Nota critica a Helmuth Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo: un’introduzione all’antropologia filosofica

Helmuth Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo: un’introduzione all’antropologia filosofica, a cura di Vallori Rasini, Bollati Boringhieri, Milano 2006.

Die Stufen des Organischen und der Mensch. Einleitung in die philosophische Antropologie viene pubblicato in Germania nel 1928. Il sottotitolo del testo annuncia un’introduzione all’antropologia filosofica, perché Plessner intendeva, con esso, mettere le basi per tutte le riflessioni successive, fondandole in modo radicale in un’indagine filosofica sulla vita, sulle forme viventi. Aveva avuto in progetto l’opera sin dal 1923, data di pubblicazione del suo primo importante testo, Die Einheit der Sinne: dopo aver trattato dal punto di vista teoretico la funzione ed il ruolo dei sensi (in quella che definì una «estesiologia dello spirito»), si sarebbe rivolto alle forme organiche viventi, nelle tre specie di pianta, animale e umana.1 Eppure «I gradi dell’organico e l’uomo» sarebbe uscito solo cinque anni dopo, perché nel frattempo andarono rafforzandosi gli interessi di Plessner per le tematiche sociali,2 stimolati anche dall’amicizia con Georg Misch, che lo portò a conoscere Dilthey.

Gli studi a Gottinga (1914-1916), con le lezioni di Husserl e il confronto con Kant, lo avevano messo a contatto con le istanze più esigenti della filosofia moderna e contemporanea: la filosofia critica, la teoria dell’intuizione, il confronto con le scienze moderne, la fondazione d’un punto di vista equilibrato ma senza compromessi, sostenuto da esigenze profonde e sentite dell’uomo contemporaneo. Plessner si sentiva chiamato dalla propria epoca a render conto del concetto chiave in cui essa si esprimeva — e problematizzava.3

Il libro presenta sette capitoli, in cui definisce metodo ed oggetto della ricerca, opera un confronto serrato con il dualismo cartesiano, entra nel vivo delle discussioni biologiche del tempo (tra meccanicisti e neovitalisti), andando poi a trattare direttamente la vita e il vivente. Solo il settimo capitolo, però, riguarda direttamente l’uomo, con l’enunciazione di tre leggi fondamentali dell’umano.

Che si tratti solo del capitolo finale, in un libro che vuole introdurre l’antropologia filosofica, è dovuto all’intenzione, da parte dell’autore, di guardare all’uomo come vivente tra i viventi, operando in un piano verticale, diversamente da uno orizzontale, in cui s’era mosso nella prima opera, scavando all’interno del rapporto tra l’uomo e il suo ambiente. Doveva essere fatta un’introduzione all’antropologia filosofica: dovevano essere scavate e poste le fondamenta per un edificio che sarebbe cresciuto con gli anni, all’insegna di una linea guida forte già tracciata.

Tale filo conduttore e fondazione teoretica, emerge a vari livelli e in vari modi. Come si è già visto da un breve sguardo agli argomenti del testo, vengono presi in rassegna temi e questioni appartenenti a vari settori scientifici. Questa molteplicità non solo è presente anche nella sua intera opera, con un’unità e coerenza di fondo, ma trova ne «I gradi dell’organico e l’uomo» la sua fondazione teoretica: introdurre all’antropologia filosofica significa affrontare questioni classiche del pensiero filosofico, addentrandosi anche nei dibattiti biologici, storici e sociali. Le competenze per fare questo venivano a Plessner dai primi studi di medicina e biologia, dallo studio dei testi kantiani, della fenomenologia di Husserl, e dalla filosofia di Dilthey: una sintesi nuova e originale di diverse istanze, consapevole nell’attingere a forme di pensiero differenti, secondo esigenze dettate dall’argomento in esame.

Uno degli imperativi di Plessner era proprio che l’antropologia filosofica non debba restare chiusa in uno specifico spettro di interessi e problematiche, ma deve essere aperta ad ogni dimensione dell’umano;4 tale apertura non solo attiene alla necessità di completezza del discorso, bensì coinvolge direttamente il suo oggetto, perché l’uomo è «questione aperta»,5 e tale deve restare. Considerazioni simili, che abbondano nei saggi riguardanti ruolo e compito dell’antropologia filosofica, possiedono un grande fascino, ed hanno la loro fondazione nel percorso concettuale affrontato da Plessner ne «I gradi dell’organico e l’uomo». Senza questo, si rischierebbe di ricadere nelle visioni dell’essenza umana precedenti, che per Plessner, invece, non sono più valide6: homo faber, ludens, sapiens rendono conto del potenziale umano, visibile solo attraverso e nella storia, però è solo con l’antropologia filosofica che si può rendere conto del come e perché quegli aspetti siano possibili.

