Recensione ad Andrea Tagliapietra, La forza del pudore. Per una filosofia dell’inconfessabile

Andrea Tagliapietra, La forza del pudore. Per una filosofia dell’inconfessabile, Rizzoli, Milano 2006, 251 pp., € 11.

In Gn 3, 7-22 Adamo scopre di essere nudo solo dopo aver mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male; e solo dopo aver violato il comandamento divino che gli ha vietato di mangiare da quell’albero. La scoperta di essere nudo è una conseguenza del sapere acquisito o della disubbidienza? Prima di trasgredire e di acquisire la conoscenza del bene e del male Adamo non sa di essere nudo e non teme Dio. Scoprire di essere nudo significa accorgersi di essere venuto al mondo: ogni essere umano viene nudo alla luce, ma solo in un secondo momento guadagna anche la coscienza di esserlo. La nudità è la nuda vita esposta alla violenza possibile, ma anche alla punizione divina. Adamo a un certo punto scopre di essere un bersaglio possibile, di essere esposto ad un eventuale attacco mortale. Adamo quindi, con la nudità, scopre anche la propria mortalità. Conosce la condizione in cui è nato, la stessa in cui può morire e in cui di fatto, un giorno, scivolerà, spogliato di tutto ciò che crederà di aver posseduto in vita. Prima di scoprire di essere nudo, Adamo non sapeva di essere nato né di essere mortale, egli agiva e si comportava come se fosse esistito da sempre e per sempre. Adamo però era immortale nel senso che era del tutto inconsapevole della propria mortalità. Prima di cadere nel peccato Adamo fonda la propria esistenza sul non sapere. Che cos’è allora la vergogna di Adamo se non la paura, l’angoscia che prova dinanzi alla necessità di accettare quella condizione che gli appartiene e che gli si è disvelata? Con il peccato è entrato nel mondo anche la morte (San Paolo, Kierkegaard). Infatti il peccato è la condizione di una scissura tra la condizione umana e la destinazione dell’uomo, tra il corpo e l’anima: la coscienza del peccato non è che la presa di coscienza di questa scissura. La nudità del corpo è la generica irriconoscibilità e la materialità informe del corpo separato dall’anima. Una separazione che è possibile solo mediante il peccato e si oggettiva nella nudità stessa. L’uomo prende coscienza della morte solo in seguito al sapere che lo riguarda. Il corpo nudo non è che la prefigurazione, l’immagine anticipata di quella morte che l’uomo respinge come un’estranea e insieme deve riconoscere come propria.

Questo breve e intenso trattato sul pudore di Andrea Tagliapietra prende avvio dalla Cacciata dal paradiso terrestre dipinta da Masaccio nella Cappella Brancacci, dove l’ombra è protagonista: l’ombra metafora del pudore. L’ombra rinvia a un gesto, quello di nascondersi e proteggersi. Nell’affresco di Masaccio Adamo non si copre i genitali, ma il viso, il luogo dell’identità «più propria e insurrogabile» (p. 11). Il gesto con cui il senso di colpa ci spinge a coprirci, a nasconderci, è tutto ciò che ci separa dall’animale. Perciò la vergogna e il pudore sono tratti ontologicamente fondamentali e decisivi, non modi di sentire storicamente determinati e contingenti. Secondo Tagliapietra il pudore si fonda sul segreto, il segreto inteso non come ciò che si raccomanda di non dire, ma come ciò che non si può ridurre a qualcosa che è o non è. Se il segreto è incondizionato, allora esiste il pudore. L’ideale della trasparenza, della sincerità a tutti i costi è la smania patologica del mondo contemporaneo. Un corpo e una psiche messi a nudo completamente rispondono all’ideale della modernità, in cui si deve sapere tutto, mostrare tutto. Tutti devono vedere tutti gli altri nella loro nudità trasparente. La pretesa di avere qualcosa di proprio, sia poi questo spirituale, ideale o materiale, suscita sospetti di ogni genere. La privacy è divenuta oggetto di tutela giuridica solo nell’epoca in cui non solo non esiste di fatto più alcuna privacy, ma il rivendicarla è divenuto, equivocamente, un comportamento riprovevole, un segno di insincerità e una minaccia potenziale. Nell’epoca in cui il diritto alla privacy è formalmente riconosciuto sul piano giuridico e continuamente violato, l’autotrasparenza assoluta è divenuta l’ideale dominante. La trasparenza assoluta contraddice se stessa, perché in essa non traspare più nulla; così la sincerità assoluta e reciproca tra gli individui annulla se