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Un'unica sostanza e tre ipostasi: ovvero la rivelazione dell'essere di Dio come originario inter-esse

di Massimiliano Zupi (Roma, 26-28 maggio 2011)

Il dogma trinitario, così come venne formulato nel Credo costantinopolitano del 381, che ancora oggi viene recitato nella Messa domenicale, fu il frutto di quella controversia ariana che segnò la vita della Chiesa d'Oriente nel IV secolo; più specificamente, il Credo costantinopolitano rifletté la dottrina trinitaria che venne elaborata da Gregorio di Nissa, fratello del grande Basilio di Cesarea, per confutare l'ultima e radicale versione dell'arianesimo, quella di Eunomio, e che venne fissata per iscritto in un lungo trattato intitolato appunto Contro Eunomio.

Storicamente, dunque, la dottrina ariana, che pure oggi viene bollata e liquidata come eretica, ebbe un ruolo fondamentale nell'elaborazione del dogma trinitario: senza quell'eresia non si sarebbe arrivati alla formulazione del dogma.

Lo studio della controversia al termine della quale fu definito il dogma ci permetterà pertanto di comprendere meglio il dogma stesso: ripercorrendo le obiezioni di Eunomio e le sue ragioni, e le rispettive confutazioni costruite dal Nisseno, tenteremo di capire nella maniera più precisa possibile in che modo la dottrina trinitaria, come pure del resto quella cristologica a essa collegata, rispecchino la specificità della rivelazione cristiana di Dio, ovvero che Dio è amore, e l'inaudita ontologia che essa suppone, che cioè l'essere è originariamente inter-esse1, relazione.

1. Un presupposto comune: l'assoluta semplicità dell'origine

La teologia eunomiana rappresentò una riformulazione radicale del subordinazionismo ariano: il Dio non generato, ossia il Padre, è sostanza differente e superiore rispetto al Dio generato, ossia al Figlio, così come a sua volta quest'ultimo lo è rispetto al Paraclito. Ora, il modo in cui Eunomio pensa Dio, ancor prima che riflettere l'ontologia neoplatonica del suo tempo, -- secondo la quale l'essere è ordinato gerarchicamente in una scala al cui vertice è l'origine, assolutamente prima e unica, sola e irrelata, -- rispecchia un'esigenza del pensiero umano stesso: questo aspetto vale la pena senz'altro chiarire fin da principio, per liberare subito il campo da un facile pregiudizio che, bollando il subordinazionismo eunomiano come "eretico",2 presuma con ciò stesso di averlo già compreso e liquidato (come se una teologia, in quanto riconosciuta eretica, non desse da pensare!).

Ebbene, presupposto indubitabile per Eunomio è che Dio sia assolutamente unico e semplice: per questo, per Eunomio, nella medesima sostanza divina non è possibile pensare né una dualità né, tanto meno, una trinità. Nel dogma cristiano perciò bisogna tenere separate la sostanza del Dio non generato (e "non generato" dice appunto assoluta semplicità e unità) da quella del Dio generato, e a sua volta la sostanza del Dio generato da quella del Paraclito: la fede cristiana, conclude Eunomio, contempla quindi tre sostanze divine distinte, gerarchicamente ordinate tra di loro. Ora, il presupposto dell'assoluta unità e semplicità di Dio risponde anzitutto a un'esigenza di ordine teoretico: l'origine di tutto l'essere deve essere unica, unità anteriore a ogni molteplicità, in quanto appunto deve precedere la molteplicità degli esseri che da essa ha origine; deve essere quindi semplice, ossia priva di qualsivoglia composizione e divisione, le quali attengono al molteplice e non all'uno; deve essere infine assoluta solitudine, identità cui è ancora estranea qualunque forma di alterità. Ma l'istanza teoretica dell'assoluta unità e semplicità dell'origine è altresì radicata in un'istanza di ordine esistenziale: essa infatti dà voce e dignità filosofica al desiderio degli uomini di tutti i tempi, al desiderio cioè che l'alienazione e dispersione del tempo presente, la stessa divisione e instabilità del cuore di ogni uomo, siano in verità già superate e ricondotte a unità in Dio, nostra origine e nostro fine. L'assoluta unità e semplicità dell'origine, del Dio non generato, pathos che guida la teologia eunomiana e ne impone fin dall'inizio l'esito subordinazionistico, è dunque l'espressione di una struggente passione per un'unità e semplicità dell'esistenza umana da sempre perdute e pur sempre desiderate, la speranza di raggiungere le quali trova appunto in Dio, eternamente unico e semplice, il suo fondamento.

Del resto, proprio questo è interessante: e cioè il fatto che presupposto assolutamente indubitabile anche per Gregorio è che la natura divina sia unica e semplice, come pure che essa sia distinta in Padre, Figlio e Spirito Santo; ma di contro a Eunomio, per il Nisseno tale distinzione non comporta né una differenza di sostanze né, tanto meno, una subordinazione, ossia una differenza nel senso del più e del meno. Pensare l'unità e semplicità dell'origine e insieme l'originaria differenza e molteplicità in essa: è questa la scommessa che Gregorio è chiamato a vincere per essere all'altezza della rivelazione cristiana di Dio.

Nelle pagine seguenti ripercorreremo dunque tutte le argomentazioni che il Nisseno produce per confutare, una dopo l'altra, le tesi di Eunomio, e per pensare in maniera adeguata il dogma dell'unità/trinità di Dio, come pure dell'umanità/divinità di Cristo. In forza di un prolungato e insistito studio del Contro Eunomio, ci permetteremo in questa sede di ripercorrerne il complesso itinerario argomentativo rinunciando sia a citarne testi, sempre di difficile lettura, sia a confrontarci con l'ampia bibliografia secondaria,3 al fine di rendere il percorso stesso il più possibile agile e leggibile.

2. Dio è un'unica sostanza distinta in tre ipostasi

2.1. Il più e il meno non attengono al concetto di sostanza

Per Eunomio, la sostanza del Dio non generato è superiore a quella del Dio generato. Ora, Gregorio spiega che da un punto di vista logico (e per logica si intenda fondamentalmente quella stoico-aristotelica) il più e il meno, ossia il rapporto di superiorità e inferiorità, attengono ai predicati e non alle sostanze: si può dire, per esempio, che una persona sia più alta di un'altra, ma non che sia più uomo. In primo luogo, dunque, non è logicamente corretto affermare che una sostanza sia superiore a un'altra, tanto più poi qualora si tratti della sostanza divina, che per sua natura è semplice e infinita. Sempre da un punto di vista logico, infatti, il più e il meno non possono essere riferiti né al semplice né all'infinito: il semplice infatti è assenza di composizione, mentre il più e il meno, come insegna anche solo il loro uso in matematica, comportano necessariamente una qualche molteplicità; l'infinito poi è assenza di limiti, mentre la superiorità o inferiorità esigono pur sempre di essere misurate rispetto a un limite che separi appunto l'inferiore dal superiore. Eunomio dunque, affermando che una sostanza sia superiore all'altra, mostra di ignorare sia la distinzione logica tra sostanza e predicati sia il significato proprio delle nozioni di "semplicità" e "infinità" di Dio.

2.2. Colui che genera e colui che è generato sono necessariamente della stessa sostanza

La superiorità del Padre rispetto al Figlio, secondo Eunomio, è testimoniata innanzitutto dai nomi di "non generato" e "generato": il fatto che il Dio supremo sia "non generato" infatti attesterebbe sia la sua eternità, in quanto non ci sarebbe mai stato un inizio della sua esistenza, sia la sua impassibilità, in quanto sarebbe rimasto estraneo alla passione propria della generazione, sia il suo essere primo e unico, in quanto non avrebbe avuto nulla di anteriore a sé; al contrario, il fatto che il Figlio sia stato "generato", se da una parte testimonia il suo legame tutto particolare con il Dio supremo, poiché soltanto egli godrebbe del privilegio di essere stato generato direttamente da lui, dall'altra parte però attesterebbe anche sia la sua temporalità, in quanto ci sarebbe stato un tempo in cui avrebbe cominciato ad esistere, sia la sua passibilità, in quanto il concepimento e il parto comportano passione, sia il suo essere secondo e derivato, rispetto a colui che lo ha generato appunto. E il temporale è inferiore all'eterno, il passibile all'impassibile, il secondo al primo.

Ora, in primo luogo, spiega Gregorio, l'argomentazione eunomiana, nel suo complesso, risulta arbitraria: perché infatti soffermarsi solo sui nomi divini di "generato" e "non generato", tralasciando tutti gli altri (per esempio, quelli di "immortale" o di "onnipotente"), che si dicono sia del Padre sia del Figlio e attestano perciò la loro comunione? E pur volendo soffermarsi solo su quei nomi che attestino la differenza tra le due ipostasi divine, perché preferire i nomi non scritturistici di "non generato" e "generato" ai nomi scritturistici di "Padre" e "Figlio"? Evidentemente perché Eunomio sa bene che proprio i nomi di "Padre" e "Figlio", più di tutti gli altri, attestano la consustanzialità: ogni padre infatti è necessariamente della stessa sostanza del figlio! L'argomentare di Eunomio perciò risulta anche disonesto, perché tiene consapevolmente nascosta la verità. Ma l'astuzia della Verità è tale che riesce a volgere a proprio favore anche le argomentazioni di chi combatte contro di lei: i nomi di "non generato" e "generato" attestano infatti che l'una ipostasi è legata all'altra da un rapporto di generazione; ma la natura umana e quella animale dimostrano che colui che genera e colui che è generato sono della stessa sostanza! Dunque, se il Dio generato è tale in quanto è stato generato dal Dio non generato, allora è necessariamente della stessa sostanza del Dio supremo.

2.3. Se il Figlio non è della stessa sostanza del Padre, allora non è Figlio, ma creatura: paradossale coincidenza tra l'anomeismo eunomiano e il modalismo sabelliano

Se invece Eunomio insiste con l'affermare che la sostanza del Figlio è differente da quella del Padre, egli dunque a parole parla di "generazione", ma in verità pensa a una "creazione": se infatti colui che genera (per esempio, un padre rispetto al figlio) è per definizione della stessa sostanza di colui che è generato, è invece colui che crea (per esempio, un falegname rispetto alla sedia da lui costruita) che per definizione è differente nella sua sostanza rispetto a quel che è creato. Ecco dunque smascherata l'empietà sottesa alla dottrina di Eunomio: che il Figlio sia una creatura. E se Eunomio considera il Figlio una creatura, conclude polemicamente Gregorio, sarebbe meglio che rinunciasse una buona volta al nome di cristiano e abbracciasse piuttosto la religione pagana, nella quale sarebbe libero di adorare una creatura, oppure quella giudaica, nella quale sarebbe libero di non riconoscere il Figlio come vero Dio. Infatti, se è la sottolineatura della trascendenza divina a impedire al giudaismo di accettare l'incarnazione di Dio, al contrario, spiega Gregorio, il politeismo pagano ha origine proprio dal fatto che non è tenuta ferma la distinzione tra natura creata e natura increata: fissare il limite di separazione tra Dio e l'uomo è uno dei compiti fondamentali che devono essere assunti dalla teologia cristiana.

