La tragedia di Antigone, tra natura e cultura

La tragedia greca — in quanto simbolo di ogni possibile rappresentazione — mostra in concreto e, per così dire, «in opera» l’esigenza di una comprensione radicale che, interrogando la finitezza, di fatto, ne coglie le condizioni interne, lo sfondo trascendentale che la costituisce e la dischiude.

E cogliere l’orizzonte trascendentale della finitezza, significa cogliere, all’interno dell’esperienza — attraverso un risalimento trasversale e obliquo — ciò che, pur essendo contenuto e presente all’interno del finito, di fatto, lo trascende e al finito, sempre e di nuovo, si sottrae.

Antigone evoca questo scarto, questo residuo eccedente che sfugge all’intelletto e che si offre nel tessuto immanente della rappresentazione, restando, tuttavia irrappresentabile.

Una presenza che è sempre anche assenza, dunque: un paradosso costitutivo e ineliminabile.

Per questo, Antigone — icona dell’irrappresentabile — è la figura paradigmatica e, in qualche modo, archetipica di un’eccedenza irrisolta che la tragedia osa rappresentare. Quello che Antigone rivela è un problema di fondo. Una questione decisiva, sotto il profilo teoretico: il rapporto inspiegabile e paradossale che unisce in una interdipendenza circolare e, per così dire «chiasmatica», natura e cultura, «ethos» e «pathos». Vale e a dire, in termini nietzscheani, Apollo e Dioniso. Il rapporto originario che si stabilisce tra «natura» e «cultura» — e che la figura di Antigone esibisce in modo esemplare — costituisce, a ben vedere, il problema stesso della filosofia, in quanto tale. Quello che potremmo definire — in senso «kantiano» — il problema interno della filosofia. La figura di Antigone è l’exemplum di questo «paradosso originario» e fondante: il paradosso di una identità che è sempre, anche, differenza e che solo attraverso la differenza — solo attraverso il margine residuale e lo scarto che questa presuppone — esplica e realizza se stessa.

Ma vediamo meglio quale significato, quale specifica configurazione assuma — nel testo, nell’opera di Sofocle — il problema che stiamo esaminando: il nesso originario, la diade «natura-cultura».

Anche Antigone — come Edipo — mostra in opera — e, per così dire, in figura — il disvelarsi fenomenico della deinòtes umana e, quindi, il riconoscimento di un’alterità inassimilabile.

«Deinòtes», infatti, significa esattamente questo: un’alterità assoluta che resiste ad ogni tentativo di ri-appropriazione dialettica e di rilevamento concettuale. Una dimensione infinitamente eccedente e «in-determinata»: lo «scarto» — il margine residuale, per così dire — che il Logos non può tradurre «in immagine» una volta per tutte. Il rapporto «natura»-«cultura», in quanto «identità-differenza» — in quanto «double bind» — è una delle possibili configurazioni che la «deinòtes» umana assume, nella raffigurazione tragica, nella tragedia come simbolo di ogni possibile rappresentazione. Della rappresentazione «in genere», dunque. La figura di Antigone evoca il «double bind» della de-costruzione tragica, ovvero: la traccia, la contaminazione originaria e trascendentale che non si lascia riassorbire dal movimento circolare della sintesi filosofica e che, proprio per questo, restituisce la finitezza alla sua assoluta singolarità, alla sua intraducibile matrice «affettiva». L’ethos di Antigone lacera il determinismo e la pertinenza concettuale del Lògos e nega, di fatto, la stessa distinzione che divide proprio e improprio, metafora e concetto, presenza e assenza. Antigone è, nella tragedia di Sofocle, la differenza che non si lascia includere all’interno dell’identità e che mette in discussione l’assolutezza unilaterale dell’ordine apollineo.

Quello che emerge è l’intervallo dis-continuo che interrompe la trasparenza assoluta della «cultura» e la certezza, per così dire, monologica dell’autocoscienza.1 Quella certezza universalizzante e, per così dire, «globale» che fonda lo spazio del potere politico e l’orizzonte dialogico della «polis», in quanto espressione — e «oggettivazione» — della cultura apollinea.

Per questo, se vogliamo cogliere nella pienezza delle sue articolazioni teoretiche e concettuali il nodo fondamentale che unisce «natura» e «cultura», dobbiamo, di fatto, volgere lo sguardo alla cultura classica — dunque, all’origine della nostra civiltà — e, «interrogare» il testo che meglio esprime il groviglio aporetico e antinomico che quel nodo implica, vale a dire, appunto: la tragedia attica del V sec. a. C. e, innanzitutto, la tragedia di Sofocle.

