare» direttamente su (IM). Il suo piano logico è estraneo alla dimensione inferenziale del senso comune. L’argomento ha, se si vuole, un che di terapeutico. Serve a mostrare l’illusorietà e soprattutto l’infondatezza della sfida che la scienza pone al senso comune e alla filosofia. Il conflitto (IM) — (IS) in realtà, una volta che ne vengono messe in luce le dinamiche, è solo apparente. Percepirlo come necessario ed ineludibile è il frutto dell’abbaglio intellettuale di chi non tiene in debito conto la differenza logica esistente tra i due livelli.

Difatti, il motivo per cui Sellars traccia a grandi linee la storia del progressivo costituirsi di (IM) è dettato proprio da questo obiettivo, dalla necessità di far vedere che, così come (IM), prima di assumere la sua configurazione definitiva, passa attraverso diversi stadi di sviluppo, ognuno dei quali rappresenta, rispetto al precedente, un cambiamento logico-categoriale, ugualmente (IS) è uno sviluppo successivo di (IM), caratterizzato anch’esso da un salto categoriale. (IS) è una sofisticazione di alcuni aspetti di (IM), ne rappresenta un ulteriore ed importante arricchimento. Ma, così come, nella formazione di (IM), lo stadio successivo non «smentisce» quello precedente, allo stesso modo è scorretto dire che (IS) scalza completamente (IM), destituendola d’ogni fondamento. Esistono connessioni tra i diversi stadi, ma esistono anche slittamenti categoriali che impediscono di far valere l’uno in contrasto con l’altro.

Soggiacere all’idea contraria vuol dire fraintendere del tutto il processo di depersonalizzazione che caratterizza l’evolversi di (IO) sino ad (IM) e, successivamente, ad (IS). La depersonalizzazione progressiva del quadro originario non va intesa, infatti, nel senso di un demistificante (e autofagico) rischiaramento scientifico del common sense:

Even persons, it is said (mistakenly, I believe), are being ‘depersonalized’ by the advance of the scientific point of view. The point I now wish to make is that this gradual depersonalization of the original image is a familiar idea, it is radically misunderstood, if it is assimilated to the gradual abandonment of a superstitious belief. A primitive man did not believe that the tree in front of him was a person, in the sense that he thought of it both as a tree and a person, as I might think that this brick in front of me is a doorstop. If this were so, then when he abandoned the idea that the trees were persons, his concept of a tree could remain unchanged, although his beliefs about trees would be changed. The truth is, rather, that originally to be a tree was a way of being person, as, to use a close analogy, to be a woman is a way of being person, or to be a triangle is a way of being a plane figure. That a woman is a person is not something that one can be said to believe; though there’s enough historical bounce to this example to make it worth-while to use the different example that one cannot be said to believe that the triangle is a plane figure. When primitive man ceased to think of what we called trees as a persons, the change was more radical than a change in belief; it was a change in category.74

La storia evolutiva del pensiero umano — dai suoi inizi fino alla situazione attuale, dai «grugniti e dai lamenti della caverna» fino alle sofisticate tecniche del laboratorio scientifico — non è una storia in cui il momento successivo semplicemente smentisce e cancella quello precedente. Il passaggio da un livello categoriale all’altro — una sorta di salto quantico — non va inteso nel senso dell’abbandono di una credenza che, alla luce della nuova dimensione concettuale, appare come una superstizione. In questa nuova dimensione una vecchia credenza — ad esempio che l’albero è persona — non è falsificata ma, più semplicemente, non gioca più alcun ruolo. L’evoluzione non consiste in un cambiamento di credenza, per cui ciò che prima si credeva vero è ora falso. È qualcosa di più radicale. È piuttosto un passaggio categoriale, una transizione ad un nuovo stadio logico, distinto sebbene non irrelato al precedente. Nel quadro originario Sellars ipotizza che essere albero è, categorialmente, un modo di essere persona, così come essere un triangolo è un modo di essere una figura piana. Nello stadio categoriale successivo, a mutare non è la credenza sugli alberi ma il concetto di albero. Non è smentito che l’albero sia una persona, perché l’esser persona era una determinazione essenziale e costitutiva dell’esser albero: venendo meno l’esser persona viene meno anche l’esser albero. L’albero piuttosto, nella nuova dimensione logica, è un’altra entità. È un oggetto naturale, non più una persona. Lo stesso concetto di persona, a sua volta, viene modificato rispetto al quadro originario. Si differenzia progressivamente dagli elementi del mondo naturale così come da quelli del mondo animale, fino ad arrivare ad essere predicabile a pieno titolo solo dell’uomo.

Ora, anche il passaggio da (IM) a (IS) va considerato come un passaggio logico-categoriale, che si produce in relazione a sollecitazioni sempre più ineludibili di dominio conoscitivo del reale. Questo passaggio, però, non può essere inteso come una messa in discussione dello sfondo della cornice manifesta né, tanto meno, del concetto di persona, come si può esser tentati di ritenere. Per due ragioni essenziali: primo perché, lo si è mostrato, la dimensione logico-inferenziale del concetto di persona — in particolare il suo tratto peculiare, la sfera della moralità — è intrattabile nel linguaggio oggettivistico e oggettivizzante della scienza naturale; ma poi, e più radicalmente, perché le persone e il loro sfondo vitale sono, in ultimo, il presupposto logico-ontologico della stessa conoscenza oggettiva. Di quella ordinaria come di quella scientifica. Entrambi i livelli del conoscere non sono altro che costruzioni funzionali alla teleologia dell’agire umano, e la loro differenza logica e categoriale trae origine, essenzialmente, proprio da questa diversa connotazione, vale a dire dal loro diverso ruolo pratico-funzionale.75

Come si è già visto,76 Sellars definisce (IS) come una sofisticazione di (IM), come un ulteriore sviluppo del modo in cui è concepita, dentro (IM), la conoscenza oggettiva — in (EPM) si parla esplicitamente della scienza come di una «sophisticated extension» della conoscenza empirica.77 La conoscenza empirica ordinaria si basa sull’uso di meccanismi di correlazione induttiva per spiegare fenomeni osservabili. La conoscenza scientifica adotta, in modo sistematico, un nuovo elemento di astrazione: la spiegazione dei fenomeni osservabili viene condotta attraverso la postulazione di oggetti inosservabili. L’introduzione di questa caratteristica, unita all’uso dello strumento tecnico che sostituisce i sensi naturali e, inoltre alla sempre più proficua e feconda utilità delle modellizzazioni matematiche, rappresenta un forte elemento di discontinuità logica rispetto al modo in cui viene ad articolarsi la conoscenza oggettiva all’interno della cornice del senso comune. Senza dubbio, come attesta il successo della scienza, si tratta di una modalità più efficace. Migliore, perlomeno in relazione a certi scopi. Sotto questo profilo, si può legittimamente dire che la visione scientifica soppianta quella manifesta. Questa dinamica è ben delineata in un noto passo di (EPM), che perciò mette conto di riportare per intero:

The procedures of philosophical analysis as such may make no use of the methods or results of the sciences. But familiarity with the trend of scientific thought is essential to the appraisal of the framework categories of the common-sense picture of the world. For if the line of thought embodied in the preceding paragraphs is sound, if, that is to say, scientific discourse is but a continuation of a dimension of discourse which has been present in human discourse from the very beginning, then one would expect there to be a sense in which the scientific picture of the world replaces the common-sense picture; a sense in which the scientific account of ‘what there is’ supersedes the descriptive ontology of everyday life. Here one must be cautious. For there is a right way and a wrong way to make this point. Many years ago it used to be confidently said that science has shown, for example, that physical objects aren’t really colored. Later it was pointed out that if this is interpreted as the claim that the sentence ‘Physical objects have colors’ expresses an empirical proposition which, though widely believed by common sense, has been shown by science to be false, then, of course, this claim is absurd. The idea that physical objects aren’t colored can make sense only as the (misleading) expression of one aspect of a philosophical critique of the very framework of physical objects located in Space and enduring through Time. In short, ‘Physical objects aren’t really colored’ makes sense only as a clumsy expression of the idea that there are no such things as the colored physical objects of the common-sense world, where this is interpreted, not as an empirical proposition — like ‘There are no nonhuman featherless bipeds’ — within the common-sense frame, but as the expression of a rejection (in some sense) of this very framework itself, in favor of another built around different, if not unrelated, categories. This rejection need not, of course, be a practical rejection. It need not, that is, carry with it a proposal to brain-wash existing populations and train them to speak differently. And, of course, as long as the existing framework is used, it will be incorrect to say — otherwise than to make a philosophical point about the framework — that no object is really colored, or is located in Space, or endures through Time. But, speaking as a philosopher, I am quite prepared to say that the common-sense world of physical objects in Space and Time is unreal — that is, that there are no such things. Or, to put it less paradoxically, that in the dimension of describing and explaining the world, science is the measure of all things, of what is that it is, and of what is not that it is not.78

La morale di questo passaggio davvero cruciale si può schematicamente così articolare:

  1. la scienza è uno sviluppo e una sofisticazione della conoscenza empirica ordinaria che
  2. per la gran parte degli scopi pratici del vivere quotidiano continua ad essere una conoscenza valida e, soprattutto, insostituibile (vediamo e parliamo di oggetti colorati, osserviamo quadri e tramonti a occhio nudo, usiamo sedie e non aggregati di atomi ecc.); tuttavia
  3. se ci serve andare più a fondo, conoscere con precisione un fenomeno, per poterlo così spiegare e quindi controllare con più efficacia — se dobbiamo cioè inoltrarci in quella che Sellars chiama “the dimension of describing and explaining the world” — allora la conoscenza ordinaria deve necessariamente cedere il passo a quella scientifica, che è quella che ci dice, in ultimo, «come stanno le cose» (l’osservazione al microscopio è certo più affidabile di quella a occhio nudo); inoltre, e in conclusione,
  4. non bisogna dimenticare — ed è questo un punto, cioè: il punto, decisivo — che il discorso svolto in a), b) e c) è un discorso, diciamo, speciale: non è né scientifico, né ordinario, ma è invece un discorso filosofico.

