«Io cerco l’essere che non si risolve nello svanire». La fondazione della coscienza dell’essere in Karl Jaspers

1. Una riflessione preliminare: il cominciamento è sempre l’essere1

Il cominciamento della filosofia jaspersiana è costituito dalla riflessione sull’essere.2 Non che questo sia un cominciamento assoluto, al contrario si presenta, già da subito, come il termine di una scelta — la scelta del cominciare, appunto. Già la riflessione filosofica hegeliana, del resto, aveva posto in tutta la sua rilevanza la centralità della questione del cominciamento e la sua delicatezza: un sistema di pensiero che fa del dinamismo il suo intimo significato, incontra forse quella che è la più grande difficoltà proprio nel suo primo movimento. Ebbene, l’inizio della filosofia dall’essere è già un «inizio iniziato», ossia un muovere da quel che si ha di fronte (angesichts) e che pertanto è già dato come un primum, pur non essendo ancora quasi nulla per il pensiero.

Ora, anche il filosofare di Jaspers muove dall’essere come ciò che c’è e dalla domanda intorno a esso. Tale domanda assume tutti i caratteri della domanda originaria e si presenta nella doppia valenza di questione ontologica e questione gnoseologica. Sul piano ontologico: «Che cos’è l’essere?», «In che rapporto è con il nulla?» e infine «Essere e nulla, a loro volta, cosa rappresentano per quel soggetto finito in divenire che sono io?». Mentre sul piano gnoseologico: «Cosa posso conoscere dell’essere?» e «Cosa posso comunicare dell’essere che conosco?».

Nella sua radicalità, la domanda originaria non è però univoca, né lo può essere dal momento che investe l’intero variopinto orizzonte di ciò che è, di cui fa parte anche l’io che domanda. Già Aristotele, del resto, sapeva bene che l’essere si dice in molti modi.3 Ora però, la riflessione jaspersiana intende questa non univocità in modo fondamentalmente tragico, come il naufragio della volontà di unificazione dell’intelletto. Ma il fallimento dell’univocità ammaestra l’io sulla natura dell’essere e del se stesso. Anzi proprio il fallimento è il momento fondamentale dell’accertamento dell’essere stesso e dell’io, senza il quale l’intero movimento della coscienza non avrebbe luogo. In definitiva, la questione aristotelica dell’essere è posta in Jaspers sulla scorta della speculazione hegeliana e della sua dissoluzione operata da Kierkegaard e Nietzsche: l’univocità è rotta tragicamente per l’esistenza che si trova a essere interpellata da questa stessa rottura. Parafrasando il Principe di Danimarca,4 Jaspers — ma in generale il filosofo del Novecento5 — afferma che l’essere è sconnesso e all’io tocca la dannata disdetta di rimetterlo in sesto: «l’essere è disarticolato (aufgelöst)» (PH III 36; 972).

La tragicità della rottura della dizione univoca dell’essere è dovuta, da un lato, all’oggetto della domanda originaria, che non è di per sé un oggetto, ma un qualcosa che pare lacerato nelle determinazioni degli oggetti al punto che non è propriamente nemmeno più un che di determinato, ma un abisso; dall’altro, alla situazione di colui che pone la domanda che non è situato al di fuori dell’orizzonte dell’essere, ma al suo interno, come un essere tra gli altri, con la conseguenza che di fronte alla non univocità dell’orizzonte di riferimento la stessa domanda, in definitiva, si risolve in un paradosso e in un labirinto. Questo perché l’essere non è tanto l’orizzonte dell’apparire, quanto quel qualcosa che è al di là degli orizzonti particolari, solo all’interno dei quali è possibile il domandare: è l’orizzonte degli orizzonti.

La non univocità della domanda richiede pertanto, secondo Jaspers, una risposta altrettanto non univoca.6 E la non univocità della risposta sull’essere è per il pensiero che indaga, al tempo stesso, equivocità e multivocità. Equivocità che abbatte le pretese dell’intelletto (inteso nel significato kantiano del termine che rovescia il significato classico, di facoltà che coglie i primi principi, e lo intende come facoltà della determinazione categoriale) il quale ordina, cataloga e tende alla conoscenza di un oggetto per il soggetto (cfr. EP 19); multivocità che stimola la ragione che, in quanto facoltà dell’infinito (ancora secondo il rovesciamento kantiano), accoglie le diverse possibili risposte non come un fallimento della comprensione, ma come una ricchezza che, pur abbattendo le pretese dell’intelletto, apre lo spazio per una comprensione autentica e per la fondazione di una nuova «certezza».

Ora, allo scopo di chiarire — in dialogo con il pensiero di Jaspers — in cosa consista la valenza tragica del fallimento intellettivo e quali siano il senso e le possibilità di questa nuova «certezza», è necessario indugiare in una più attenta, e lunga, riflessione sulle possibilità di dizione tanto della domanda intorno all’essere quanto della sua risposta e, in definitiva, sulla natura dell’essere che io stesso sono. Si tratta pertanto di seguire una via che non muove tanto dall’essere come cominciamento, quanto piuttosto dalla sua questione, dalla sua indeterminazione e dall’incertezza che ne deriva per l’uomo.7

2. «Mr. Incertezza» e il pensiero sfuggito dell’«è»

Il principio di indeterminazione di Werner Carl Heisenberg (premio Nobel nel 1933), applicato all’ontologia, suonerebbe pressappoco così: l’osservazione e la conoscenza dell’essere sono condizionate dalle modalità e dalle tecniche stesse di osservazione e di conoscenza, di modo che esiste una certa indeterminazione in ogni conoscenza acquisita di qualsiasi essere. Una volta chiarito che per «indeterminazione» s’intende cosa ben diversa dal normale «errore» sperimentale o logico, l’essere osservato con i lumi dell’intelletto pare di conseguenza non essere più propriamente l’Essere, ma, secondo le modalità della conoscenza umana — che è una conoscenza determinata — è di volta in volta un essere. Ripeto: non si tratta di un errore, ma del modo stesso di essere dell’essere nel suo manifestarsi, che non può presentarsi se non nella forma di un essere determinato. L’essere, infatti, è inafferrabile di per sé, in quanto concepirlo vorrebbe dire già tradurlo in un essere determinato (cfr. PH I 4; 115); al contrario si dà solo in una multivocità variopinta di segni che permettono di coglierlo, appunto, in molti modi che però, a loro volta, non sono l’essere. «Noi — scrive Karl Jaspers nel suo Existenzphilosophie del 1938 — come indagatori di noi stessi ci muoviamo nell’essere onnicomprensivo che noi siamo, in modo da farci oggetto il nostro stesso esserci, operiamo su di esso, trattiamo con esso, ma al tempo stesso questo ci fa capire che noi non ce ne impadroniamo mai, fuori del caso in cui, come incomprensibile, lo dissolviamo totalmente» (EP 23).

La domanda intorno all’essere è, in Jaspers, la domanda originaria dal momento che l’inizio non poteva essere altrimenti. Premesso che il pensiero per Jaspers non pone limiti alla ricerca, ma al contrario trova nei limiti oggettivi della scienza e dell’esistenza stessa (le «situazioni-limite») l’occasione per filosofare ulteriormente, e dal momento che l’orizzonte onnicomprensivo del mondo, dell’esistenza e della ricerca filosofica in generale è segnato proprio da quell’essere che si dice in molti modi e che qui si indaga — si tratta di un inizio tutt’altro che arbitrario, ma dell’inizio o, per usare un’espressione della tradizione hegeliana, del cominciamento (cfr. EinP 24).

Il cominciamento non può che essere l’essere — in questo modo lo intende Hegel nella sua Logica. Ma mentre questa esprime il movimento interno dell’Idea nell’inarrestabile processo dialettico per il quale l’inizio, se tale rimane, permane nell’inessenziale, la Logica8 jaspersiana, dal canto suo, si sofferma (forte della singolare esperienza kierkegaardiana e dell’eccezionale coraggio nietzscheano) sul domandare. La domanda sull’essere infatti non è una domanda univoca e come tale richiede una risposta altrettanto non univoca (cfr. PH I 19; 131). Se per il filosofo greco la plurivocità dell’essere apre alla possibilità di una classificazione dei modi del «dire» l’essere stesso e per il filosofo dell’Ottocento questo, come determinazione astratta, dilegua subito nel nulla; per Jaspers, filosofo del Novecento, la plurivocità dell’essere si moltiplica a dismisura in una vertigine di enti che fanno sì che l’essere stesso venga quasi a svanire nel nulla.9 Nonostante tutto, Jaspers non si esime dal tentare una dizione dei modi dell’essere, pur sapendo che questi non esauriscono l’essere stesso, anzi al contrario, se presi singolarmente, lo falsano.

L’essere si dice in molti modi. Tali modi sono l’esser-oggetto, l’esser-io, l’essere-in-sé. Ciascuno di questi, pur mostrando l’essere, non lo esaurisce: pertanto la filosofia della conoscenza (lo studio dell’esser-oggetto), la filosofia dell’esistenza (la chiarificazione dell’esser-io) e la metafisica (l’indagine intorno all’essere-in-sé) non sono che «prospettive per il pensiero» (PH I 6; 117), cioè per la coscienza che nel suo esserci temporale esiste nella situazione in cui si trova e, a partire da tale situazione, pensa e agisce.