Nella collisione tragica che separa Antigone e Creonte — vale a dire: Nòmos e Physis, natura e cultura — emerge la tragica sapienza di Sileno, secondo la quale la cosa migliore, per l’uomo, è non essere nato — «mè phynai» — non essere e, dunque, essere niente (v. F. Nietzsche, Nascita della tragedia, ed. it. a cura di Colli-Montinari, Adelphi, Milano, 1972, pp. 31-32), perché il Nulla è il fondamento incondizionato, l’onda mnemica che, ogni volta, traspare nell’apparenza e nel visibile.

Tragico è il fatto che l’esistenza sia sempre «monoumenos»: sradicata e condannata all’esilio, e, quindi, strutturalmente dissociata e frammentaria. La colpa ontologica di Antigone è la determinazione unilaterale del suo ethos, della sua «pràxis»: l’assoluto contraccolpo che divide, dall’interno, l’unità omogenea della sostanza etica, la continuità, per così dire, autoctona della Polis che è radicata nelle profondità oscure della Terra. E la Terra, è, innanzitutto, «Chôra»: la madre e, insieme, il ricettacolo inconoscibile, al di là del kòsmos. Anche Antigone, quindi, rimanda all’originario, arcaico simbolismo della «Pòtnia theròn» che è il fondamento trascendentale e, insieme la fonte aurorale — la «Thèmis» — della legge olimpica e delfico-apollinea.

Il conflitto tragico — il «pòlemos» — scaturisce dalla scelta libera e autonoma di Antigone. Dalla volontà di dare sepoltura al cadavere del fratello che è «autàdelphos», e, quindi, insostituibile.2

La tragedia di Antigone, quindi, mette in questione la finitezza attraverso il riconoscimento della scissione che divide l’unità etica della coscienza. Una scissione che fa tutt’uno, come vedremo, con la dimensione dell’identità, perché il paradosso tragico proprio in questo consiste: nell’impossibilità, per il pensiero logico, di spiegare una «identità» che è, insieme, simultaneamente, differenza.

Se nel mito di Edipo è in gioco, essenzialmente, la capacità teoretica del Logos e il limite costitutivo che caratterizza l’appropriazione conoscitiva del mondo, la tragedia di Antigone, invece, getta luce sul paradosso di una sostanza etica che è lacerata in se stessa. Una sostanza che appare divisa e attraversata dal contraccolpo della «differenza». Antigone, infatti, è la traduzione e la localizzazione dell’universale nella concretezza effettiva del particolare: l’universale che nell’individualità concreta e determinata del particolare, di fatto, si «ri-vela», e che, insieme — nel suo stesso apparire e offrirsi in figura — tragicamente, dilegua, sempre e di nuovo sottraendosi.

Nella tragica consapevolezza di Antigone — che prende su di sé la deinòtes umana e la responsabilità radicale della sua contingenza — il contenuto universale che è proprio della coscienza in quanto coscienza trascendentale, si determina e diventa «esplicito» nella singolarità incommensurabile di una prospettiva particolare e specifica. E solo attraverso quella singolarità è possibile, per noi, cogliere — «di colpo» e, dunque, in modo sempre provvisorio e parziale — l’assolutezza indeterminata e trascendente dell’universale che, tuttavia, fonda e rende possibile l’individualità del particolare.

È qui che entra «in scena» il tema centrale della sofferenza tragica, il tema della «morte».

È proprio la morte, infatti, il luogo che esibisce, fino in fondo, la radicale necessità — e, insieme, il paradosso — di questa individuazione dell’Assoluto nella decisione individuale e autosufficiente del singolo. E c’è tragedia solo nella misura in cui il soggetto è fino in fondo libero e, dunque, sottratto al determinismo teologico e alla sua inflessibile necessità. Solo attraverso la scelta liberamente assunta dal soggetto, è possibile cogliere, in tutta la sua sorprendente densità filosofica, il legame doppio e paradossale che unisce, da sempre, natura e cultura e che permea di sé il tessuto della rappresentazione tragica.

La parola tragica ci dice che l’unità — la radice ontologica delle cose e dell’esistenza — è già divisa e attraversata dalla contraddizione del divenire. In altri termini, l’unità è sempre sdoppiamento dell’unità perché la sua manifestazione è la rivelazione apofatica che porta il «no» nel cuore del «si» e che presuppone la reciproca implicazione e la simultaneità dell’identità e della differenza, e, quindi, la paradossale concordia delle tensioni opposte.

Per questo, se Creonte incarna il diritto pubblico e oggettivo dello Stato — e, quindi, il nòmos espresso dallo spazio dialogico dell’agorà — la figura di Antigone rimanda alla sostanziale e tellurica sacralità della famiglia, all’orizzonte pre-categoriale, mediterraneo e affettivo dei Penati. Il «diritto delle ombre», che la donna custodisce in sé, nella memoria.

In altre parole, il «carattere» inflessibile di Antigone rinvia all’opacità di «Hestìa»: il focolare domestico, lo spazio chiuso dell’affettività e del «gènos».3

La legge di Antigone è, quindi, la legge sottratta alla chiarezza sintattica della scrittura: la legge orale e trascendente che conosce se stessa solo nella scissione bipolare, solo nella collisione degli opposti e nella sofferenza indicibile della morte.