La via è quella di una riflessione sulle condizioni vitali umane.

1. Prima dell’umano: un rapido sguardo

Il metodo del testo del 1928 non poteva più essere quello critico, come per Die Einheit der Sinne, perché l’argomento è l’uomo in quanto organismo, tra altri organismi. Plessner ricorrerà alla fenomenologia (come metodo), per individuare le proprietà statiche del vivente, e alla dialettica, per mostrare come esse derivino l’una dall’altra, radicate in una proprietà ancora più fondamentale, quella del doppio aspetto. Il risultato è una teoria a priori dei caratteri dell’organico.

Come già detto, solo l’ultimo capitolo riguarda la sfera umana nel suo specifico, ma non è isolabile dagli altri, perché le tre leggi dell’umano si articolano attorno a una struttura vitale ben specifica, quella eccentrica. Per capire cosa significhi esattamente l’eccentricità è necessario percorrere le tappe precedenti, ovvero la forma animale e quella vegetale. Uno dei problemi fondamentali, e delle questioni più importanti, trovate da Plessner all’inizio della ricerca, è il dualismo cartesiano di anima e corto. Plessner si rende conto non solo della problematicità di tale paradigma, ma anche delle conseguenze pregnanti che aveva portato con sé: I gradi dell’organico e l’uomo intende ricucire la scissione anima/corpo, per permettere una nuova ed autentica visione globale dell’uomo, che non si limiti a rintracciare un carattere guida, e ad esso assoggetti tutti gli altri, ma tenga effettivamente conto delle diverse sfere in cui la vita umana si articola, lasciandole il respiro della propria libertà.

Tutto questo fornendo una teoria a priori dell’organico, quindi secondo una ben specifica impostazione filosofica, quella kantiana, applicata al mondo della vita. Una ulteriore ragione della brevità dello spazio dedito all’umano (al suo mondo interiore, esteriore e comune, e alle leggi fondamentali che strutturano la sua vita), è che qui si intende guardare all’essenziale, al fondamento. E prova della coerenza profonda del pensiero di Plessner, è che l’ultima delle tre leggi riguardi proprio l’impossibilità di un definitivo in cui riposare, ovvero di Dio.

L’uomo è in prima battuta un vivente. Ma cosa significa vivente? Come si rapporta la sua forma vivente alle altre, che sono sotto i suoi occhi ogni giorno?

Dopo un confronto con le prospettive biologiche del suo tempo, il dualismo di Cartesio, i filosofi contemporanei (Scheler, Dilthey), e dopo aver chiarito metodo e scopo della ricerca filosofica, Plessner passa all’analisi dei modali organici, ovvero di quelle caratteristiche alla presenza delle quali si può parlare di vivente (nei tre gradi di pianta, animale e uomo).

Il corpo organico ha carattere posizionale, ovvero è in rapporto con se stesso: il suo limite corporeo ha delle caratteristiche particolari.

Le piante hanno una forma aperta,7 sono inserite direttamente nell’ambiente, mentre gli animali una forma chiusa, inserita in esso solo mediatamente, ed è lui stesso la mediazione tra sé e l’ambiente. Inoltre, è indipendente dal ciclo vitale, il che non significa l’assenza dei legami, bensì che esso è bisognoso per essenza. Da queste differenze fondamentali ne derivano poi anche altre.8 Fondamentale è ricordare che l’animale è centrico.9 Gli animali superiori, ciascuna specie secondo un certo grado, sono capaci di autentica conoscenza, ma non di stati di cose. Infatti l’animale riesce ad afferrare degli stati di campo,10 ma non a distinguere e tenere fermi, vicini, l’universale e il singolare: gli manca il senso del negativo.

L’animale realizza una possibilità insita nella forma vegetale. Ma, come forma chiusa, non è capace di relazionarsi a se stesso come soggetto.11 Ciò viene reso possibile nella forma di vita umana, caratterizzata dall’eccentricità.