Ora, l’essere come oggetto è sempre un essere dato, e come tale è indagato dalle scienze esatte secondo le regole dell’intelletto che, determinando il proprio oggetto, ne perde inevitabilmente l’originarietà: l’esser-oggetto infatti non è in alcun modo l’essere. Dal canto suo l’essere-in-sé rimane nella sospensione propria della metafisica kantiana: non è indagabile con le categorie dell’intelletto umano e pertanto rimane del tutto inaccessibile e, nella sua assoluta alterità, è quasi un nulla per il pensiero (cfr. PH I 13; 124 e EP 23). Ma come già Schopenhauer aveva notato, tra la chimera noumenica e la trascendentalità delle mie facoltà conoscitive vi è un termine medio che stabilisce un contatto e che apre una via d’accesso privilegiata alla cosa-in-sé: è l’essere che io sono. L’indagine intorno all’essere si dovrà pertanto rivolgere all’essere nel modo dell’esser-io, quale autentico, nonché l’unico percorribile, luogo di una possibile esperienza dell’essere in quanto tale.

A sua volta l’essere che io sono — secondo il tipico argomentare per schemi di Jaspers — si dice fondamentalmente come esserci (io come questo corpo, qui e adesso), coscienza in generale (io come identico e sostituibile a ogni altro), spirito (io come comprensione della totalità) e come esistenza possibile (io come volontà incondizionata di sapere e agire: libertà e possibilità). Anche l’io dunque si dice in molti modi: corporeità oggettivata, soggettività che si rapporta intenzionalmente a delle oggettività, pensiero che è in rapporto a tutto ciò che è intelligibile e, infine, essere che si relaziona alle sue possibilità.

L’autenticità del mio essere, nonché l’unificazione dei modi dell’esser-io, è data fondamentalmente nel mio essere esistenza. Ma l’esistenza, di per sé, non è definibile né oggettivabile in quanto non è l’ambito dell’essere oggetto, ma è un rapporto, un nesso in tensione che, in quanto ambito dell’essere possibile, è solo chiarificabile quale manifestazione dell’essere nel suo modo d’essere come libertà. Tale manifestazione dell’essere avviene all’interno del supporto temporale. È il tempo, infatti, il luogo di manifestazione dell’essere per cui l’essere diviene un essere determinato; allo stesso modo è il tempo il supporto di quel nesso che è l’esistenza (rapporto io-situazione, io-altro, io-trascendenza); e infine è ancora il tempo lo spazio di dispiegamento della libertà come originario ambito di realizzazione dell’uomo nel pensare e nell’agire.

Scandito dal diaframma del tempo,10 il pensiero dell’essere non può che essere un pensiero di volta in volta determinato e parziale. Qualora il pensatore del Novecento tentasse, invece, di dire l’essere che si trova al di là delle determinazioni in cui pare manifestarsi, ossia dei suoi modi, si troverebbe inevitabilmente di fronte alla possibilità del suo svanire nel nulla (cfr., tra gli altri, PH I 2; 111 ed EP 18). Questo perché i molti modi in cui si dice — singolarmente presi — finiscono per tradire l’essere e, allo stesso tempo, disorientano il filosofo che si sa non più in grado di elencarli tutti11 né, d’altro canto, ha più la forza di pensarli dal punto di vista dell’Assoluto (per dominarne l’inevitabile nullità12). Al cospetto di queste possibilità, il pensiero di Jaspers pare arrestarsi nell’incertezza di fronte (angesichts) all’essere e al compito di dirlo tutto o da parte del tutto.

Jaspers è cosciente del fatto che, di fronte all’incertezza, il pensiero può decidere uscirne in vari modi, ovvero può decidere di rimanere in essa, ancora in diversi modi. Ma dal momento che ogni via d’uscita equivarrebbe a una fuga dal problema stesso che lascerebbe insoluta la domanda (poiché ogni nuova certezza si presenterebbe subito come una certezza determinata o di un essere determinato), a Jaspers non rimane che soggiornare nell’incertezza, magari acuendone i paradossi e le ambiguità, allo scopo di scorgere in essa dei segni, possibili rimandi, o il modo stesso di darsi di quell’essere che non si può dire altrimenti. Si sofferma sul fatto che tale essere gli sfugge, ma allo stesso tempo tenta una via del pensiero (semplice e inattuabile, o inattuale, allo stesso tempo) che dica con le categorie del pensiero (peraltro imprescindibili per noi) ciò che non è oggetto del pensiero stesso.

Torna alla memoria il frammento pascaliano n. 370: «Pensiero sfuggito, volevo scriverlo; scrivo, invece, che mi è sfuggito». È il pensiero dell’essere che — mi si conceda il parallelo — sfugge alla presa delle categorie dell’intelletto (della ragione, direbbe Pascal) che lo vuole scrivere e permane, quindi, oscuro nella sua inafferrabilità. Ma il fallimento non annulla la tensione e la vocazione a pensare sempre e ulteriormente,13 propria della ragione umana (del cuore, direbbe Pascal); al contrario proprio il fallimento della dizione dell’essere — della sua scrittura in un sistema razionale chiuso che, peraltro, comporterebbe inevitabilmente la caduta dell’essere stesso nel nulla della fissa determinazione — mostra l’essere nel suo annunziarsi senza per questo lasciarsi oggettivare, e, d’altro canto, ammaestra l’uomo intorno alla natura del pensare stesso e in definitiva sulla sua stessa umanità.14

Nella tradizione della filosofia moderna, del resto, la pratica del soffermarsi sulla soglia del pensiero, e per questo sul suo limite e sulle sue possibilità, ha assunto il ruolo di luogo privilegiato della ricerca filosofica, di modo tale che risulta più fecondo il «non», il limite, che il qualcosa.

Tuttavia nemmeno il qualcosa pare essere al sicuro. Nella prospettiva jaspersiana, infatti, non solo l’essere pare sfuggire a ogni determinazione univoca, ma anche il mondo e l’uomo stesso si dicono in molti modi.

Per esempio il «mondo» — inteso come la totalità dell’essere nello spazio e nel tempo — si manifesta frammentato, lacerato (cfr. PH I 64; 180 o KS 26; 25), e il suo sapere — la scienza,15 come sapere orientato agli oggetti, che legge l’essere nelle sue manifestazioni determinate come ciò che ha di fronte, come oggetto — è indefinito e indeterminato. Tale conoscenza si presenta, pertanto, come quel sapere determinato di un oggetto che organizza i suoi contenuti in un’unità sistematica allo scopo di dominare l’indefinito cui essa comunque è sempre inevitabilmente rimandata. Questo perché la scienza studia l’essere separato, ossia l’esserci determinato nello spazio e nel tempo. E tale essere non è l’essere in sé e il suo sapere è vincolato al sistema di riferimento, per cui l’unità nella quale viene compreso (l’unità infatti è il fine della scienza) è pur sempre l’unità di un mondo, mai l’unità assoluta. Dice Jaspers: «Noi infatti siamo certi di oggetti finiti nel mondo ma mai del mondo come di una totalità» (PH I 95; 213) o, in modo ancora più forte: «Manca l’Uno a tener insieme il Tutto» (KS 22)! Questa sua natura parziale e indefinita fa sì che il cammino della scienza sia di per sé interminabile e che il progresso cui dà moto non abbia limiti (cfr. PH I 87; 205).

Ed è un rilievo importate questo, dal momento che la scienza, per sua stessa definizione, un sapere finito che per dare ragione del suo stesso significato necessita, a sua volta, di un sapere del limite (nell’orientazione filosofica: cfr. PH I 88; 207). Ponendosi come indagine determinata riguardo all’oggetto, essa è infatti un sapere vincolato e limitato che, alla lunga, delude16 se non si risolve nel sapere della limitazione stessa e della determinazione; e sebbene il progresso sia esso stesso per natura indeterminato, nell’indeterminatezza assoluta non ci potrebbe essere alcuna forma di sapere scientifico. Questa del resto, nota Jaspers, non è la sola ambiguità della ricerca scientifica (ambiguità che, peraltro, pone in essere, allo stesso tempo, quello sbilanciamento e quella tensione che rappresentano proprio il motore della scienza stessa). Essa, in quanto sapere dell’oggetto, è fine a se stessa, ossia tende autonomamente alla sua realizzazione in un orizzonte determinato, senza cioè la necessità di alcun ricorso alla metafisica (cfr. PH I 135, 255: «la scienza autentica si realizza senza metafisica»). Ma allo stesso tempo, proprio in quanto sapere del limite, la scienza invoca la metafisica come suo naturale completamento (cfr. PH I 135; 254: «la scienza provvista di senso si realizza attraverso la metafisica»): il limite invoca il superamento del limite stesso. E la metafisica infatti, in quanto pratica dell’oltrepassamento del limite o del trascendimento, viene in soccorso della scienza indagatrice dell’oggetto che — ferma alla determinazione — non esce dal mondo (cfr. PH I 135; 254-255).17

Similmente l’«uomo» si dice in molti modi, al punto che a un filosofo del Novecento risulta arduo parlare di «umanesimo». «Umanesimo si dice in molti sensi» (NH 13). È questo l’incipit della conferenza Über Bedingungen und Möglichkeiten eines neuen Humanismus del 1949, nella quale Jaspers tenta uno scandaglio delle possibilità di un nuovo umanesimo movendo dalla constatazione, proprio di matrice pascaliana, che «l’uomo è più di quanto può conoscere di se stesso» e che «per quanto si descrivano gli uomini di oggi, essi restano nell’ambiguità, né sono riconducibili a un unico tipo» di modo che «qualunque immagine dell’uomo rappresenterebbe già una limitazione» (NH 14-15).18

Per la fisiologia l’uomo è corpo, per la psicologia è anima, per la sociologia è essere sociale… etc., ma in generale esso sembra cadere nel nulla (cfr. NH 13). Ma proprio in questo naufragio nella «palude» (cfr. NH 14) dell’umanità, l’uomo può divenire cosciente di ciò che è e che non può mai essere annientato, ossia del suo stesso essere che, nel movimento metafisico, si spinge oltre se stesso e «trova pace solo in ciò che cerca, ma non è» (NH 14). Il limite si presenta quindi come condizione di dicibilità dell’essere, ma, rileva Jaspers, ciò «che esteriormente è determinazione e limite, interiormente è manifestazione dell’essere autentico» (PH I 16, 127).