stessa, dal momento che, se si realizzasse, non esisterebbe più alcun soggetto, alcuna dimensione inoggettivabile rispetto alla quale si possa parlare di sincerità in senso proprio. Il fondamento della privacy, quella vera e irriducibile a una formula giuridica, è la stessa soggettività trascendentale, libera di manifestarsi e di dichiararsi, ma anche inesauribilmente trascendente rispetto a ogni manifestazione e dichiarazione. L’ombra che dà spessore rivela e nasconde. L’ombra indica la provenienza della luce, è come lo sguardo che, per quanto penetrante ed esperto, non riesce mai ad essere completo. Manifestandosi nella luce gli oggetti conservano qualcosa di non esposto e di segreto: a loro modo difendono il diritto di ogni cosa a esistere in qualche misura come soggetti. Gli oggetti in ombra diventano dei quasi-soggetti. Per contro, i soggetti esposti alla luce accecante del mito contemporaneo — la trasparenza assoluta — diventano dei quasi-oggetti. La quasi-oggettualità è la dimensione in cui lo spazio del segreto e il margine di manovra della trascendenza del soggetto è ridotto al minimo. L’individuo è così indotto a non avere più nulla di proprio, a non vedere nulla di sé che anche gli altri non vedano. Nella trasparenza incrociata in cui ciò che ciascuno sa di se stesso coincide con ciò che gli altri sanno di lui, tende a zero lo scarto della coscienza individuale. In assenza di questo scarto, di questa dimensione la cui migliore difesa e definizione consiste nel «non-sapere» degli altri, l’individuo non riesce più a vergognarsi. Tutto può essere perdonato, se esposto in una confessione che non tralascia nulla. Infatti ci si vergogna dell’inconfessato o dell’inconfessabile, non di ciò che si è confessato interamente. Che cosa si attende Rousseau confessandosi se non la celebrazione della sua virtù, la sincerità dell’uomo incorrotto, che lo porrebbe così al di sopra di tutti i suoi contemporanei? La sincerità sopra se stessi, la rivelazione della propria interiorità, senza ombre né reticenze, non può arrossire di vergogna, non può nascondere il viso, dal momento che nulla è privato, ma tutto è pubblico, esposto, visibile. L’abolizione di fatto della proprietà privata dello spirito accompagna così l’affermazione dell’ideale marxista dell’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione.

Il fatto stesso che Aristotele, come ricorda Tagliapietra, ponga la questione se il pudore possa essere considerato una virtù, è una prova del fatto che vergogna e pudore hanno a che fare con la verità dei rapporti umani e con la degradazione che è sempre possibile. Il pudore non è una virtù in senso canonico, ma si proclama ogni volta nemico del vizio che rischia di insinuarsi e di corrompere. Il pudore è uno stato di allarme, trasmette la percezione di un transito, di un confine, di una linea d’ombra, nel momento stesso in cui cerca di correggere un eccesso contrapponendosi all’impeto passionale della giovinezza. Per Aristotele la vergogna non è una virtù, mentre la spudoratezza è certamente un vizio: se il non vergognarsi nel commettere azioni cattive è un vizio deplorevole, non si può tuttavia considerare virtuoso colui che si vergogna nel commettere azioni cattive (p. 25). Il male morale infatti è nelle azioni commesse, più e prima ancora che nel sentimento interiore che le accompagna in chi le commette. Il pudore predice e depreca l’azione cattiva futura, mentre la vergogna rievoca e condanna l’azione già commessa. Pudore e vergogna sono una specie di paura, tuttavia non sono identificabili con la paura stessa. Infatti, osserva Socrate nell’Eutifrone, si può aver paura di molte cose negative, senza tuttavia provare vergogna per i mali corrispondenti. Insomma, la vergogna implica la paura, ma non vale l’inverso (p. 28). La differenza tra paura e vergogna è visibile anche nelle manifestazioni esteriori. Già Aristotele nell’Etica Nicomachea osserva che chi si vergogna arrossisce, mentre chi teme la morte impallidisce (p. 29). Margaret Mead e Ruth Benedict distinguono nettamente tra le culture della vergogna, in cui il comportamento delle persone è regolato da una serie di sanzioni esterne che obbligano tutti i membri del gruppo a conformarsi a determinati cliché, e culture della colpa, in cui le azioni individuali sono regolate da sanzioni interne, in seguito all’interiorizzazione delle norme sociali (p. 33).