D'altra parte, negando che il Figlio sia consustanziale al Padre e facendone conseguentemente una creatura, Eunomio semplicemente sottrae alla fede cristiana l'ipostasi del Figlio. Da questo punto di vista, prosegue Gregorio, più che al politeismo pagano, la teologia eunomiana è affine alla versione cristiana del giudaismo, ossia al sabellianesimo, il quale riduceva la differenza ipostatica a tre modi di manifestarsi dell'unico Dio. Paradossalmente, Eunomio, che pure è spinto dall'istanza origeniana (opposta a quella sabelliana!) di sottolineare la differenza tra Padre e Figlio e la sussistenza individuale di ciascuna delle due ipostasi, finisce in verità con il perdere la differenza interna all'unica sostanza divina appunto in nome della monolitica identità del Dio non generato (proprio come Sabellio!). I due estremi, dell'assoluta differenza (il subordinazionismo ariano) e dell'assoluta identità (il monarchianesimo sabelliano), finiscono con il coincidere in quanto a entrambi sfugge quella paradossale compenetrazione che costituisce la specificità della rivelazione cristiana di Dio: un'unica natura distinta in tre ipostasi. Sabellio afferma che Dio non è distinto ipostaticamente, Eunomio al contrario sostiene che Dio non è identico sostanzialmente. Ma sia contro l'uno sia contro l'altro, ricorda Gregorio, è la Scrittura stessa a attestare che la natura divina è unica e allo stesso tempo distinta in tre ipostasi (specialmente Gv 10, 30 e 14, 10; ma anche Is 6, 3; Mt 28, 19; Gv 1; Gv 5, 19 e 23; 1 Cor 12, 3; 2 Cor 4, 4; Col 1, 15-16).

2.4. Nella natura increata la differenza non è nel senso del più e del meno

In verità però, anche ammesso che la sostanza divina sia unica e distinta in tre ipostasi, resta tuttavia intatta la dottrina fondamentale di Eunomio, e cioè che ciascuna ipostasi sia superiore all'altra. Una volta concesso infatti che unica e identica sia la sostanza divina, nulla impedisce che il subordinazionismo anomeo possa essere applicato alle ipostasi: se il più e il meno non riguardano differenti sostanze, possono comunque riguardare le differenti ipostasi. Il Figlio non sia una sostanza diversa del Padre: sarà comunque un'ipostasi inferiore rispetto a quella del Padre.

Per rispondere a questa obiezione decisiva, Gregorio deve esporre brevemente l'impianto ontologico della propria teologia. Egli opera una fondamentale cristianizzazione dell'ontologia platonica, sovrapponendo all'antitesi platonica tra sensibile e intellegibile quella biblica tra creato e increato. Il risultato di questa sovrapposizione è la distinzione di tre gradi dell'essere: l'essere sensibile creato, o semplicemente sensibile, l'essere intellegibile creato, l'essere intellegibile increato, o semplicemente increato. Ontologicamente, sensibile e intellegibile si oppongono in quanto l'uno è materiale e l'altro è immateriale; ciò, sul piano morale, corrisponde al fatto che il sensibile è il regno della necessità, mentre l'intellegibile è caratterizzato dalla libertà. Creato e increato invece, sul piano ontologico, si oppongono in quanto l'uno è essere per partecipazione e l'altro è essere in sé; sul piano morale, ciò corrisponde al fatto che l'increato è stabilità nel bene, mentre il creato è anelito al bene, mai definitivamente posseduto. Alla luce di queste osservazioni, è possibile comprendere il significato della triplice distinzione dell'essere operata dal Nisseno: a) il sensibile creato, in quanto creato, tende a rimanere in quell'essere che gli è stato donato e che a ogni istante potrebbe venir meno, ma, in quanto sensibile, la tensione di cui è capace è necessaria e involontaria; il regno del sensibile creato è perciò il regno del movimento necessario, ciclico: è il regno della natura; b) l'intellegibile increato invece, in quanto intellegibile, è volontà, e in quanto increato, è stabilità in quel bene che possiede per natura; in esso perciò essere e poter essere, necessità e libertà coincidono: è il regno della natura divina; c) l'intellegibile creato infine, in quanto intellegibile, è volontà, ma in quanto creato, è volontà mai definitivamente appagata; è perciò il regno della possibilità sempre aperta al bene e al male, della libertà sempre tentata di volgersi al male, sempre bisognosa di essere liberata dalla propria instabilità: è il regno della natura umana.

Proprio le implicazioni antropologiche sono probabilmente il risultato più significativo dell'ontologia del Nisseno: l'uomo è natura paradossale, soglia tra il creato e l'increato, sempre in bilico tra il bene e il male; anticipando un tema tanto caro all'antropologia moderna e contemporanea, Gregorio di Nissa individua nel "limite", "methórios",4 il concetto filosofico che più di tutti caratterizza la natura umana. Ma da un punto di vista teologico, il guadagno più importante è la dimostrazione che la differenza nel senso del maggiore e del minore non attiene alla natura divina. Il più e il meno infatti, come aveva già argomentato Gregorio, attengono ai predicati, non alla sostanza. Ora, nel caso degli esseri sensibili, il più e il meno riguardano predicati corporei: quest'oggetto è più pesante di quello, e così via. Nel caso invece degli esseri intellegibili creati, riguardano predicati incorporei, ossia morali: per esempio, quest'anima è più buona di quella. Con una tautologia, si potrebbe dire che nel sensibile il più e il meno sono in relazione al peso della materia, e nel sovrasensibile in relazione invece al peso dell'intellegibile: per misurare il più e il meno, in un caso, si istituisce un confronto sul piano della corporeità, nell'altro caso, sul piano degli impulsi morali, in relazione cioè a un maggiore o minore grado di virtù.

Sia nella sostanza sensibile sia in quella intellegibile creata, dunque, la differenza è nel senso del più e del meno, sebbene nella prima in senso fisico e nella seconda in senso morale. Ciò è dovuto al fatto che entrambi questi gradi dell'essere, in quanto creati, sono essere per partecipazione: in entrambi la nozione di "differenza" implica perciò un più e un meno nel senso appunto che in essi può realizzarsi una maggiore o minore partecipazione all'essere. Da questo punto di vista, si comprende infine perché la natura increata non sia soggetta invece al più e al meno: perché essa è essere in sé e non per partecipazione, pienezza d'essere, non manchevole di nulla, al quale nulla può essere aggiuntotolto. Il loro non essere create è la peculiarità comune alle tre ipostasi divine, ciò che le distingue rispetto a ogni altro essere. Vi sono poi delle peculiarità proprie di ciascuna ipostasi, tali da costituire la differenza all'interno dell'unica natura divina: peculiarità del Padre è di essere Padre e non-generato, ovvero causa essendi della natura divina; peculiarità del Figlio è di essere generato, anzi unigenito, l'unico cioè a essere causato direttamente dal Padre; peculiarità dello Spirito Santo infine è di essere increato e tuttavia di non essere non-generato né generato.5 Ecco dunque la dottrina gregoriana delle tre ipostasi: Padre, Figlio e Spirito Santo appartengono all'unica sostanza divina, essendo tutti e tre increati, distinguendosi tra di loro non secondo un rapporto di inferiorità e superiorità, bensì solo in relazione alla causa essendi, in relazione cioè al rapporto d'origine che lega ognuno agli altri.

2.5. L'essere divino è originario inter-esse

È il concetto stesso di generazione, dunque, inteso in senso proprio, che invita a pensare non a una molteplicità di nature divine, come sostiene Eunomio, bensì a una differenza di ipostasi all'interno di un'identica sostanza: Dio è unità sostanziale ipostaticamente vivificata. Detto più chiaramente, la nozione di generazione, rettamente intesa, anziché determinare la subordinazione del generato rispetto al generante, conferisce alla natura divina un carattere relazionale: la sostanza divina è relazione tra differenti ipostasi. È questa l'inaudita novità della teologia cristiana rispetto alla teologia sia giudaica sia pagana.

È l'istanza dell'assoluta unità e semplicità del Dio supremo, di Colui che è la nostra origine, a non consentire a Eunomio di accogliere fino alle estreme conseguenze la novità dell'annuncio cristiano: quella appunto dell'identità di un Dio che è gioco di alterità, di un'identità che in Dio convive originariamente con la differenza. Da questo punto di vista, al neoplatonizzante Eunomio, non meno che al giudaizzante Sabellio, sfugge la differenza in Dio: infatti tanto una differenza modalistica, che non sia cioè ipostatica, quanto una differenza subordinazionistica, che non sia cioè consustanziale, non sono all'altezza del novum cristiano, di un'identità arricchita dall'alterità, di un'unità non monolitica, ma articolata in una sinfonica molteplicità. La dottrina anomea, che pure è dottrina della differenza in Dio, paradossalmente risulta così essere una teologia dell'identità, che quella differenza non sa pensare: una teologia cioè che, in quanto guidata dal pathos per l'assoluta semplicità, unità e identità del Dio supremo, proprio per questo non sa pensare la paradossale compenetrazione di unità e molteplicità, identità e differenza propria del Dio cristiano.

A Eunomio dunque sfugge il proprium della rivelazione cristiana di Dio, il fatto cioè che Dio abbia natura relazionale. La semplicità e unità dell'essere divino è originariamente (s) composta in una trinità di ipostasi: insopportabile per Eunomio è questa trasgressione del dogma dell'assoluta semplicità dell'origine. Ma con ciò stesso, Eunomio semplicemente non accoglie fino in fondo la rivelazione di Dio come amore (cfr. 1 Gv 4, 8): cos'è infatti amore, se non il mistero di un'unità che non si dà se non nella molteplicità?

L'essere divino, in quanto Dio è amore, non è assoluta semplicità scevra di qualsivoglia (s) composizione: l'essere del Dio che è amore è piuttosto originario inter-esse. Proprio giocando sull'equivocità del termine "interesse", in latino e in italiano, è possibile rendere filosoficamente ragione, in prima approssimazione, del mistero del Dio uno e trino, ossia del mistero del Dio che è amore: in quanto amore, da un punto di vista ontologico, l'essere di Dio è originariamente relazionale, è relazione tra tre esseri (accezione latina del termine "interesse"); in quanto tale poi, l'essere di Dio, la sostanza divina, richiede, per così dire, di essere compresa in senso innanzitutto etico: l'essere di Dio è l'originaria cura per l'altro da sé (accezione italiana del termine "interesse").