2. L’umano

La tesi de I gradi dell’organico e l’uomo è che «l’uomo nel suo essere si distingue da ogni altro per il fatto che non è né il prossimo né il più lontano da se stesso, eppure attraverso questa eccentricità della sua forma di vita incontra se stesso come elemento in un mare di essere e così, malgrado il carattere affine al non essere della sua esistenza, appartiene allo stesso insieme di tutte le cose di questo mondo».12 La riflessività completa che permette alla persona di vedersi ed essere consapevole di sé, implica che essa stia anche fuori di sé.13 Con l’uomo, con la persona,14 il vivente è arrivato dietro di sé: eccentricità significa che la centralità della forma chiusa non viene infranta (né lo potrebbe), però il vivente eccentrico è, contemporaneamente, al di là del centro, posto nel nulla.15

La peculiarità dell’uomo è nel suo avere un mondo,16 il quale si articola nelle tre sfere del mondo esterno, mondo interno, mondo comune. Plessner individua in quest’ultimo il mondo dello spirito, possibile soltanto per l’uomo: «porta la persona, nel venire da questa portato e formato».17 A differenza del corpo e dell’anima, che l’uomo ha e vive, lo spirito è la sfera in forza della quale noi viviamo come persone. Anche con una sola persona, il mondo comune è dato. Esso è puntualità assoluta, «esiste come unico uomo»,18 che permette la reciprocità e il completo scoprimento.

L’eccentricità è la radice di una serie di possibilità e orizzonti aperti all’uomo e non alle altre forme viventi. Le tre leggi antropologiche non solo significano per l’uomo avere alcune caratteristiche, ma gli permettono di agire, di essere nel mondo come creatore ed essere storico. L’umano viene illuminato, nella sua più intima struttura, come vivente la cui vita è una sfera distinta dall’essere, e che allo stesso tempo non è assorbito da questa distinzione (altrimenti ricadremmo con altri termini nella centralità animale), ma è già al di là di essa.

Le tre leggi sono: della artificialità naturale, della immediatezza mediata, del luogo utopico. Esse riguardano ambiti diversi del vivere umano: la prima quello culturale, la seconda quello dell’espressione (che è il fondamento di storia e linguaggio), la terza quello della religione e la trascendenza.

2.1. Cultura: artificialità naturale

L’unico modo per l’uomo di vivere è condurre la propria esistenza. L’antropologia filosofica può rischiarare l’intima struttura dell’eccentricità, può fare riferimento a leggi che la attraversano e costituiscono, ma non c’è modo, al di là dei tre ambiti che le tre leggi conducono, di fissare una volta per tutte l’essenza umana.19 Non perché gli strumenti conoscitivi e storici siano insufficienti, ma perché essa è una danza continua dove le forme si cristallizzano e vengono attraversate dalla vita, la creatività, l’espressione e la consapevolezza della fugacità del tempo e del luogo, senza poter mai fornire un punto d’aggancio definitivo.

L’uomo è sempre attore e spettatore.20 Ecco perché egli si riconosce come nudo. È un essere per natura artificiale, deve essere creativo. L’equilibrio che naturalmente non gli è dato, per lui è compito e conquista.21 Ma l’invenzione non è che scoperta: se si trattasse soltanto della continua produzione cagionata dal disequilibrio, l’uomo sarebbe simile all’animale, che è sì capace di trovare, ma non scopre il quid, non individua l’oggetto; al contrario il bisogno ontico in cui si radicano le tendenze, impulsi, volontà, desideri umani non tende ad altro che al raggiungimento di una seconda natura, di una innocenza ritrovata. I frutti dell’operare umano non devono essere riassimilabili dal soggetto, pena la vanità dell’operare stesso. L’uomo «deve riconoscere che non è stato il loro creatore originario, bensì essi sono stati realizzati solo come occasioni del suo fare».22

L’indagine empirica ha tuttavia seguito tutt’altra impostazione. Le teorie si raggruppano attorno a due posizioni fondamentali, quella spiritualistica e quella naturalista. Gli spiritualisti hanno oscillato tra l’attribuzione della cultura a Dio oppure ad alcune specifiche caratteristiche umane, in questo caso prescindendo completamente dalla domanda sul come lo spirito si origini dal principio naturale dell’uomo. I naturalisti, al contrario, riconoscendo sempre nello spirito l’origine dell’attività culturale, tentarono proprio di dedurlo dalla natura umana. L’elemento comune di tutte le posizioni naturaliste è il volere a tutti i costi ridurre l’uomo a un animale, sano per gli uni, malato per gli altri.

L’irrequietezza umana, il fatto «che voglia valere e venga attratto irresistibilmente dall’irrealizzazione nelle forme artificiali dell’agire, negli usi e nei costumi»,23 non si fonda su questo o quell’aspetto psicologico, biologico o storico, bensì sulla vita stessa dell’uomo, sulla sua struttura fondante. La sua assenza di equilibrio non è riconducibile interamente a nessuna sfera indagabile dall’empirico, perché è costitutiva.