Compito della filosofia, dice Sellars in apertura di (PSIM), — ma è un concetto che attraversa tutto il saggio — è quello di costruire un’immagine complessiva della realtà — The Synoptic View —, capace di tenere insieme gli elementi più disparati in un tutto il più possibile coerente. Lo sguardo filosofico è quello sguardo capace di sollevarsi al di sopra di entrambe le “immagini”, facendole così oggetto di una presa noetico-linguistica. Non si potrebbe, propriamente, parlare di “immagine scientifica” restando all’interno della dimensione logica dell’immagine scientifica, o di “immagine manifesta” muovendosi dentro la sfera dell’immagine manifesta. Per poter parlare di “immagine scientifica” e di “immagine manifesta”, così come delle loro reciproche relazioni, è necessaria un’ascesa logico-semantica, un passaggio ad un registro metalinguistico in cui tanto la lingua del senso comune quanto quella del laboratorio scientifico vengono, per così dire, “oggettualizzate” e articolate, metalinguisticamente appunto, l’una in rapporto all’altra. Da un punto di vista altro. Che è quello, come dice Sellars, del parlare da filosofi.

La filosofia mostra l’irriducibilità delle persone e della loro dimensione manifesta alla logica della conoscenza scientifica. Così facendo mostra però, al tempo stesso, l’irriducibilità di se stessa, apparendo come quel luogo concettuale in cui tanto il senso comune quanto quello scientifico vengono messi in questione nel loro statuto essenziale. Divengono, essi stessi, oggetto di indagine e di valutazione. In una parola, problema.79

Una breve notazione conclusiva, infine. Il progetto di Quine di naturalizzare la filosofia ha compiuto un lungo tragitto. La filosofia analitica più recente (in particolar modo quella che riflette intorno alla natura della mente), nelle sue linee dominanti, sembra aver imboccato proprio questa via. Tanto nelle sue tendenze più radicalmente materialiste ed eliminativiste, quanto in quelle moderatamente riduzionistiche, si muove comunque, e pur sempre, all’interno di una prospettiva che, senza troppe difficoltà, può essere definita naturalistica.80 Il punto è però un altro. È che accettare l’idea quineana di assegnare in via preliminare una posizione dominante o al limite esclusiva al sapere scientifico risulta essere, soprattutto se si presta ascolto agli argomenti di Sellars, del tutto insostenibile. Si può anzi dire che proprio questa è l’essenza dello scientismo. Che non è neanche scienza, ma cattiva filosofia:

La fede scientistica in un sapere che possa un giorno non solo integrare, ma anche rimpiazzare l’autocomprensione personale tramite autodescrizione oggettivante, non è scienza, ma cattiva filosofia.81

Alle parole di Habermas fanno eco queste nettissime considerazioni di Michael Dummett:

La filosofia cerca di esplorare la struttura del pensiero umano, e lo fa chiarificando i nostri modi di concepire la realtà. Coloro che hanno una mentalità scientistica disdegnano le riflessioni filosofiche, così concepite; preferiscono impiegare concetti scientifici, come se la verità fosse di casa solo nei sistemi concettuali concepiti a fini teorici specialistici. Alle spiegazioni filosofiche vengono sostituite le loro versioni «naturalizzate». Queste teorie «naturalizzate» spiegano, poniamo, nozioni che hanno a che vedere col significato in termini che prescindono completamente dall’impiego del linguaggio nella comunicazione da parte degli esseri umani e negano quindi che la teoria del significato debba fornire un’analisi della comprensione che i parlanti hanno degli enunciati prodotti nello scambio linguistico. Il nostro possesso di certi concetti viene talvolta spiegato sulla base di ipotetici vantaggi evolutivi. Questa non è filosofia, e neppure scienza. È il risultato dell’abbaglio preso da coloro che hanno intrapreso una certa indagine intellettuale sulla scia dei successi conseguiti in un altro settore.82

Se dunque ha ragione Sellars — e insieme a lui Habermas e Dummett — allora significa che il mercato filosofico si trova oggi ad essere inquinato da una massa consistente di monete false, seppur accuratamente contraffatte. L’immagine scientifica, che si vorrebbe in grado di catturare e contenere ogni aspetto del reale, mostra di avere dei confini ben precisi, dei limiti logicamente invalicabili. Le persone, insieme al loro nucleo più intimo, la coscienza, stanno al di fuori di qualsivoglia spiegazione scientifica. Vengono semmai prima. Non dopo. La scienza non può spiegare la coscienza perché la coscienza — l’apertura e l’illuminazione (del senso) del mondo — ne è il presupposto. Tacito e inespresso, e tuttavia insopprimibile.83

Una versione quasi definitiva di questo lavoro è stata letta e doviziosamente commentata da Salvatore Pittalà. Una parte di esso da Nino Virzì. Ad entrambi — antichista, il primo; germanista, il secondo — un doveroso ringraziamento. Superfluo ricordare che la responsabilità del tutto rimane, ovviamente, e integralmente, dell’autore.


  1. Presentato a Vienna nel settembre del 1968 al Congresso Internazionale di Filosofia, verrà poi incluso nella raccolta Ontological Relativity and Other Essays, Columbia University Press, New York, 1969; tr. it. La relatività ontologica e altri saggi, Roma, Armando, 1986, pp. 95-113. Per la verità, di qualche anno precedente era l’articolo di A. Goldman A causal Theory of Knowledge, apparso sul «Journal of Philosophy» nel 1967 (n. 64, pp. 357-372), in cui si teorizzava la necessità che l’epistemologia si avvalesse del supporto delle scienze naturali. Ma sarebbe stato il saggio di Quine, per l’autorità dell’autore, e per la maggiore radicalità delle tesi sostenute, quello destinato ad esercitare l’influenza maggiore, innescando un intenso e produttivo dibattito in seno alla filosofia analitica tardonovecentesca. ↩︎

  2. Si veda in particolare, di Neurath, l’articolo Protokollsätze, in Erkenntnis, III, 1932-1933, pp. 204-214; tr. it. in G. Statera (a cura di) Sociologia e neopositivismo, Ubaldini, Roma, 1968, pp. 55-61. Tra gli attacchi più duri, quello di Karl Popper che, già a partire dagli anni ’30, comincia a mettere in discussione le tesi del primo Wittgenstein così come quelle dei neopositivisti e di Carnap. In uno scritto più tardo, La demarcazione tra scienza e metafisica (composto nel 1955, e incluso poi in Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna, 1972, pp. 431-498), Popper ricostruisce i passaggi essenziali del suo dialogo con Carnap, ribadendo con forza il suo disaccordo anche rispetto agli ultimi scritti di Carnap che dagli esiti solipsistici dell’Aufbau cercavano di mantenersi a distanza. Oltre a Popper, e allo stesso Quine, a muovere durissime critiche all’impianto epistemologico neopositivista furono, intorno agli anni ’50, Norwood Russell Hanson da un lato, e Wittgenstein, con le sue Ricerche filosofiche, dall’altro. A partire da considerazioni ispirate alla Gestaltpsychologie sia Hanson che Wittgenstein demoliscono quello che gli epistemologi hanno perspicuamente definito il dogma dell’«immacolata osservazione», vale a dire l’idea, cruciale nell’empirismo novecentesco, che l’osservazione fosse del tutto indipendente da qualsiasi cornice teorica e concettuale. Per una parziale riabilitazione del paradigma del neopositivismo logico e, simmetricamente, per un ridimensionamento della portata delle critiche mosse contro di esso, si veda P. Parrini, Conoscenza e realtà. Saggio di filosofia positiva, Laterza, Roma-Bari, 1995. Cerca di contrastare la versione storiografica dominante sul neopositivismo anche H. Putnam, Reichenbach and the Myth of the Given, in H. Putnam, Words and life, Harvard University Press, Cambridge-London, 1994, pp. 115-130. Su posizioni analoghe A. M. Petroni, che intende valorizzare l’apporto, se non altro metodologico, del neopositivismo nei confronti di alcuni programmi di ricerca nell’ambito dell’Intelligenza artificiale (ad esempio i lavori di H. Simon), nella linguistica formale o nelle scienze sociali. Cfr. A.M. Petroni, L’empirismo logico è vivo e vegeto, in «Rivista di estetica», n. 7, 1998, Rosenberg&Sellier, Torino, pp. 40-42. Per una ricostruzione, puntuale e pressoché completa, delle più recenti prospettive storiografiche sull’empirismo logico, volte a mettere in discussione il quadro consolidato della cosiddetta «standard view», si può leggere l’utile e molto ben informato M. Ferrari, Un’altra storia. Tendenze e prospettive della più recente storiografia sulle origini dell’empirismo logico, in M. Di Francesco, D. Marconi, P. Parrini (a cura di), Filosofia analitica 1996-1998. Prospettive teoriche e revisioni storiografiche, Milano, Guerini, 1998, pp. 17-33. ↩︎