In definitiva, l’incertezza di Heisenberg (non per nulla soprannominato da alcuni storici «Mr. Incertezza») e del suo principio, secondo cui non è possibile determinare simultaneamente la posizione e il momento di una particella, ha come suo riflesso l’incertezza dell’uomo di fronte (angesichts) all’indeterminazione dell’essere del quale non è possibile determinare simultaneamente la sua natura interna (l’essere-in-sé), il suo apparire determinato in oggetti (l’esser-oggetto o il mondo), il suo manifestarsi nell’io stesso (l’esser-io o l’uomo)… etc. Molteplici registri sembrano, infatti, necessari per l’interpretazione dei modi in cui l’essere pare lacerato al punto che rischia quasi di cadere nel nulla. Ora, la lettura dei modi in cui l’essere si manifesta nell’indeterminata determinazione del mondo o dell’io rappresenta per la coscienza filosofica la soglia oltre la quale si dispiegano le possibili vie alla trascendenza. Ma lungo la via per la trascendenza, ossia oltre la soglia dell’essere determinato, si incontra inevitabilmente il nulla come possibilità imprescindibile.

3. La questione filosofica fondamentale e lo scoglio del «qualcosa»

L’indagine nella quale la coscienza filosofica ha indugiato di fronte (angesichts) alla possibilità del nulla è venuta assumendo, nei secoli, la forma della Grundfrage («perché c’è in generale qualcosa e non il nulla?»), anticipata da pensatori quali Democrito (Diels, fr. 156) e Plutarco (Contra Colotem) e formalizzata in modo particolare da Leibniz, Kant e Schelling (cfr., a carattere riassuntivo, PGO 550-564, ma anche W 37-39 e lo Schelling del 1955, p. 124 e seguenti).

Tuttavia, secondo Jaspers, le varie risposte fornite dalla tradizione non escono dal comune errore di voler ridurre la questione dell’essere a un’argomentazione filosofica (seppur una questione-limite). Così, per Leibniz, si può retrocedere all’infinito lungo la via delle cause accidentali senza per questo ottenere alcun progresso nella ricerca della risposta, e questo implicherebbe la necessità logica di un principio che risieda al di fuori della serie stessa.19 Per Kant, invece, l’uomo non può esimersi dal provare vertigine di fronte al pensiero abissale di un essere al di là o dal provare orrore di fronte alla possibilità di un nulla. Per Schelling, infine, non si può pensare possibile un essere reale infinito, allo stesso modo non si può nemmeno pensare la possibilità che esso non sia; ma questo non deriva dalla limitazione dell’intelletto umano che non possiede categorie adeguate a tali insondabili pensieri quanto dalla libertà dell’assoluto stesso che può scegliere tanto di essere quanto di non essere, ossia può decidere di prender forma per l’intelletto che lo pensa ovvero di non rendersi intelligibile. Ne segue quindi lo stupore della ragione che conduce al superamento di ogni categoria, nell’intuizione intellettuale e nel pensiero dell’«è» (cfr. S 124). Ebbene, osserva Jaspers, laddove Kant rimane fermo ai limiti della ragione, Schelling rovescia il limite in possibilità, e dalla situazione del non-sapere salta, mediante l’intuizione intellettuale, a una forma di conoscenza del non-saputo che è pur sempre un sapere. «In Kant stando sul limite v’è il più profondo non sapere, in Schelling c’è invece la conoscenza del non-saputo» (S 13020).

Tale rovesciamento del limite in possibilità e del non sapere in conoscenza del non-saputo, se da un lato ha il pregio di aprire la via della trascendenza per un discorso che, con i caratteri del mito e del simbolo, vuol dire l’essere stesso e la trascendenza, dall’altro non esce dalla pretesa totalizzante propria del pensiero scientifico e si prefigura l’essere e la trascendenza come oggetti e quindi come un possesso, anche se nella forma di un non-saputo.21 Il pensiero dell’essere che emerge dall’intuizione intellettuale pare quindi non cogliere ancora nel segno, in quanto il salto dell’intelletto intuente schellinghiano fallisce il suo oggetto al pari del movimento dell’intelletto scientifico volto alla determinazione del suo oggetto: come detto, entrambi pretendono di ricondurre il non pensato nella filosofia, e in tale pretesa mancano il loro oggetto.

In tutte le sue possibili dizioni, il pensiero dell’«è» permane come una necessità ineliminabile unitamente e, allo stesso tempo, per sua natura pare inscindibilmente connesso con il nulla. Schelling quindi ha l’indubbio pregio di aver posto la domanda fondamentale sulla via dell’esistenza. Egli parla infatti di una domanda colma di disperazione «verzweiflungsvoll» che emerge dall’abisso della infelicità dell’uomo e che se non trova risposta «ogni cosa s’inabissa nel baratro di un nulla senza fondo».22 Di qui la possibilità di una sua espressione mitica o simbolica, che però, ancora una volta, non la esaurisce. La questione infatti pare sottrarsi in tutti i modi alla presa filosofica, e l’errore della teosofia tautegorica schellinghiana consisterebbe proprio nel voler portare il non pensato nella filosofia come oggetto, oltre la cifra.

Forte quindi dell’esperienza dell’inadeguatezza di ogni risposta alla questione fondamentale che voglia gestire un oggetto, Jaspers si sofferma, più che sulla risposta (che non pare portare ad altro che al naufragio delle possibilità intellettive) sulla domanda stessa che, già da par sua, pone numerosi elementi discriminati. Cosa si intende per questo «qualcosa»? È forse l’essere al di là dell’essere, il Super-essere o l’Oltre-essere (Überseiende) o piuttosto il qualcosa, ossia in definitiva l’ente? E, allo stesso modo, il nulla è un nulla assoluto o piuttosto solo un nulla relativo, il nulla di essere, il non-essere?

L’essere non è il qualcosa. Il fallimento della domanda «perché c’è in generale qualcosa piuttosto che il nulla?», che pur nella sua radicalità pare mancare il bersaglio, è già presagito nella domanda stessa: infatti il pensiero può cogliere al massimo il fatto che c’è il «qualcosa», ossia, ancora una volta, l’essere determinato e non l’Oltre-essere.23 Del resto, afferma Jaspers, la domanda «non trova risposta in una ricerca o in un corso necessitante di pensiero» (PGO 560), al contrario il pensiero «salta fuori dalla serie quando si interroga intorno all’origine non del primo termine della serie ma della serie intera» (PGO 563). Quindi solo la sorpresa del fallimento di questo gioco del pensiero oggettivante, che, dal momento che non dispone di un oggetto adeguato, inevitabilmente esce dai cardini (out of joint! direbbe Amleto) e naufraga, è occasione per un approfondimento ma non più a livello teorico bensì esistenziale, pre-logico o addirittura vitalistico (cfr. PGO 560).

«Bisogna abbandonare il pensiero oggettivante — scrive Pareyson in La «domanda fondamentale»: «Perché l’essere piuttosto che il nulla»24 — accettando che ciò che si rivela esistenzialmente è l’essere pur non essendo identico per tutti. Questa diversità attesta che qui siamo nella sfera dell’inogettivabile, non trattandosi né di un problema scientifico d’interpretazione intellettuale, né d’un problema psicologico di descrizione, ma d’un problema esistenziale di comunicazione. Un’autentica risposta alla domanda fondamentale non è univoca proprio perché esistenziale, e sa cogliere l’essere anche nella vertigine del pensiero e nell’abisso del nulla; essa non è autentica se non dove la questione è posta in tutta la sua serietà, quando lo stupore provocato dalla domanda esige l’approfondimento della coscienza sino al nodo che vincola fra loro esistenza e trascendenza».25

Del resto il pensiero speculativo non ha nulla da dire riguardo alla verità dell’essere o al massimo può divenire «occasione» per un maggiore approfondimento esistenziale. Esempio paradigmatico del fallimento della volontà totalizzante della speculazione filosofica riguardo alla questione dell’essere è la stessa dialettica hegeliana. Nemmeno la potente speculazione di Hegel infatti pare risolvere, per Jaspers, la questione, dal momento che in essa il puro essere è nulla, astrazione da tutte le finitezze e da tutte le determinazioni e quindi, senza più nulla di determinato, esso è il puro nulla. Un nulla di essere, però, per cui l’uno e l’altro paiono inseparabili e solo la dialettica del movimento speculativo li unifica: l’essere è nulla e nel nulla si annida l’essere, e in definitiva il nulla stesso è l’essere autentico nel divenire. Sulla via di questo pensiero, nota Jaspers, trovano la loro giustificazione tanto l’ontologia quanto il nichilismo. Entrambi (la dottrina dell’essere e la dottrina del nulla) non sono però che «dei precipizi che rovinano l’esperienza viva del pensiero dell’essere e la riducono ai fuscelli di paglia26 del pensiero intellettuale» per cui la dialettica viene a essere un movimento illuminante ma anche un inganno sofistico in cui il pensiero «si lascia svanire nel vago» (PGO 557). «Ma questi pensieri — conclude Jaspers — ci traviano verso l’assoluta mancanza di fondamento, verso il nulla dell’irresponsabilità» (PGO 557-558).