Ma questo significa anche che Antigone conosce e realizza se stessa solo attraverso il riconoscimento della propria unilateralità, solo attraverso una rinuncia e una perdita irreversibile.

La morte, allora, è qualcosa che «viene prima» e che rende possibile — in termini trascendentali — l’apertura del dràn e il manifestarsi del conflitto nella superficie visibile della rappresentazione.

La morte, quindi, non è tanto il risultato dell’azione drammatica, ma la sua condizione interna di possibilità: lo sfondo trascendentale che la dischiude e che la istituisce in quanto rappresentazione.

Polinice è il nemico della Polis e la legge del Giorno espressa da Creonte — la legge che contiene in sé l’ordine uranico e olimpico del kòsmos — impedisce la sepoltura, dichiarandola illegittima. Il crimine di Antigone è esattamente questo: la violazione della Legge del Giorno, la violazione del «nòmos» olimpico che è «cultura» perché nasce da una volontà di oggettivazione logico-concettuale che raccoglie e unifica il molteplice. In altri termini, il concetto di «cultura» — nella tragedia di Sofocle — emerge proprio nella esigenza di stabilire nessi e relazioni all’interno del molteplice — nella rapsodia anarchica delle percezioni — attraverso un processo di organizzazione e di concentrazione che consiste nel cogliere i «tratti comuni» — i «tratti pertinenti». L’idea di «cultura» evoca questa irruzione del nome nel caos del senza nome — per usare una fondamentale espressione di H. Blumenberg. C’è cultura, quindi, perché il Logos apollineo — che è forma, misura e simmetria — produce equilibrio e ordine nel magma indifferenziato della vita, portando l’individuazione e la distinzione nel caos aniconico della «natura», nel grembo stesso della Physis che a quell’ordine sempre si sottrae. Il ribaltamento tragico, attraverso la sofferenza porta alla luce la complessità aporetica della natura in quanto Physis, la polarizzazione antinomica che la tragedia moltiplica e ripete, di volta in volta.

Antigone vede nella prospettiva unilaterale assunta da Creonte la negazione del diritto autentico e, quindi, una «effettualità accidentale», una dimensione contingente e priva di consistenza ontologica. E, tuttavia, alla fine, è proprio il diritto divino esibito da Antigone che appare privo di sostanza e di effettualità. Lo stesso contraccolpo, dunque, divide dall’interno l’ethos di Creonte — che riconosce, alla fine, l’alterità incondizionata e, insieme, il valore della Legge ctonia — e l’ethos di Antigone, che il linguaggio mediato e «articolato» dell’agorà non può esaurire né spiegare.

Il diritto di Antigone rinvia alla profondità imperscrutabile e nascosta della Legge ctonia: l’antichità di un passato che, tuttavia — paradossalmente- è sempre «a venire» e che è, nello stesso tempo, «qui» e «al di là». Un’antichità che è condensata nella chiarezza esplicita del visibile e da sempre esposta all’infinito gioco ermeneutico e morfologico della différance dionisiaca. Il diritto delle Ombre incarnato da Antigone è l’interminabile raddoppiamento di questa «differenza». Lo spazio abitato da Antigone — «Hestìa» — raffigura l’irrappresentabile assenza del centro, e, quindi, la tragica fluttuazione del senso che l’eidos — la cultura apollinea — vorrebbe togliere e oggettivare. E la verità tragica appare caratterizzata da questa oscillazione, da questa «supplementarità» indicibile che restituisce «Alètheia» al dissidio e alle ambiguità del divenire.

Ma questo significa che natura e cultura — vale a dire: l’universale e il singolare, il sensibile e l’intelligibile — sono distinti e opposti solo nella superficie della collisione drammatica, perché, nella profondità ctonia dell’essenza, i termini contrari non sono l’uno fuori dell’altro, ma ogni termine conserva e contiene in sé il suo opposto. Lo conserva, per così dire, nella memoria: nello spazio trascendentale — uno spazio stratificato e multiforme — che è sempre intessuto di finitezza e di oblio. Qui, infatti — nella scena paradossale del «dràn» - la sostanza etica non è altro che l’«intero»: l’intero che è già, in se stesso, diviso e lacerato. Tragico, insomma, è proprio il fatto che l’intero contenga dentro di sé la differenza e che sia lacerato da quell’opposto che ha in sé e che, tuttavia, è, nello stesso tempo, altro da sé. L’Altro, dunque, del visibile che appare e che, mostrandosi, dilegua, all’interno del visibile e, quindi, nella trama corporea e materiale dell’esperienza. Il destino di Antigone è tragico nella misura in cui evoca lo smembramento dell’intero, la frantumazione e la pluralizzazione dell’Origine. Nessuna redenzione, quindi: solo l’interminabile — e sempre nuovo — ripetersi di una differenza originaria che tiene insieme gli opposti, salvandoli dalla tautologia della identità assoluta, dalla tautologia del «principio di non-contraddizione». Quel principio fondamentale — l’aristotelica «bebaiotàte arché» — che l’evento tragico mette in questione, superandolo «dall’interno» e mostrandone la crisi irreversibile, l’intrinseca dissoluzione.