  3. Cfr. W.V.O. Quine, Two dogmas of empiricism, in From a Logical Point of View, Harvard University Press, Cambridge, 1953; tr. it. Da un punto di vista logico, Cortina, Milano, 2004, pp. 35-65 ↩︎

  4. W.V.O. Quine, L’epistemologia naturalizzata, cit., p. 107 ↩︎

  5. Una impostazione decisamente critica rispetto al progetto di Quine esprime N. Vassallo, La naturalizzazione dell’epistemologia, Milano, Franco Angeli, 1997. Per una prima approssimazione ai temi del pensiero di Quine si veda G. Origgi, Introduzione a Quine, Laterza, Roma-Bari, 2000 ↩︎

  6. Non si può non ricordare, a tal proposito, l’articolo in cui Carnap, prendendo di mira uno scritto di Heidegger, ne denunciava l’insensatezza, la sua totale mancanza di significato. Cfr. R. Carnap, Überwindung der Metaphysyk durch logische Analyse der Sprache, Erkenntnis, 1932, II, pp. 219-241; tr. it. in A. Pasquinelli (a cura di), Il neoempirismo, Utet, Torino, 1969, pp. 504-532. ↩︎

  7. Scrive D. Koppelberg: «Since the publication of Quine’s Epistemology naturalized many philosophers have been very busy in advancing arguments for naturalizing philosophy». Cfr. D. Koppelberg, What is naturalism today — And what should it be tomorrow?, in D. Marconi (a cura di), Naturalismo e naturalizzazione, Mercurio, Vercelli, 1999, p. 41 ↩︎

  8. Cfr. D. Marconi, Filosofia e scienza cognitiva, Roma- Bari, Laterza, 2000; in particolare il capitolo finale «Il ritorno della natura umana», pp. 124-139. Sulla «svolta cognitiva» e i suoi effetti si veda A. Paternoster, «La filosofia del linguaggio dopo la «svolta cognitiva»», Introduzione a A. Paternoster (a cura di), Mente e linguaggio, Guerini, Milano 1999, pp. 9-23. Una introduzione ai temi del naturalismo contemporaneo è quella di E. Agazzi, N. Vassallo (a cura di), Introduzione al naturalismo filosofico contemporaneo, Franco Angeli, Milano, 1998. Incentrata principalmente sugli aspetti epistemologici è l’importante raccolta di H. Kornblith (ed), Naturalizing Epistemology, Mit Press, Cambridge, 1985 ↩︎

  9. Sellars e Dummett non sono certo i soli analitici ad avere un atteggiamento critico verso la naturalizzazione dei problemi filosofici. Si pensi, ad esempio, a Putnam, Davidson, Cavell, ma anche a filosofi come McDowell, Brandom, Di Francesco (diverso il caso di Rorty, accostabile, per molti versi, a Sellars, ma che ripudia, a differenza di Sellars, l’intera tradizione analitica e, in primis, le sue istanze epistemologiche). Ciò che, tuttavia, differenzia Dummett e Sellars dai pensatori citati è la tesi, esplicita soprattutto in Sellars, della impossibilità di principio, e non di fatto, della naturalizzazione della filosofia. Non si tratta di «arrivare fin dove si può» con la scienza, e lasciare il resto alla filosofia. No. Filosofia e scienza, come si cercherà di mostrare nel seguito di questo lavoro, si muovono su livelli logici distinti, e dunque non possono in alcun modo esser fatte valere l’una contro l’altra. E nemmeno, ci pare ovvio, l’una insieme all’altra. (Con riferimento alla naturalizzazione della mente, gli autori che forse più di tutti sembrano muoversi nella linea Sellars-Dummett sono P.F. Strawson e T. Nagel). Sul pensiero e l’opera di Sellars esiste una cospicua quantità di studi. Se ne segnalano qui solo alcuni, dai quali eventualmente partire per approfondire la conoscenza dell’autore: quello di W. A. de Vries, Wilfrid Sellars, McGill-Queen’s University Press, Montreal & Kingston, 2005; quello di J. R. O’Sea, Wilfrid Sellars, Polity Press, Cambridge, 2007; e infine quello, recentissimo e ponderoso, di J. Rosenberg, Wilfrid Sellars. Fusing the Images, University Press, Oxford, 2007. Tra le risorse on line si impone, per la ricchezza dei suoi contenuti, il sito curato da A. Chrucky, consultabile all’indirizzo http://www.ditext.com/sellars/. Un profilo snello ma efficace del pensiero di Sellars è offerto da J. Rosenberg (http://plato.stanford.edu/entries/sellars/). In lingua italiana, per una prima approssimazione al pensiero di Sellars, a partire dal tema della percezione e della sensazione, si può leggere N. Perullo, Percezione e sensazione nella filosofia di Wilfrid Sellars, «Rivista di estetica», n. 10, 1999, Rosenberg & Sellier, Torino, pp. 143-163. Si legga infine, sempre in lingua italiana, A. Gatti, Introduzione a W. Sellars, La filosofia e l’immagine scientifica dell’uomo, Armando, Roma, 2007, pp. 7-23. ↩︎

  10. W. Sellars, Empiricism and the Philosophy of Mind, Harward, Cambridge-London, 1997; tr. it. Empirismo e filosofia della mente, Einaudi, Torino, 2004. Data l’importanza che (EPM) riveste nell’ambito del presente lavoro, si farà uso, per una questione di pregnanza espressiva (e talora persino di fedeltà), del testo inglese. Della traduzione italiana saranno dati in nota, tra parentesi quadre, i riferimenti. ↩︎

  11. W. Sellars, Philosophy and the scientific image of man, in W. Sellars, Science, Perception and Reality, Routledge & Kegan Paul, London, 1963, pp. 1-40; tr. it. (a cura di A. Gatti) La filosofia e l’immagine scientifica dell’uomo, cit. Anche, e a maggior ragione, di (PSIM) preferiamo utilizzare, nel corso della nostra trattazione, direttamente il testo inglese, fornendo in nota le indicazioni relative al testo italiano. ↩︎

  12. Cfr. (PSIM), p. 18 [61] ↩︎

  13. L’applicazione lineare è una funzione tra spazi vettoriali (cioè insiemi di vettori, associati a campi numerici, che rispondono a regole di composizione interna), e l’immagine corrisponde all’insieme di vettori dello spazio che si ottiene per effetto dell’azione della legge di trasformazione. Ad esempio in un’applicazione del tipo R³ → R², che va cioè da uno spazio vettoriale a 3 dimensioni a uno a 2, le strutture del primo spazio subiscono una trasformazione, vengono, per così dire, «ridotte»; la legge di trasformazione, geometricamente, ha in questo caso il significato di una proiezione ortogonale, vale a dire la riduzione di una figura da tridimensionale a bidimensionale: in tal caso, l’immagine dell’applicazione è costituita dalla figura bidimensionale. Una chiara esposizione istituzionale della materia si può trovare in S. Giuffrida, A. Ragusa, Corso di algebra lineare, Il Cigno Galileo Galilei, Roma, 1998. In particolare, per il concetto di «immagine», si vedano le pp. 202 e ss. ↩︎

  14. (PSIM), p. 5 [34-35] ↩︎

  15. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino, 1998, p. 30. Wittgenstein insiste sul carattere raffigurante-rappresentazionale dell’immagine, sul suo essere interamente dipendente dalla realtà che rappresenta: può concordare con essa, ed in tal caso è vera, o non concordare, ed in tal caso è falsa. Ecco perché, al termine del suo ragionamento, giustamente conclude dicendo che «un’immagine vera a priori non v’è.» (prop. n. 2.225). Sarebbe il caso d’aggiungere: nemmeno falsa. ↩︎