Al contrario domanda e risposta, afferma Jaspers, «sono guide, seguendo le quali si chiarifica o si produce una disposizione interna» (PGO 560). Non è infatti nel processo necessitante del pensiero o nelle visioni intellettive che la domanda trova risposta. Anzi, per l’intelletto essa risulta sempre più vuota e sterile tanto da venir abbandonata ed esclusa dal novero delle entità conoscibili. Sembra quasi «uno scherzo fatto per ridere» (PGO 560).

Ogni risposta possibile, nella sua inadeguatezza, ha però senso se interpretata come una cifra.27 E le cifre, nella loro varietà e ricchezza, alimentano e accrescono ulteriormente il domandare originario di modo che la reazione a catena della sorpresa, per un gioco forse insensato, pare non avere termine (cfr. PGO 564). E del resto il termine di questo gioco è inessenziale per Jaspers. Quel che conta è che sia sempre l’uomo «il luogo in cui si verifica questo vario manifestarsi, luogo come diversa presenzialità in tutti i modi della totalità comprensiva che l’uomo è» (PGO 562).

Si chiede infatti Jaspers: che cosa rimane della domanda originaria e della questione filosofica fondamentale nell’indeterminato gioco delle risposte che, in quanto cifre, anziché risolvere alimentano il domandare e problematizzano ulteriormente? La risposta è illuminante e semplicissima: «La chiarificazione esistenziale mediante il pensare in cifre e nell’oltrepassare le cifre» (PGO 563).

4. «Io cerco l’essere che non si risolve solo nello svanire»28

Il nodo centrale della speculazione jaspersiana intorno all’essere, è quindi, (sulla scorta dell’esperienza dell’equivocità e della multivocità dell’essere stesso) il tentativo di comprendere, o almeno di chiarire a livello esistenziale e indagare l’essere che non si risolve nel semplice svanire (cfr. PH I 2; 111). Del resto, tanto l’essere che si risolve nello svanire oltre le determinazioni quanto quello che si lascia dire tutto mediante categorie dell’intelletto non dicono nulla dell’essere che qui si indaga. E l’intero movimento della scienza, dal canto suo, altro non era che questo rifiuto dell’essere nello svanire e la ricerca dell’essere in sé.

Ora, sebbene da nessuna parte l’io abbia a che fare con l’essere chiuso in sé (PH I 18; 130), proprio quell’essere nello svanire che è scartato dai costruttori del sapere scientifico è l’unico modo d’essere dell’essere per il pensiero. Lo svanire, quindi, è il vero oggetto della ricerca che non voglia fermarsi all’oggetto che, per definizione, non può essere l’essere.

Del resto, dice Jaspers, «Ciò che c’è è l’apparire non l’essere e neppure il nulla» (PH I 19; 131); anche se questo essere che c’è è tanto poco l’essere di cui l’io andava in cerca che pare quasi svanire nel nulla (PH I 13; 124). Ora, la nullità di questo essere che c’è è però l’unico modo dell’essere: l’essere si dà per me sotto il segno della quasi nullità. Altrimenti detto, nel «divenire». La dialettica hegeliana sembrerebbe essere rispettata, in questo punto, ma con uno slittamento che ne rivela, nell’interpretazione jaspersiana, il fondo esistenziale. O, meglio, è Jaspers che legge la dialettica essere-nulla-divenire nella sua valenza esistenziale.

Nel divenire infatti (che è divenire temporale) l’essere che appare (fenomenologia dell’essere) porta con sé i due precedenti (l’essere e il nulla) ma il prodotto, ossia il terzo, non pare essere immediato come invece il terzo hegeliano. Esso infatti è fortemente lacerato al suo interno poiché l’essere rimane in una duplicità insuperabile: tanto l’essere-in-sé della trascendenza quanto l’essere nella coscienza per l’esistenza non sono l’essere, e in più non sono commensurabili (cfr. PH I 20; 131).

La dialettica jaspersiana dell’essere si presenta quindi come una dialettica aperta in cui la memoria (Erinnerung) non è il medio della conciliazione degli opposti ma, al contrario, la traccia che l’io porta con sé dell’irriducibilità e dell’incommensurabilità degli opposti stessi (come l’ombelico di cui parla l’Aristofane platonico, è la cicatrice di una cesura ormai metabolizzata ma non per questo superata29). «Non c’è alcuna concezione dell’essere in grado di abbracciare tutto l’essere in cui ci troviamo. Questa è la mia situazione che, filosofando, non dimentico» (PH I 22; 133, corsivo mio).

Che cos’è quindi l’essere? Si chiede Jaspers (cfr. anche W 37). È forse questo «diluirsi dell’essere» stesso in tutto ciò che indeterminatamente si può dire che è? O è la «fissazione» del molteplice sensibile nell’essere categorialmente determinato che è conosciuto? O infine è quell’essere di cui mi posso accertare nel trascendimento di ogni oggettività mediante il pensiero? (cfr. PH I 23; 135). In ogni caso, l’essere si presenta come una magna quaestio che non pare trovare una soluzione univoca: «l’essere, diviso dalle domande che lo riguardano non può essere riconosciuto nella sua unità» (PH III 36; 972).

L’impossibilità di una risposta universalmente valida a tale domanda impone, come si è visto, un ritorno sul domandante. Il fallimento della domanda apre la possibilità di una riflessione sul soggetto stesso della domanda. Non per una sorta di relativismo soggettivo di chi s’impone come misura di tutte le cose — di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono — ma per la necessità che scaturisce dal fallimento stesso di ogni tentativo di comprensione univoca. L’essere non si dà nella comprensione. Esso è incomprensibile (Un-greifende30). E l’incomprensibilità dell’essere apre all’esistenza come unico ambito possibile di una risposta. Soggettiva forse, e quindi fallace o fallibile, ma sempre possibile risposta sull’essere.

«A questo punto l’esistenza diventa il segno per indicare la direzione dell’autoaccertamento di un essere che non si può pensare oggettivamente, né in termini di universale validità; è l’essere che nessuno conosce e che nessuno può affermare nella pienezza del suo senso, né riferendosi a se stesso, né riferendosi ad altro» (PH I 19; 130-131). L’uomo è l’unica via d’accesso all’essere, in quanto è anche l’unico essere che è cosciente del suo essere. Non si danno altre possibilità. Del resto «L’eterogeneità dell’apparire (del fondo oggettivo nei fenomeni, della trascendenza dell’essere-in-sé nelle cifre, dell’esistenza nella certezza della coscienza assoluta) annulla in ogni sua direzione la consistente stabilità di un essere, perché nel suo complesso questa eterogeneità mantiene l’essere, a cui si rivolge la domanda dell’esistenza possibile nella realtà temporale, in una lacerazione definitiva che investe alla radice anche la domanda» (PH I 21; 133).

La lacerazione dell’essere investe tutto l’essere e rimbalza sulla domanda stessa che, come detto, non trova una risposta univoca, ma segna anche il domandante che, in quanto tale, è anche l’unico interpellato. Il filosofare è quindi questo movimento del pensiero che ritorna sul soggetto il quale è chiamato a leggere e interpretare l’essere così come esso si presenta, ossia nell’apparire che come tale è nulla per il pensiero, ma che, come apparire dell’essere, è un qualcosa carico di significato (pur non essendo la Verità!): «il filosofare, attraverso l’apparire, coglie l’essere nell’interpretazione delle cifre della trascendenza e nel pensiero che si appella all’esistenza» (PH I 20; 132).

L’essere quindi può essere scorto solo nel movimento riflessivo del pensiero che leggendo il fenomeno come cifra dell’essere (fenomenologia dell’essere) non svela questo, riducendolo di volta in volta a un essere determinato e così perdendolo, come vorrebbe la conoscenza scientifica, ma si accerta di esso. Ossia, trascendendone l’oggettività (che però in quanto tale è solo un prodotto o, kantianamente, una forma a priori del soggetto), esperisce l’inadeguatezza dell’espressione categoriale, peraltro imprescindibile per il pensiero. Inadeguatezza che apre all’accertamento dell’essere quale forma di conoscenza, ancora categoriale, ma non oggettiva. Fare filosofia pare quindi voler dire, pascalianamente, beffarsi della filosofia. E tale inevitabile farsi beffe della filosofia, ironico e tragico allo stesso tempo,31 è il trascendere (cfr. PH I 23; 134).