La confutazione del subordinazionismo anomeo potrebbe considerarsi sostanzialmente terminata qui; in effetti, tutto il resto della confutazione svolta dal Nisseno, e non siamo che all'inizio, non è altro che un approfondimento del significato del carattere relazionale della natura divina, condotto attraverso la confutazione delle diverse argomentazioni di Eunomio. Un approfondimento tuttavia era necessario: infatti la dottrina delle tre ipostasi è, in verità, essa stessa aporetica!

Gregorio ha dimostrato che la natura divina è distinta in tre ipostasi, nessuna delle quali può essere pensata come superiore o inferiore alle altre: ma in che senso questa natura è ancora unica? Le ipostasi sono tre e tra di loro consustanziali: ma che cos'è quest'unica sostanza? Dagli stessi esempi usati dal Nisseno, quello di Adamo e Abele (cfr. Contro Eunomio I, 496-497) e quello di Pietro, Giacomo e Giovanni (cfr. Contro Eunomio I, 227), sembrerebbe che Dio sia unico allo stesso modo in cui l'umanità è unica: ma una simile unità è soltanto logica, e non anche concreta, in quanto "umanità" e "divinità" sono solamente concetti, classi logiche. Quando Gregorio afferma che Dio è un'unica sostanza distinta in tre ipostasi, egli in verità per "sostanza" intende dunque la "seconda sostanza" aristotelica, ovvero un genere, una classe logica: "sostanza prima", sostanza in senso concreto, invece, sono soltanto le tre ipostasi (non a caso, il calco latino del greco "hypóstasis" è appunto "substantia"). L'unicità di Dio, un'unicità che sia intesa in senso concreto e non astratto, è solamente quella propria di ciascuna ipostasi: ma appunto, come i tre possono essere uno? Se Dio è una sola sostanza nel senso che, da un punto di vista logico, le tre ipostasi appartengono a un unico genere, allora la teologia del Nisseno è triteista! Non meno di Eunomio, Gregorio sembra perdere l'unità di Dio: il primo perché afferma una differenza troppo forte, la differenza di sostanza, il secondo perché sostiene un'unità troppo debole, l'unità propria del genere logico. Non a caso, Gregorio di Nissa è stato accusato di triteismo sia ai suoi tempi sia nel secolo scorso. Ma in che modo Dio, se è trino, può essere anche unico?

Che l'essere divino sia originario inter-esse, che la semplicità della sostanza divina sia originariamente (s) composta in tre ipostasi, sono in effetti soltanto nostre estensioni (indebite?) della dottrina delle tre ipostasi. Gregorio, al contrario, ribadisce continuamente che l'essere divino è assolutamente semplice: l'assoluta semplicità di Dio è un dogma irrinunciabile per Gregorio, non meno che per Eunomio. Forse che esso dunque costituisca per entrambi quella precomprensione neoplatonica dell'essere divino, quel limite storico-culturale che non solo a Eunomio, ma anche allo stesso Gregorio impedirebbe di accogliere fino in fondo la novità della rivelazione cristiana di Dio? Ma poi è davvero filosoficamente sostenibile la tesi di un'originaria (s) composizione della semplicità dell'essere, di un essere che sia originario inter-esse? Non è piuttosto la stessa rivelazione cristiana di Dio a essere teoreticamente inaccettabile? Non è lo stesso mistero dell'unità/trinità di Dio a essere filosoficamente impensabile? La verità del mistero cristiano di Dio non è forse la sua stessa "a-poreticità", ossia, etimologicamente, il suo essere un "sentiero interrotto"? La comprensione del mistero trinitario è dunque un cammino destinato a rimanere a metà strada, a non poter mai raggiungere la propria meta, un cammino interrotto? Ma interrotto da che cosa? Dal limite conoscitivo umano? O non piuttosto è il sentiero stesso a essere in sé stesso interrotto?

Ma interrotto per che cosa? Un'interruzione che è soltanto una chiusura, o non anche un'apertura? Verso dove?

3. La generazione del Figlio è eterna

3.1. Perché non anche la creazione è eterna?

Un primo approfondimento è imposto innanzitutto dalla nozione di "generazione". La generazione umana infatti, se da una parte insegna che genitore e figlio condividono la stessa sostanza, dall'altra parte mostra anche che il figlio è più recente del padre. Il Dio generato dunque, in quanto generato, sia pure della stessa sostanza del Padre: in quanto generato, tuttavia, sarà altresì posteriore al Padre, soggetto al tempo e al mutamento, quindi un Dio inferiore. Non solo, ma l'esperienza umana mostra anche che la generazione implica sempre una passione, quella del concepimento e del parto: dunque il Dio generato sarà pure di natura passibile.

La problematicità insita nel concetto di "generazione" non è altro che una declinazione della medesima aporia emersa al termine della Prima Parte: come il paradosso dell'unità/trinità di Dio, così altrettanto aporetico è il paradosso di una generazione/eterna-e-impassibile. Se in Dio occorre distinguere un Padre e un Figlio, come è possibile pensare l'unità concreta della natura divina? Allo stesso modo, se in Dio ha avuto luogo una generazione, come è possibile pensare l'eternità e impassibilità della natura divina?

Il motto ariano suonava così: «Se è stato generato, non era; se era, non è stato generato»; ossia: se il Figlio è stato generato, allora non è eterno, perché c'è stato un momento in cui è venuto all'essere, prima del quale ancora non esisteva; se invece è eterno, non è stato generato, il che è evidentemente assurdo, perché allora non sarebbe Figlio. Eunomio riformula il medesimo motto nella seguente forma: se è possibile pensare la generazione del Figlio come eterna, perché allora non pensare anche la creazione come eterna?

Ancora una volta, si tratta di una declinazione di quella medesima difficoltà emersa al termine della Prima Parte: allora era sembrato che sia Eunomio sia Gregorio avessero perso l'unità di Dio, l'uno a causa di una differenza troppo forte, l'altro a causa di un'unità troppo debole; anche ora sembrerebbe che sia Gregorio sia Eunomio abbiano perso la distinzione tra Dio e il creato, l'uno facendo del Dio generato una creatura, l'altro estendendo l'eternità divina alla creazione. In verità, però, affrontando quest'ulteriore difficoltà, il Nisseno giungerà all'acquisizione della fondamentale nozione della "differenza ontologica" tra Dio e il creato, complementare alla nozione di "differenza ipostatica" tra Padre e Figlio: a questo punto della confutazione, in base a queste due nozioni di "differenza" si misurerà tutta la distanza che separa la teologia del Nisseno da quella del suo avversario.

3.2. Se il Figlio non è coeterno al Padre, neanche il Padre è eterno: la natura creata è nel tempo, quella increata è aldilà del tempo

Gregorio confuta la tesi fondamentale del subordinazionismo eunomiano, che cioè il Dio non generato sia superiore al Dio generato, attraverso la formulazione di due dottrine complementari: la dottrina dell'unica sostanza distinta in tre ipostasi e la dottrina della generazione eterna e impassibile del Figlio. Esse, del resto, costituiscono la confutazione delle due corrispettive dottrine principali della teologia eunomiana: quella della superiorità del Dio non generato, argomentata in forza del suo essere appunto "non generato", ossia sostanza assolutamente semplice e unica, e quella dell'inferiorità del Dio generato, argomentata in forza del suo essere appunto "generato", quindi recente, posteriore al Dio non generato. Le due dottrine del Nisseno si intersecano spesso tra di loro: ciò è dovuto al fatto che è la nozione stessa di "generazione" (la seconda dottrina) a legittimare sia la differenza ipostatica tra generante e generato sia la loro unità sostanziale (la prima dottrina).

Secondo Eunomio, il concetto di generazione, implicando che colui che è stato generato abbia cominciato a esistere in un secondo tempo, attesterebbe l'inferiorità del Dio generato. Gregorio spiega che, ancora una volta, la tesi di Eunomio è insostenibile in primo luogo da un punto di vista logico: se infatti l'esistenza del Dio generato, ossia del Figlio, avesse avuto inizio solo in un certo tempo, allora anche l'esistenza di colui che lo ha generato, ossia del Padre, risulterebbe necessariamente delimitata all'interno di un intervallo temporale; se il Figlio, come sostiene Eunomio, avesse cominciato a esistere "in un secondo tempo", allora si dovrebbe supporre che l'esistenza del Padre fosse iniziata "in un primo tempo": anche l'essere del Dio non generato risulterebbe, per così dire, "coinvolto" nella temporalità del Dio generato. Basandosi sulla nozione di "intervallo", dunque, Gregorio oppone a Eunomio un dilemma: o il Figlio è coeterno al Padre, o anche per la vita del Padre si deve supporre un inizio temporale. L'argomentazione del Nisseno, in verità, è un po' capziosa: perché infatti dovrebbe essere necessario misurare la distanza temporale che separa il Padre dal Figlio, dal momento che l'esistenza del Padre è eterna, ossia priva di inizio? La difficoltà non consiste tanto, come pure vorrebbe far credere Gregorio, nella necessità di supporre un inizio temporale anche per la vita del Padre, quanto piuttosto nel pensare in genere a un inizio del tempo, coincida esso con la generazione del Figlio o con la creazione del mondo; nel pensare cioè al passaggio dall'eternità del Padre alla temporalità del Figlio (o della creazione). Da una parte, pensare un inizio del tempo è necessario, perché il tempo stesso è il procedere da un inizio ad una fine attraverso un momento intermedio; dall'altra parte, però, pensare l'inizio del tempo è impossibile: cos'era infatti prima del tempo? Questo stesso interrogativo costituisce un circolo vizioso, perché "prima" è ancora una nozione temporale. Detto altrimenti, il tempo stesso impone di pensare a un aldilà del tempo: ma poi non è possibile pensare l'aldilà del tempo se non in termini essi stessi temporali.