  16. Per una discussione critica sul punto cfr. U. Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi, Torino, 1997, pp. 199-254 ↩︎

  17. (PSIM), p. 5 [36] (corsivo aggiunto). Si avverte il lettore che la traduzione italiana contiene una forzatura testuale. Il testo, bisogna riconoscerlo, presenta una oggettiva difficoltà interpretativa, imputabile allo stile alquanto idiosincratico di Sellars. La soluzione adottata da Gatti è ingegnosa ma, purtroppo, testualmente non supportabile. Gatti traduce l’espressione «promissory notes apart» con «eccezion fatta per i suoi incunaboli». Sellars invece sta qui dicendo che, mentre l’immagine manifesta, nelle sue linee essenziali, si è costituita in un epoca preistorica, e quindi sta interamente alle nostre spalle, l’immagine scientifica ha sostanzialmente preso forma sotto i nostri occhi, è cioè quasi completamente a noi contemporanea: promissory notes apart: a prescindere da quelli che sono i suoi potenziali — e inevitabili — sviluppi futuri (le «cambiali» che essa ha firmato). La vicenda dell’immagine scientifica, insomma, sebbene già delineata nei suoi tratti principali, non si è ancora conclusa. Non è un caso che Sellars, in conclusione della sua costruzione del quadro dell’immagine scientifica, richiami proprio questo concetto: «But the scientific image is not yet complete; we have not penetrated all the secrets of the nature» (PSIM), p. 37 [100]. Questo è dunque il senso dell’uso figurato dell’espressione «promissory notes», letteralmente, appunto, «cambiali»: un’allusione alle prospettive di sviluppo futuro del quadro dell’immagine scientifica, che si lasciano presagire osservando lo stadio attuale, e che perciò non sono ancora direttamente sotto i nostri occhi (before our very eyes). Dunque, il concetto di «incunabolo» usato da Gatti, non essendo semanticamente riconducibile a quello di «cambiale», presente invece nel testo di Sellars, è chiaramente ingiustificato. ↩︎

  18. Il senso di questa diversità è illustrato in modo impareggiabile e al tempo stesso decisivo da Heidegger nel saggio L’epoca dell’immagine del mondo, in M. Heidegger, Holzwege. Sentieri erranti nella selva, Bompiani, Milano, 2002, pp. 91-136. ↩︎

  19. H.G. Gadamer, La ragione nell’età della scienza, Il Melangolo, Genova, 1984, p. 33 ↩︎

  20. G. Vattimo, Dopo la cristianità, Garzanti, Milano, 2002, p. 112. Di una filiazione «genetica» del cristianesimo dalla grecità così come, al tempo stesso, degli scarti innovativi, parla invece il documentato studio di W. Jaeger, Cristianesimo primitivo e paideia greca, La Nuova Italia, Firenze, 1977. Secondo Jaeger, la novità dell’annuncio evangelico, così come essa si manifesta nella predicazione e negli scritti dei primi autori cristiani, si inserisce in, ed emerge da, una fitta trama di stilemi, tecniche retoriche, moduli concettuali interamente desunti dalla cultura greca. ↩︎

  21. G. Vattimo, Dopo la cristianità, cit., p. 113 ↩︎

  22. Cfr. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, cit. ↩︎

  23. Op. cit., p. 108. Con buona probabilità è presente qui, in Heidegger, oltre all’influenza diltheyana, anche, e forse soprattutto, l’eredità di Nietzsche. Nel famoso aforisma del Crepuscolo degli idoli sopra la storia di un errore, Nietzsche registra le stazioni per cui, da Platone in poi, passando per il cristianesimo, l’illuminismo, e fino al «baccanale positivistico degli spiriti liberi», «il mondo vero diventa una favola». Cioè: il mondo diventa una costruzione immaginativa. Cioè: immagine. Il «mondo» è «immaginabile», «rap-presentabile», vale a dire reso, in termini heideggeriani, «semplicemente-presente». Per tal motivo diventa, e non può che diventare, manipolabile. Nel suo, bisogna pur dirlo, spettacolare Cronistoria di una svolta M. Ferraris osserva: «L’età contemporanea, dove il legame tra umanismo e metafisica si realizza nella tecnica come manipolazione degli enti, è per l’appunto l’epoca delle immagini del mondo: il tempo cioè in cui il mondo non è inteso altrimenti che come rappresentazione trasformabile». M. Ferraris, Cronistoria di una svolta in M. Heidegger, La svolta, Il Melangolo, Genova, 1990, pp. 83-84 ↩︎

  24. H.-G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano, 1995, pp. 32-33 ↩︎

  25. Op. cit., pp. 33-34 ↩︎

  26. (PSIM), p. 7 [38] ↩︎

  27. Come si vedrà più avanti (par. 5, e nota n. 70), a marcare la differenza tra (IM) e (IS) concorrono altri, e altrettanto decisivi, fattori. ↩︎

  28. (PSIM), p. 9 [44] ↩︎

  29. Il punto si può riformulare dicendo che i concetti hanno sempre uno status normativo; anzi: che sono elementi normativi. In termini brandomiani, possedere un concetto equivale ad essere capaci di giocare correttamente (cioè: secondo norma) il gioco del dare e chiedere ragioni, del cosa è una ragione per cosa. Cfr. R. Brandom, Articolare le ragioni, Il Saggiatore, Milano, 2002. Sull’ontologia, a scopo introduttivo, si veda A. Varzi, Ontologia, Laterza, Roma-Bari, 2005 ↩︎

  30. (PSIM), p. 9 [44] ↩︎

  31. Op. cit., pp. 9-10 [44-45]. ↩︎

  32. Op. cit., pp. 12-13 [50] ↩︎

  33. Op. cit., p. 13 [51] ↩︎

  34. Sellars, come si vedrà, si riferisce alla triade Platone-Aristotele-Hegel per rintracciare punti di contatto tra l’evoluzione (IO)-(IM)-(IS), da lui abbozzata, e lo sviluppo del pensiero occidentale. Tuttavia, questo «racconto» evolutivo che conduce alla visione scientifica delle cose, se visto da un’altra angolazione, dal lato cioè della progressiva oggettivizzazione del mondo naturale, può esser messo in relazione, come fa Habermas, con l’idea weberiana del «disincantamento del mondo» (cfr. J. Habermas, Il futuro della natura umana, Einaudi, Torino, 2002, p. 103) ma, ancor più essenzialmente, e produttivamente, con la storia della metafisica occidentale tracciata da Heidegger. Una storia, culminante nell’età della scienza, in cui dell’Essere non rimane altro che l’ente, ossia ciò che per sua natura si dispone al dominio ed alla manipolazione, essendone, appunto, intrinsecamente pre-dis-posto. Cfr. più avanti, nota n. 77. ↩︎

  35. Op. cit., p. 16 [57] ↩︎

  36. Il termine indica chiaramente l’uomo, insieme agli altri animali (cfr. Erodoto, Storie, 5,10), e persino le piante ( cfr. Platone, Timeo, 77b ) ↩︎

  37. In proposito S. Natoli scrive: «Aristotele pone a fondamento della sua filosofia politica il concetto di zôon politikón, di uomo animale politico per natura. Questo concetto non fonda unicamente la concezione aristotelica della società e dello stato, ma, in un certo senso, è una delle categorie istitutive del pensiero politico occidentale. Il significato di questa posizione però, al contrario di ogni apparenza, è tutt’altro che univocamente definito: se l’uomo è animale politico per natura, il senso di questa politicità è definito dal concetto di natura, che lo regge. Ma questo concetto appartiene a quel genere di concetti e principi particolarmente ricchi di variazioni semantiche e storiche: è, quindi, per eccellenza, mobile». S. Natoli, La salvezza senza fede, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 120. ↩︎