Natura e libertà, essere e dovere, si pongono allora per l’uomo come i termini di un conflitto radicale ed autenticamente esistente, necessario: l’esistenza umana è piena solo quando l’uomo avanza a se stesso delle richieste, delle pretese. Il mondo comune pretende i costumi e la morale. L’uomo «non semplicemente «è» e vive in quanto tale, bensì vale qualcosa e in quanto qualcosa. È costumato per natura, è un organismo che si addomestica e sottomette secondo la modalità dell’intimazione».24

È necessario, prima di passare alle legge successiva, e proprio per introdurla, sottolineare un aspetto che in precedenza si è lasciato latente. Plessner parla sì di strumenti ed utensili, ma la produzione non è messa al primo posto. Non è essa ad originare la cultura, bensì è la cultura che ne è a fondamento. E in modo ancora più radicale Plessner ha introdotto il tema chiave della creatività. Sono le sue creazioni che devono apparirgli come occasionate dal suo fare. C’è nella creatività un elemento ultimo (sebbene non sia l’unico) di arbitrio, di casualità. Plessner tiene molto a questa caratteristica non riducibile né deducibile da alcuna techne o orientamento pratico, secondo dei fini, perché fu un osservatore attentissimo di tutti quei fenomeni dell’umano relativi all’espressione.

2.2. Espressività: immediatezza mediata

Ogni atto creativo è un atto espressivo. Infatti, compito dell’uomo è dare forma a qualcosa, che tuttavia, è già presente: cercare e trovare qualcosa implica un accordo di fondo tra la struttura umana (eccentrica) e la struttura della realtà cosale (eccentrica anche questa, nel doppio aspetto di nucleo e aspetti da esso portati).

La posizionalità eccentrica pone l’uomo in relazione col mondo in un modo solo: l’immediatezza mediata. L’uomo media tra sé e il campo ed è posto nel punto della mediazione, ovvero è assorbito in essa solo nella misura in cui sta in essa. Egli si vive come un doppelgänger. Il sapere è possibile solo in quanto il soggetto sta oltre se stesso e media tra se stesso e l’oggetto. Perché sia possibile la manifestazione deve esserci un vuoto, e questo vuoto è assicurato al soggetto umano dalla doppia distanza dal proprio corpo.

Il contatto diretto e l’immediatezza restano garantiti dalla coscienza, ma è un contatto non più con un campo, bensì con un mondo. L’eccentricità gli permette di entrare in quell’estasi che è il sapere, di perdersi in esso e dimenticarsi, ma gli permette anche di riflettere su di sé e su tale sapere.

Arriviamo dunque all’espressione, e a cosa significa per l’uomo. Ad essa sono legati elementi fondamentali come la storicità e il linguaggio.

L’espressività umana, è «un modo originario per venire a capo del fatto di abitare in un corpo e contemporaneamente di avere un corpo».25 Ogni impulso vitale è espressivo, ovvero esiste un salto di qualità tra spirito, anima e natura corporea, tale da non impedire all’intenzione di realizzarsi, perché è, al contrario, il presupposto di tale realizzazione. Non c’è realizzazione senza una relazione indiretta tra il centro della persona e il medium. I pessimisti vedono nel medium un quid di totalmente estraneo: l’intenzione lo tocca direttamente, il raggio viene deviato perché non è possibile scendere a patto alcuno con il medium, e il risultato del fare umano sarebbe costantemente diverso da quello che ci si è prefissi, tanto che credere di aver realizzato qualcosa sarebbe una semplice e purissima illusione. Gli ottimisti non vedrebbero nel medium che una materia perfettamente plasmabile, a piacimento della persona: in un progresso continuo si avanza di realizzazione in realizzazione, e la storia umana non può che essere letta sotto questa chiave, in una luce del tutto ridente, dove la natura stessa diviene un progetto e un’immagine dell’uomo.

In realtà la relazione tra soggetto personale e oggetto raggiunto è mediata. Autentico è il compimento dell’aspirazione umana solo quando ottiene una risposta positiva da un mondo originario: c’è una unità di anticipazione, progettualità della persona, e di adattamento al mondo. Si realizza ciò che ci si è prefissi proprio perché non lo si realizza esattamente come lo si voleva; altrimenti sarebbe un’illusione.