Il dilemma relativo alla generazione dell'Unigenito dal Padre, poiché si basa sulla difficoltà di pensare l'origine del tempo, è facilmente estendibile dunque anche alla creazione del mondo da parte di Dio: se, come afferma Gregorio, o il Figlio è coeterno al Padre, o neanche il Padre è eterno, analogamente, o la creazione sarà coeterna al suo Creatore, o neanche il Creatore sarà eterno. La creazione, che è certamente temporale in quanto essa comporta la creazione del tempo, coinvolge il Creatore nella temporalità non meno di quanto una generazione temporale del Figlio coinvolga il Padre nella temporalità. In entrambi i casi, si tratta della medesima difficoltà: come l'eterno può dare origine al temporale? Filosoficamente, è una difficoltà insuperabile, a meno che si ricorra alla teoria dell'eterno ritorno, che annulla lo scarto tra eternità e temporalità facendo dello scorrere del tempo una mera apparenza. L'intelletto umano, risponde Gregorio, non può che fermarsi di fronte, e tenere ferma, la differenza tra l'eternità di Dio e la temporalità del creato. A prima vista, la confutazione del Nisseno sembra una petizione di principio: è utilizzato infatti come argomento quel che invece andrebbe dimostrato, ovvero che la creazione del mondo sia nel tempo, mentre la generazione dell'Unigenito sia eterna. Il fatto è che per comprendere il significato dell'argomentazione gregoriana è necessario tenere presente la distinzione tra tre diverse nozioni di temporalità, correlative ai tre gradi dell'essere sopra ricordati: 1) alla sostanza sensibile attiene il chrónos: come l'essere sensibile era movimento necessario, così il chrónos è successione ciclica, la temporalità della natura; 2) alla sostanza intellegibile creata attiene l'aión: come l'essere intellegibile creato era movimento libero, così l'aión è successione lineare, la temporalità del desiderio; 3) alla sostanza increata attiene infine l'aídion: come l'essere intellegibile increato era libertà stabile nel bene, permanente possesso del bene, così l'aídion è eterno presente e infinità, la temporalità di Dio, che propriamente è una non-temporalità.

La differenza tra questi tre gradi dell'essere, ai quali corrispondono tre forme di temporalità, la nozione dunque di differenza ontologica tra increato e creato, tra Dio e uomo, se, e parte Dei, consentirà a Gregorio di pensare adeguatamente il mistero della generazione divina, e parte hominis, permette altresì al Nisseno di presentare le coordinate essenziali di un'antropologia cristiana tanto affascinante, quanto attuale: se Dio è pienezza d'essere, possesso stabile del bene, l'uomo è essere per partecipazione, natura di confine, sempre in bilico tra il bene e il male, tra l'essere e il non essere; tuttavia, come nel suo essere increata consiste la dignità della natura divina, così proprio nella creaturalità risiede la grandezza e la bellezza della natura umana: poiché infatti Dio stesso è indefettibile fondamento e garanzia della natura creata, il limite creaturale, da maledizione, da condanna alla morte, diviene benedizione, condizione di possibilità della vita, ovvero di un infinito progresso nel bene. Se le nozioni di "methórios" e "diástema", di "soglia" e "limite", e quella di "epéktasis", di "progresso infinito", rendono l'antropologia gregoriana assai vicina alla sensibilità moderna e contemporanea, dall'altra parte, la conquista più significativa di Gregorio rispetto alla cultura pagana del tempo fu appunto la dimostrazione della positività della creaturalità umana: proprio il suo essere per partecipazione, il suo essere limitato, il suo essere tensione mai paga, anziché costituire una deficienza, costituisce al contrario la bellezza dell'uomo.

3.3. La generazione del Figlio è consustanziale, eterna e volontaria

A questo punto della confutazione, è possibile rilevare i due errori di fondo che viziano il tentativo eunomiano di pensare la generazione divina. Da una parte, Eunomio non tiene presente la differenza ontologica che separa la generazione divina da quella umana: tale differenza richiede che ogni concetto che venga usato per pensare la generazione divina sia pensato analogicamente, sia purificato cioè da tutto ciò che non si addica alla natura divina (per esempio, dalla temporalità, o dalla passione). Dall'altra parte, poi, Eunomio non tiene conto della complessità della nozione di "generazione divina": essa è tale che non è possibile pensarla servendosi di un solo concetto; occorre piuttosto avvicinarlesi da più punti di vista, per approssimazione, nella consapevolezza che ciascun concetto, oltre che bisognoso di essere purificato analogicamente, è sempre anche parziale, capace di cogliere solo un aspetto di quella divina realtà.

Di contro a Eunomio, Gregorio individua quindi tre concetti complementari, contenuti nei tre titoli cristologici di "splendore", "Figlio" e "Logos", grazie ai quali è possibile pensare in modo adeguato la nozione di "generazione divina": essa insegna che il Figlio è dal Padre eternamente, secondo la stessa sostanza, volontariamente.

Se riferito all'essere creato, il termine di "generazione" può assumere i seguenti quattro significati: 1) la creazione (per esempio, di una sedia da parte del falegname): è la lavorazione di una materia con arte; 2) la "generazione" propriamente detta (quella di un figlio da parte del padre): è l'atto grazie al quale una medesima sostanza è condivisa da più individui; 3) l'emanazione (ad esempio, di un profumo da parte di un unguento): è il flusso di materia da una fonte, proveniente da essa e sempre compresente a essa; 4) la parola: è la manifestazione sensibile di una realtà intellegibile, espressione del pensare e del volere. Ebbene, tutto ciò, riferito a Dio, assume rispettivamente i seguenti quattro significati:

  1. la creazione del mondo, la "ghénesis", in quanto essa comporta non solo la differenza di sostanza tra Creatore e creatura, ma anche che, affinché sia compiuta, sia sufficiente la sola volontà del Creatore: che "Dio disse" e "così fu" (cfr. Gn 1), spiega Gregorio, significa infatti che Dio creò tutte le cose perché voleva che tutte le cose venissero all'essere, senza che un qualche intervallo temporale abbia separato mai la volontà divina di creare dall'atto stesso del creare;
  2. la generazione divina dell'Unigenito dal Padre (cfr. Gv 1, 18), la "ghénnesis" del "Figlio", in quanto essa comporta un rapporto di consustanzialità tra Padre e Figlio;
  3. la generazione divina dell'Unigenito dal Padre, come "splendore della gloria" (Eb 1, 3), ovvero l'"emanazione", l'"apórroia", in quanto il Figlio da sempre e per sempre proviene "dal" Padre e nello stesso tempo è "con" il Padre: se infatti è certamente vero che ogni generazione comporta l'anteriorità del generante rispetto al generato, tuttavia nella generazione del Figlio tale anteriorità va intesa solo in senso ontologico, come causa essendi, e non anche in senso cronologico, come anteriorità temporale; è quel che avviene appunto nel rapporto tra la luce e il suo splendore: la prima è causa del secondo, senza tuttavia che alcun intervallo temporale si frapponga fra l'una e l'altra, essendo piuttosto l'una contemporanea all'altra; così il Figlio, splendore del Padre, è paradossalmente "dal" Padre e "con" il Padre;
  4. la generazione divina dell'Unigenito dal Padre, in quanto il Figlio è "lógos" (Gv 1, 1), è la "Parola" del Padre, è cioè generato volontariamente, come appunto volontariamente la parola è generata dall'intelletto.6 Se, in effetti, il Dio generato è coeterno al Padre come un raggio è contemporaneo allo splendere del sole dal quale pure proviene, se il Padre non può stare senza il Figlio allo stesso modo in cui non si dà sole senza splendore, il rischio allora è quello di intendere la generazione del Figlio come eterna, sì, ma anche come necessaria e involontaria, cosicché la generazione sarebbe piuttosto una neoplatonica emanazione. In verità, spiega Gregorio, un pericolo simile è scongiurato se, ancora una volta, si tiene ferma la differenza ontologica che separa Dio dall'uomo: mentre infatti nell'uomo desiderio e realizzazione, volontà e messa in atto costituiscono due momenti distinti, separati da un intervallo temporale, nella natura divina invece sono due momenti coincidenti; nell'uomo, la volontà non necessariamente si realizza, in Dio invece quel che Egli vuole è già da sempre e necessariamente realizzato. La natura divina, in quanto infinita e eterna, priva di intervalli, da un punto di vista ontologico è attualità dell'essere, ossia è essere sempre in atto: è da sempre e per sempre quel che è. D'altra parte, però, in quanto intellegibile, l'essere divino è anche libero, dotato di volontà: è da sempre e per sempre quel che vuole. In Dio quindi, a differenza che nell'uomo, volontà e eternità, libertà e necessità, essere e poter-essere, coincidono: il Padre da sempre e per sempre vuole che il Figlio sia.

L'analisi del Nisseno, attraverso tre nozioni complementari, quelle di "ghénnesis", di "apórroia" e di "lógos", e i rispettivi nomi biblici cristologici, quelli di "Figlio", di "splendore" e di "Parola", ha inteso legittimare la conciliabilità della nozione di "generazione" con l'aggettivo "divina". In particolare, due sono i risultati raggiunti:

  1. in base ai primi due sensi di derivazione da una causa, è ribadita la distinzione tra "creazione", "ghénesis", e "generazione", "ghénnesis"?
  2. in base agli ultimi due sensi di derivazione da una causa, è risolto il dilemma ariano relativo alla volontarietà/necessità della generazione divina, attraverso la paradossale conciliazione delle nozioni di "derivazione volontaria" e "coeternità".

3.4. L'identità divina è irriducibile alterità

In primo luogo, dall'esame della questione della generazione divina dell'Unigenito è risultato confermato, relativamente alla dottrina eunomiana, quanto emerso già al termine della Prima Parte: paradossalmente, la teologia anomea, che pur afferma la differenza di sostanza in Dio, risulta essere in verità una teologia dell'identità. Se infatti vedemmo che, a livello intratrinitario, proprio il dogma dell'assoluta semplicità e unità del Dio supremo impedisce a Eunomio di pensare la differenza in Dio, l'articolarsi cioè dell'unità della sostanza divina in una molteplicità ipostatica, analogamente anche ora, a livello economico, abbiamo constatato che Eunomio, sempre in nome dell'assoluta identità e trascendenza del Dio supremo, finisce con il non pensare più, con il non tenere ferma la differenza di Dio, la differenza ontologica cioè tra il Dio unigenito e il creato. In entrambi i casi, Eunomio afferma sì la differenza tra il Dio non generato e il Dio generato, ma per preservare in verità l'assoluta semplicità e identità del Dio supremo: per questo, paradossalmente, la teologia anomea, la teologia della dissomiglianza, finisce con il perdere sia la differenza in Dio, a livello intratrinitario, sia la differenza di Dio, a livello economico.