L’autentico essere, quindi, è da cercarsi solo nella trascendenza, o nel trascendimento; e non certo attraverso la coscienza in generale che indaga l’essere come un oggetto per un soggetto, ma tramite l’esistenza.32 Perché l’ontologia (ossia la dottrina dell’essere) può giungere a tradurre l’essere nei modi dell’essere stesso senza mai giungere a un essere unico, e potrà al massimo solo liberare il cammino per un ulteriore trascendimento. «Oggi l’ontologia non vale più come metafisica, ma come teoria delle categorie» (PH I 24; 136). E ancora: «Qualunque cosa possa pensare il pensiero mi crea solo lo spazio dell’io come esistenza possibile che rimane sempre estranea al pensato» che, di per sé, ha solo «conoscibilità relativa», è «possibilità», «appello», nulla di più (PH I 24; 136).

Ma come può una certezza chiarificatrice darsi in una oggettivazione inadeguata? Solo se il soggetto è più che soggetto: nonostante il soggetto, l’io è altro. Nel fallimento della soggettività del soggetto33 l’io si rapporta a un essere non-oggettivo, e tale rapporto (ma è un rapporto impossibile!) è l’esistenza (PH I 28; 140-141).34 Del resto «l’essere, come essere-oggetto, non sussiste da sé» ma è solo un ens rationis (PH I 30; 143).

La prospettiva di una certezza fondata su di un impossibile rapporto al non-oggettivo non può quindi che abbattere il pensiero categoriale (dell’intelletto) al pari dell’uomo che si limita a esserci, senza svelare la sua natura intimamente sbilanciata verso la trascendenza (cfr. PH I 38, 152). Ma lo sconforto dell’esserci è al tempo stesso lo stimolo al trascendimento. «Nello sconforto dell’esserci c’è in me lo slancio dell’essere» (PH II 204; 679). Il pensiero non è in grado di conoscere l’essere, ma solo di chiarire l’esistenza, quando si fa pensiero attivo nella vita stessa che attraverso il medio del linguaggio filosofico si traduce in appello. Appello a trascendere. «Tutte le sue vie conducono alla metafisica» (PH I 32; 145).

«L’essere è rimasto in sospensione per l’incomprensibilità dell’essere-in-sé. Esso è apparso come un limite nell’analisi dell’esserci. Ma mentre l’essere-in-sé mi resta del tutto inaccessibile perché, come assoluta alterità, è quasi nulla per il pensiero, io sono a mia volta quell’io che è posto come limite all’analisi dell’esserci. Nella ricerca dell’esserci è questo il passo ulteriore che bisogna compiere» (PH I 13; 124).

5. La fondazione della coscienza dell’essere

Movendo dallo sconforto dell’esserci quale irriducibile tonalità emotiva riguardo all’essere, al mondo e all’io (frutto tanto di esperienza vissuta quanto di argomentazione teorica), Jaspers ritiene che il fine, e quindi anche il significato, della ricerca filosofica non debba consistere nella realizzazione di un sapere concreto riferito a un oggetto, cosa che si addice esclusivamente al sapere delle scienze particolari; al contrario, il pensiero filosofico, e in modo particolare quel pensiero che si situa a pieno nel Novecento, vuole essere «la trasformazione della coscienza dell’essere» (VE 81).

Questa espressione di Vernunft und Existenz del 1935, pone Karl Jaspers all’interno della tradizione che intende la filosofia come indagine ontologica, ma allo stesso tempo situa la riflessione del filosofo di Oldenburg in una particolare prospettiva ermeneutica: le possibili spiegazioni del significato dell’essere, infatti, sono altrettante interpretazioni cui il filosofo è chiamato a dare spazio. Anzi, è responsabilità del filosofo assicurare il libero spazio entro cui l’essere possa emergere. «Non perderti negli oggetti della coscienza! Non lasciarti distogliere dalla trascendenza!» (VE 81). Sono questi gli imperativi che guidano l’indagine ontologica jaspersiana e che, come tali, ne tracciano i limiti: gli oggetti e la trascendenza. All’interno di questi elementi il filosofo si pone dal punto di vista della comprensività, per cui ogni manifestazione dell’essere (ciascuno dei suoi modi) risulta fondamentale e imprescindibile per l’inveramento degli altri modi e dell’intero orizzonte onnicomprensivo. Tanto gli oggetti quanto la trascendenza si modulano quindi in una sistematica vivente che è scandita dalla temporalità dell’esistenza e che, come tale, ha nel movimento e nel dinamismo il suo motore (cfr. PH I 276; 398). Per questo motivo Jaspers non chiama la sua un’indagine «ontologica», bensì «metafisica» — laddove per metafisica intende il movimento di continuo oltrepassamento della situazione e del limite. Nella prospettiva jaspersiana, infatti, l’ontologia è la cristallizzazione dell’essere negli enti, essa è semplice «teoria delle categorie» (cfr. PH I 24; 136); mentre la metafisica è la sua fluidificazione dinamica nella tensione che, dividendole, unisce esistenza e trascendenza. Tensione che è mossa dall’originaria sproporzione dell’esistenza che, per sua stessa definizione, è proiettata verso un’ulteriorità che la segna nel suo intimo.35

La filosofia, dicevo, è per Jaspers essenzialmente la trasformazione (cfr. VE 81) o formazione (cfr. KS 40) di una coscienza dell’essere che, come tale, non deve essere coscienza di un essere né tanto meno coscienza assoluta (ossia possesso totale e definitivo) di un oggetto. Al contrario i modi dell’essere, ossia le modalità in cui esso si viene a manifestare nello spazio del filosofare e nel tempo del mondo in generale per la coscienza, sono in reciproca connessione. Non si tratta di tante visioni parziali, ma della sinfonia che solo nel comune rimando reciproco apre la possibilità di una comprensione. Comprensione certo problematica, poiché fondata su una serie di polarità (ragione ed esistenza, esistenza e trascendenza, tempo ed eternità, etc.) che non si risolvono in semplici antitesi, ma che nella tensione si chiariscono vicendevolmente sempre più, e sulla certezza dell’assenza di un fondamento universalmente valido ancorato a un oggetto.

Ogni modo nel quale l’essere si manifesta pare differire in poco dall’altro. Il compito che la ragione filosofica jaspersiana si propone è pertanto quello di fare chiarezza allo scopo di distinguere pur nell’assenza di fondamento oggettivo, per esempio, l’esistenza dalla vitalità dell’esserci (l’Existenz dalla Daseinvitalität), la trascendenza dalla natura, etc. (cfr. VE 82).

A partire quindi dalla questione dell’essere, Jaspers definisce la ricerca filosofica come l’azione dell’aprire e del tenere aperto lo spazio dell’essere (cfr. EP 15: «L’essere inteso come lo spazio vastissimo dell’abbracciante da cui si muove incontro a noi ciò che di volta in volta per noi è l’essere») per l’esistenza libera, che però non sia, per questo, sciolta da qualsiasi vincolo. La libera interpretazione dei modi dell’essere infatti, è tale in quanto libera da condizionamenti, ma essa si dà all’interno di un orizzonte. Un vincolo permane insuperabile per l’esistenza: ed è la mia storicità. Solo questa mi restituisce al mio essere non come puro e astratto carattere ontologico, ma come autentico essere mio.

Come si vede, lo sforzo costante di Jaspers è quello di operare rovesciamenti: il rovesciamento del limite, per esempio, in possibilità: «Ciò che esteriormente è determinazione e limite, interiormente è manifestazione dell’essere autentico» (PH I 16, 127). Concreto ma non disperso nella contingenza, io indago il mio essere storico allo scopo di aprire lo spazio della manifestazione dell’essere nei suoi modi, di cui uno sono io stesso.36 È questa la pretesa di Jaspers: «Si può abbracciare l’immensità senza perdersi nella vuota e povera universalità dell’intelletto, nei fatti senza senso dell’esserci o in un misero al di là» (VE 83).

Coscienza dell’essere e coscienza dell’uomo che io sono, sono intimamente legate al punto che solo nella fondazione di una adeguata coscienza delle possibilità umane è possibile parlare di coscienza dell’essere (cfr. NH 15). Nel momento in cui infatti, con una decisione fondamentale, prendo coscienza del mio essere uomo (non intendo quindi l’umanità come oggetto di un sapere determinato, ma come l’ambito di manifestazione di tutti i modi determinati dell’essere uomo) io non sono più sufficiente a me stesso ma, subito, sono rimandato alla trascendenza attraverso la quale sono reso trasparente a me stesso nella mia nullità (cfr. NH, 16). È infatti solo nella storicità sempre personale della ricerca intorno all’essere che si apre uno «sconfinato orizzonte» (VE 83) nel quale unicamente è possibile la manifestazione dell’essere. Ma allo stesso tempo è nell’inclusione all’interno di una situazione, di un essere concreto, che si apre per l’uomo la possibilità di un autentico discorso sull’essere stesso. Apertura e inclusione paiono qui congiungersi nell’unico movimento interpretativo dell’io che solo nella fondazione di un’autocoscienza si apre la via per la trascendenza.