Ed è proprio la scelta di Antigone che svela il fondo patico — la radice istintuale, organica e biologica — che ogni azione, di fatto, custodisce nella memoria. L’azione, infatti, è già, in sé, violenza — «Bìa» — e, in quanto tale, produce «hybris», perché presuppone lo strappo originario della decisione, e, quindi, la terribile irruzione del destino demonico.

Ogni azione è, in quanto tale, colpevole, perché nega l’unità omogenea del Tutto e perché, di fatto, esclude l’opposto, se è vero che «omnis determinatio est negatio».

In altri termini, attraverso l’esperienza del dolore, quello che emerge non è la coerenza razionale dell’«ousìa» platonica, ma l’assoluta alterità, l’abisso del non-senso, ovvero: l’intraducibile estraneità di un destino che è Ate, e che revoca l’evidenza dianoetica del concetto, mettendone in scena il naufragio.

Ma questo significa anche che il conflitto che divide Antigone e Creonte — e, quindi, il conflitto tragico in quanto tale — è la collisione — il «pòlemos» — che divide, nel tessuto della medesima sostanza etica, due universalità concrete. Vale a dire: ethos e pathos, natura e cultura. Ovvero: Apollo e Dioniso, «verità» e «menzogna», superficie e profondità. E tragico è il fatto che, in questa radicalizzazione del conflitto, l’esclusione dell’altro produca, necessariamente, l’esclusione di sé. Per questo ogni appropriazione implica sempre un differimento, una distanza e, quindi: una espropriazione, una perdita irreversibile, una rinuncia. Nella assoluta e inconciliabile antinomia alla quale la tragedia dà forma, le due leggi sono l’una il riflesso dell’altra: immagini rovesciate e capovolte del medesimo orizzonte universale. Immagini della medesima identità già da sempre interrotta e divisa. Figure e forme individuali già attraversate, obliquamente, dalla forza di perforazione e dalla traccia inafferrabile della différance. La tragedia, in definitiva, rappresenta questa perforazione che marca, ogni volta, la singolarità dell’ethos e che esibisce, simbolicamente, l’infinito gioco prospettico della rappresentazione. Il gioco dionisiaco, quindi: il nodo della composizione drammatica nel quale la traccia del pathos cancella e ripete se stessa, attraverso un lavoro figurale inesauribile di spostamento e di dissimulazione.

Per questo lo spazio tragico evocato da Antigone è, insieme, pòlis e oikos, Hestìa ed Hermes, Nòmos e Physis.

Per Antigone, realizzare fino in fondo se stessa e la sua autonoma dimensione etica significa attraversare la soglia della sepoltura: questa è l’enigmatica radice ontologica della sua inflessibile timé. La radice, cioè, della sua identità «intrattabile» e multiforme che rinvia all’abisso dell’Origine, nella misura in cui l’Origine non è altro che l’abisso del «com-possibile». L’«Indifferenziato» che si offre nella trasparenza della rappresentazione — e, dunque, nella trasparenza della cultura apollinea — restando, tuttavia, irrappresentabile.

È la legge positiva del Giorno che rende impossibile questa realizzazione, questa possibilità di oggettivazione e di espressione della sua identità profonda.

Antigone si affida al diritto primordiale di Hestìa che è l’altro della «pòlis» all’interno della sua tessitura giuridica e istituzionale, vale a dire: la resistenza patica, la tonalità emotiva che si sottrae alla rimozione e alla connessione sistematica e categoriale delle inferenze logiche. Ovvero: «Physis», la Natura che è il senso profondo delle cose — «A-lètheia»: l’altro della cultura all’interno della cultura stessa. L’alterità immanente, intessuta e «condensata» nel tessuto dell’apparenza apollinea — nell’orizzonte stesso della «pòlis» . L’alterità irrappresentabile che la cultura apollinea custodisce al suo interno, senza poterla esplicitare — e trasvalutare — una volta per tutte.

Per questo, se è vero che l’ordine olimpico della «pòlis» ripete, oggettivandolo, l’ordine logico apollineo, è anche vero che il «nòmos» di Antigone è assolutamente «a-polis» perché svela, di fatto, la radicale estraneità del Dasein al suo ethos: la radicale estraneità dell’ente finito in quanto progetto gettato e «dislocato» nel mondo.