  38. (PSIM), pp. 16-17 [58] ↩︎

  39. Le considerazioni di R. Rorty, proprio sullo «spirito» hegeliano che aleggia in molte pagine di Sellars — Rorty si riferisce qui in particolare ad (EPM) —, sono quantomai esplicite: «Da quando Cartesio fece del solipsismo metodologico il segno distintivo del pensiero filosofico rigoroso e professionale, i filosofi hanno cercato di trovare la «fondazione» della conoscenza, della moralità, del gusto estetico, e di quant’altro. Come potrebbe esserci infatti qualcosa nelle società che non sia stato apportato dagli individui ? Solo a partire da Hegel i filosofi han cominciato a giocare con l’idea che l’individuo staccato dalla propria comunità è soltanto un animale in più». R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano, 1986, p. 145. D’altronde è lo stesso Sellars a parlare di (EPM) come «incipienti Meditazioni Hegeliane», Cfr. (EPM), p. 29 [45]. Inoltre, non è per nulla casuale che Rorty, nella sua introduzione a (EPM), si soffermi proprio su questo passaggio, enfatizzandolo. Parlando di Brandom Rorty scrive: «Il lavoro di Brandom può a buon diritto considerarsi un tentativo di far transitare la filosofia dalla sua fase kantiana a quella hegeliana — un tentativo adombrato dall’enigmatica descrizione di Empirismo e filosofia della mente come «incipienti Meditazioni Hegeliane» ( § 20) e dal fatto di riferirsi a Hegel come al «grande avversario dell’immediatezza» (§ 1)». Cfr. (EPM), pp. 8-9[XII-XIII]. C’è solo da aggiungere che questo giudizio di Rorty, a proposito di Brandom, andrebbe forse ridimensionato. Sì, è vero, Brandom — ma anche J. McDowell e, con lui, R. Pippin, R. Bernstein, T. Pinkard, A. Collins — è uno dei più espliciti sostenitori, nel contesto della filosofia post(?)-analitica, di una ripresa di Hegel. C’è però da chiedersi, come ad esempio ha fatto T. Rockmore, se l’hegelismo praticato dalle parti di Pittsburgh e dintorni si possa considerare pienamente ortodosso, se sia cioè, in definitiva, un hegelismo pleno iure hegeliano. Probabilmente no, visto che leggere Hegel semplicemente come protopragmatista trascurando il tema della storicità non è certo un buon modo per mantenersi fedeli alla sua eredità. In altri termini, se togliamo la storia, cosa resta di Hegel? E, più radicalmente: resta ancora qualcosa ? Cfr. T. Rockmore, «Hegel e i limiti dell’hegelismo analitico», in L. Ruggiu, I. Testa (a cura di), Hegel contemporaneo, Guerini e Associati, Milano, 2003, pp. 341-360 La lettura hegeliana di Sellars, a differenza di quella degli studiosi citati, sembra essere invece più promettente in questa direzione. (Rockmore però non rileva il punto.) ↩︎

  40. Non è assai difficile individuare, ad esempio, delle significative analogie «narrative» tra il racconto antropologico del Mito di Jones — che costituisce la terza parte di (EPM) —, la descrizione dell’evolversi di (IO) in (IM) e il «racconto» speculativo della Fenomenologia dello Spirito. In tutt’e tre i casi si traccia un percorso che va dall’immediatezza dell’oggettività alla mediatezza fondante dell’intersoggettività. Dalla cruda realtà e datità dell’oggetto al maturo, relazionale esplicarsi dell’autocoscienza umana. ↩︎

  41. L’espressione è di E. Severino, che di questi snodi fornisce una chiara ricostruzione. Cfr. E. Severino, La filosofia moderna, Rizzoli, Milano, 1991, pp. 203-216. ↩︎

  42. McDowell però, a differenza di Sellars, non sembra minimamente temere il serpente hegeliano. Egli infatti ritiene, probabilmente sbagliando, che la piena assunzione di un modello hegeliano non comporti alcun rischio di autoreferenzialità, di «sganciamento» del pensiero dal mondo. Anzi, proprio un deciso e radicale sviluppo del kantismo in una direzione hegeliana sembra essere richiesto perché il pensiero concettuale possa motivatamente non essere ritenuto frictionless. Cfr. J. McDowell, L’idealismo di Hegel come radicalizzazione di Kant, «Iride», n. 34, Dicembre 2001, pp. 527-548. ↩︎

  43. Cfr. (EPM), p. 79[56] ↩︎

  44. Che ci sia un «mondo esterno» è un presupposto essenziale dell’epistemologia kantiana. Il ruolo costitutivo della soggettività non annulla infatti l’esternalità ma, al contrario, la valorizza in modo adeguato. Osserva giustamente S. Cirrone: «Diversamente stanno le cose per Kant, per il quale la soggettività svolge un ruolo costitutivo della nostra esperienza. Nel linguaggio di Kant: le forme a priori della percezione sono soggettive. Ritornando alla nostra abusata metafora, ciò significa che le lenti con cui ci accostiamo ai nostri oggetti sono inamovibili e decidono della forma in cui essi divengono a noi familiari. Per Kant la soggettività dà forma agli oggetti d’esperienza attraverso due diverse prestazioni. Con una prima, che è propria della sensibilità, si offrono coordinate per la identificazione di un particolare da un molteplice indifferenziato; con la seconda, che appartiene all’intelletto, si offrono regole di connessione per pensare i particolari identificati. Non c’è dubbio. Kant e Sellars parlano, contro il mito del dato, lo stesso linguaggio». S. Cirrone, Lo sguardo e la mente. L’officina analitica: tra Königsberg e Vienna, Catania, 2001, p. 58. ↩︎

  45. (PSIM), p. 17 [58-59] (corsivi aggiunti) Questo passo, tra le altre cose, mette bene in luce la posizione di Sellars rispetto all’empirismo, e mette altresì in chiaro che la versione (pan)inferenzialista che Brandom fornisce del pensiero di Sellars è alquanto tendenziosa. Commentando la discussione sulle teorie del dato sensoriale che viene sviluppata in § 6 di (EPM) Brandom scrive che «benché questo saggio abbia come titolo Empirismo e filosofia della mente, Sellars non chiarisce mai esplicitamente il suo atteggiamento nei confronti dell’empirismo. Basandosi su quanto egli dice ad esempio in § 6, là dove discute la triade inconsistente delle tesi caratteristiche delle teorie dei dati sensoriali, si potrebbe pensare che lo accetti. In questo contesto, infatti, Sellars respinge l’opzione consistente nell’espungere il terzo punto del trilemma osservando che ciò «fa violenza alle tendenze prevalentemente nominalistiche della tradizione empiristica» (tendenze che discute più ampiamente in §§ 24-28). Ma interpretare questa osservazione come segno della sottoscrizione da parte di Sellars di quelle tendenze nominalistiche dell’empirismo che egli qui invoca equivarrebbe a fraintendere il ruolo che questa osservazione svolge nel suo argomento». (EPM), p. 131 [167]. Invece, le cose sembrano stare proprio così. Sellars vuole mantenersi fedele all’empirismo, ma vuole al tempo stesso riformarlo, emendarlo dai suoi nei. Così ne propone una versione nominalistica, vale a dire: linguistica. Nella prefazione alla sua raccolta Essays in philosophy and its history (Reidel Publishing Company, Dordrecht, 1974), Sellars descrive in modo immaginifico il suo progetto filosofico come un versare «nominalistic wine into Platonic bottles», e dichiara esplicitamente il suo obiettivo di voler «to translate realms of essence into linguistic structures» (p. VIII). Ad ogni modo, questo passaggio tratto da (PSIM), così come alcuni luoghi di (EPM), sembrano chiarire a sufficienza le intenzioni di Sellars. L’affermazione di Brandom dunque, secondo cui Sellars manterrebbe una posizione ambigua e sostanzialmente irrisolta nei confronti dell’empirismo è, con molta probabilità, inesatta. ↩︎

  46. Del resto, l’idea di un apprendimento astratto e meramente teorico del linguaggio naturale si espone ad una confutazione molto seria. Nel denso «Some reflections on language games», un lavoro del 1954, Sellars ne traccia uno schema limpidissimo: «The refutation run as follows: Thesis. Learning to use a language (L) is learning to obey the rules of L. But, a rule of which enjoins the doing an action (A) is a sentence in a language which contains an expression for A. Hence, a rule which enjoins the using of a linguistic expression (E) is a sentence in a language which contains an expression for E — in other words, a sentence in a metalanguage. Consequently, learning to obey the rules for L presupposes the ability to use a metalanguage (ML) in which the rules for L are formulated. So that learning to use a language (L) presupposes having learned to use a metalanguage (ML). And by the same token, having learned to use ML presupposes having learned to use a metametalanguage (MML) and so on. But this is impossible (a vicious regress). Therefore, the thesis is absurd and must be rejected». Cfr. «Some reflections on language games», in Science, perception and reality, cit. p. 321. ↩︎

  47. Anche qui, non possono non ritornare alla mente le fondamentali osservazioni di Heidegger. Cfr. supra nt. 24. ↩︎

  48. (PSIM), p. 17 [59]. ↩︎

  49. Quanto si sta affermando potrebbe in apparenza entrare in tensione con una piuttosto influente linea ermeneutica del pensiero di Sellars. Sellars, tra le altre cose, è noto per essere uno dei padri ispiratori delle teorie semantiche basate sul ruolo inferenziale delle rappresentazioni mentali (cfr. A. Paternoster, Introduzione alla filosofia della mente, Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 100). Ciò potrebbe far ritenere che la sottolineatura della centralità del concetto di rappresentazione in (PSIM) sia in conflitto con quanto Sellars sostiene in altri suoi articoli dove maggiormente si concentra sul concetto di inferenza. Il conflitto in realtà non c’è. Non c’è conflitto tra rappresentazioni e inferenze, l’inferenzialismo sellarsiano non è infatti da considerarsi una forma di internismo semantico. Nota con precisione D. Marconi: «Tuttavia, non è questa immagine, per così dire, puramente internistica che hanno in mente almeno alcuni che la teorizzano (Sellars 1974; Harman 1987; Brandom 1994): essi includono nel ruolo funzionale di una rappresentazione anche le sue connessioni col mondo reale attraverso i processi percettivi e le azioni del soggetto». D. Marconi, Filosofia e scienza cognitiva, cit. p. 64. In breve, non si danno inferenze senza rappresentazioni, né rappresentazioni senza inferenze. Parafrasando Kant (e McDowell), potremmo dire: le inferenze senza rappresentazioni sono vuote, le rappresentazioni senza inferenze sono cieche. ↩︎