Nella schematizzazione del Nisseno, la teologia cristiana rappresenta la sintesi di giudaismo e paganesimo: pensare Dio non significa più pensare né un'assoluta trascendenza/alterità di Dio, come nel giudaismo, né un'assoluta immanenza/identità di Dio, come nel paganesimo greco; significa piuttosto pensare la dialettica, la compenetrazione di quegli estremi opposti. Alla dialettica intradivina tra l'identità di sostanza e la differenza ipostatica corrisponde perciò, a livello economico, la dialettica tra l'identità dell'essere divino e la differenza ontologica tra Dio e il creato. In entrambi i casi, l'identità di Dio si "ri-vela",7 ovvero "si mostra nascondendosi", come irriducibile alterità. Risulta confermato, dunque, anche il risultato emerso al termine della Prima Parte relativamente alla dottrina gregoriana: come, a livello intratrinitario, l'identità della sostanza divina si lasciava pensare solo come alterità di ciascuna delle ipostasi, così anche ora, a livello economico, l'identità di Dio si lascia pensare solo in quanto differente rispetto alla natura creata. In entrambi i casi, l'identità divina è originaria alterità in quanto ha carattere anzitutto relazionale: l'essere di Dio è originario inter-esse, tra Padre e Figlio, del Padre per il Figlio e del Figlio per il Padre, a livello intratrinitario, e tra Dio e il mondo, di Dio per il mondo, a livello economico.

Di contro a Eunomio, paradossalmente, la teologia del Nisseno, che pure afferma la consustanzialità in Dio, ovvero l'identità della sostanza divina, risulta essere in verità una teologia della differenza: essa pensa infatti l'identità della sostanza divina, a livello intratrinitario, in quanto ipostaticamente differente, e a livello economico, in quanto ontologicamente differente. Ma da un punto di vista filosofico, cosa significa pensare l'identità in quanto differente?

Al termine della Prima Parte, è stata avanzata l'ipotesi che la verità della teologia cristiana, da un punto di vista teoretico, sia la sua aporeticità: il fatto che l'unità di Dio sia trina, che la sua identità sia differente, avrebbe significato che l'itinerarium mentis in Deum, l'ascesa all'identità di Dio sia in verità un sentiero interrotto in sé stesso. Ebbene, questa ipotesi risulta ora confermata: affermare infatti la differenza ontologica di Dio rispetto al creato significa anzitutto riconoscere l'incomprensibilità di Dio nella sua stessa identità. Ciò è emerso in maniera evidente dalla questione della conciliabilità tra la generazione eterna dell'Unigenito e la creazione temporale del mondo. Perché, chiedeva Eunomio, la generazione del Figlio è aldilà del tempo, mentre la creazione del mondo è nel tempo? Perché, ha risposto Gregorio, la natura creata è temporale, mentre la natura divina è eterna, aldilà del tempo. Una simile risposta è senz'altro una "petizione di principio": ribadisce infatti quel che andrebbe dimostrato. Ma una petizione di principio era appunto necessaria: perché l'affermazione della differenza ontologica tra Dio e il creato (in questo caso, della differenza tra l'eternità di Dio e la temporalità del creato) è anzitutto l'affermazione del limite conoscitivo dell'intelletto umano. Che Dio sia eterno, così come che Dio sia uno, è un'esigenza, sì, del pensiero umano, che tuttavia esula dalle possibilità di comprensione dell'intelletto stesso: un'esigenza, per così dire, che può (che deve!) essere soltanto affermata e non anche soddisfatta. In questo senso, dunque, sia l'unità della sostanza divina sia l'eternità della generazione dell'Unigenito sono dottrine teoreticamente aporetiche. L'unità di Dio e l'eternità dell'Unigenito sono pensabili soltanto in quanto "ri-velate": si mostrano attraverso un velo che non può essere tolto, attraverso un limite appunto che l'intelletto stesso non può "trans-gredire" (etimologicamente, che non può "oltrepassare": perché insieme a esso l'intelletto oltrepasserebbe anche sé stesso).

Ancora una volta, dunque, il sentiero lungo il quale ascendere a Dio è un sentiero interrotto. Ma interrotto da che cosa? Cos'è quel "velo"? Cosa quel "limite"? Un'interruzione che è soltanto una chiusura, o al tempo stesso anche un'apertura?

Una risposta a questa domanda, che, oramai è evidente, costituisce l'interrogativo di fondo di tutto quanto il nostro cammino, può essere forse già ora intravista, anticipata, ricavata analogicamente in base all'antropologia del Nisseno accennata in precedenza: se il limite creaturale dell'essere umano, infatti, nell'antropologia di Gregorio, diventa benedizione e non più maledizione, fonte di vita e non più di morte, non è perché quel limite sia ignorato o superato, bensì perché è accolto come condizione di possibilità della comunione con Dio, riconosciuto come soglia che rende possibile e concreto un infinito cammino verso Dio. Ciò dunque non varrà anche sul piano gnoseologico? Il limite conoscitivo, l'aporeticità insita nella paradossalità del Dio cristiano, uno e trino, eterno e generato, anziché da ignorare o da superare, non costituiranno piuttosto la condizione di possibilità stessa di un'infinita crescita nella conoscenza di Dio, in una conoscenza che sia essa stessa relazione con Dio, "inter-esse" di Dio per l'uomo e dell'uomo per Dio?

4. Lo scandalo della croce

La confutazione della teologia anomea, a livello intratrinitario, può considerarsi completata: è stato ampiamente dimostrato infatti che la generazione dell'Unigenito, lungi dal comportare la dissomiglianza di sostanza tra generante e generato e la superiorità del primo sul secondo, comporta al contrario la consustanzialità e la coeternità tra Padre e Figlio. La generazione divina, in quanto divina, è aldilà del tempo e della passione: tutto ciò, però, può dirsi anche a proposito dell'incarnazione del Logos?

In effetti, resta ancora da affrontare la confutazione più ardua della teologia anomea, quella a livello economico: se infatti la generazione dell'Unigenito non comporta né dissomiglianza di sostanza né inferiorità, come ciò può valere anche per l'incarnazione del Logos? Quel Dio che è stato eternamente e impassibilmente generato come Figlio, non è il medesimo che si è incarnato, è morto sulla croce ed è stato risuscitato? Nessuno mette in dubbio che sia il medesimo Dio. Dunque, il Dio generato in un certo momento della storia si è fatto uomo, ha patito la croce, è risorto: come negare allora che l'incarnazione, morte e resurrezione non comportino la passione, il mutamento, l'essere nel tempo? Come negare che il Figlio, se non anche in quanto generato, tuttavia in quanto incarnatosi, crocifisso e risorto, sia un Dio altro e inferiore rispetto al Dio non generato?

4.1. Ratio interpretandi e historia salutis secondo Gregorio di Nissa

Per Gregorio, si tratta di confutare l'esegesi eunomiana di una serie di passi biblici utilizzati come dimostrazione della creaturalità e inferiorità del Figlio e, nel contempo, di interpretare quei medesimi passi in senso ortodosso. Il Nisseno non si preoccupa di esporre sistematicamente la propria teoria esegetica; tuttavia di fatto dall'insieme delle sue interpretazioni è possibile ricavare sia la ratio interpretandi di Eunomio sia quella del Nisseno. Le singole interpretazioni di Eunomio infatti sono errate innanzitutto perché errati sono i principi stessi dell'esegesi eunomiana.

In via preliminare, Gregorio ribadisce il principio esegetico origeniano fondamentale: la Sacra Scrittura ha sempre per scopo l'utilità spirituale dei fedeli. L'interpretazione della Bibbia dunque è sempre finalizzata al rinnovamento e alla liberazione interiori, realizzati nell'anima dei fedeli per opera dello Spirito Santo. Ora, l'interpretazione letterale spesso non è spiritualmente utile: l'inadeguatezza della lettera, il cosiddetto principio del "defectus litterae", rende pertanto necessaria l'interpretazione allegorica. Da questo punto di vista, l'esegesi eunomiana risulta spiritualmente inutile, anzi dannosa, proprio in quanto interpreta letteralmente quel che invece andrebbe interpretato allegoricamente.

In effetti, un titolo cristologico quale "primogenito di tutta la creazione" (Col 1, 15), o versetti biblici quali Pr 8, 22 («Il Signore mi creò come principio delle sue vie per le sue opere») e Gv 20, 17 («Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro»), attesterebbero con tutta evidenza, secondo Eunomio, che il Figlio non sia della stessa sostanza del Dio non generato, così come non lo sono gli uomini e tutte le altre creature. Nel confutare simili interpretazioni, Gregorio può mettere in evidenza anche un altro errore metodologico di fondo dell'esegesi eunomiana: se Eunomio infatti, ascoltando per esempio "primogenito di tutta la creazione", pensa che quel titolo attesti la creaturalità dell'Unigenito, è perché non distingue né tra piano immanente e piano economico né, all'interno di quest'ultimo, tra creazione e redenzione. Non tenendo ferme queste distinzioni, Eunomio dimostra semplicemente di non comprendere la specificità del Dio della Bibbia, il quale, pur rimanendo Dio, ama gli uomini e per questo entra nella loro storia fino a farsi Egli stesso uomo e a dare la propria vita per loro. Al contrario, proprio distinguendo tra quando nella Scrittura si parli del Logos eterno, quando del Logos creatore e quando del Logos redentore, Gregorio può delineare con precisione il modo in cui Dio si sia coinvolto nella storia degli uomini: in alcune bellissime pagine del secondo tomo del terzo libro del Contro Eunomio, il Nisseno fissa la propria teoria della historia salutis, scandendola in due creazioni e altrettante generazioni. La storia della salvezza si articola infatti in una prima creazione, quella nella quale il Logos fece la carne di Adamo, e in una seconda creazione (resa necessaria dalla caduta conseguente al peccato originale), nella quale il Logos si fece carne, compimento dell'economia di salvezza a favore degli uomini. A sua volta questa seconda creazione si realizza per ogni uomo attraverso una duplice generazione: attraverso di esse, la prima, quella battesimale, e la seconda, quella che si realizzerà nella resurrezione della carne alla fine dei tempi, ogni credente è generato quale figlio di Dio, ogni uomo cioè è divinizzato.

4.2. At 2,36 e la dottrina cristologica del Nisseno

Eunomio dunque può credere di legittimare scritturisticamente la dissomiglianza e l'inferiorità della sostanza del Figlio rispetto a quella del Padre solo in quanto, quando interpreta la Scrittura, non distingue, a proposito del Figlio, tra nomi immanenti e nomi economici, e a proposito del Cristo, tra natura divina e natura umana. E se la distinzione tra piano immanente e piano economico è risultata necessaria per comprendere la dinamica della storia della salvezza, distinguere tra Cristo "qua homo" e Cristo "qua Deus" risulterà un criterio esegetico altrettanto fondamentale per comprendere il punto d'arrivo di tutta la storia della salvezza: il mistero cristologico.

In effetti, in Eunomio, la mancata applicazione del principio esegetico di distinguere tra natura umana e natura divina quando la Scrittura parli di Cristo, corrisponde proprio a una inadeguata comprensione del mistero cristologico stesso: l'incarnazione del Logos, infatti, secondo Eunomio, costituirebbe la dimostrazione dell'inferiorità del Dio generato, prima ancora che il compimento della salvezza degli uomini. Al contrario, spiega Gregorio, proprio il principio esegetico secondo il quale occorre distinguere tra attributi umani e attributi divini in Cristo, insegna che la mirabile unione di natura umana e divina in Cristo è tale che l'elemento umano è innalzato senza tuttavia che quello divino venga abbassato.

