L’asimmetria del volto. Un’intervista

A cura di Joëlle Hansel

Presentazione di Joëlle Hansel

L’intervista che presentiamo, realizzata da France Guwy per la televisione neerlandese nel 1986, è notevole per diverse ragioni.

Per il suo stile, innanzitutto. Levinas, autore difficile, o almeno presunto tale, vi si esprime con un linguaggio il più semplice possibile. Testo senza effetti retorici e estremamente preciso, dove ogni frase, quasi ogni parola, racchiude e conclude un esteso insieme di ricerche filosofiche. Si deve dunque prestare attenzione al modo in cui, ogni volta, Levinas approfondisce, esplicita o rifiuta, la suggestione contenuta nella domanda che gli viene posta.

In secondo luogo, Levinas vi si mostra «di persona», vivo, vibrante, evocante i suoi sentimenti personali e i drammi storici attraversati di cui non esista a enunciare la connessione con lo sviluppo del suo pensiero. Nello stesso tempo, rifiuto del pessimismo, rifiuto di prendere le distanze con la «civiltà occidentale», messaggio di speranza con «l’affermazione di una bontà iniziale della natura umana», natura umana di cui ci dice, senza temere il paradosso, che è la «rottura con l’ordine della natura».

Ma il tratto principale di questo testo è il suo contenuto filosofico: incontro con Levinas e null’altro che Levinas. Husserl, Hegel e Heidegger, queste figure emblematiche con le quali Levinas non ha mai cessato di spiegarsi, sono scomparse dalla scena. Nessun nome di filosofo è pronunciato. Davvero nessuno? Errore, uno e solo uno, Spinoza! Come se, al termine del suo itinerario, Levinas volesse indicare il più irriducibile dei suoi avversari: con il volto d’altri, con la responsabilità per altri, è rotto l’ordine che consiste per l’essere a perseverare nel suo essere, «atto supremo di Dio», secondo Spinoza. Se non fosse incongruo associare le parole testamento e filosofia, direi che questo è il testamento filosofico di Levinas. Incongruo, certamente, ma che testamento!

L’asimmetria del volto

...

Sono responsabile d’altri, rispondo d’altri. Il tema principale, la mia definizione fondamentale, è che l’altro uomo, che di primo acchito fa parte di un insieme che tutto sommato mi è dato, come gli altri oggetti, come l’insieme del mondo, come lo spettacolo del mondo, l’altro uomo emerge in un certo modo da tale insieme precisamente con la sua apparizione come volto. Il volto non è semplicemente una forma plastica, ma è subito un impegno per me, un appello a me, un ordine per me di trovarmi al suo servizio. Non solamente di quel volto, ma dell’altra persona che in quel volto mi appare contemporaneamente in tutta la sua nudità, senza mezzi, senza nulla che la protegga, nella sua semplicità, e nello stesso tempo come il luogo dove mi si ordina. Questa maniera di ordinare, è ciò che chiamo la parola di Dio nel volto. [Gli scrittori russi] erano fondamentali, Puskin, Gogol, in seguito i grandi prosatori, Turgenev, Tolstoj, Dostoevskij… Vi si trova costantemente la messa in discussione dell’umano, del senso dell’umano. Ciò vi avvicina ai problemi che, a mio avviso, restano essenziali alla filosofia, e che sotto altre forme trovate nella letteratura specificamente filosofica, e in ogni caso li trovate anche in un’opera letteraria, il libro di tutti i libri, la Bibbia.

C’è, secondo lei, una contraddizione tra la Bibbia e la filosofia?

Non credo, non ho mai vissuto ciò come una contraddizione. In entrambi i casi, si tratta del senso, dell’apparizione del sensato: che sia sotto la forma che tra i greci si definisce ragione, o che sia sotto la forma della relazione con il prossimo nella Bibbia, per me, ciò che le unisce, prima di tutto, è in entrambi i casi la questione della ricerca del senso.

È in questa stessa Europa che lei ha vissuto l’esperienza degli anni ’30 e della guerra del 1940-1945, un’esperienza e un’influenza che è probabilmente molto importante per lei e per l’elaborazione del suo pensiero.