Antigone, infatti, incarna il «deinòtaton»: l’assoluta e autonoma immediatezza (v. Antigone, v. 821) del diritto sotterraneo contro la quale si infrange la trasparenza simmetrica e l’armonia apollinea del Logos. L’affermazione autonoma di Antigone esige, quindi, la contraddizione, vale a dire: la rottura dell’equilibrio escatologico e, quindi, la dissoluzione del meccanicismo deterministico. In questa trasfigurazione esemplare che mette in questione la struttura immanente della pòlis, la certezza teleologica scompare e l’armonia delfica esplode in un movimento ellittico e liminare che resta indecifrabile.4 Ma qual è il nodo tragico che Antigone manifesta? E, soprattutto, perché la scelta — e, dunque l’azione — di Antigone non può non essere tragica?

Per evidenziare i fondamenti concettuali — e, dunque filosofici — che caratterizzano la tragedia di Antigone è necessario «leggerla» nelle sue stratificazioni interne, portando alla luce quella complessa «topologia» teoretica che lo spazio liminare della rappresentazione, di fatto, presuppone.

In nome della originaria philìa che la unisce al fratello, Antigone sprofonda nell’annientamento, nell’oscurità irrazionale dell’«amechanìa» (v. Antigone, vv. 90-91). Questa è la cifra ontologica del suo sussistere e, insieme, la radice della sua impotenza. Impotente, infatti, è l’Esserci che pretenda di esaurire in sé, nella libera e autonoma consapevolezza del suo esistere, la totalità incondizionata e sovrasensibile, il fondamento infondato e, per così dire, noumenico che ogni figura, nel suo apparire — nel suo improvviso emergere nella superficie del visibile — di fatto, conserva in sé, proprio serbandone il ricordo. Antigone è la forma che separa se stessa dall’orizzonte inglobante dell’Uno-Tutto e che appare nella superficie visibile del gioco rappresentativo, radicalizzando in modo iperbolico e unilaterale il senso profondo del suo ethos, la cifra ontologica della sua identità. Ma questo «apparire» è già, in quanto tale, colpevole. Colpevole nella sua individuazione, nella scissione attraverso la quale la finitezza concreta dell’ethos acquista la piena consapevolezza della sua identità: la coscienza, quindi, della perdita e della privazione che lo spazio tautologico dell’identità non può cancellare. Il nulla al fondo dell’essere. Ovvero: la coscienza del limite che evoca, in quanto tale, un’originaria assenza. Una presenza ineffabile che si dà solo come eccedenza irrisolta, come scarto, come margine residuale che non può essere tolto. Una presenza, insomma, che è già assenza, il che vuol dire: una trascendenza intessuta nell’immanenza, un’immanenza che trascende se stessa e che coglie, in sé — nella profondità del suo ethos — la traccia, il segno vibrante di un’appartenenza originaria. L’appartenenza al sostrato noumenico dell’esistere che si svela — infinitamente ri-velandosi — proprio nella materialità fisica del segno visibile, nell’azione consapevole e deliberata che l’eroe tragico assume. Il limite che costituisce Antigone è esattamente questo: un’estraneità interiore, un’estraneità incorporata nell’immanenza concreta e visibile del segno. Vale a dire: nella presenza autocosciente della forma tragica che può essere letta e decifrata come metafora del tragico in quanto tale, come simbolo e paradigma della riflessione filosofica che interroga e tematizza se stessa.