A processo ultimato ci si rende conto dell’inadeguatezza della propria opera rispetto all’intenzione iniziale, e si è spinti verso una nuova realizzazione. Ecco perché l’uomo ha una storia.

La creatività, da sola, non può mettere in moto la storia. Motore della storia è l’eccentricità. È essa che permette l’autentica realizzazione e che, al contempo, porta l’uomo di realizzazione in realizzazione, verso nuove opere, lasciate alle sue spalle quelle già compiute, gusci ormai vuoti e privi della tensione realizzatrice. La storia come un processo che sì è un continuum di eventi, ma che si danno, si cristallizzano, in modo discontinuo ed irregolare. Il desiderio dell’uomo, per via della posizionalità eccentrica, è perennemente orientato al nuovo, al diverso, e visto che una nuova sponda ne indicherà sempre una ulteriore, tale desiderio non può essere soddisfatto. Ricerca continuamente nuovi mezzi. Ma in fin dei conti l’ultima parola su tale ricerca è della storia, perché è una legge, che «in fin dei conti gli uomini non sanno quello che fanno ma lo sperimentano solo attraverso la storia».26

Altro elemento posto da Plessner nell’ambito dell’espressività è il linguaggio, sebbene egli sia contrario all’attenzione esclusiva ad esso data da gran parte del pensiero contemporaneo. Il linguaggio è sì un ambito importante dell’espressività, ma non certo l’unico. L’indagine filosofica non può prescindere da tutte le altre forme, non meno importanti. Il che, ad ogni modo, non significa disconoscere al linguaggio di essere un ambito del tutto speciale.

Esso è, infatti, un’espressione alla seconda potenza: «rende la relazione espressiva dell’uomo, nella quale egli vive con il mondo, oggetto di espressioni».27 Proprio l’uomo, grazie alla posizionalità eccentrica, è capace di esprimere la realtà, col linguaggio, dove l’immediatezza mediata è purificata come in nessun altro modo espressivo, e sembra trovarsi nella forma che maggiormente la rispecchia.

La molteplicità dei linguaggi testimonia ulteriormente l’eccentricità della posizione umana: non è potuto esistere mai un unico linguaggio perché, nella concrezione dello spirito, la forma, che durante l’oggettivizzazione capita all’intenzione, è in sé non necessaria, ed è una delle tante forme limitanti rispetto alle quali l’intenzione è sempre al di là.

2.3. Religione: luogo utopico

Non è data all’uomo un’essenza definitiva, l’eccentricità lo costringe continuamente ad annullare e ricreare la propria posizione, così come gli impedisce di avere un luogo. L’uomo è senza patria, a meno che non decida di fare un sacrificio, alla fede. La religiosità, in ogni sua forma, in ogni epoca storica, afferma Plessner, ha dato all’uomo quel definitivum, quella patria, che né la natura né lo spirito sono capaci di dargli. Posizionalmente l’uomo realizza la propria eccentricità, ma questa relazione non toglie il paradosso, il controsenso della sua situazione. Dato il fondamento, la cosa ultima, e posta la realtà come un Tutto. Il mondo è, sotto questa luce, individuo in un orizzonte di possibilità di essere anche diversamente, così come per l’individualità umana.

L’uomo singolo si distingue come individualità su uno sfondo di sostituibilità e rimpiazzabilità: la sua possibilità di essere diverso da come è quella che l’altro possa avere «nella realtà del mondo esterno e in quella del mondo interno, la posizione che ogni uomo possiede nel suo assoluto, qui».28 Questo sfondo permette all’uomo di distinguersi come singolo, e allo stesso tempo lo pone come rimpiazzabile. In ciò sta l’orgoglio e la vergogna dell’uomo, che gli vive nella propria realtà interiore, e che lo lacerano in un istinto di manifestazione e in un istinto di contegno. Su questa duplice spinta nel cuore dell’uomo si fonda l’organizzazione sociale, con essa nasce (sebbene la socialità in se stessa abbia origine nell’artificialità e nel carattere indiretto dell’esistenza umana). Tale nascita è inevitabilmente segnata dalla violenza, dall’arbitraria posizione e imposizione di un ordinamento, visto che nei confronti del prossimo l’uomo non può dedurre niente a partire dalla sua natura, dalla sua essenza. I rapporti con l’altro, però, devono essere chiaramente definiti, e la comunità originaria si fonda sulla distanza e sul mascheramento. L’uomo ha allora un diritto imperituro alla rivoluzione, che vorrebbe liberarlo dalla socialità stessa (utopicamente), ma non fa che crearne una nuova.