Per quanto utile sia tale distinzione, risulta tuttavia difficile immaginare che possano esistere allo stato puro culture della colpa e culture della vergogna, poiché nessuno può considerare la stima del prossimo un valore assoluto senza aver interiorizzato in qualche misura le norme rispettando le quali si ottiene la considerazione collettiva. Certamente la sanzione può essere giuridica (pena), sociale (riprovazione) o solo interiore (senso di colpa), ma sarebbe arduo stabilire che il senso di colpa di per sé è la metafora di un giudizio in cui l’io giudice rappresenta la comunità esterna, oppure che, al contrario, il giudizio esterno sia la semplice espressione visibile del processo al quale ciascuno, nella propria coscienza, sottopone se stesso. Anche le culture moderne, nonostante la valorizzazione estrema dell’individualismo e l’esaltazione dell’interiorità, non sono riconducibili a un modello di cultura della colpa, perché il rapporto dell’io con se stesso è già un rapporto sociale. Il senso di colpa presuppone la percezione del rapporto di dipendenza dalla comunità e dalla norma esteriore, mentre la sanzione esteriore può essere vissuta e accettata in relazione all’infrazione commessa solo da un io che si riconosce colpevole al proprio interno e in cui quindi agiscono i fattori della coscienza individuale. Così, l’io giudice riproduce nella coscienza il giudice collettivo, mentre quest’ultimo dà voce al giudice interno, senza che nessuno dei due possa vantare un’anteriorità ontologica. Come nella genesi dell’io la distinzione tra il sé e il mondo esterno non comporta la necessità di stabilire l’anteriorità del mondo o dell’io, allo stesso modo vergogna e colpa appaiono così strettamente correlati che risulta impossibile stabilire quale delle due venga per prima. Esse si implicano e si presuppongono come la circonferenza e il suo centro. Tra coloro dinanzi ai quali proviamo vergogna c’è anche il nostro io; e quando ci sentiamo in colpa ciò accade solo perché evochiamo la presenza ideale del prossimo che ci giudica nella figura dell’io giudice. È vero che, come scrive Tagliapietra, ci si può vergognare anche di qualcosa che non implica alcuna responsabilità diretta, come nel caso di una malattia o di un difetto fisico o di uno stupro subito, ma questo non può che confermare l’intreccio tra le due dimensioni, per cui colpa e vergogna si implicano e si presuppongono. La stessa timidezza, sorta di paura di aver paura che può provarsi in presenza di estranei, dimostra che l’io è in una condizione di apprensione per il giudizio che il prossimo può esprimere sul suo conto. Pudore, senso di colpa, vergogna, timidezza, sono possibili solo nella misura in cui l’io non si concentra su se stesso e sulle proprie azioni, ma immagina o percepisce se stesso dentro un rapporto con l’alterità. Infatti è frequente il caso in cui proviamo disagio, imbarazzo e un timore simile a vergogna quando qualche sconosciuto ci guarda e immediatamente ci distrae dai nostri pensieri o dalla nostra occupazione costringendoci a chiederci che cosa non va in noi stessi. Il paranoico porta al parossismo questo meccanismo di scatenamento della vergogna… di nulla. Adamo ed Eva prima del peccato non provavano vergogna per la propria nudità. Il peccato segna la differenza: da quel momento la nudità suscita vergogna, paura e un senso di insicurezza e vulnerabilità che paralizza. Chi si vergogna si comporta come qualcuno che cerca di nascondersi alla vista altrui, si mostra sofferente quasi come se fosse trafitto da frecce acuminate. La nudità è infatti la condizione in cui si percepisce se stessi dentro un rapporto con l’alterità, rapporto nel quale l’individuo si scopre vulnerabile, esposto al pericolo di essere annientato o almeno ridotto a oggetto. La percezione di se stessi all’interno di un rapporto con l’altro causa la distrazione da se stessi, un’uscita dal proprio sé e una visione oggettivante del proprio corpo come involucro di un estraneo. Il corpo oggettivato ed estraniato è ciò in cui ci sforziamo di identificarci senza riuscire nel nostro intento. La vergogna è l’angoscia del distacco tra il sé e il corpo. L’io non percepisce il superamento del distacco, che avviene quando l’io stesso cessa di percepire il rapporto tra sé e l’altro. La nudità quindi è una condizione relativa e graduata, il che rende ragione del fatto che si possa provare vergogna anche ben vestiti e viceversa.