Per questo, ciò che è propriamente tragico, in Antigone, è la tensione bi-polare che si instaura tra la finitezza del «segno» e l’assolutezza indicibile dell’orizzonte nel quale il finito si scopre gettato e, per così dire, inscritto. Una tensione bipolare che svela una dicotomia di fondo, un dualismo irrisolto. La tensione originaria che si stabilisce tra l’affettività immediata di «Hestìa» e la costitutiva mobilità di «Hermes», nella misura in cui «Hermes» è il principio che proietta il Dasein verso lo spazio aperto della comunicazione politica e intersoggettiva. Verso la «città» come luogo dell’identità politica, come orizzonte circoscritto del dialègesthai. La trasparenza di «Hermes», infatti, è il fondamento ontologico della pòlis, la dimensione mitica che conferisce senso e valore alla sua identità. «Hermes» è l’orizzonte trascendentale della cultura e della civitas. La condizione che rende possibile l’«isegorìa» e l’«isonomìa» della polis, vale a dire: la perfetta reversibilità e la reciprocità simmetrica dello spazio pubblico e giuridico, che l’agorà esprime.5 La razionalità della polis nasce da questa organizzazione geometrica e matematica dello spazio e del movimento, da questa isonomìa dove tutto è comune. Ma questo significa anche che l’orizzonte della pòlis è il «Da» — il «ci» — del Da-sein: il luogo nel quale, per il quale e dal quale6 il mistero dell’Alètheia si storicizza, offrendosi alle mediazioni sempre provvisorie e imperfette del linguaggio segnico e referenziale. A questa matematizzazione euclidea dello spazio, si oppone — dall’interno — la traccia opaca e intraducibile della singolarità e della philìa: il margine che non può essere assimilato, il residuo invisibile — àdelon — che converte il senso nel non-senso, rovesciando l’essere «così com’è» nel poter essere altrimenti. La tragedia nasce da questa inversione, da questo improvviso rovesciamento etico e ontologico. Dal fatto, cioè, che il mondo possa essere visto e interpretato attraverso forme ermeneutiche sempre nuove e diverse, e, quindi, attraverso configurazioni di senso inevitabilmente ellittiche. In definitiva, quello che emerge non è tanto la sicurezza — e, di fatto, l’illusione — di un fondamento stabile e compiuto, ma la certezza, per così dire «interrogativa» di un «dover-comprendere» sempre aperto e rinnovato. Il fatto, cioè, che, al di là di qualunque prospettiva «soggettiva» e «relativistica», la dynamis — vale a dire: la possibilità impossibile e indecidibile, la contradictio contradictionis — sia il fondamento originario e ulteriore, che si dà prima e al di là della enèrgheia. La diade «natura»-«cultura» esibisce in modo esemplare, proprio nella sua intrinseca configurazione aporetica e paradossale, questa contraddizione originaria che si flette su se stessa e che nega se stessa: la possibilità estrema del pensiero, la possibilità più aspra e radicale. Quella che espone il pensiero al rischio di un rovesciamento integrale e che, per questo, mostra, dentro le categorie del pensiero, il limite insuperabile nel quale il pensiero, sempre e di nuovo, si infrange. La «contradictio contradictionis» dice esattamente questo: l’identità-differenza tra natura e cultura, il loro originario appartenere allo spazio — in quanto tale impensabile e irrappresentabile — del trascendentale e del «compossibile». Lo spazio aniconico del dionisiaco, il luogo stesso del pathos all’interno di ogni ethos, all’interno, cioè, di ogni mediazione culturale. Questa «possibilità» originaria — evocata da Antigone — mostra l’impotenza della epistème metafisica e, quindi, la tragica decostruzione delle sue certezze sillogistiche. Il fallimento, dunque, della «verità» intesa come corrispondenza, come «adaequatio» raffigurativa. E, quindi, il fallimento del pensiero stesso, la sua decostruzione, lo smantellamento delle sue pretese globalizzanti e imperialistiche. Questo è «Antigone», simbolo — e icona — di un irrappresentabile che ogni rappresentazione custodisce al suo interno. Questo, a ben vedere, è il significato della sua scelta. Una scelta che presuppone la capacità di ascoltare l’appello della «natura», stando, tuttavia, all’interno di uno spazio che è stato definito e circoscritto dall’azione oggettivante e categorizzante della «cultura».

Per questo, la responsabilità etica assunta tragicamente da Antigone si configura come scelta autonoma e libera, come «de-cisione» che genera «hybris» — la prevaricazione — e che, insieme, rivela la primordiale esigenza di prendersi cura del mondo, conservando nella memoria l’universalità indicibile dell’«Arché». Vale a dire: l’universalità che fonda la determinatezza e la singolarità dell’autocoscienza, di ogni autocoscienza.

Antigone, icona dell’immemoriale pathos dionisiaco, condivide l’esigenza dionisiaca di «tollere peccata mundi» e, in questo tragico abbandono alla strutturale sofferenza che è nelle cose, prende su di sé la responsabilità della (sua) finitezza. L’esigenza — propriamente tragica — di salvaguardare la manifestatività dell’Alètheia nella finitezza dell’ Esserci, è, per Antigone, un dovere assoluto: un sentire immediato che esige la compartecipazione affettiva e la condivisione empatica dei vincoli originari.

E, tuttavia, affinché l’ethos di Antigone si realizzi nella determinatezza fenomenica del mondo, è necessario che l’unilateralità di ethos dilegui, perché solo attraverso il dolore incommensurabile di questa perdita è possibile affermare e volere fino in fondo se stessi. Ethos, quindi, è negato e distrutto in nome di ethos, se è vero che — tragicamente — Dìke realizza se stessa solo attraverso la negazione e la violazione di Dìke (v. Eschilo, Coefore, v. 461). La tragedia, insomma, porta l’anfibologia e la vibrazione ritmica del contraccolpo drammatico nella struttura profonda delle cose, nella loro identità originaria che contiene in sé il simile e il dissimile, il moto e la quiete, l’uno e i molti, senza essere, propriamente, né l’uno né l’altro, ma, insieme, ogni volta, l’uno e l’altro. In altre parole, l’imperscrutabile essenza, che l’intreccio drammatico porta alla disvelatezza concreta dell’accadere, non è altro che l’Irrappresentabile — il luogo ou-topico: «Chôra» — che si mostra nella configurazione sensibile della forma, restando, tuttavia, innumerabile e irrappresentabile. Ma questo significa che la pràxis di Antigone rimanda, nella sua intrascendibile singolarità, alla totalità aionica e indistinta: alla dimensione corale e ditirambica che rende inquieta ogni quiete e che, rovesciando il dominio epistemologico della «Theorìa», trascende il primato aristotelico dell’atto. In altri termini, se la certezza metafisica del fondamento rinvia alla trasparenza assoluta dell’«entelècheia» e alla necessità immutabile dell’«òntos òn», il sapere patico di Antigone, al contrario, viene restituito alla tensione progettuale e all’apertura estatica del Dasein, che non è mai prevedibile nelle sue infinite possibilità ermeneutiche. L’ethos di Antigone è davvero — per Antigone — «daimon», nella misura in cui, attraverso la scelta, nega l’assolutezza immutabile del Logos e la rovescia dall’interno, esponendo quella trasparenza e quella simmetria al dolore della finitezza, al groviglio antinomico delle sue contraddizioni.