  50. Il discorso meriterebbe uno sviluppo più ampio. Quello che qui si può dire è che la natura intimamente referenziale del linguaggio — le parole si riferiscono sempre e comunque a qualcosa: anche se il muratore dice «lastra» volendo intendere «passami la lastra», resta pur sempre che all’oggetto «lastra» egli si riferisce, e non a qualcos’altro — presuppone, e al tempo stesso implica, l’esistenza di un «mondo». ↩︎

  51. L’espressione «The world well lost» è dovuta, com’è noto, a Rorty che, almeno su questo punto, è sinceramente hegeliano. La stretta ed indissolubile connessione tra soggettivo, intersoggettivo e oggettivo è ciò su cui insiste, nella sua riflessione più matura, anche D. Davidson. Si veda in particolare la sua raccolta Soggettivo, intersoggettivo e oggettivo, Cortina, Milano, 2003. ↩︎

  52. L’osservazione è di J. Habermas, nel suo Il futuro della natura umana, cit., pp. 103-104. ↩︎

  53. (PSIM), p. 21 [67]. ↩︎

  54. Naturalmente, quella di Sellars, occorre ricordarlo, è una costruzione logica, finalizzata, come sappiamo, alla definizione di una immagine scientifica complessiva dell’uomo. Non intende cioè presentarsi come una reale integrazione di diverse discipline scientifiche dentro un quadro unitario. Certo, in quanto costruzione logica essa è anche una costruzione in qualche modo realmente plausibile, inscritta, per certi versi ed entro certi limiti, nello sviluppo delle scienze, perlomeno di alcune. E difatti, almeno per quanto riguarda la fisica e la chimica, lo sviluppo che negli ultimi anni hanno conosciuto discipline di confine come la chimica-fisica attesta ampiamente la correttezza del ragionare di Sellars, che perciò dimostra qui di essere, oltre a tutto il resto, anche un eccellente filosofo della scienza. ↩︎

  55. Cfr. (EPM), p. 99 [72]. ↩︎

  56. (PSIM), p. 22 [69]. ↩︎

  57. Op. cit., p. 22 [69-70]. ↩︎

  58. Op. cit., pp. 22-23 [70]. ↩︎

  59. (PSIM), p. 23 [71] (corsivo aggiunto). ↩︎

  60. Op. cit., p. 21 [67]. ↩︎

  61. La terminologia sellarsiana può generare, su questo punto, qualche equivoco. L’espressione «comportamentismo metodologico», nella letteratura corrente, è l’equivalente di «comportamentismo psicologico», cioè una «metodologia di ricerca incentrata sull’assunto secondo cui gli unici legittimi oggetti di indagine psicologica sono gli osservabili, cioè stimoli e risposte» (A. Paternoster, Introduzione alla filosofia della mente, cit., p. 207). Il comportamentismo filosofico è invece «la tesi secondo cui i termini del vocabolario mentalistico ordinario, lungi dal riferirsi a reali enti psichici o cerebrali, denotano disposizioni al comportamento» (ibidem). È perciò una tesi semantica sulla natura degli stati mentali. Stando a queste definizioni, quello che Sellars delinea in (EPM), poi ulteriormente sviluppato in (PSIM), sarebbe dunque, nonostante egli lo caratterizzi come «comportamentismo metodologico» (cfr. (EPM), pp. 98-99 [72-73]), una forma di comportamentismo filosofico. Anche Sellars infatti propone una tesi semantica sulla natura degli stati mentali. Solo che, mentre nel comportamentismo non postulazionale (ad esempio in Ryle), la concezione semantica sottesa è di tipo, diciamo, verificazionistico-rappresentazionale, nella prospettiva di Sellars il significato degli termini mentalistici viene guadagnato a partire dal ruolo inferenziale che essi svolgono all’interno di un quadro teorico dentro cui vengono inizialmente introdotti come entità teoriche postulate ed inosservabili. Tuttavia, c’è da osservare, al di là delle definizioni correnti, che Sellars presenta il suo modello di teoria comportamentistica come un modello scientifico, non a caso integrabile, in linea di principio (leggi: logicamente), con le altre discipline scientifiche (fisica, chimica, fisiologia). La semantica dei ruoli inferenziali, che sta alla base del suo modello comportamentistico, è anche il meccanismo che regge la struttura logico-linguistica delle teorie scientifiche. Di ogni teoria scientifica. ↩︎

  62. (EPM), pp. 100-101 [74]. ↩︎

  63. Si veda, in particolare, la sezione IX, Science and Ordinary usage. In (EPM) Sellars ha già delineato il concetto di «immagine scientifica» e «immagine manifesta». Tuttavia, in (PSIM), che è di quattro anni più tardi, si può osservare una ulteriore precisazione a livello terminologico. Nei pochi casi in cui occorre in (EPM ) Sellars non usa ancora il termine «image», ma parla di «scientific picture of the world» (p. 82 e p. 113) o di «total picture» (p. 101), o di «common-sense picture of the world» (pp. 82-83), o ancora di «scientific picture of the world» (p. 84). Il termine usato, come si vede, non è ancora «image», probabilmente più adatto ad esprimere l’uso figurato che Sellars ha in mente (e, lo si è visto, filosoficamente assai più pregnante), ma «picture». ↩︎

  64. J. Habermas, Il futuro della natura umana, cit. p. 104 D’altra parte, nemmeno oggi manca chi pone Sellars all’origine dell’idea stessa di naturalizzazione, e per di più assegnandogli il primato persino rispetto a Quine. Si vedano ad esempio alcuni interventi contenuti in M. De Caro, D. Macarthur (a cura di), La mente e la natura, Fazi, Roma, 2005. Nell’introduzione i curatori così si esprimono: ««La scienza è la misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono e di quelle che non sono per ciò che non sono». Con questa parafrasi del celebre motto protagoreo, all’inizio degli anni sessanta Wilfrid Sellars compendiava il naturalismo scientifico, una concezione che da allora ha conosciuto enorme fortuna nell’ambito filosofico di matrice analitica, al punto da diventare largamente maggioritaria. In questa luce, non sorprenderà che, in riferimento a tale concezione, l’espressione «svolta naturalistica» si stia ormai imponendo come categoria storiografica.» (p. XV). Qualche pagina più avanti, parlando del naturalismo dal punto di vista ontologico, gli stessi studiosi affermano: «Schematicamente, il primo tema consiste nell’impegno verso una nuova sorta di scientismo secondo cui non solo la scienza naturale moderna (o meglio, quella che si è affermata dal XVII secolo) fornisce una rappresentazione vera della natura, ma ne è anche — il che è più controverso — la sola rappresentazione vera. Quando osservava che «la scienza è la misura di tutte le cose, di ciò che è in quanto è, di ciò che non è in quanto non è», Wilfrid Sellars rappresentava lo spirito animatore di questa posizione» (p. XXVI).Gli fa eco, nella prefazione allo stesso testo, A. Massarenti, che accentua e dà ulteriore risalto a questa lettura di Sellars: «È stato John McDowell (in Mente e mondo, i cui temi vengono ripresi e per alcuni aspetti approfonditi nell’intervento di questo volume), a prendere sul serio quello che Wilfrid Sellars chiamava «lo spazio delle ragioni» e delle giustificazioni. Con Sellars, che è, prima ancora di Quine, alle origini dell’idea di naturalizzazione dei problemi filosofici, McDowell condivide la necessità di superare il Mito del Dato della tradizione empirista senza però rinunciare — come farebbero subito, e ben volentieri, molti filosofi nostrani, da Croce alle più recenti correnti deboliste e postmoderne — all’attrito dell’esperienza, che ci permette di distinguere le nostre elaborazioni intellettuali dai sogni e dalle fantasie.» (p. IX). A parte l’accusa, piuttosto gratuita e comunque fuori contesto, rivolta a Croce e ai post-moderni, di «negare» l’attrito dell’esperienza (senza contare poi che il filosofo «debolista» per eccellenza, vale a dire G. Vattimo, ha apertamente, e senza alcuna reticenza, espresso la propria piena sintonia con Mente e mondo di McDowell: si legga G. Vattimo, Il vecchio Kant può trovare un accordo con Heidegger, «Tuttolibri — La Stampa», 11 settembre 1999); a parte tutto ciò, siamo, com’è evidente, di fronte a un clamoroso caso di misunderstanding. Più attento alle ragioni sottese al lavoro di Sellars, ma pur sempre soggiacente al fraintendimento in senso naturalistico dell’esperimento mentale di (PSIM), è il contributo di C. Gabbani, Salvare i fenomeni ? Filosofia della mente e fenomenologia tra immagine scientifica e immagine manifesta, in R. Lanfredini (a cura di), Fenomenologia applicata. Esempi di analisi descrittiva, Guerini E Associati, Milano, 2004, pp. 69-99. La differenza logica tra (IM) e (IS) — e dunque la loro reciproca irriducibilità — è invece ben colta da N. Perullo, Percezione e sensazione nella filosofia di Wilfrid Sellars, cit. Perullo tuttavia — ed è questo l’aspetto meno convincente del suo lavoro — sembra incline, sulla scorta di McDowell, a riscontrare in Sellars una forma residuale di scientismo. Corretta infine, nelle linee essenziali, è anche la sintesi proposta da A. Gatti nella già citata introduzione all’edizione italiana di (PSIM). ↩︎