La nudità come metafora della condizione in cui si prova vergogna, nel mito genesiaco sarebbe allora rappresentata nella forma ingenua della nudità come causa della vergogna. Tale interpretazione spiegherebbe perché una condizione esteriore e di per sé assolutamente innocua e priva di connotazioni morali appaia improvvisamente come scandalosa. Nel mito genesiaco non la nudità in sé, ma la nudità percepita provoca la vergogna e il desiderio di nascondersi. E la nudità è percepita con vergogna in seguito al peccato. Il peccato consiste nell’aver mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male. Nell’interpretazione hegeliana «lo stato dei progenitori nel giardino dell’Eden è quello di un’immediatezza che appare ‘come innocenza e come fiducia ingenua’» (p. 57). Tale immediatezza tuttavia preme verso il suo superamento, deve uscire da se stessa per rientrare in se stessa e sussistere per sé. Non mangiando dell’albero della conoscenza del bene e del male Adamo ed Eva sarebbero rimasti nell’immediatezza naturale che caratterizza l’esistenza degli altri animali. Lo stato primitivo di innocenza è quello in cui gli uomini non percepiscono se stessi in rapporto all’altro da sé. L’interpretazione hegeliana della genesi del pudore e della vergogna mette in chiaro che gli uomini non possono percepire la propria nudità e quindi provarne vergogna che in rapporto allo sguardo dell’altro. Essi devono uscire dalla condizione di immediatezza e vedersi in rapporto a qualcuno che li guarda: lo sguardo dell’altro, dell’estraneo, li metterà in dissonanza con se stessi, renderà visibile la differenza tra il corpo visibile e lo spirito invisibile; metterà in opposizione corpo e spirito nel momento in cui il corpo nella sua nudità apparirà come un’alterità irriducibile. Perché la nudità è l’estraneità del corpo a se stesso: percepire la propria nudità e provare vergogna significa percepirla come la nudità di un altro di cui tuttavia non possiamo liberarci. Vedere se stessi con l’occhio di un altro esprime la dissociazione fondamentale tra corpo e spirito, condizione affinché si possa provare vergogna. La vergogna è il sentimento della contraddizione e della limitazione, è la ribellione all’idea di essere solo quel corpo che si rende visibile allo sguardo dell’altro divenuto il proprio sguardo. Lo stesso Hegel riconosce che «la prima riflessione della coscienza, nel suo destarsi, è stata che gli uomini si accorsero di essere nudi» (p. 59). Con il pudore l’uomo acquista una dimensione opposta all’immediatezza naturale e sensibile degli animali. L’uomo deve estraniarsi e scindersi per ritrovare se stesso come spirito. Romanticamente, Hegel interpreta il pudore come rivolta indignata dell’uomo stesso contro qualcosa che egli non può accettare: «L’uomo che diviene cosciente della sua destinazione superiore di essere spirito, non può non considerare come inadeguato quel che è solo animalesco, e non può non sforzarsi di nascondere, quale inadeguatezza nei confronti della superiorità dell’interno, soprattutto quelle parti del suo corpo, tronco, petto, dorso, gambe, che servono soltanto a funzioni animali, oppure indicano solo l’esterno come tale e non hanno né una diretta determinazione spirituale, né un’espressione spirituale» (pp. 59-60). Il pudore è la rivolta contro il corpo, che viene nascosto dalle vesti affinché l’uomo non sia ridotto al suo corpo. Secondo Hegel solo la testa è tenuta scoperta, perché in essa sono presenti le parti essenzialmente umane, ma sul piano antropologico questa regola generale soffre di numerose eccezione, come il velo e il burka. Se il corpo diventa oggetto di concupiscenza, la sua nudità non è associata alla vergogna, finché i due amanti vivono nel proprio corpo assecondando pienamente gli impulsi animali. Ma terminato l’amplesso, la percezione del proprio corpo come insufficiente rispetto alla determinazione della propria umanità prende il sopravvento e si manifesta nella forma della vergogna, che provvede a coprire la nudità disvelata.