Se anche il mondo viene visto come un’unica entità, un individuo, esso non potrà sfuggire alla stessa provvisorietà ed inquietudine dell’individualità umana. La corrispondenza è così profonda che l’essenza divina viene sempre antropomorfizzata (e cambia quanto l’idea che l’uomo si fa di sé), e quella umana divinizzata. Sarà sempre in questo modo, posto un assoluto a fondamento del mondo. Ma rinunciare a questo fondamento sgretolerebbe il mondo unico. E Plessner annota: «l’ateismo è più facile a dirsi che a farsi».29 Con la fede, l’uomo è a casa, in una «buona» eternità circolare. Lo spirito, invece, allontana da sé, oltre se stesso, l’uomo e le cose. È l’infinità lineare.

3. Considerazioni finali

Plessner ha scritto e lavorato in un momento di grande ricchezza di panoramiche e posizioni filosofiche. Ha portato avanti con serietà ed interesse sempre vivo un’indagine filosofica e scientifica ponderata, aperta, stimolante. Eppure il testo ebbe ben poca diffusione, per vari fattori, che Plessner analizza nella prefazione alla seconda edizione de I gradi dell’organico e l’uomo (che risale al 1964). Anzitutto, il confronto con pensatori già affermati: la pubblicazione del 1928 era stata in concomitanza con La posizione dell’uomo nel cosmo di Scheler, seguiva per un anno quella di Essere e tempo di Heidegger, il quale dominava il panorama filosofico assieme alla posizione di Jaspers. Poi, la natura dell’indagine del suo testo, a cavallo tra filosofia e biologia, poco dopo il fallimento della proposta neovitalista di Driesch.

La lettura de I gradi dell’organico, da parte di un filosofo, richiede, certo, uno sforzo di indagine e di comprensione di tematiche e contenuti di biologia, zoologia. Tuttavia il modo in cui Plessner mette in discussione e cerca i fondamenti della possibilità delle caratteristiche del vivente, è pienamente filosofico. La volontà (non arbitraria, ma richiesta dall’argomento stesso), di mettere in comunicazione scienze particolari e la filosofia, è tipica dell’antropologia filosofica, e in Plessner trova un sostenitore radicale. Ma il dialogo non significa commistione e confusione degli ambiti; anzi, proprio grazie alla sensibilità intellettuale di Plessner, vengono messi in evidenza i pericoli di una commistione tra scienze della natura e scienze dello spirito, che in entrambe le parti costituiscono vere e proprie pericolose derive, fraintendimenti dell’umano che recano danni non solo in ambito intellettuale, ma anche pratico.

Il compito di un’antropologia filosofica non è semplicemente teoretico, ma tocca l’etica del soggetto e dell’oggetto della riflessione. Questo è un punto fermo di Plessner, tanto più importante quanto più si consideri l’epoca in cui le sue riflessioni nascevano, proprio a cavallo tra le due guerre. Da qui l’interesse di Plessner stesso verso la politica, le forme del potere, le forme della comunità, il loro senso e i loro limiti. Senza che questo fosse slegato dalla struttura umana.

La lettura de I gradi dell’organico fornisce gli elementi fondamentali del pensiero di Plessner, senza per questo esaurirlo. Moltissimi saggi egli avrebbe dedicato ad argomenti di svariati tipi, appartenenti ai settori più disparati. Una molteplicità che è ricchezza in virtù delle forti e profonde linee guide tracciate da I gradi dell’organico e l’uomo.


  1. Questo perché sin dalla prima opera era presente, in Plessner, la vocazione sistematica della filosofia: «senza una filosofia dell’uomo, nessuna teoria dell’esperienza umana della vita nelle scienza dello spirito. Senza una filosofia della natura, nessuna filosofia dell’uomo» (I gradi dell’organico e l’uomo, p. 50) ↩︎

  2. Il cui frutto è il libro I limiti della comunità. Critica del radicalismo sociale, ed. cit. ↩︎

  3. Vita è questa parola chiave, per noi moderni: «in questa parola l’epoca sente la sua peculiare forza, il suo dinamismo, la sua giocosità, la sua gioia per il demoniaco nel futuro sconosciuto; e la sua particolare debolezza, la sua carenza di originarietà, di dedizione e di capacità di vivere. Il tempo trascorre accompagnato da questa nuova formula magica, che a partire da Nietzsche esercita in misura sempre crescente il suo effetto. Sorse una filosofia della vita, originariamente certo per incantare la nuova generazione: come del resto ogni generazione è stata in balia di una visione per opera di una filosofia - nondimeno chiamata a condurla al sapere liberandola così dall’incantesimo» (I gradi dell’organico e l’uomo, p. 28). ↩︎