Nel Contro Eunomio, la trattazione della questione cristologica è concentrata in riferimento all'esegesi di At 2, 36. Proprio l'interpretazione dell'affermazione di Pietro relativa al Gesù crocifisso mette in luce tutta la differenza che passa tra Gregorio e Eunomio nella comprensione dell'annuncio cristiano di salvezza: se Eunomio considera la croce un segno dell'inferiorità del Figlio, Gregorio al contrario la considera lo strumento della divinizzazione dell'uomo, la manifestazione dell'amore di Dio per l'uomo.

«Dio fece Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso», proclama Pietro alla casa di Israele. Eunomio aveva interpretato il «fece» di At 2, 36 come attestazione del fatto che il Dio generato sarebbe non solo "genitura", ma anche "fattura": quel «fece» attesterebbe infatti che il Dio generato fu appunto "fatto, creato". Nel suo Contro Eunomio, Basilio aveva confutato l'esegesi eunomiana spiegando che le parole di Pietro si riferiscono alla sola natura umana del Cristo, che dopo la resurrezione "è diventata" (questo è il significato del «fece») quel che la natura divina "è" dall'eternità, ossia «Signore e Cristo». Eunomio aveva quindi mosso una serie di critiche alla distinzione basiliana tra Cristo "qua homo" e Cristo "qua Deus": quelle critiche ora il Nisseno ripercorre una a una, per confutarle e riaffermare così l'interpretazione del fratello, sviluppando ulteriormente da parte sua la dottrina cristologica sottesa a quella interpretazione.

La prima accusa mossa da Eunomio è che Basilio si vergognerebbe della croce: per questo infatti avrebbe interpretato il «Gesù che voi avete crocifisso» di Pietro come riferito solo alla natura umana di Cristo, perché appunto non avrebbe ritenuto la croce degna della natura divina! Con ciò, spiega Gregorio, Eunomio dimostra semplicemente di ignorare sia la verità del mistero cristologico, che cioè il Logos incarnandosi ha innalzato la natura umana senza tuttavia egli stesso abbassarsi, sia il corrispettivo principio esegetico secondo il quale alcune parole nella Sacra Scrittura vanno riferite all'umanità di Cristo, altre alla divinità. Le parole di Pietro dunque attestano non l'inferiorità dell'Unigenito, bensì il compimento della salvezza della natura umana.

In modo decisamente capzioso, Eunomio aveva mosso una seconda accusa contro Basilio: dal momento che le parole di Pietro si riferirebbero a un uomo, ovvero alla natura umana di Cristo, allora secondo Basilio avrebbe assunto la forma di servo (cfr. Fil 2, 7) colui che era già servo, ossia si sarebbe fatto uomo colui che era già uomo. Evidentemente, spiega Gregorio, Eunomio non ha compreso che in Cristo concorrono due nature distinte, l'una divina, che appunto assunse la forma di servo, e l'altra umana, che fu elevata alla dignità di «Signore e Cristo». Al contrario, conclude Gregorio, è proprio Eunomio che, facendo dell'Unigenito una creatura, sostiene implicitamente che sarebbe divenuto creatura colui che era già creatura.

Con un sofisma complementare rispetto al precedente, Eunomio aveva mosso infine una terza accusa contro Basilio: se infatti Basilio, come era prevedibile, si fosse difeso dall'accusa precedente spiegando che occorresse distinguere il Cristo "qua Deus" dal Cristo "qua homo", allora, secondo Eunomio, sarebbe risultato evidente che nella dottrina basiliana sarebbero stati presenti due Cristi. Al contrario, spiega Gregorio, proprio perché il Logos che era «nel seno del Padre» (Gv 1, 18) è il medesimo Logos che «si fece carne» (Gv 1, 14), è impossibile riferire alla natura divina del Cristo attributi non degni della divinità del Logos. Ancora una volta, non è che la natura divina e quella umana non abbiano formato una cosa sola in Cristo: tuttavia non è la natura divina che ha subito qualche mutamento, ma è la natura umana che si è divinizzata; come accade, spiega il Nisseno ricorrendo al cosiddetto principio aristotelico della "predominanza", qualora si mescoli una goccia d'aceto nell'acqua del mare: l'acqua rimane salata, mentre la goccia d'aceto si trasforma in acqua di mare.

4.3. Il Dio di Eunomio è un Dio che non è amore

Per Eunomio, il Dio crocifisso, in quanto ha subito la passione della croce, è un Dio inferiore. Gregorio, dopo aver ribadito che in verità solo la natura umana ha patito sulla croce, aggiunge che comunque la morte in croce di Cristo sarebbe stata passione in senso proprio, e quindi anche eventuale attestazione dell'inferiorità della divinità del Figlio, solo qualora fosse stata passione non soltanto meramente fisica, bensì anche di carattere morale, che avesse comportato cioè un'inclinazione al male. Ebbene, conclude il Nisseno, la croce di Cristo non è certo frutto di un'inclinazione al male: al contrario, attraverso la croce, opera dell'amore di Dio e non testimonianza dell'inferiorità del Figlio, viene all'uomo ogni bene, viene all'uomo la salvezza stessa. L'unione teandrica in Cristo è appunto quell'indicibile incontro, quell'ammirabile scambio di attributi divini e umani, grazie al quale alla natura umana, schiava del peccato e della morte, è riconsegnata la signoria dei figli di Dio.

Dal complesso delle confutazioni prodotte da Gregorio è risultato che alla base delle diverse interpretazioni scritturistiche formulate da Eunomio opera un misconoscimento di fondo della specificità del Dio della Bibbia: se infatti, ignorando la distinzione tra piano immanente e piano economico, Eunomio ha dimostrato di non tenere conto del fatto che il Dio della Bibbia sia un Dio che, pur rimanendo Dio, si coinvolge nella storia degli uomini, analogamente, ignorando la distinzione tra Cristo "qua Deus" e Cristo "qua homo", ha dimostrato di non comprendere che l'incarnazione e la croce, anziché essere un segno dell'inferiorità dell'Unigenito, costituiscono piuttosto il culmine di quel coinvolgimento di Dio nella storia, grazie al quale è stata portata a compimento l'opera di redenzione. In entrambi i casi, Eunomio dimostra insomma di pensare un Dio, il Dio non generato, che non ama, che nella sua unicità e solitudine assomiglia più al Dio aristotelico che al Dio cristiano. Gregorio può mettere dunque infine in evidenza l'empietà sottesa a tutta la teologia eunomiana: il Dio di Eunomio è un Dio che non è amore.

In primo luogo, argomenta Gregorio, Eunomio sostiene, sulla base di Mc 10, 18 («Nessuno è buono, se non Dio solo»), che solo al Dio non generato si addica la bontà in senso proprio: forse, domanda retoricamente il Nisseno, che il Figlio è meno buono del Padre perché, per amore nostro, ha accettato di fare sua la nostra morte? Gregorio sviluppa quindi quella medesima domanda sotto forma di dilemma: o Eunomio considera un male la nostra salvezza (il che è evidentemente assurdo) e per questo afferma che l'Unigenito sia soggetto alla passione e sia un Dio inferiore; oppure, se riconosce che l'opera della redenzione rappresenta il massimo beneficio ricevuto dagli uomini, e esso attiene però solo alla sostanza del Figlio, allora farà del Padre un Dio ozioso, che non ama e al quale perciò non è dovuto alcun rendimento di grazie. Ancora una volta, conclude Gregorio, intendendo diminuire la divinità dell'Unigenito, Eunomio finisce necessariamente con il danneggiare anche la divinità del Padre: perché in verità essi sono una cosa sola (cfr. Gv 10, 30).

4.4. "E il Verbo di fece carne" (Gv 1,14): la croce come luogo di trasgressione dei limiti della natura umana e come istanza di un trapasso dalla conoscenza logica alla conoscenza mistica di Dio

Per Eunomio, come per gli ariani in genere, la passione della croce costituisce una prova evidente della superiorità del Dio non generato rispetto al Dio generato: è la superiorità di colui che è assolutamente impassibile rispetto a colui che è divenuto soggetto alla passione. Alla luce di una simile interpretazione del mistero della croce, diventa ancora più manifesta la precomprensione neoplatonica di Dio che è alla base della teologia eunomiana: il Dio supremo, per Eunomio, in quanto origine prima dell'essere, deve essere assoluta unità, trascendente e impassibile. Il subordinazionismo eunomiano è il risultato del compromesso tra questa precomprensione dell'essere divino e la rivelazione cristiana di Dio: un Dio che si coinvolga nella storia degli uomini fino a farsi uomo e a morire sulla croce, non può che essere un Dio inferiore. Ma il Dio non generato eunomiano, nella sua assoluta semplicità e impassibilità, nel suo stare «inoperoso e per proprio conto» (Contro Eunomio III, 10, 36), nel suo rimanere estraneo all'economia di salvezza a favore degli uomini, finisce con l'assomigliare piuttosto al Motore Immobile aristotelico; nella sua superiorità, il Dio non generato non risponde più alla definizione essenziale del Dio cristiano: non è amore. Ma che cos'è amore?

Gregorio, confutando il corpus delle interpretazioni scritturistiche eunomiane, fissa le coordinate sia della propria teoria della storia della salvezza sia della propria cristologia. La storia della salvezza è scandita da due creazioni, dal momento che una seconda creazione, quella nella quale il Logos si fece carne, è stata resa necessaria dalla caduta della natura umana a causa del peccato. Da questo punto di vista, la Scrittura risulta suddivisa non tanto in Antico e Nuovo Testamento, quanto piuttosto in creazione e caduta, i primi tre capitoli della Genesi, e in redenzione, il resto della Bibbia. L'incarnazione del Figlio rappresenta il culmine dell'opera di redenzione: con essa infatti ha inizio la seconda creazione. In Cristo avviene la mirabile unione di natura umana e divina, grazie alla quale, in forza del principio della predominanza, la natura umana è innalzata (è ri-creata), senza che quella divina sia abbassata. La nuova creazione, a sua volta, si estende dall'uomo Gesù a tutti gli uomini attraverso quelle due rigenerazioni spirituali, quella battesimale e quella operata attraverso la resurrezione, che segnano rispettivamente l'inizio e la (il) fine dell'esistenza terrena di ciascun uomo.