  65. (PSIM), pp. 38-39[102-104] ↩︎

  66. L’espressione è di F. Cimatti, nel suo La mente silenziosa, Editori Riuniti, Roma, p. 154. Tentativi di affrontare naturalisticamente lo studio della dimensione morale sono ad esempio quello di M. Gazzaniga, La mente etica, Codice Edizioni, Milano, 2006 e di M. Hauser, Moral minds. How Nature designed a universal sense of Right and Wrong, Ecco/HarperCollins Publishers, 2006; tr. it. Menti morali, Il Saggiatore, Milano, 2007. Per un punto di vista decisamente critico rispetto a queste posizioni cfr. M. De Caro, Gazzaniga, Hauser e la fallacia dei cromosomi morali, «MicroMega», n. 2, 2007, pp. 143-149. De Caro coglie un punto essenziale allorquando mostra che al fondo di questi tentativi di naturalizzazione agisce un ben noto errore di ragionamento: la cosiddetta fallacia naturalistica, l’idea cioè di derivare il «dover essere», dall’«essere». Mutatis verbis: la morale dalla natura. Sfortunatamente, però, non s’avvede che Sellars, riguardo a ciò, può essere un valido e potentissimo alleato. Molto più di Putnam, McDowell o Dupré. In linea con la tesi espressa da De Caro è P. Donatelli, Naturalismo e intelligibilità morale, in D. Marconi (a cura di), Naturalismo e naturalizzazione, cit., pp. 189-211. Sul tema si veda anche, di Sellars, Science and ethics, in W. Sellars, Philosophical perspectives. Metaphysics and epistemology, Ridgeview Publishing Company, Atascadero, 1977, pp. 209-232. Si tratta di una conferenza, coeva a (PSIM), in cui Sellars mostra l’inadeguatezza delle categorie scientifiche nel trattare la dimensione morale umana. Le radici della moralità vanno infatti cercate altrove: «The only frame of mind which can provide direct support for moral commitment is what Josiah Royce called Loyalty, and what Christians call Love (Charity). This is a commitment deeper than any commitment to abstract principle» (p. 231). Analoghe conclusioni trae F. D’Agostino, La scienza non ci sa dire cos’è il bene, «Avvenire», 3 giugno 2007. ↩︎

  67. (PSIM), p. 39. ↩︎

  68. J. Habermas, Il futuro della natura umana, cit. pp. 104-105. Habermas qui dà ancora una volta prova di quella caratteristica che lo ha contraddistinto durante tutto il suo lungo e tortuoso percorso intellettuale, vale a dire la capacità di andare al di là di gretti pregiudizi di scuola, e di aprirsi alle più disparate tradizioni di pensiero, recependone sempre i tratti migliori. Per una ricostruzione, precisa ed esaustiva, del complesso itinerario teoretico habermasiano cfr. S. Cirrone, Le regole dei giochi, Ed. Del Prisma, Catania, 1997. ↩︎

  69. J. Habermas, Il futuro della natura umana, cit. p. 105. In termini semantici, questo è il tema del carattere sui generis del pronome di prima persona. Una robusta difesa dell’irriducibilità delle prima persona alla terza, vale a dire dell’impossibilità di dar conto in termini meramente referenziali del pronome di prima persona, si può trovare in G. Evans, The Varieties of Reference, Clarendon Press, Oxford, 1982, pp. 205-257. Sulla teoria del riferimento si veda inoltre S. Cirrone, Aboutness. Modelli per una teoria del riferimento, Università degli Studi di Catania — Dipartimento di Scienze della Cultura dell’Uomo e del Territorio, Catania, 2005. Per una discussione sui temi del libro cfr. A. Paternoster, Il riferirsi si dice in molti modi. Riflettendo insieme a Silvana Cirrone↩︎

  70. A. Koyré, Studi newtoniani, Einaudi, Torino, 1983, p. 26 (corsivo aggiunto). Una analoga prospettazione del mondo «spaccato» in due mondi, quello della fisica e quello del senso comune, era stata formulata — prima di Koyré — dal fisico britannico A.S. Eddington, nel suo The nature of the physical world, Macmillan, New York, 1931, pp. 70-72. È a queste pagine, in particolare, che Sellars si riferisce: cfr. (PSIM), pp. 35-36. Il tema del rapporto tra senso comune e immagine scientifica è affrontato da R. Casati, A. Varzi, Un altro mondo ?, in «Rivista di estetica», Rosenberg & Sellier, Torino, n. 19, 2002, anno XLII, pp. 131-159. Casati e Varzi respingono la tesi di Koyré concludendo con una soluzione di sapore putnamiano: la differenza tra i due «mondi» è una differenza linguistica tra descrizioni referenziali — quelle del senso comune — in cui si individua un oggetto o una situazione ma senza alcun impegno ontologico (ad esempio il sole che ruota attorno alla terra) e descrizioni attributive — proprie della scienza — mediante le quali si designano le cose così come, in realtà, sono (è la terra a girare, non il sole). La posizione di Sellars è discussa in modo tangenziale e sostanzialmente inadeguato. Più in linea con lo spirito del lavoro sellarsiano, benché esso non risulti neppure menzionato, è invece il saggio di A. Gargani, Scienza, filosofia e senso comune, introduzione a L. Wittgenstein, Della certezza, Einaudi, Torino, 1999, pp. VII- XXX. ↩︎

  71. Le due espressioni, molto perspicue, sono ancora di Koyré. Cfr. A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi, Torino, 2000. ↩︎

  72. Anche la fisica greca prearistotelica, come peraltro Sellars stesso non manca di notare (cfr. (PSIM), p. 26 [77]), si serviva proprio della postulazione di entità inosservabili per dar conto dei fenomeni osservabili. I sensi erano manifestamente ingannevoli, la spiegazione dei fenomeni andava dunque cercata altrove: ad esempio in una sostanza immobile, sferica e monolitica (Parmenide) o in una infinita serie di particelle indivisibili (Democrito). (Sul tema può essere utile K. Popper, Il mondo di Parmenide, Piemme, Casale Monferrato, 1998. Oltre a una serie di exursus sulla filosofia presocratica, Popper qui propone una originale — e per la verità alquanto ardita — interpretazione del poema di Parmenide in chiave cosmologica). Ciò che tuttavia differenzia la scienza moderna newtoniano-galileiana è a) la presenza degli strumenti tecnici di indagine e di osservazione, che permettono di raggiungere un livello di precisione prima impensabile e quindi di convalidare l’esistenza di entità postulate; presenza strumentale che, a sua volta, presuppone b) la possibilità della matematizzazione del reale, vale a dire l’acquisizione di uno sfondo concettuale che rende possibile, nello studio dei fenomeni, il passaggio da un approccio qualitativo (il «più o meno») ad uno quantitativo (la misura esatta, la precisione). Se si tien fermo tutto ciò, si comprende come nel mondo antico la postulazione di entità inosservabili, pur presente, ha un senso (logico) diverso: rimane concettualmente ancorata ad una dimensione meramente qualitativa, senza alcun possibile sbocco quantificazionale, e senza dunque alcuna concreta possibilità di un azione perturbatrice sul mondo-della-vita. La dimensione logica della scienza moderna invece permette di conferire validità epistemologica allo strumento, ad un qualcosa cioè che è capace di confermare l’esistenza di entità postulate e, in aggiunta, di dischiudere aspetti totalmente nuovi. In tal caso le cose cambiano, il mondo sembra «spaccarsi» davvero in due, come dice Koyré. Ad ogni modo, lo schema di Sellars, benché non sufficientemente articolato, limitandosi a tracciare il contrasto (IM)-(IS) nei termini dell’opposizione osservabile-inosservabile, cattura tuttavia l’essenziale: è con la scienza moderna — e non con quella greca — che, di fatto, si produce una biforcazione, cioè il distacco dell’immagine scientifica dall’immagine manifesta. È con la scienza moderna che si produce una effettiva discontinuità, che si entra in un diverso spazio logico-categoriale. Molto utile, per non dire essenziale, a chiarire le dinamiche, storiche e teoriche, di questo passaggio, e integrare così lo schema sellarsiano, è il già citato A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, pp. 89-111. ↩︎