  4. Il che significa che non ci si può accontentare degli strumenti forniti da ogni singola disciplina scientifica, ma che si deve costruire un apparato metodologico e strumentale nuovo: «se si vuole concepire l’uomo per come vive e si comprende, come essere sensibile e morale, mediante un’unica posizione esperienziale, cioè da una posizione che comprenda «natura» e «spirito», allora bisogna procurarsi i mezzi per farlo. Però questi mezzi non si possono desumere dal serbatoio tradizionale dei concetti delle scienze particolari. […] Il lavoro della filosofia deve inoltrarsi ex novo fino agli elementi ultimi, coglierli e riformularli» (ivi, pag. 49). ↩︎

  5. «Una conoscenza che seppellisce le possibilità aperte nell’essere e per l’essere dell’uomo, non solo è falsa, ma distrugge anche il respiro del suo oggetto: la sua dignità umana», da «Circa alcuni motivi dell’Antropologia filosofica» in «L’uomo una questione aperta», ed. cit. ↩︎

  6. Terminata l’epoca delle immagini di essenza, l’uomo adesso è pienamente responsabile dei propri pensieri ed azioni. Plessner morì nel 1985, quando ancora non erano a disposizione gli strumenti tecnici e scientifici che scatenano gli odierni dibattiti etici, ma aveva assistito al dramma delle guerre (era nato nel 1892), e a cosa aveva significato il progresso tecnico già nel solo ambito militare, con le ricerche sull’atomo e le bombe atomiche. ↩︎

  7. «È aperta quella forma che inserisce l’organismo, in ogni sua esternazione vitale, immediatamente nell’ambiente e lo rende una parte non indipendente del ciclo vitale a lui corrispondente» (ibid., p. 244). ↩︎

  8. La pianta matura aggiungendo strato su strato, e il nuovo ingloba il vecchio, mentre nell’animale lo stadio vecchio scompare nel successivo, e le superfici si formano verso l’interno; le piante hanno di rado un punto in cui concludono la propria crescita, mentre gli animali hanno il loro punto di compiutezza; le zone embrionali nelle piante sono volte alla differenziazione ulteriore della propria corporalità, mentre negli animali per lo più producono nuovi individui; nelle piante è preponderante l’assimilazione, negli animali la dissimilazione; i movimenti vegetali si verificano nella pianta, non c’è un nucleo che renda possibile il loro scaturire e coordinarsi, mentre negli animali il corpo diventa la corporalità avuta dal centro; la pianta non ha organi distinti in funzioni ben precise ed incamerati, come nell’animale, bensì ha dei tessuti che attraversano l’organismo dall’esterno all’interno (le sue parti hanno una grande autonomia l’una rispetto all’altra: la pianta è un «dividuo»); l’animale, essendo un grado ulteriore rispetto alla pianta, deve nutrirsi di altra vita. ↩︎

  9. Il suo centro vitale è differenziato dal corpo, per questo il corpo si differenzia dal campo circostante. Egli si trova direttamente davanti a cose che gli si presentano non in quanto cose, o oggetti di percezione, ma come corrispettivi di impulsi vitali. È frontale rispetto all’ambiente, è in rapporto di contrapposizione con esso (l’animale è un essere combattente, in competizione per la sopravvivenza). ↩︎

  10. «In quanto forma gestaltica e punto d’aggancio, la singolarità concreta della cosa è presente anche per l’animale; in quanto realtà esistente per sé, cosa persistente, autentico oggetto, gli rimane invece nascosta», op. cit., p. 299. ↩︎

  11. Il che non implica, come Plessner precisa, che ci sia l’aggiunta di un altro soggetto, un’altra sostanza, perché esso non è una caratteristica corporea: nell’animale si realizza una svolta speciale, in cui non solo esiste un centro che dà unità alle parti, ma esso diventa principio costitutivo dell’organismo; nell’uomo la centralità animale. ↩︎

  12. Op. cit., pp. 5-6. ↩︎

  13. L’io è «il punto di fuga, collocato «dietro di sé», della propria interiorità, che, sottratto a ogni possibile realizzazione delle vita a partire dal proprio centro, forma lo spettatore che sta di fronte allo scenario di questo ambito interiore, il polo soggettivo non più oggettivabile», op. cit., p. 314. ↩︎