In quanto essere razionale, l’io è l’unico luogo (o almeno l’unico che mi è dato conoscere) in cui ciò che è viene all’evidenza e in cui è possibile fondare, pertanto, una coscienza dell’essere.37 Ora, una tale fondazione ha i caratteri del rovesciamento della fondazione stessa (o dello sfondamento), in quanto si opera mediante il salto dall’oggettiva conoscenza intellettuale degli oggetti alla inoggettiva autocoscienza dell’essere stesso. Si legge in Kleine Schule des philosophischen Denkens del 1965 — opera che ha il pregio della riepilogazione in un pensiero, come quello jaspersiano, spesso prolisso e ripetitivo: «Compiamo un salto: dalla conoscenza intellettuale degli oggetti alla inoggettiva autocoscienza di ciò che attuiamo ed esperiamo in quella. Il terreno che raggiungiamo con un tale salto è, dal punto di vista della conoscenza del mondo, un nulla; in termini filosofici è invece la possibilità di fondare una nuova coscienza dell’Essere. La chiamiamo sapere fondamentale. Svilupparlo significa per così dire saltare oltre la propria ombra oppure camminare a gambe all’aria. Tentiamolo!» (KS 40).

6. In cammino verso l’essere

«Il pensiero filosofico contemporaneo ha luogo in modo cosciente a partire dalla propria origine, che col solo sussidio della scienza non può essere né scoperta né raggiunta» (EP 14). Tale origine è l’essere, insondabile con le categorie universalmente valide dell’intelletto, ma, allo stesso tempo, esistenzialmente presente per l’uomo che abbia anche solo un livello minimo di coscienza del proprio esserci. La filosofia infatti non può che cominciare con la domanda: «cosa è?» (cfr. EinP 24). Tuttavia, dal momento che il pensiero dell’essere non è in grado di giungere a una determinazione unica e assoluta dell’essere stesso, ma al contrario in esso ogni unità e determinazione pare essere compresa; e dal momento che esso non si presenta mai come un oggetto visibile che sta di fronte al soggetto che io sono come un qualcosa di determinato e conoscibile mediante le categorie dell’intelletto, ma appare lacerato nella frammentazione degli oggetti, per cui il mio sapere è sempre rimandato nella forma di un sapere di oggetti finiti, mai dell’essere stesso; dal momento, infine, che l’uomo che io stesso sono non è una totalità ma solo una possibilità (l’esistenza possibile) che come tale si dà solo insieme ad altre possibilità (le altre esistenze), per tutto questo, dice Jaspers «nessuna verità oggettiva potrà mai essere assoluta, ma ogni oggettività sarà sempre relativa» (PH II 109; 580).

Del resto la Grundfrage riguardo all’essere era destinata inevitabilmente al naufragio in quanto, volendo ricondurre il non pensato all’interno della filosofia, come si è visto, non riusciva a riconoscere oggettivamente l’essere come uno e quindi a stabilire «un concetto dell’essere che fosse così comprensivo da includere tutti gli essere come sue specie o come momenti inclusi nella sua totalità» (cfr. PH I 48; 162).

Ma non per questo il pensiero ha abbandonato la ricerca. Al contrario, non ha lasciato nulla di intentato: «si è pensato l’essere come essere determinato nei concetti degli oggetti, lo si è appreso in modo immediato nel riferimento dell’esser-io a se stesso, lo si è colto nel suo sparire e lo si è riconosciuto come inconoscibile nei pensieri limite dell’esser-in-sé…» (PH I 6; 117). Tutti questi tentativi, sebbene non abbiano ottenuto effetti concreti — cioè non abbiano dato vita ad alcun sapere (Wissen) definito e stabile — hanno avuto comunque il pregio di porre l’uomo sulla via della ricerca dell’essere. Il filosofare, infatti, non è altro che la ricerca dell’essere (cfr. PH I 24; 137), in cui l’essere stesso diviene problema per l’io che non si limita al semplice esserci (cfr. PH I 38; 152), ma che si fa coscienza di sé come coscienza dell’esser-sé quale modo dell’essere stesso, e come tale si stupisce nel naufragio della comprensione e nell’imbarazzo dell’intelletto; cioè, in una parola: filosofa, ponendosi così «in cammino verso l’essere percorrendo le vie del pensiero» (PH I 24; 137).

In cammino verso l’essere. La ricerca filosofica è questo cammino dell’uomo che, sulla via, incontra solo oggetti e che, in questo incontro, si accerta di sé come non-assoluto. Non l’essere, del resto, né gli oggetti, né lui stesso sono qualcosa di assoluto (cfr. PH II 121; 592: «Nel mio limite temporale mi trovo costretto e condizionato da situazioni e compiti che non mi consentono di pensarmi assoluto nel tempo»). Ed è proprio la non presenza dell’assoluto nello spazio del mondo e nel tempo della storia che segna il rapporto filosofico all’essere nella ricerca. Tale non-presenza è il fallimento della ricerca stessa, che per sua natura però non può che tendere alla totalità e all’unità. Ancora una volta, fare filosofica significa farsi beffe di quella filosofia che non è più in grado di esporre un sistema della totalità dell’essere nella forma di un’unità oggettiva,38 per cui l’essere stesso rimane, per l’io che lo indaga, il non-chiuso che in ogni sua determinazione lo trascina verso l’illimitato.39

Il cammino verso l’essere e la via verso l’illimitato vengono così a coincidere nell’accertamento esistenziale dell’irriducibilità dell’essere a oggetto e della sua esclusiva presentazione, per noi, nella scissione soggetto-oggetto che però inevitabilmente lo falsa. Data la disarticolazione dell’essere, dunque, «non posso pensare l’essere assoluto, né posso evitare il pensiero. Questo essere è trascendenza, perché io non lo posso comprendere, ma sono costretto a trascendere verso di esso con un pensiero che si conclude in un non-poter-pensare» (PH III 38; 973).

Al filosofare rimane quindi solo la via del trascendere quell’oggettività categoriale che ha di fronte come qualcosa di imprescindibile. In questo trascendere, l’essere non solo si rivela come l’orizzonte in cui di volta in volta ciò che è si rende visibile per me, ma, ancor più, si presenta come «ciò da cui sorgono pure tutti gli orizzonti» (EP 18) e che come tale però, sembra sempre «venir meno». È ciò che solo si annuncia senza mai diventare oggetto. «È ciò che non presenta mai se stesso, ma in cui tuttavia il resto si manifesta» (EP 18). È quindi, quello che Jaspers chiama l’Umgreifende,40 l’incomprensibile totalità comprensiva.41

Ma quale linguaggio per questo essere? si chiede Jaspers. Necessariamente una nuova «logica filosofica»: la logica dei modi dell’abbracciante che sappia cogliere nei singoli modi quel che li disdice e li rende trasparenti e quindi «segni» in direzione della trascendenza (cfr. EP 18). Il pensiero di un tale essere che è svincolato da qualsiasi sistema di riferimento ma che a sua volta è l’orizzonte dei possibili orizzonti, è l’operazione filosofica fondamentale, semplice e inattuabile allo stesso tempo. Ogni proposizione che si riferisce all’essere, del resto, non può che essere espressa nel pensiero oggettivante e categoirale dell’intelletto ma, se vuole realmente dire questo essere-abbracciante, deve costantemente disdirsi e quindi esprimersi con sempre nuovi controsensi: «pensare nella forma dell’oggettività ciò che non è oggettivo» è una «equivocità inevitabile» (EP 19).

Ora, l’equivocità causa per l’intelletto (Verstand o Bewußtsein überhaupt, ossia per quel modo dell’essere onnicomprensivo che sono che è il soggetto della coscienza oggettiva e universale) l’arenarsi del pensiero categoriale della scienza, mentre per la ragione (Vernunft, ossia la connessione dei modi dell’essere onnicomprensivo) è occasione del naufragio in cui la multivocità diviene condizione di possibilità e di dicibilità ulteriore. Jaspers infatti vuole quasi forzare il pensiero ad arrestarsi nelle secche della contraddizione logica allo scopo di far sorgere nell’uomo quell’«imbarazzo dell’intelletto» (cfr. VE 149) nel quale solo sono possibili — tramite la classica categoria tragica del rovesciamento — la formazione, la chiarificazione e la trasformazione della coscienza dell’essere.42

Per comprendere l’essere è necessario quindi guadagnare il «più vasto spazio del possibile» e in questo si presenterà ciò che annuncia l’essere pur non essendo l’essere.43 L’Umgreifende, del resto, è «ciò che fa sì che tutte le cose non siano soltanto quello che sembrano a prima vista, ma restino trasparenti» (EP 18).

L’essere stesso, il mondo e l’io, quindi, nel momento in cui si sottraggono alla pensabilità divengono quasi dei punti vuoti in divenire della trascendenza. Lontani e inafferrabili al punto che sembrano irraggiungibili, tanto irraggiungibili che sembrano svanire nel nulla (cfr. W 690). Ed è veramente una immane potenza, quella del pensiero jaspersiano, che pretende di tenere fermo lo svanire, ossia di fissare in un’istantanea quel momento unico e particolarissimo (anche se si tratta di un’esperienza costantemente vissuta dall’esistenza) in cui il trascolorare del reale mostra, a un tempo, la sua realtà e l’oltre in cui essa pare svanire. Mentre per il professore di Jena questa stessa potenza derivava dalla previa identificazione di essere e pensiero e ancor più dalla definitiva risoluzione del finito nell’infinito,44 per il filosofo di Oldenburg, una volta rotta l’unità razionale dell’Assoluto hegeliano, si apre la possibilità (ma è più una pretesa) non di mantenere insieme finito e infinito, ma di coglierli entrambi (di chiarificarli, di accertarsi di loro) nel momento — inevitabilmente tragico — in cui il primo finendo, come è sua natura, trapassa nel secondo che così si rivela.