  73. Ad esempio Spinoza è tra quelli che tracciano la distinzione tra «immagine scientifica» e «immagine manifesta» per poi respingere quest’ultima come falsa e accettare invece la prima come vera. Sulla linea dei «difensori» del senso comune contro l’invasione della scienza Sellars invece colloca alcune importanti correnti del pensiero contemporaneo, sia di ambito continentale (esistenzialismo, fenomenologia), sia di matrice analitica (filosofie del common sense e del linguaggio ordinario). Cfr. (PSIM), pp. 7-8 [40-42]. ↩︎

  74. (PSIM), p. 10 [45]. ↩︎

  75. La priorità ontologica della «persona» in Sellars, così come, in Heidegger — perlomeno in Essere e tempo — del Dasein, è un modo per porre, nell’epoca dell’oggettivizzazione dispiegata, la questione della natura della filosofia. Nei termini heideggeriani: la questione dell’essere, dimenticato e dunque da rammemorare (Andenken). Coglie nel segno H. L. Dreyfus quando afferma che «la domanda sulla natura della mente diviene con Heidegger la domanda sull’essere». Cfr. H. L. Dreyfus, Heidegger, Husserl e la filosofia della mente, in E. Carli (a cura di), Cervelli che parlano, Bruno Mondadori, Milano, 2003, p. 97. Sul concetto di persona si veda anche, di Sellars, Metaphysics and the concept of a person, in P. A. Schlipp(ed), The Philosophy of Rudolf Carnap, Open Court, La Salle, Illinois, 1963, pp. 431-468, poi incluso in W. Sellars, Essays in philosophy and its history, cit., pp. 214-241. In linea con l’impostazione «fenomenica» di Sellars è la penetrante analisi — condotta secondo il metodo della fenomenologia realista di M. Scheler e R. Ingarden — di K. Wojtyla, Persona e atto, Bompiani, Milano, 2001. Più orientata in direzione neotomista è la ricerca di V. Possenti, Il principio-persona, Armando, Roma, 2006. Un sintesi efficace del lavoro di Possenti, non priva di qualche rilievo critico, è offerta da E. Berti, Questioni di principio, «Il Sole 24 ore — Domenica», 2 settembre 2007. Un importante punto di riferimento è inoltre il saggio di E. Baccarini, La persona come struttura dialogica, in «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia», anno 1 (1999). (Sul tema della persona la rivista «Dialegesthai» offre una nutrita serie di contributi. Si segnalano in particolare quelli di O. Black, G. Salmeri, C. Sparaco, S. Spiri). La critica più radicale al concetto di persona proviene, in ambito analitico, da D. Parfit, Ragioni e persone, Il Saggiatore, Milano, 1989. Per una affilata decostruzione degli argomenti di Parfit cfr. P. Ricœur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 1991, pp. 220-230. Per una sintesi della prospettiva ricœuriana si legga infine P.Ricœur, Ritorno alla persona, l’Io è troppo limitato, «Il Sole 24 ore — Domenica», 22 giugno 1997. ↩︎

  76. Cfr. ad esempio (PSIM), p. 7 [39]. ↩︎

  77. Cfr. (EPM), p. 79 [56]. ↩︎

  78. (EPM), pp. 81-83[58-59]. La traduzione italiana di questo brano contiene alcune imprecisioni. ↩︎

  79. Scrive lapidario Wittgenstein: «La filosofia non è una delle scienze naturali. (La parola «filosofia» deve significare qualcosa che sta sopra o sotto, non già presso, le scienze naturali. )». L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, cit., p. 49. (prop. 4.III). Resta naturalmente aperto il problema di capire quale sia la natura del luogo da cui si parla della filosofia, cioè a dire la dimensione logica del discorso metafilosofico: il discorso che fa della filosofia stessa oggetto, tematizzandola, problematizzandola. ↩︎

  80. McDowell giustamente caratterizza la filosofia della mente contemporanea come un «cartesianesimo riciclato». Cfr. J. McDowell, Il naturalismo in filosofia della mente, in M. De Caro, D. Macarthur (a cura di), La mente e la natura , cit., p. 90. In opposizione al neocartesianesimo dominante, ravvisabile persino in posizioni sofisticate come quelle espresse da R. G. Millikan, McDowell, partendo da Sellars, elabora la sua proposta di un «naturalismo liberale». Che è nozione ragionevole ma anche piuttosto ambigua. Per McDowell possedere una mente significa essere immersi in una Bildung (cfr. Mente e mondo, cit. pp. 134-136), entrare progressivamente in una rete ereditata di costellazioni concettuali. Tuttavia, definire questo processo di acquisizione-formazione come interamente «naturale» è perlomeno problematico, se non altro per il fatto che così, con una mossa ingiustificata, si viene a collocare l’idea di «natura» in una posizione esplicativa prioritaria e sovraordinata, dimenticando che «natura» è anch’esso un concetto che si costituisce all’interno di, e a partire da, una specifica Bildung. In realtà, la paura di staccare i piedi dal terreno sicuro del mondo naturale, adottando punti di vista che egli ritiene pericolosamente metafisici e soprannaturalistici (in Mente e mondo definiti come «platonismo sfrenato»), impedisce a McDowell di trarre le dovute conseguenze dalle premesse sellarsiane da cui muove. Sarà «liberale» ma è pur sempre «naturalismo», quello di McDowell. Anche per lui «natura» è un concetto metafisicamente primario, non problematizzato né problematizzabile, da cui partire e a cui, in definitiva, tendere. Da parte sua M. Di Francesco afferma che l’attuale riflessione filosofica sulla mente può considerarsi tutta naturalistica, visto che, anche all’interno delle forme di naturalismo debole, o comunque non riduzionstico — posizione, quest’ultima, di cui egli stesso è un significativo esponente — si condivide comunque l’idea che sia legittimo cercare (anche) dentro la scienza un risposta al problema della coscienza (per tal motivo, quello di Di Francesco può essere definito coma una forma di naturalismo «cooperativo»). Cfr. M. Di Francesco, Coscienza e ordine naturale, in D. Marconi (a cura di), Naturalismo e naturalizzazione, cit., pp. 81-82. Importante inoltre, dello stesso autore, Perché non possiamo naturalizzare le persone. Una critica alla tesi di impersonalità, in A. Bottani, N. Vassallo, (a cura di), Identità personale. Un dibattito aperto, Loffredo, Napoli, 2001, pp. 255-280. In questo lavoro Di Francesco inquadra il problema della naturalizzazione della persona nei termini del rapporto-conflitto tra scienza e senso comune. Purtuttavia, questo spunto «sellarsiano» non sembra essere, nello sviluppo successivo del saggio, adeguatamente valorizzato. Il problema infatti non è tanto perché non possiamo naturalizzare le persone ma, piuttosto, e preliminarmente, perché dobbiamo farlo. È a questo livello che si muove il discorso di Sellars, teso a mostrare appunto l’assoluta non necessità di quel «dobbiamo». Ad ogni modo, è forse importante mettere in chiaro un punto, allo scopo di evitare equivoci e indebite sovrapposizioni di campi: ad essere del tutto al di fuori dalla dimensione logica della scienza è la coscienza in quanto espressione-fondamento della persona umana. Di pertinenza invece della conoscenza scientifica è la coscienza intesa come struttura cognitivo-emozionale e come sistema di elaborazione degli imput percettivi. Si mostra consapevole di ciò T. Nagel, Coscienza e realtà oggettiva, in G. Giorello, P. Strata (a cura di), L’automa spirituale. Menti, cervelli e computer, Laterza, Roma-Bari, 1991, pp. 31-37. Per un esempio di approccio scientifico al tema della coscienza, basato sul tentativo di costruire una modellizzazione funzionalistica del Sé mediante il ricorso ai sistemi non lineari, cfr. A. Bruzzo, The chaotic nature of Self, «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia», anno 9 (2007). ↩︎

  81. J. Habermas, Il futuro della natura umana, cit., p. 105. ↩︎

  82. M. Dummett, La natura e il futuro della filosofia, Il Melangolo, Genova, 2001, pp. 38-39. ↩︎

  83. Una difesa di un punto di vista antinaturalistico a partire da una prospettiva fenomenologica si può trovare in R. De Monticelli, «L’anima e il sentire», in AA.VV., L’anima, Annuario di filosofia, Milano, Mondadori, 2004, pp. 265-290. Per una rassegna degli argomenti di Husserl contro l’«ingenuo» atteggiamento naturalistico cfr. N. Ghigi, Dalla Vorhandenheit all’eidetico: una riflessione sul superamento dell’atteggiamento naturale, «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia», anno 5 (2003). ↩︎