È addirittura l’esperienza fondamentale della mia vita e del mio pensiero, il presentimento di questi anni tremendi, il ricordo indimenticabile di questi anni. Ma io non penso che l’uscita possa consistere in un cambio dei principi di questa civiltà. Penso che all’interno di questa civiltà, ponendo in posizione centrale elementi che erano più marginali, c’è forse un’uscita. Non ho dimenticato neppure che questa Europa si trova senza dirlo, senza ammetterlo, nell’angoscia della guerra nucleare. Ciò che si definisce spesso la modernità mi pare porsi tra ricordi indelebili e un’attesa angosciata. Non so affatto se, rinunciando a ciò, accettando delle forme che sono certamente umane, che possono umanizzarsi ancora di più, si troverà una risposta alle nostre angosce. Non mi aspetto molto dalle mie ricerche per cambiare questo, ma in ogni caso queste sono determinate da ciò che ritengo essere uno squilibrio all’interno di questa civiltà tra i temi fondamentali del sapere e quelli della relazione con altri.

Si potrebbe dire che questa esperienza abbia anche influenzato il suo modo di considerare la filosofia occidentale, la sua critica di tale filosofia?

«Critica della filosofia occidentale», è troppo ambizioso. Ci permettiamo espressioni eccessive. È un po’ come se si contestasse l’altezza dell’Himalaya. Questo insegnamento filosofico è così importante, così essenziale. Esige così tanto di essere attraversato prima di iniziare diversamente.

Ciononostante, lei ha scritto che la storia della filosofia occidentale è stata una distruzione della trascendenza.

La trascendenza è altra cosa, essa ha un senso molto preciso. L’ideale verso il quale andava la filosofia europea consisteva nel credere nella possibilità per il pensiero umano di abbracciare tutto ciò che sembra opporvisi e, in tal senso, di rendere interiore ciò che è esteriore, ciò che è trascendente. La filosofia occidentale non voleva più considerare la trascendenza divina, qualcosa che oltrepassa il limite dell’abbracciabile, del carpibile, come se lo spirito consistesse nel cogliere ogni cosa.

Se posso esprimerlo un po’ più semplicemente, credo che lei voglia dire che è una filosofia dove l’io regna con pieni poteri e dove la conoscenza va più presa che compresa.

Sì, l’io, attraverso il sapere, riconosce come il Medesimo, come riducibile al Medesimo, ciò che di primo acchito sembrava Altro. Sono responsabile d’altri, io rispondo d’altri, prima d’aver fatto qualcosa. Il tema principale, la mia definizione fondamentale, è che l’altro uomo, che innanzitutto, fa parte di un insieme, che sostanzialmente mi è dato come gli altri oggetti, come l’insieme del mondo, come lo spettacolo del mondo, l’altro uomo emerge in qualche modo da tale insieme precisamente con la sua comparsa come volto, che non è semplicemente una forma plastica, ma è immediatamente un impegno per me, un appello a me, un ordine per me di trovarmi al servizio di questo volto, non solamente questo volto, servire l’altra persona che in questo volto mi appare contemporaneamente nella sua nudità, senza mezzi, senza protezioni, nella sua semplicità, e al tempo stesso come il luogo dove mi si comanda. Questa maniera di comandare, è ciò che chiamo la parola di Dio nel volto.

E questo comandamento è: «non uccidere».

Prima di tutto è questo, con diverse sfumature. Nei miei primi scritti, ne parlavo in modo assolutamente diretto: il volto significa «non uccidere», non mi devi uccidere. È la sua umiltà, il suo essere senza mezzi, la sua sobrietà, ma al tempo stesso, precisamente, il comandamento «non uccidere». È ciò che si presta all’omicidio e ciò che resiste all’omicidio. Ecco l’essenza di tale relazione «non uccidere» che è tutto un programma, che vuol dire «tu mi farai vivere». Ci sono mille modi di uccidere altri, non solo con una pistola; si uccide altri restandogli indifferenti, non occupandosene, abbandonandolo. Di conseguenza, «non uccidere» è la cosa principale, è l’ordine principale nel quale l’altro uomo è riconosciuto come ciò che si impone a me.

Questo viso dell’altro fa appello alla mia responsabilità, e lei si spinge molto in là in questa responsabilità, va fino a dire che si deve anche espiare per l’altro.