Con il suo modo di interpretare la Scrittura, Eunomio dimostra di non comprendere proprio questa dinamica della storia della salvezza: egli infatti non distingue né tra nomi immanenti e economici di Dio né tra creazione e redenzione né tra natura umana e divina di Cristo. In tal modo, ancora una volta, Eunomio, per custodire intatta l'assoluta semplicità e unità del Dio supremo, finisce con il perdere sia la differenza in Dio (tra Padre e Figlio) sia la differenza di Dio (del Dio unigenito) rispetto al creato. Da una parte, infatti, rispetto all'assoluta trascendenza del Dio supremo, il Dio che entra nella storia degli uomini, il Dio generato, non può che essere un Dio inferiore: la differenza in Dio diventa così subordinazionismo, mentre la differenza ontologica del Dio generato rispetto al creato è ridotta a mediazione ontologica tra la natura divina e quella creata. Dall'altra parte, il Dio non generato, nella sua assoluta trascendenza, non solo non può essere Padre (perdita della differenza in Dio), ma non può essere nemmeno Creatore e Redentore (perdita della differenza di Dio: la differenza infatti è ridotta a estraneità); l'assoluta trascendenza del Dio supremo è inconciliabile non solo con il rapporto di paternità verso il Figlio, ma anche con il coinvolgimento del Dio biblico nella storia degli uomini: per affermare l'assoluta semplicità del Dio non generato, Eunomio perde la specificità scritturistica e cristiana di Dio.

Di contro a Eunomio, Gregorio è chiamato a pensare la differenza: sia la differenza in Dio, tra Padre e Figlio, sia la differenza ontologica di Dio rispetto al creato. Se, per pensare il mistero intratrinitario di Dio, occorre tenere ferme sia la differenza ipostatica sia l'unità di sostanza, analogamente, per pensare l'economia di salvezza a favore degli uomini, è necessario tenere ferma sia la trascendenza dell'essere divino sia il suo coinvolgimento nella storia degli uomini. Per rendere ragione del mistero economico, occorre dunque affermare, di contro a Eunomio, sia la differenza ontologica di Dio sia il suo operare a favore degli uomini: non solo il Padre, ma anche il Figlio è differente ontologicamente rispetto al creato, e viceversa, non solo il Figlio, ma anche il Padre opera la salvezza degli uomini. Al paradosso dell'unità/trinità di Dio corrisponde il paradosso della trascendenza/incarnazione di Dio: Gregorio pensa il primo paradosso per mezzo della dottrina delle tre ipostasi in un'unica sostanza, e il secondo per mezzo della dottrina cristologica che contempla sia la rigida distinzione tra Cristo "qua homo" e Cristo "qua Deus" sia la "communicatio idiomatum", ovvero il reale e effettivo scambio di attributi umani e divini in Cristo, conciliando le due opposte dottrine attraverso il principio della "predominanza", in virtù del quale l'elemento umano si divinizza, si innalza, senza che quello divino si umanizzi, si abbassi. Ma una simile dottrina è all'altezza del mistero cristologico? La rigida distinzione tra attributi umani e attributi divini non riduce la mirabile unione di uomo e Dio in Cristo a un'estrinseca giustapposizione? Al termine della Prima Parte, ci si era chiesti come il Dio trino potesse continuare a essere unico; anche adesso sorge un interrogativo analogo: come il coinvolgimento di Dio nella storia può essere reale, se la natura divina resta sempre al di sopra degli eventi storici? O al contrario, come la natura divina può conservare la propria differenza ontologica rispetto al creato, se è coinvolta nella storia degli uomini?

Non è un caso che Eunomio e Gregorio si accusino reciprocamente di vergognarsi della croce. Che Eunomio si vergogni della croce, come argomenta Gregorio, è dimostrato dal fatto che ne faccia una prova dell'inferiorità della sostanza del Figlio, considerandola d'altra parte assolutamente estranea all'essere del Padre. E Gregorio? Per Gregorio la croce non è una testimonianza dell'inferiorità dell'Unigenito, perché sulla croce ha patito la natura umana di Cristo, così come al contrario la resurrezione è operazione compiuta dalla natura divina di Cristo: rispetto a Eunomio, dunque, Gregorio estende semplicemente anche al Figlio l'impassibilità del Padre! Da questo punto di vista, sia Eunomio sia Gregorio si vergognano della croce: per nessuno dei due essa può essere predicata della natura divina. Ma, in effetti, come la passione della croce potrebbe attenere alla natura divina? Con ciò stesso infatti verrebbe meno la differenza ontologica tra Dio e il creato!

Per Gregorio, la croce non è passione in senso proprio, perché, lungi dall'essere un'inclinazione verso il male, è piuttosto la realizzazione del massimo bene: ma come sulla croce si compie la salvezza degli uomini, dal momento che l'essere divino rimane in verità estraneo alla croce? La malattia, dice Gregorio, richiedeva di essere curata «con il contatto», «t? epaf? » (Contro Eunomio III, 4, 31): ma di che natura è quel tocco che guarisce la natura umana dalla sua malattia? La continua sottolineatura dell'estraneità della natura divina alla passione della croce rischia di fare di quel tocco, che è l'incarnazione del Logos, un "deus ex machina" che con il suo intervento dall'alto risolva la tragedia dell'insensatezza dell'esistenza umana: la divinizzazione della natura umana finisce con il sembrare una taumaturgica trasformazione operata dalla potenza di Dio, un mero azzeramento della distanza che separa l'uomo da Dio. Ma, d'altra parte, proprio perché quella distanza (la differenza ontologica) sia conservata, non è necessario appunto sottolineare l'estraneità della natura divina alla passione della croce?

Da una parte, ancora una volta, sembrerebbe operare nella stessa teologia del Nisseno una precomprensione neoplatonica dell'essere divino analoga a quella che è stata rilevata essere alla base della teologia eunomiana: non è forse risultato infatti che Gregorio stesso si vergognerebbe in verità della croce, la considererebbe cioè assolutamente estranea all'essere divino, dal momento che egli, non meno di Eunomio, pensa la natura divina come assolutamente semplice e impassibile? Ma la natura divina appunto non dev'essere tale, ossia assolutamente semplice e impassibile? Senz'altro ogni contesto storico determinato costituisce anche un limite nella comprensione della rivelazione cristiana di Dio: forse che ciò però non vale anche per il nostro orizzonte culturale? Alla sensibilità odierna, infatti, segnata dal sentimento della morte di Dio, non sfugge facilmente proprio quella differenza ontologica tra Dio e il creato, che è invece tenuta ferma dal Nisseno? Che quel Gesù vissuto tra gli uomini e morto sulla croce sia Dio, e non un Dio inferiore, per noi oggi è ovvio: ma una simile comprensione è forse all'altezza del mistero cristologico? Se, per così dire, al tempo di Gregorio, il pericolo era quello di vergognarsi degli attributi umani di Cristo, oggi corriamo un pericolo uguale e opposto: quello di vergognarci degli attributi divini di Cristo! Considerare ovvio e non problematico il fatto che Dio abbia patito sulla croce (quel che appunto può capitare oggi) è in verità un abbassamento, un tradimento, un modo di eludere il mistero della croce non meno grave rispetto a quello di considerare la croce semplicemente estranea all'essere divino. La compenetrazione di natura umana e divina in Cristo costituisce un paradosso che non può (non deve!) essere risolto, pacificato; il mistero cristologico non sopporta nessuna comprensione riduttiva, unilaterale; la croce rappresenta uno "skándalon", una "pietra d'inciampo" che non va aggirata né in un senso né nell'altro: né considerando la natura divina semplicemente estranea e superiore a un reale coinvolgimento con la natura umana in Cristo, né all'opposto considerando quel coinvolgimento ovvio e naturale. Una comprensione piena del mistero della croce non può assolutamente essere piana. La percezione dell'inadeguatezza di qualunque dottrina cristologica, il sentimento della meraviglia, della sproporzione tra lo spettacolo della croce e la nostra capacità di sentire e comprendere quello spettacolo è, per così dire, la giusta misura, l'unica misura adeguata all'altezza e alla profondità del mistero della croce.

Cosa dunque non funziona nella cristologia di Gregorio? Non è forse vero che in Cristo la natura umana sia divinizzata, senza tuttavia che quella divina sia umanizzata? È senz'altro vero: tuttavia ciò non basta! La cristologia del Nisseno non è errata: tuttavia non esaurisce il mistero cristologico. Ma appunto comprendere esaurientemente quel mistero non è possibile: ogni pretesa di esaustività è piuttosto di per sé stessa un tradimento e un abbassamento di quel mistero.

La malattia richiedeva di essere curata per contatto: perché? Perché la malattia della natura umana, come spiega Gregorio, consisteva nella sua separazione da Dio conseguente al peccato; guarire da quella malattia, per la natura umana, significava perciò ritornare alla casa del Padre (cfr. Contro Eunomio III, 2, 49 e III, 10, 11): significava essere assunta nella natura divina (essere riammessa nella casa, nella vita di Dio), essere divinizzata (essere elevata alla dignità di "figlia di Dio"). La malattia, come dice Gregorio, richiedeva di essere curata per contatto: perché la lontananza da Dio, insopportabile per l'uomo, diventasse vicinanza. Ma come la lontananza poteva divenire vicinanza? Non certo attraverso un tocco taumaturgico che annullasse dall'alto la distanza tra Dio e gli uomini, bensì attraverso un tocco interiore, attraverso un coinvolgimento di Dio nella storia degli uomini tale da guarire l'uomo dalla sua malattia mortale, dalla visione distorta («umana, troppo umana», per dirla con Nietzsche) che egli aveva di Dio: proprio sulla croce Cristo rivela finalmente che Dio non è l'essere da invidiare nella sua suprema perfezione, perché la perfezione dell'essere divino consiste in verità in un viscerale interesse per l'uomo. Il modo di essere primo di Dio è di farsi ultimo, il suo stesso modo di essere Dio è di farsi uomo: è questa la scandalosa rivelazione della croce. Sulla croce muore la falsa immagine che l'uomo aveva di Dio: la pienezza d'essere di Dio non è superiorità autosufficiente, ma infinito amore per l'uomo. L'essere di Dio non è solo originario inter-esse tra Padre e Figlio, ma è anche viscerale inter-esse per l'uomo: quell'"inter" manifesta che l'intervallo che separa l'uomo da Dio è in verità il luogo del farsi vicino di Dio, manifesta cioè che l'essere di Dio è un prendersi cura dell'uomo. «Dio è amore» (1 Gv 4, 8): è possibile ora rendere ragione in maniera più adeguata della definizione giovannea di Dio. Dio è amore non solo in quanto uno e trino, ma anche in quanto crocifisso e risorto: amore infatti è la trasgressione dei propri limiti (il rinnegamento di sé, l'ascesa al monte Calvario) al fine di avvicinare e toccare l'altro da sé, l'amato; in quanto amore, Dio trasgredisce i limiti della propria natura e si fa uomo: si perde per lasciarsi trovare, si espone e muore sulla croce per offrirsi e farsi prossimo agli uomini. L'assunzione della natura umana nella natura divina in Cristo non è un tocco magico che annulli la distanza tra Dio e l'uomo, ma un tocco d'amore che rivela quella distanza come luogo di comunione e di intimità: perché la distanza è fatta per essere colmata, non una volta per tutte, ma infinitamente, in un infinito gioco di presenza e assenza, di vicinanza e lontananza, di ripetuti tocchi e dileguare del tocco. Ma il tocco può essere pensato? O non piuttosto invocato e accolto?