L’antropologia documenta una cura del corpo che, in ogni angolo del pianeta, esprime una generale e significativa volontà di togliere al corpo ogni immediatezza naturalistica, ogni apparenza di animalità. Il rapporto con l’animale è tuttavia sempre ambivalente. L’uomo abbandona la propria immediatezza informe per assumere quella dell’animale totem, l’animale magister quale figura di mediatore culturale. Questo spiega la circostanza, annotata da Tagliapietra, per cui gli animali selvatici entrano in metafore positive (cuor di leone, memoria di elefante, ecc.), mentre quelli domestici sono usati come ingredienti essenziali degli insulti (gallina, porco, vacca, ecc.)(p. 63). Gli animali domestici sono così vicini all’uomo da poter diventare esponenti dei suoi vizi peggiori. La domesticazione ha in se stessa una genesi sacrificale: originariamente alcune specie di animali furono accolti nella comunità, nutriti e curati allo scopo di ridurre la loro distanza dall’umanità. Erano umanizzati il più possibile per prepararli al sacrificio, perché la vittime umane che essi dovevano sostituire nel sacrificio dovevano appartenere alla stessa comunità. Il significato del pudore come elemento differenziatore rispetto all’animalità, come paradigma dell’opposizione tra l’uomo, essenzialmente spirito, e la natura, appare chiaramente anche nel mito di Protagora, dove si racconta che «Zeus, temendo per la nostra specie, minacciata di andare tutta distrutta, inviò Hermes perché portasse agli uomini il pudore e la giustizia, affinché servissero da ordinamento della città e da vincoli costituenti unità di amicizia» (pp. 70-71). Il legame tra giustizia e pudore è profondo: solo con il pudore è possibile il decentramento del soggetto, che permette di adottare una prospettiva relazionale quale condizione della giustizia. Finché gli uomini vivono nell’immediatezza miope e ignara di sé non possono concepire la necessità della giustizia, la quale è essenzialmente un rapporto e precondizione della vita associata. Il pensiero greco coglie questo rapporto. Platone scrive nelle Leggi (XII, 943e), riprendendo Esiodo (Le opere e i giorni, 256-257), che «la vergine Giustizia è figlia del Pudore» (p. 71). Esiste un accordo di fondo tra mito genesiaco e mito platonico riguardo il pudore quale condizione non solo etico-politica, ma anche giuridica, all’origine di ogni società. Tagliapietra, richiamandosi a Martha C. Nussbaum, si chiede se questa concezione delle origini della società e dello stato non giustifichi una modalità di costituzione del legame sociale fondata sull’esclusione e sulla vittimizzazione. Le società potrebbero così aver costruito la propria identità in modo vittimario e la concezione classica relativa al pudore e alla giustizia potrebbe aver alimentato il dualismo tra persecutori e vittime quale fondamento della comunità: «Basare l’autopercezione politica e giuridica di una comunità sulle emozioni primarie del disgusto per la nostra animalità e della vergogna per le nostre debolezze e per la nostra mortalità concorre ad alimentare quella che potremmo definire una concezione risentita dell’identità, che funge da sfondo emotivo e poi giuridico per giustificare le più svariate ideologie dell’esclusione e della discriminazione» (p. 79).