Ciò che chiamo essere per l’altro, la parola «responsabilità» non è che un modo di esprimere questo: io sono responsabile d’altri, rispondo d’altri, e sostanzialmente rispondo prima d’aver fatto qualcosa. Il paradosso della responsabilità, è che essa non è il risultato di un atto qualsiasi da me commesso. È come se fossi responsabile prima d’aver commesso qualsiasi cosa, come se fosse un a priori e, di conseguenza, come se non fossi libero di scrollarmi da tale responsabilità, come se fossi responsabile senza aver votato, come se espiassi, come se mi comportassi come un ostaggio.

Che significa allora la libertà e l’autonomia dell’essere umano quando, prima di ogni conoscenza e quindi di ogni libertà di scelta, è l’altro che mette in dubbio la mia libertà e esige la mia responsabilità?

Pongo la domanda: come definisce lei la libertà? Evidentemente, quando c’è costrizione, non c’è libertà. Ma quando non c’è costrizione, c’è necessariamente libertà? La libertà deve essere definita in modo puramente negativo, come assenza di costrizione, o al contrario, la libertà significa la possibilità per una persona, l’appello rivolto ad una persona a fare qualcosa che nessun altro può fare al posto suo? In tale bontà precedente ad ogni scelta che è la mia responsabilità, sono come eletto, non intercambiabile, il solo a poter fare ciò che faccio nei confronti di altri.

Di fatto, questa è una risposta a Sartre quando dice che siamo condannati ad essere liberi.

Quando si è votati a qualcosa, a qualcosa dove non c’è semplicemente una cieca necessità ma dove c’è un appello a me in quanto unico a poter compiere ciò che compio, l’etica, la responsabilità etica è sempre questo. Il significato stesso del mio obbligo etico, è il fatto che nessun altro poteva fare ciò che faccio, come se fossi eletto. È questa nozione di libertà, d’elezione che sostituisco a quella libertà puramente negativa. Ciò che ci colpisce nella non-libertà, è che siamo chiunque. Nella mia responsabilità per altri, sono sempre chiamato come se fossi il solo a poterlo fare… Farsi sostituire per un atto morale, vuol dire rinunciare ad un atto morale.

È ciò che dice Sartre quindi?

Non so se Sartre dica questo. Dico anche, ed è sicuramente una formulazione terribile, che la bontà non è un atto volontario. Con ciò voglio intendere che non c’è, nel movimento di libertà, l’atto in particolare di una volontà che interviene. Non si decide di essere buoni, si è buoni prima di ogni decisione. C’è, nel mio concetto, l’affermazione di una bontà iniziale della natura umana.

Ma lei ha anche detto che non si è buoni volontariamente. È dunque contro natura?

Non è a seguito di un atto volontario, è la rottura con l’ordine della natura. E quando dico rottura dell’ordine della natura, lo penso con molta forza, come se la comparsa stessa dell’umano nell’ordine regolare della natura — dove ogni cosa tende a restare immutata, dove ogni essere umano pensa a sé stesso, persiste nel suo essere, ciò che Spinoza chiamava l’atto supremo di Dio che consiste per l’essere nel persistere nel suo essere — con la responsabilità per altri, questo ordine è rotto, può essere rotto, anche se non sempre lo è. Io non dico affatto che ciò trionfi sempre, ma con l’umano, c’è la possibilità per l’uomo di pensare, di impegnarsi, di occuparsi dell’altro prima di perseguire la persistenza nel suo proprio essere.

È la sua vocazione?

Certamente, nel senso fortissimo del termine: c’è qualcuno che chiama, qualcuno che nel volto d’altri chiama, obbliga senza forza. L’autorità non è affatto possesso della forza. È un obbligo senza forza. Purtroppo, il XX secolo ci ha abituati a questa idea che non si abbia il diritto di predicare, ma che si possa dire a se stessi che Dio ha rinunciato alla violenza, che comanda senza violenza. È anche una predicazione, e non si ha il diritto di predicare (lo si può dire a se stessi) perché, quando lo si predica, sembra si voglia giustificare Auschwitz. Dopo Auschwitz, Dio non ha più giustificazioni. S’è c’è ancora fede, è una fede senza teodicea.

Intende dire senza speranza?