  1. Le sigle adoperate si riferiscono alle seguenti edizioni delle opere di Jaspers. PH I, II, III: Philosophie, Springer, Berlin 1932, trad. it., Filosofia, a cura di U. Galimberti, UTET, Torino 1978; VE: Vernunft und Existenz, Woltwes, Groningen e Piper, München 1935, trad. it., Ragione ed esistenza, a cura di A. Lamacchia, Marietti, Casale Monferrato 1971; EP: Existenzphilosophie, Walter De Gruyter, Berlin 1938, trad. it., Filosofia dell’esistenza, a cura di G. Penzo e U. Penzo Kirsch, Laterza, Roma-Bari 1995; W: Von der Wahrheit, Piper, München 1947, trad. it. parziale, Sulla verità, a cura di U. Galimberti, La Scuola, Milano 1970; EinP: Einführung in die Philosophie, Artemis, Zurigo 1950; Piper, München 1971; trad. it., Introduzione alla filosofia, a cura di Pietro Chiodi, Longanesi, Milano 1959; MH: Über Bedingugnen und Möglichkeiten eines neuen Humanismus, inRechenschaft und Ausblick. Reden und Aufsätze, Piper, München 1951, trad. it., Per un nuovo umanesimo: condizioni e possibilità, a cura di Roberto Celada Ballanti, in AA.VV., Etica e destino, Il melangolo, Genova 1997, pp. 12-35; S: Schellings Größe und sein Verhängnis, Piper, München 1955; KS: Kleine Schule des philosophiscen Denkens, Piper, München 1965; trad. it., Piccola scuola del pensiero filosofico, a cura di Carlo Mainoldi, Comunità, Milano 1968; ora SE, Milano 1998. Per non appesantire il testo mi limito a citare esclusivamente le edizioni italiane, laddove presenti, ad eccezione di Philosophie di cui cito prima l’edizione tedesca poi quella italiana. ↩︎

  2. La questione del «cominciamento» è da sempre la prima questione della ricerca filosofica. E questo al di là della semplice tautologia che ne afferma l’anteriorità temporale. Il «primo» è anche e soprattutto l’arché, la prospettiva o il punto di vista privilegiato a partire dal quale è possibile leggere la totalità del reale. La filosofia di Karl Jaspers, da questo punto di vista, non pone particolari problemi dal momento che la sua opera fondamentale, Philosophie del 1932, inizia proprio con la domanda: «che cos’è l’essere?» (PH I 1; 111). Ebbene una tale questione, e la domanda filosofica fondamentale che ne segue («perché c’è in generale qualcosa piuttosto che il nulla?»), introducono subito nel cuore del suo filosofare e della ricerca filosofica in generale. ↩︎

  3. Cfr. Aristotele, Metafisica, IV, 2, 1003a. ↩︎

  4. Cfr. William Shakespeare, Hamlet, I, 5, vv. 188-189. ↩︎

  5. Jacques Derrida, per esempio, utilizza questo verso di Shakespeare per descrivere il decostruirsi del tempo da cui nasce — per il filosofo che non appartiene più al proprio tempo, non si riconosce nella contemporaneità, è inattuale — il desiderio di giustizia quale unico indecostruttibile (cfr. Jacques Derrida, Spectres de Marx. L’état de la dette, le travail du deuil et la nouvelle Internationale, Paris, 1993; trad. it., Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1994). ↩︎

  6. «La domanda iniziale: “Che cos’è l’essere?” non ha trovato una risposta unica. La risposta a questa domanda soddisfa solo chi, ponendola, riconosce in essa il proprio essere. Ma la stessa domanda che chiede dell’essere non è univoca, perché dipende da chi la pone. Per l’esserci come coscienza in generale la domanda non ha alcun senso originario, perché questa coscienza si disperde nella molteplicità dell’essere determinato. Solo dall’esistenza possibile nasce la passione che fa porre in questione l’essere in sé al di là di tutto l’esserci e di tutto l’essere-oggetto, ma la risposta definitiva non le giunge da un sapere determinato. Ciò che c’è è l’apparire non l’essere, e neppure il nulla» (PH I 19; 131). ↩︎

  7. E non è un caso che anche Sein und Zeit di Heidegger si apra con un accenno alla perplessità intorno alla nozione di essere. La citazione dal Sofista (244a), posta a esergo dell’intera opera, ruota infatti intorno alla situazione di perplessità di fronte all’espressione «essente» e, ancor più, si sofferma a sulla mancanza di coscienza di tale incertezza dell’uomo nei confronti dell’essere. ↩︎

  8. Non è un caso che il grande progetto, rimasto incompiuto, cui Jaspers ha dedicato gli ultimi decenni della sua vita porti — in un movimento speculare (ma non privo di differenze, anche notevoli) con il procedere hegeliano — proprio il titolo di Logica↩︎

  9. Secondo Jaspers, infatti, l’uomo di fine millennio si trova nella condizione dei «posteri di un’età frantumata». A tal proposito commenta Galimberti: «Muoversi in quest’epoca di carenza che, come ha mostrato Nietzsche, è caratterizzata dal crollo delle idee, degli ideali e dei valori metafisici a cui l’Occidente fino ad oggi si è ispirato, è difficoltoso e incerto» (Umberto Galimberti, Linguaggio e civiltà. Il linguaggio occidentale nella lettura di Heidegger e Jaspers, Mursia, Milano 1977, p. 63; corsivo mio). ↩︎

  10. Manifestazione dell’essere, struttura della realtà e forma dell’esistenza. Il tempo è una categoria imprescindibile nella costruzione del filosofare jaspersiano. ↩︎

  11. Cfr. Aristotele, Metafisica, IV, 2, 1003b: «Così, dunque, anche l’essere si dice in molti sensi, ma tutti in riferimento ad un unico principio: alcune cose sono dette esseri perché sono sostanza, altre perché affezioni della sostanza, altre perché vie che portano alla sostanza, oppure corruzioni, o privazioni, o qualità, o cause produttrici o generatrici sia della sostanza, sia di ciò che si riferisce alla sostanza, o perché negazioni di qualcuna di queste, ovvero della sostanza medesima» (cito dalla traduzione di G. Reale, Rusconi, Milano 1978, pp. 176-177). ↩︎

  12. Cfr. G.W.F. Hegel, Scienza della logica, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 70: «L’essere, l’indeterminato Immediato, nel fatto è nulla, né più né meno che nulla». ↩︎

  13. Illuminanti sono, a questo riguardo, le riflessioni di Jaspers sul tragico: «L’essere ci appare nella frustrazione, nel fallimento. Nel fallimento l’essere non va perduto, ma al contrario si fa pienamente, interamente sentire. Non esiste tragicità priva di trascendenza. La stessa fierezza di affermar se stesso, pur nella rovina, di contro il fato e gli dei, è, in fondo, una forma di trascendenza: l’uomo in tal modo, attinge la sua più vera essenza, ritrovando, nella catastrofe, il suo autentico io» (W 925; 26). ↩︎

  14. Cfr. il pensiero n. 370 dell’edizione Brunschvicg e n. 98 dell’edizione Chevalier (di cui cito la traduzione di A. Bausola in Blaise Pascal, Pensieri, Opuscoli, Lettere, Rusconi, Milano 19903, p. 439). ↩︎

  15. La scienza è definita da Jaspers come «la conoscenza metodica, il cui contenuto ci si impone come irresistibilmente certo e universalmente valido» (cfr. La natura e il valore della scienza, trad. it. di R. De Rosa in Karl Jaspers, La mia filosofia, Einaudi, Torino 1948, pp. 109-127, in particolare pp. 109-110). ↩︎

  16. Si legge nel citato La natura e il valore della scienza: «la conoscenza scientifica delle cose non è la conoscenza dell’Essere. […] La conoscenza scientifica non può in nessun modo fornire delle mete ideali per la vita […]. La scienza, allo stesso modo, non può darci nessuna risposta alla questione che riguarda il suo stesso significato» In definitiva, i limiti della scienza «hanno dato luogo alla più amara delusione, tutte le volte che ci siamo aspettati dalla scienza ciò che essa non è in grado di fornire» (Karl Jaspers, La natura e il valore della scienza, ed cit., p. 117). ↩︎

  17. Il mondo infatti, pur inalienabile dimora dell’esser-io, è tanto insufficiente come orizzonte vitale che lo slancio metafisico diviene esigenza salvifica di fronte allo «sconforto dell’esserci». Così Philosophie: «Per me il mondo non è solo l’oggetto di un sapere che posso lasciar indifferentemente sussistere, perché in esso c’è il mio essere autentico che non mi lascia tranquillo. Il coraggio di superare il cieco sconforto dell’esserci genera quel timore che nasce per tutto ciò che nell’esserci importa, e che nelle situazioni-limite è messo in questione» (PH II 205; 680; corsivo mio). ↩︎