  14. La persona «si trova al di qual e al di là dell’abisso, vincolata al corpo, vincolata all’anima, e insieme in nessun posto, priva di luogo, al di fuori di ogni legame con lo spazio e il tempo: perciò è essere umano» op. cit., p. 315. ↩︎

  15. «Egli esperisce l’inizio immediato delle sue azioni, l’impulsività dei suoi sentimenti e movimenti, sente di essere l’autore della propria esistenza, di stare tra azione e azione, sente la scelta come pure l’entusiasmo negli affetti e nelle pulsioni, si sa libero e nonostante questa libertà confinato in un’esistenza che lo inibisce e con la quale deve lottare», ibid. ↩︎

  16. Si parla di mondo, e non di campo, come per l’animale, perché alla persona si presentano sempre delle cose, realtà autonome: «tutto quello che gli è dato gli si presenta […] frammentariamente, appare come porzione, come visione, poiché egli si trova alla luce della sfera, vale a dire davanti allo sfondo di un tutto. Questo carattere frammentario è connesso essenzialmente con la fondazione autonoma del relativo contenuto, con ciò che è» (op. cit., p. 317). ↩︎

  17. Op. cit., p. 327. E, sempre in questa pagine: l’esistenza dell’io per via dell’eccentricità è «assolutamente e unitariamente contenente e contenuta». ↩︎

  18. Op. cit., p. 328. ↩︎

  19. Detto altrimenti, riprendendo un’espressione molto incisiva di Plessner: «Humanitas non è più lo stesso che hominitas» (Circa alcuni motivi dell’Antropologia Filosofica, ed. cit., p. 87). Tutti i tentativi di determinare l’uomo sulla base dei dati biologici e psicologici sono destinati al fallimento perché non tengono conto della storicità, della capacità umana non solo di reagire, ma di rispondere: della responsabilità. Ecco perché l’uomo è una questione aperta, e non può ormai che restarlo, grazie alle scienze biologiche, psicologiche, sociologiche, che hanno scardinato i privilegi che l’uomo si era sempre attribuito tra le creature, ed impediscono un ritorno a vecchie concezioni che non possono più calzare la dinamicità e l’estrema irrequietezza dell’epoca moderna. ↩︎

  20. L’eccentricità espone l’uomo, «lo abbandona al peculiare pericolo che egli tenta di affrontare per vie peculiari attraverso le correzioni e le compensazioni della cultura. Attraverso una di queste vie l’uomo rende evidente a se stesso questa situazione e si svincola da essa, in realtà soltanto nell’immagine e in modo immaginario: attraverso l’attore. Egli conferisce forma alla presenza-a-sé e senso alla gestione del ruolo, della rappresentanza che porta il suo detentore e interprete dall’unità casuale con sé all’unità artificiale con ciò che viene interpretato, e lo preserva come per gioco nella recitazione» (H. Plessner «L’antropologia dell’attore», in Studi di estesiologia, CLUEB, Bologna 2007, p. 89). L’arte dell’attore è «proteiforme […], eleva l’essere umano facendolo comparire nella rappresentazione teatrale» (Ibid., p. 90). ↩︎

  21. «Priva di luogo e di tempo, fondata sul nulla, la forma di vita eccentrica si procura la propria base. Soltanto nella misura in cui la crea, la possiede e viene da essa portata. L’artificialità nell’agire, nel pensare e nel sognare è il mezzo interiore con cui l’uomo, in quanto essere vivente naturale, è in accordo con se stesso. Con l’interruzione forzata attraverso la produzione di elementi intermedi realizzati, il ciclo vitale dell’uomo, a cui egli è vincolato come organismo autonomo da bisogno e pulsioni di morte e di vita, si eleva a una sfera sovrapposta alla natura e si colloca nella libertà» (Ibid., p. 339). ↩︎

  22. I gradi dell’organico e l’uomo, p. 334. ↩︎

  23. Ibid. p. 339. ↩︎

  24. Ibid. p. 340. ↩︎

  25. Ibid. p. 78. ↩︎

  26. Ibid. p. 362. Adesso, scrive Plessner, «quanto di concreto ci è rimasto è soltanto la condizione creatrice, che la natura organica mette a disposizione della paura umana, della volontà e della speranza umana: una profondità per l’uomo stesso insondabile, un’inquietudine inappagabile, che è l’origine, ma non il limite della sua storicità» («Conditio humana», p. 93). ↩︎

  27. Ibid., p. 361. ↩︎

  28. Ibid., p. 365. ↩︎

  29. Ibid., p. 367. ↩︎