L’azione di Antigone è carica di questo «aidion», che manifesta l’assoluta trascendenza di Dio, «chiunque egli sia» — «hòstis pot’estìn» (v. Eschilo, Agamennone, v. 160).

È questo il problema decisivo tematizzato da Sofocle: l’intreccio, il «chiasma» che si instaura tra la finitezza insuperabile dell’Esserci e l’eccedenza, per così dire «aorgica» del divino che supera qualunque termine di paragone, qualunque analogia. Non c’è congettura, infatti, che possa esaurire l’imperscrutabile onnipotenza, l’indicibile «kraìnein»7 che rende Zeus «panaìtios» e «panerghètes» (v. Eschilo, Agamennone, v. 1486).

Nessuna compensazione, dunque: nessuna possibilità di riscatto.

La compensazione, infatti, è il «no» diviso dal «si»: il «no» che nega il rischio dirompente della temporalità — «tòlma» (v. Antigone, v. 371) — e, quindi, la libertà del Finito, la sua autonomia.

Per questo, negando la redenzione e la conciliazione sintetica degli opposti, la tragedia salva la possibilità di una libera e autonoma affermazione del Finito, nel mondo abbandonato dal «senso».

La tragedia di Antigone, in definitiva, mostra — nella radicale concretezza del visibile — il dolore — il «pònos» — che ogni decisione custodisce: il nefas che appartiene all’azione in quanto tale e, quindi, l’immanente duplicità dell’uno che è già marcato e sdoppiato dall’irruzione epifanica dell’alterità.

L’identità tragica, quindi, ospita in sé una pluralità contraddittoria di personae, una polifonia di maschere, perché accoglie in sé non solo la trasparenza e l’univocità del proprio, ma anche l’assenza e l’assoluta alterità dell’estraneo. In questa prospettiva, Antigone diventa — nella rappresentazione di Sofocle — icona dell’irrappresentabile e immagine di quell’ arcipelago interiore all’interno del quale gli opposti — soggetto e oggetto, attività e passività, azione e reazione — sono legati da un rapporto duplice e immanente, che è, insieme, identità e differenza. Di questa compenetrazione indissolubile Antigone è, insieme, simbolo e paradigma universale. Ma questo vale anche per Edipo. Edipo e Antigone, infatti, esibiscono, secondo prospettive diverse e, tuttavia, complementari, il medesimo problema: quello che, di fatto, il problema teoretico di fondo, il problema interno della filosofia.

Le leggi non scritte — gli «àgrapta nòmima» di Antigone (v. Antigone, vv. 454-455)- evocano, quindi, la profondità della terra che è madre e, insieme, orizzonte periecontologico del divenire. In altre parole, il nòmos incarnato da Antigone è la memoria che conserva nel cuore Hestìa: la casa, il senso primordiale e ingiustificabile dell’essere. E l’indeducibile, nella tragedia di Antigone, è il fondamento infondato del quale non è possibile «lògon didònai» — dare ragione — nella misura in cui infondato e, fino in fondo, ingiustificabile è l’orizzonte pre-categoriale — vale a dire: la «forma di vita» — che si dà, nelle articolazioni mediate del conoscere e del divenire, come paradosso, come «estraneità interiore».

Questo è «deinòn»: la terribile inquietudine che rende a-poros ciò che sembra panto-pòros, vale a dire, l’uomo, il «Dasein», colto nella sua configurazione policentrica e multiforme. Sorprendente e terribile — e, dunque «deinòn» — è la capacità umana di elaborare forme e modelli concettuali, attraverso una espansione indefinita e imprevedibile della «volontà di potenza». In termini nietzscheani, infatti, la «volontà di potenza» non è altro che la volontà di interpretazione e di comprensione: il tentativo, quindi, di orientarsi nelle pieghe contraddittorie e nei «sentieri interrotti» della finitezza. «Tra» natura e cultura, tra «ethos» e «pathos».