  18. Come è stato notato (cfr. Roberto Celada Ballanti, Umanesimo e *Liberalität in Karl Jaspers*, in AA.VV., Etica e destino, Il melangolo, Genova 1997, pp. 179-185, in particolare pp. 189-190), vi è una certa affinità tra la lettura dell’umanesimo di Jaspers e la concezione heideggeriana del Brief über den Humanismus. Per esempio in KS 53: «Ognuna di queste determinazioni [zoon logon echon, zoon politikon, homo faber, homo laborans, homo oeconomicus] coglie un aspetto peculiare dell’uomo. Ma manca in esse ciò che è decisivo: l’uomo non va colto come un Esser-così, come peculiarità, dimensione che sempre ritorna in tali definizioni del suo Essere. L’essere dell’uomo, piuttosto, è in movimento incessante: l’uomo non può restare così com’è. Si trova in una situazione comunitaria in perpetuo movimento. Non è, come gli animali, un essere che si ripete nella compiutezza di generazione in generazione. Va al di là di come è dato a se stesso». Ma mentre Heidegger ricava da tali osservazioni la radicale opposizione alla volontà di potenza dell’humanitas da Platone a Nietzsche, per cui «ogni tentativo di restituire dignità alla logora parola «umanismo» è destinato a cadere, inficiato com’è da un’idea di humanitas pensata a partire dal presupposto dell’animalitas e della ratio» (Roberto Celada Ballanti, op. cit., p. 189), in Jaspers manca la radicalità della Destruktion della cultura occidentale presente invece in Heidegger, in quanto Jaspers insiste sull’apertura della storia alla libertà ermeneutica e alla responsabilità dei singoli nel mondo della possibilità, non certo della destinazione chiusa. ↩︎

  19. Cfr. G.W. Leibniz, Die philosophischen Schriften, a cura di C.I. Gerhardt, 7 voll., Olms, Hildesheim 1960 (Berlin 1880), vol. VII p. 289: «ratio cur aliquid potius existat quam nihil» e, nei celebri Principes de la Nature et de la Grâce, «Pourquoy il y a plutôt quelque chose que rien» (G.W. Leibniz, op. cit., VI, 602). ↩︎

  20. Trad. it. in Silvia Marzano, Aspetti kantiani…, ed. cit., p. 176. ↩︎

  21. Nota Silvia Marzano nel suo Aspetti kantiani del pensiero di Jaspers (si vedano in particolare le pp. 172-180): «Il concetto-limite, che in Kant ha una funzione senza avere un oggetto, per l’incomprensione di Schelling si trasforma nel pensiero di ciò che sta a fondamento, nel pensiero dell’essere (S 319)» (Silvia Marzano, Aspetti kantiani…, ed. cit., p. 176). ↩︎

  22. F.W.J. Schelling, Sämtliche Werke, Stuttgart 1856-61, 14 voll., XIII, p. 242. ↩︎

  23. «Poiché l’Umgreifende è ciò che avvolge la totalità degli enti, noi non lo possiamo concepire come “qualcosa” che è nel mondo» (W 39). ↩︎

  24. In Annuario filosofico 8 (1992), pp. 9-36; ora in Luigi Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, a cura di G. Riconda e G. Vattimo, Einaudi, Torino 1995, pp. 353-384. ↩︎

  25. Luigi Pareyson, La «domanda fondamentale»…, ed. cit., p. 376. ↩︎

  26. Di quella stessa paglia che di cui è fatta l’intera opera filosofico-teologica di san Tommaso e che non soddisfa più l’Angelico quando, avendo deciso di smettere di scrivere, afferma: «Raynalde, non possum… non possum quia omnia quae scripsi videntur mihi palae respectu eorum quae vidi et revelata sunt mihi» (Processus, n. 79, 376). ↩︎

  27. La cifra mitica, per esempio: «Nella coscienza mitica la disarmonia fondamentale del mondo si riflette nelle moltitudini degli dei. […] Alle domande: Perché? e Donde veniamo? Ci sono, a seconda dei casi, molte risposte, ma nessuna risposta è soddisfacente» (W 921). ↩︎

  28. PH I 2; 111. ↩︎

  29. Cfr. Platone, Simposio, 191a. ↩︎

  30. Riprendo qui la provocatoria distinzione fatta da Cornelio Fabro nel suo L’evasione dall’assoluto in K. Jaspers (in Introduzione all’ateismo moderno, Morcelliana, Brescia 1957, pp. 931-943; in particolare si veda p. 942). Criticando la dottrina dell’Umgreifende, Fabro la riduce essenzialmente all’immanenza nell’orizzonte inevitabilmente finito, o al massimo a una sua indefinita reduplicazione dopo la decapitazione dell’Assoluto hegeliano. ↩︎

  31. Si noti il senso ironico e quasi tragico del farsi beffe della filosofia. Se prima (cfr. PGO 560) il pensiero intellettivo rideva della sorpresa dell’esistenza di fronte allo scardinarsi della catena logico-necessitante del pensiero, ora è il pensiero esistenziale che ride dell’inadeguatezza delle facoltà categoriali e in questo si accerta dell’esistenza. Ma colui che ride non è altro da colui che si mostra inadeguato. Di qui il rovesciamento (peripéteia) dell’ironia in senso tragico, e il rimbalzare (anágnosis) della domanda e della sua paradossalità sull’io stesso. ↩︎

  32. «Partendo allora da tutto l’essere, che nelle categorie è sempre determinato, senza disporre di una categoria immanente e comune dell’essere, il cammino del naufragio nel pensiero, conduce alla trascendenza, ossia all’essere unico. Posso chiamare questo essere super-ente per dire che nessuna categoria gli è adeguata, ma così lo degrado al livello di una particolare immanenza. Posso chiamarlo non ente per dire che non può esser compreso da alcuna categoria che si riferisce a un essere […]. Invece dell’adeguamento razionale tra domanda e risposta che qui è assolutamente impossibile, nel filosofare è possibile l’adeguamento esistenziale nella pienezza, di volta in volta attuale, del pensiero oggettivamente ancora vuoto» (PH III 37; 973). ↩︎

  33. Fallimento che consiste nell’essere un soggetto che non ha di fronte a sé un oggetto, o in un soggetto che deve costantemente disdire la propria soggettività. ↩︎

  34. Riprendendo Jaspers, Luigi Pareyson definisce l’esistenza come coincidenza di autorelazione ed eterorelazione (cfr. Luigi Pareyson, La filosofia dell’esistenza e Carlo Jaspers, Loffredo, Napoli 1940 e poi Karl Jaspers, Marietti, Casale Monferrato 1983, pp. 44-55). ↩︎

  35. Su questo rimando al mio L’emergenza dell’ulteriorità: la temporalità in Karl Jaspers, in AA.VV., Passione dell’originario. Fenomenologia ed ermeneutica dell’espeirenza religiosa. Studi in onore di Armando Rigobello, Edizioni Studium, Roma 2000, pp. 171-191. ↩︎

  36. La mia situazione infatti è «l’attuazione storicamente mediata dell’apparire dell’essere» (PH I 3; 113). ↩︎

  37. «Siamo, in quanto esseri razionali, il luogo — l’unico che conosciamo — nel quale si fa palese ciò che è, nel nostro pensiero oggettivo, nel nostro comprendere, nel nostro operare e creare, in ogni forma della nostra esperienza» (KS 39-40). ↩︎

  38. «La filosofia non è più in grado di esporre un sistema della totalità dell’essere in forma di unità oggettiva» (EP 14). ↩︎

  39. «L’essere resta per noi il non chiuso, esso ci trascina da ogni parte verso l’illimitato» (EP 17). ↩︎

  40. In rapporto alla sterminata bibliografia tedesca, la letteratura critica italiana non è molto numerosa, ma qualitativamente rilevante. Il già citato saggio di Silvia Marzano, Aspetti kantiani del pensiero di Jaspers, anche se ormai datato, rappresenta un’adeguata ed esauriente trattazione dell’Umgreifende in rapporto al filosofare kantiano e schellinghiano. A esso pertanto rimando. ↩︎

  41. Ho già proposto una tale traduzione nel citato intervento L’emergenza dell’ulteriorità…↩︎

  42. «Potrà allora colui che pensa non già sommergersi nel vuoto di un’assoluta inconsistenza, ma essere veramente aperto in modo che gli venga incontro l’essere stesso» (VE 91; 152). ↩︎

  43. «L’essere inteso come lo spazio vastissimo dell’abbracciante da cui si muove incontro a noi ciò che di volta in volta per noi è l’essere» (EP 15). ↩︎

  44. L’operazione filosofica fondamentale del pensiero jaspersiano non pare, in questo, differire di molto dal movimento onnicomprensivo, onnivoro e anamnestico del professore di Jena — salvo che nella prospettiva fragile da cui pare porsi il filosofo esistenzialista. Tanto la negatività del fallimento come motore dell’intero movimento, quanto la tensione alla chiarificazione e all’accertamento di ciò che c’è di fronte (che altro non è se non una dizione esistenziale dell’interiorizzazione hegeliana) sembrano accomunare i due pensieri. ↩︎