No, senza teodicea, senza che si possa giustificare Dio. Dicendo questo, non invento una possibilità fondamentale dell’umano. In realtà, quando non ci lasciamo essere in modo puro e semplice, quando abbiamo compreso l’alterità dell’altro, non abbiamo mai finito di comprenderla. Non si è mai affrancati da altri. È una moralità assolutamente borghese che dice: «In dati momenti, posso chiudere la porta».

In questo contesto, lei cita più volte Dostoevskij che dice: «Noi siamo tutti colpevoli di tutto e di tutti davanti a tutti, e io più di tutti gli altri» [I Fratelli Karamazov].

Torneremo a breve, se me lo permette, sul fatto che non sia probabilmente così tutti i giorni. Ma, se si è in questo incontro d’altri che provo a descrivere, non si è mai colui che comprende la sua relazione ad altri come reciproca. Se si dice: «Sono responsabile per lui, ma anche lui è responsabile nei miei riguardi», in tal caso, si trasforma la propria responsabilità iniziale in commercio, in scambio, in uguaglianza, si è già mal interpretato tale frase di Dostoevskij, che è un’esperienza fondamentale dell’umano.

E che illustra ciò che lei intende per «asimmetria».

L’asimmetria, è in primo luogo il fatto che la mia relazione nei confronti di me stesso e le mie obbligazioni come io stesso le intendo non sono immediatamente in un rapporto tra due pari, dove altri è sempre supposto essere io stesso. Io stesso, sono prima di tutto l’obbligato, e lui, è prima di tutto colui nei confronti del quale sono obbligato. Non è affatto uno smarrimento, è la modalità essenziale dell’incontro con altri. Come dicevo poc’anzi, io non posso predicare la religione ad altri, anche se in me stesso posso accettare alcune cose che, proposte agli altri, paiono avere la facilità della chiacchierata teologica. Io posso accettare una teologia per me, assumere per me una teologia, ma non ho il diritto di proporla agli altri. È la vocazione dell’asimmetria.

Ci si può chiedere se sia possibile vivere con un perpetuo senso di colpa. Come vivere con questo problema contro natura?

Tutto ciò che tento di presentare è un’umanità contro natura. Come una rottura dell’ordine regolare dell’essere preoccupato di sé stesso, preoccupato del proprio sostentamento, perseverante nell’essere, stimando perfino che, quando si tratta del mio essere, tutte le altre questioni cadano. È contro ciò che tento di scoprire nell’umanità una vera rottura d’un essere costretto ad essere, preoccupato d’essere.

Ma non sarebbe una morale quasi masochista?

Il masochismo è una caratteristica di una malattia dell’essere ben portante. Io non credo che l’essere umano sia ben portante, nel senso banale del termine: è una rottura di questa salute facile, che è soprattutto la mia salute, è una preoccupazione. Non tutte le malattie sono da curare. Masochismo? Io non temo questa parola. Che cos’è l’umano? È lì dove l’altro è l’indesiderato per eccellenza, dove l’altro è il disturbatore, ciò che mi limita. Nulla può limitarmi maggiormente che un altro uomo. Per questa umanità-natura, per questa umanità vegetale, per questa umanità-essere, l’altro è l’indesiderabile per eccellenza. Ma è contro di lui e verso di lui che vi guida, nel volto dell’uomo, l’appello di Dio. È drammatico. È un termine tratto dal mio articolo «Dieu et la philosophie» (è uno degli articoli ai quali tengo maggiormente) dove la risposta di Dio non consiste nel rispondervi, ma nel rinviarvi verso l’altro.

La relazione con Dio, con l’infinito, è il rapporto all’umano, a l’altro.

Ciò che ammiro di più nel Vangelo — io non sono cristiano, lo sapete, ma trovo nel Vangelo molte cose che mi sono prossime e le cui basi mi paiono assolutamente bibliche —, è il capitolo 25 di Matteo sul giudizio finale, dove il Cristo dice: «Voi mi avete cacciato, mi avete perseguito. Quando ti abbiamo perseguito? Quando ti abbiamo cacciato? Quando avete cacciato il povero». Bisogna considerare ciò, non in senso metaforico, ma in senso eucaristico. È veramente nel povero che c’è la presenza di Dio, nel senso concreto. Ho sempre letto in questo senso il capitolo 58 di Isaia, dove pure ci sono persone che dicono di cercare Dio, e questi dice che, per trovarlo, si devono liberare gli schiavi, vestire gli ignudi, nutrire gli affamati, far entrare in casa i senzatetto. È più difficile perché i senzatetto sporcano i tappeti.