Il I stasimo dell’Antigone svela questa radicale ambivalenza (v. Antigone, vv. 332-375). La capacità inventiva e costruttiva dell’uomo è la capacità di produrre tèchnai, attraverso quella decisione — «proàiresis» — che è, insieme, disvelamento e «provocazione», e, dunque, colpa. L’anticipazione inventiva della tèchne, infatti, è la capacità di dominare le cose e l’esperienza. La capacità di asservire al giogo8 della razionalità logica — che è, poi, il giogo della cultura logocentrica occidentale — l’opacità irrazionale che è nelle cose, la ingens sylva pre-categoriale. La tragedia di Antigone mostra la connessione profonda che lega — sotto il profilo teoretico — l’esigenza di una mediazione culturale sempre rinnovata e flessibile e l’esigenza di conferire senso al disordine dell’esperienza, attraverso l’inclusione del molteplice nell’orizzonte categoriale della relazione logica, nella trasparenza del pensiero logocentrico. E, tuttavia, in questa affermazione prometeica della Tèchne, la plasticità creativa e il tentativo di dare forma all’infigurabile svelano l’abisso e l’estraneità della Physis. Physis è, dunque, l’orizzonte inaccessibile che non può essere consumato, lo sfondo eterno e «infaticabile» che sempre si ritrae: «a-kàmaton», «à-phtiton» (vv. Antigone, vv. 332-341). Per questo, se è vero che ogni «decisione» è hybris, è anche vero che l’evento tragico mostra l’esigenza, sempre rinnovata, di rendere Dìke all’a-dikìa, nell’orizzonte del transeunte e della temporalità. Qui, nell’evento della rappresentazione tragica — che è il simbolo e il paradigma di ogni rappresentazione, della rappresentazione in genere — Antigone scopre, attraverso il dolore ineffabile della catastrofe, la profondità noumenica e l’assoluta trascendenza della libertà.

E qui, nell’abisso infondato della libertà, emerge il paradosso di una salvezza che distrugge, perché l’infinito che annienta il finito non è altro che la verità del finito: la verità che lo nega e che, insieme, lo afferma. La salvezza tragica è esattamente questo: il paradosso di una redenzione che nasce dal riconoscimento consapevole del limite e dalla fedeltà alla terra. Dalla capacità «in-condizionata» di affermare la vita in quanto transizione e tramonto.9 Al fondo della distruzione, quindi, la salvezza tragica è la partecipazione che nasce dalla comunione dionisiaca e che sfugge, per questo, alla hybris dell’occhio metafisico. Un dono inspiegabile che si affida all’immediatezza assoluta dello sguardo. Una dimensione estetica, dunque: un sentire nel quale siamo coinvolti. Ovvero: la capacità di sentire, nella contingenza della Lichtung, l’indicibile orizzonte consensuale e comunitario del comprendere. La condizione trascendentale — etica ed estetica, insieme — che rende possibile ogni proposizione, ogni forma, ogni figura.


  1. Cfr. a questo proposito, le stimolanti riflessioni di E. Ferrario, «La filosofia e il tragico. Le «Antigoni» di Paul Ricœur e Jacques Derrida», in «Antigone e la filosofia». Un seminario a cura di P. Montani, ed. cit. ↩︎

  2. Per un suggestivo sviluppo della tematica in questione, cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro VII, L’etica della psicoanalisi, 1959-1960, testo stabilito da J.A. Miller, 1986, Editions du Seuil, ed. it. a cura di G.B. Contri, 1994, Giulio Einaudi editore, Torino, in part. v. pp. 341-361. ↩︎

  3. Cfr. J.-P. Vernant e P. Vidal-Naquet, Mito e pensiero presso i greci, ed. cit. 1970, P.B.E.,, in part. pp. 147-201. ↩︎

  4. Cfr. sulle fondamentali implicazioni teoretiche di questa prospettiva, J. Derrida, La dissémination, Editions du Seuil, 1972, in part. pp. 431-445. ↩︎

  5. Cfr. a questo proposito, J.-P. Vernant e P. Vidal-Naquet, Mito e pensiero presso i greci. Studi di psicologia storica (1965 e 1971), ed. it. a cura di M. Romano e B. Bravo, 1970 e 1978, P.B.E, in part. pp. 147-217. ↩︎

  6. Cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica (1935), 1966, M. Niemeyer Verlag Tübingen, ed. it. a cura di G. Masi, 1968, Mursia editore, Milano, in part. pp. 154-171. ↩︎

  7. Cfr. per un attento sviluppo della questione, le illuminanti riflessioni di G. Calogero, Senofane, Eschilo e la prima definizione dell’onnipotenza di Dio, in «Studi sull’eleatismo», 1977, La Nuova Italia (prima edizione, Roma, 1932). ↩︎

  8. Cfr. E. Severino, Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, 1989, Adelphi, Milano, in part. pp. 21-31 e 179-207. ↩︎

  9. Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, ed. it. a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 1968, v. in part. la Prefazione di Zarathustra↩︎