In seguito al peccato, dacché gli uomini hanno imparato a coprirsi, la nudità è percepita come impudicizia rispetto alla possibilità di effrazione, di violenza e di manipolazione oscena alla quale la stessa nudità si espone, nella sua brutale e indifesa oggettualità. I corpi nudi devono la loro insopportabile oscenità, il loro orrore inaudito alla violenza che evocano come sempre possibile nei loro confronti: lo stupro, le sevizie, il massacro, la riduzione alla materia inerte di cadaveri anonimi. Un corpo integralmente nudo può esporre allo scivolamento del desiderio più indicente, come osserva Bataille, ma il contrasto tra la sua disarmata condizione e la facilità con cui può essere distrutto impone la necessità di proteggerlo e di distogliere da esso lo sguardo di tutti. Un corpo assolutamente vestito e riparato non suscita alcun desiderio sessuale, tranne nel caso in cui l’abito non sia particolarmente aderente e la sua funzione quindi non sia quella di nascondere le fattezze del corpo, ma al contrario quella di metterle in evidenza, di mostrarle nella loro nudità difesa.

La modernità ha cambiato il modo di percepire la società e il rapporto tra sé e gli altri. L’uomo moderno si caratterizza per una nuova coscienza di sé e della propria individualità, per l’amore della solitudine quale condizione per resistere all’ipocrisia e alla doppiezza che, in qualche misura, è indispensabile alla sopravvivenza della società e nella società. Rispetto all’antica concezione del pudore, «ciò che appare in primo piano non è più la paura degli altri (e del controllo degli altri), ma l’amore di sé e, dunque, la propria autonomia: l’accettazione delle opinioni collettive, di cui si teme il giudizio, ha ormai una funzione prevalentemente strumentale, ossia è un’ipocrisia tattica che serve a rendere più efficace e durevole l’affermazione del soggetto» (p. 123). L’individualismo moderno è quindi obliquo e sofisticato, perché utilizza l’ossequio alle convenienze sociali allo scopo di assicurare l’affermazione personale. D’altra parte la moderna libertà di pensiero e di parola distingue nettamente tra il comportamento esteriore, che è assoggettato alla norma morale e alla convenzione sociale, e il pensiero. L’uomo moderno riconosce alla società il diritto di controllare e regolamentare le sue azioni, ma esclude per principio la limitazione della sua libertà di pensare e di esprimere la propria opinione. Tale principio della libertà di pensiero, espresso una volta per tutte da Spinoza nel Trattato teologico-politico, ratifica la dissociazione tra interno ed esterno. Se la disapprovazione legittima riguardasse solo il comportamento esteriore e le azioni materiali, il soggetto moderno potrebbe coltivare un’interiorità separata, del tutto indipendente dalla sfera pubblica esterna e del tutto sottratta allo sguardo e al giudizio della collettività. Se la dissociazione tra le due dimensioni dell’individui funzionasse perfettamente, gli individui potrebbero concepire se stessi e la società in modo opposto alle loro stesse azioni. L’interiorità infatti può diventare il rifugio di ogni sentimento antisociale, risentimento, volontà di vendetta, che è censurato nella sfera esteriore. Ma una scissione così riuscita comporterebbe la dissoluzione di ogni sentimento di vergogna e di pudore, perché ciascuno diventerebbe un opportunista perfetto che si preoccupa unicamente del successo delle proprie azioni. Pudore e vergogna infatti presuppongono una qualche partecipazione dell’interiorità e una complicità della coscienza individuale con quella collettiva. Una scissione perfettamente riuscita renderebbe impossibile qualsiasi sentimento di colpa, perché gli individui si rimprovererebbero unicamente l’insuccesso, non il carattere riprovevole delle proprie azioni. E risulta difficile non ammettere che i progressi della civilizzazione non sono ancora riusciti a narcotizzare completamente la coscienza interiore. Il processo storico di civilizzazione, che secondo Norbert Elias comporta una crescente divaricazione tra un comportamento segreto e uno pubblico al punto tale che essa diventa un’abitudine di cui nessuno è più consapevole, non