Nella sua opera Totalità e infinito, lei dice: «L’uomo è naturalmente ateo, ed è una grande gloria per il Creatore l’aver dato vita ad un essere capace di essere ateo. L’ateismo condiziona una relazione vera con un vero Dio». Vuole liberare l’uomo da Dio?

Il fatto che l’uomo possa giungere a partire dalla sua bontà verso Dio invece di andare verso la bontà a partire da Dio, ecco cosa mi pare estremamente importante. Il fatto che, senza pronunciare la parola Dio, io sia nella bontà è più importante di una bontà che venga semplicemente a posizionarsi tra le raccomandazioni di un dogma. È estremamente importante indicare un procedimento a partire dalla bontà e non a partire dalla creazione del mondo. La creazione del mondo stessa deve prendere il suo significato a partire dalla bontà. È una vecchia credenza rabbinica, ma si pretende che sia tratta dalla Bibbia, che il mondo sussista, sia stato creato dall’etica, dalla Torah; che nell’espressione, «in principio Dio creò», la parola reshit (principio) significhi l’etica o, se volete, la Torah. Può darsi che la spiritualità alla quale si giunge attraverso l’etica non sia completa. Può darsi che infatti, gli altri, vadano aiutati ancora diversamente. Io non affermo che ciò sia falso, ma non è questa la via che mi pare corrispondere allo spirito, che definisce lo spirito.

Lei ha illustrato ciò attraverso la storia del romano che chiede al rabbino: «Perché il vostro Dio, che è il Dio dei poveri, non nutre i poveri?». La risposta del rabbino è: «Per salvare l’umanità dalla dannazione».

No, questa è un’altra cosa. Questo vuol dire che è assolutamente scandaloso, è un peccato mortale che gli uomini non aiutino gli altri uomini. Se fosse Dio ad incaricarsene, non gli resterebbe più che lasciare gli uomini al loro peccato.

Lo si potrebbe rimproverare alle Chiese…

Io non condanno le Chiese, hanno molto da fare, hanno altri problemi ma per me non è l’inizio della spiritualità. Ci sono tanti libri che le Chiese commentano e diffondono, ma è ciò che è contenuto in questi libri, prima di questa organizzazione, che è importante. Il Messia, ovvero l’obbligo di occuparsi d’altri, è il mio compito. Nella mia individualità, nella mia unicità, c’è questo: sono un potenziale Messia.

Non è l’effetto della grazia.

Assolutamente no, al contrario, è la condizione dell’io come la descrivo sin dall’inizio: il soggetto non è assolutamente colui che prende, ma colui che è responsabile. L’universo pesa su di me, sono ostaggio, espiazione, sono scelto per questo. La mia unità, la mia unicità, è ciò che chiamo Messia. Vengo per salvare il mondo, ma lo dimentico. Tuttavia, nell’io, ovvero in questa soggettività — che non concepisco affatto come sostanza, come potere, ma che descrivo con questa bontà iniziale, gratuita — con questa responsabilità, diversa, di qualunque grado sia, anche nella condotta, mi interessa, mi riguarda. Mi riguarda non nel senso sartriano, condannandomi, ma nel senso nel quale si dice in francese: «I vostri fatti mi riguardano» o «I vostri fatti non mi riguardano». È ciò che chiamo il momento messianico nell’io umano. Non dico che trionfi — il Messia non viene — ma questa vocazione, lui l’ha sentita, è tramite questa vocazione che è unico e uno, lì si trova la sua individuazione. Non ho filosofia della storia che possa consolare da tutti gli abusi, anche dalla relazione ad un volto. Ciò che mi è importato, è di scoprire nella pesantezza dell’essere che si occupa di sé stesso, questa possibilità di tenere conto, di sviluppare una bontà per un altro essere, di occuparsi della sua morte prima di occuparsi della propria. Questo scoraggiamento non ha consolazione, ma ho spesso pensato che si debba insistere nelle analisi sul disinteresse della relazione interumana, della parola che si ha con altri, e che non è impossibile — ma questo è al di là della filosofia — che coloro che non contano su nessuna ricompensa siano degni di una ricompensa.