può tuttavia riguardare tutte le norme collettive. La stessa distinzione tra interno ed esterno è possibile solo nella misura in cui l’individuo continua ad avvertire come assolutamente fondamentali e inviolabili determinati principi, nonostante i numerosi episodi di violazione di quei principi che gli capita di osservare e di cui egli stesso può rendersi responsabile. Per questo fa bene Tagliapietra a contrapporre alla concezione di Norbert Elias quella di Hans Peter Dürr, secondo il quale «il pudore nei confronti del denudamento dei genitali non è una casualità storica ma appartiene all’essenza dell’uomo» (p. 131). Se l’intento di Dürr è quello di destoricizzare il concetto di pudore spiegandolo come repulsione originaria, naturale e immodificabile nella sua configurazione essenziale, per Elias invece il senso del pudore subisce un processo di interiorizzazione con la civiltà moderna e si rende comprensibile solo in rapporto a determinati codici culturali privi di validità assoluta (p. 133-134). Le due opposte concezioni non possono rappresentare lo stesso processo. Evidentemente è impossibile una completa storicizzazione del pudore, che ne segnerebbe la dissoluzione, quale fenomeno del tutto soggettivo e casuale. E non è possibile neppure una riduzione della vergogna a mera conseguenza esteriore, a reazione della collettività di cui è utile evitare la riprovazione.

Abbiamo ragioni sufficienti per ritenere che interno ed esterno, pudore e vergogna, coscienza e società siano due campi relativi e indissociabili, distinti ma inseparabili. Possiamo immaginare che, storicamente, possa costituirsi una coscienza che percepisce se stessa come totalmente disgiunta e separata dalla collettività se non come una coscienza malata e folle, come un individuo che è ricaduto nell’immediatezza di un’esistenza senza rapporto con l’altro da sé? Anche nella moderna Confessione l’individuo non cede alla spudoratezza quando racconta vicende intime, mira solo ad essere glorificato dalla società e a compensare in ammirazione per la sua sincerità quella riprovazione che sa di meritare per i singoli comportamenti trasgressivi sui quali si compiace di intrattenere il lettore. Così, pur avendo fallito, ammettere il proprio fallimento diventa un modo per mostrarsi autentico agli occhi di una collettività di cui è riconfermata pienamente la legittima autorità in campo morale. Il pudore ha la sua radice nella sproporzione che percepiamo tra ciò che siamo e ciò che dobbiamo essere: lo sguardo dell’altro suscita il disagio che avvertiamo in questa dissociazione. Solo un modello sociale può aprire il varco al pudore e risvegliare la coscienza della propria finitezza, imperfezione e insufficienza. Nell’ammissione delle proprie colpe la collettività riprende il sopravvento e la coscienza dichiara così apertamente la propria origine e il proprio debito nei confronti di un’autorità superiore. La norma morale ha bisogno di entrambi i poli per agire con efficacia: coscienza individuale e autorità collettiva. Se la coscienza individuale è oscurata o annientata dall’immersione in una massa, facilmente l’individuo perde la coscienza di sé e può commettere i peggiori crimini per la sola ragione che il gruppo lo esige. Quando viene meno la polarità individuo-società, allora il pudore scompare. Un individuo totalmente assorbito dal collettivo perde la coscienza di sé, viceversa l’individuo isolato e avulso da ogni comunità non diventa oggetto dello sguardo altrui, non può vedere se stesso con gli occhi dell’altro. Il primo si candida al ruolo di persecutore, il secondo a quello di vittima. L’esigenza di nascondere una parte di se stessi agli altri non esprime il desiderio di isolarsi dalla società, ma solo la legittima necessità di resistere all’assedio del pubblico e di conservare una capacità di autoriflessione che, sola, permette di considerare se stessi in modo realistico e secondo verità, vale a dire in relazione alla società di cui si è parte. Il diritto di mantenere il segreto su ciò che è solo nostro ci preserva dal totalitarismo e contribuisce a mantenere la percezione di se stessi come individui autonomi e responsabili.