La verità dell'uomo è l'impossibilità di superare il proprio limite creaturale: la pretesa di trasgredire da sé quel limite (la trasgressione di Adamo) è la sua malattia mortale. La distanza tra Dio e l'uomo non può essere annullata: tuttavia la distanza che separa Dio dall'uomo può diventare (deve diventare!) istanza di intimità di Dio con l'uomo, invocazione di comunione. L'uomo è fatto per arrivare a Dio, per diventare figlio di Dio: l'intelletto può fissare i confini che delimitino il percorso dell'ascesa a Dio, ma quell'ascesa non può condurla a termine. Ancora una volta, il sentiero è interrotto in se stesso; ma è appunto un'interruzione, lo possiamo finalmente affermare, che è essa stessa soltanto una deviazione: l'apertura di un altro sentiero. Il limite nell'ascesa, riconosciuto dall'intelletto, diventa appello alla discesa di Dio: la cristologia del Nisseno non può esaurire il mistero cristologico, può solo fissare, come ogni dogma, i confini di comprensibilità di quel mistero, perché quei confini siano trasgrediti non dal logos umano, ma dal Logos divino! La conoscenza del mistero di Dio diventa definizione dei limiti conoscitivi umani e esperienza della trasgressione di quei limiti da parte di Dio: il limite conoscitivo umano diventa soglia del contatto con Dio. Che il Logos si sia fatto carne (il mistero cristologico) comporta che il Logos si faccia carne: richiede che la comprensione logica rinvii ad un tocco interiore. Non a caso, nell'unico passo all'interno del Contro Eunomio (III, 3, 34-35) in cui Gregorio mette a tema l'unione di natura umana e divina in Cristo, egli usa due volte il termine «paradosso», «parádoxon», e ricorre ben cinque volte al concetto di «meraviglia», «tò tha? ma / thaymázein / thaymázesthai». La mirabile unione teandrica in Cristo, scrive il Nisseno, «desta meraviglia», «en thaýmati ghínetai», «come fosse un qualcosa di paradossale», «hos epì paradóx? »: in quanto appunto è qualcosa che non si lascia comprendere dall'intelletto, spingendo piuttosto l'intelletto stesso a una forma di conoscenza altra.

L'ascesa del logos umano dunque si compie nella discesa del Logos divino, l'impresa filosofica trova compimento nell'esperienza mistica: proprio affrontando la questione del rapporto tra dicibile e indicibile, tra parola umana e Parola divina, Gregorio penserà in maniera adeguata la paradossale dialettica di unità-e-trinità, eternità-e-generazione, trascendenza-e-incarnazione di Dio, mostrando di essere, malgrado gli ovvi limiti del proprio orizzonte culturale, all'altezza del mistero cristiano del Dio crocifisso e risorto, del Dio che è amore.

5. La rivelazione dell'essere di Dio come originario inter-esse, ovvero l'infinita dinamica dell'amore

5.1. Una questione marginale, chiave di lettura dell'intera trattazione

Il secondo libro del Contro Eunomio è interamente dedicato alla questione della teoria dei nomi. Dal tempo dei sofisti in avanti, era una questione discussa in tutte le scuole filosofiche, assunta anche dalla teologia cristiana sotto forma di riflessione sui nomi divini di Cristo. Nel cristianesimo alessandrino, punto di riferimento anche su questo tema era la trattazione che Origene ne aveva offerto in De principiis II, 7, 3 e, soprattutto, nel Commento a Giovanni I. Una teoria dei nomi doveva rispondere a due interrogativi: primo, l'origine dei nomi, se divina o umana; secondo, il significato dei nomi, se rivelatore della natura stessa delle cose o del pensiero di coloro che dei nomi si servono.

La teoria dei nomi, all'interno della controversia eunomiana, costituisce in verità soltanto un'appendice alla questione centrale della differenza tra i nomi di "non generato" e "generato", fornendo un'ulteriore legittimazione a quella dissomiglianza o consustanzialità tra Padre e Figlio già altrimenti dimostrate. Eunomio infatti aveva sostenuto che, a livello appunto anche solo linguistico, la differenza tra i nomi di "non generato" e "generato" costituiva una conferma della differenza, a livello ontologico, tra la sostanza del Padre e quella del Figlio, dal momento che i nomi in genere manifesterebbero la sostanza delle cose nominate. Per Eunomio, quindi, sia l'origine dei nomi sia il loro rapporto con le cose era "per natura": i nomi cioè sarebbero stati imposti alle cose direttamente da Dio e manifesterebbero la sostanza, la natura stessa delle cose. Di contro a Eunomio, già Basilio aveva invece sostenuto che i nomi sarebbero stati imposti alle cose dagli uomini e manifesterebbero non la sostanza delle cose, bensì solo certe proprietà delle realtà nominate; anche i nomi di "non generato" e "generato" perciò, anziché testimoniare una differenza tra la sostanza del Padre e quella del Figlio, testimonierebbero piuttosto soltanto una differenza tra le peculiarità dell'uno e quelle dell'altro: manifesterebbero cioè, ancora una volta, soltanto una differenza ipostatica e non sostanziale.

Una questione marginale, si diceva, alla quale tuttavia nel Contro Eunomio di Gregorio di Nissa è riservata una posizione di assoluto rilievo: a essa infatti è dedicato un intero libro, il secondo, quello centrale. E non è un caso! La teoria dei nomi del Nisseno, infatti, fissando il limite di separazione tra dicibile e indicibile, tra comprensibile e incomprensibile, il limite conoscitivo stesso quindi dell'intelletto, e facendo di quel limite non un mero deficit, bensì la soglia e il punto di trapasso verso una forma di conoscenza altra, quella per fede, complementare rispetto a quella intellettuale, risulta fungere da cerniera tra la dottrina trinitaria esposta nel primo libro e quella cristologica esposta nel terzo; non solo, risulta altresì chiave di lettura di entrambe quelle dottrine, legittimazione dell'interpretazione che di esse siamo venuti dando finora. La teoria dei nomi del Nisseno, fissando la distinzione tra conoscenza intellettuale e conoscenza per fede, e il reciproco trapassare dell'una nell'altra, rende ragione del fatto che la conoscenza del mistero di Dio, sia trinitario sia cristologico, lungi dal richiedere soltanto una comprensione intellettuale, comporta piuttosto il fare esperienza dell'amore stesso di Dio: comporta il concorrere di fede e ragione, vita e pensiero, in quell'infinita dinamica dell'amore che è l'essere stesso di Dio.

5.2. I nomi non dicono la sostanza, ma mettono sulle tracce della sostanza

Nel primo libro, Gregorio aveva messo in evidenza che Eunomio, legittimando la dissomiglianza tra la sostanza del Padre e quella del Figlio in base ai nomi di "non generato" e "generato", aveva dimostrato di ignorare la distinzione logica tra sostanza e predicati: la "non-generazione" e la "generazione" infatti sono modi di essere e non l'essere stesso, predicati e non sostanza. Il medesimo errore si ripete ora sul piano gnoseologico: se infatti Eunomio ha creduto di suffragare la propria tesi sostenendo che i nomi in genere dicano la sostanza delle realtà nominate, con ciò egli ha dimostrato altresì di ignorare che il dire è riflesso non dell'essere, ma del conoscere, e che il conoscere e il dire sono per loro natura predicativi. I nomi, spiega il Nisseno, hanno carattere "epinoetico", essi cioè manifestano pensieri ("nôi") intorno a ("epí") qualche cosa: i nomi dicono non la cosa in sé, ma l'"intorno" della cosa, le sue qualità e proprietà, perché l'intelletto stesso conosce le cose non afferrandole nella loro natura, bensì, per così dire, avvicinandosi all'oggetto da conoscere da diverse prospettive, mettendosi sulle sue tracce, girandogli attorno. Ora, il carattere predicativo del dire, l'impossibilità cioè di dire la sostanza delle cose, conclude Gregorio, lungi dal rappresentare un difetto dell'intelletto umano, costituisce al contrario la ricchezza del conoscere stesso, conferendo a esso un carattere infinitamente dinamico, aperto, euristico, per approssimazione.

Del resto, che il dire sia riflesso del conoscere, e non dell'essere, spiega Gregorio, è constatabile anche solo dal fatto che molteplici siano le lingue esistenti: le cose sono sempre le medesime, tuttavia vengono chiamate con nomi diversi presso ciascun popolo, a seconda appunto di come siano conosciute presso ognuno di essi. Che poi i nomi abbiano carattere predicativo, e non sostanziale, è dimostrato infine dalla funzione grammaticale che assolvono: essi infatti richiedono di essere sempre preceduti dalla copula "è", in quanto sono solo predicati nominali di quel soggetto che è la cosa in sé, la sostanza appunto, la quale è conosciuta solamente attraverso gli attributi che le si possano riferire.

5.3. La parola: il bene più bello

Secondo Eunomio, il racconto biblico della creazione del mondo attesterebbe in maniera evidente che Dio stesso avrebbe imposto i nomi alle cose che man mano andava creando; al contrario, proseguiva Eunomio, chi, come Basilio, avesse negato a Dio la facoltà di dare un nome alle cose da lui stesso create, avrebbe bestemmiato, in quanto avrebbe presunto di porre dei limiti alla divina Provvidenza; se infine, come sostenevano i Cappadoci, i nomi manifestassero non la sostanza delle cose, ma il pensiero, l' "epínoia", degli uomini, allora i nomi stessi non avrebbero in verità alcun valore e utilità, dal momento che rifletterebbero solo sogni e fantasie degli uomini e non la realtà delle cose.

In primo luogo, ribatte Gregorio, non è certo un compito degno della Provvidenza divina quello dell'onomaturgo o del grammatico, quello cioè di imporre i nomi alle cose; dono della Provvidenza agli uomini non sono i singoli nomi, bensì la facoltà razionale, l' "epínoia" appunto: essa, lungi dall'essere un qualcosa di vano e inconsistente, è il dono più grande di Dio agli uomini, perché è lo strumento attraverso il quale ci è possibile l'acquisizione di tutti i beni più preziosi, di ogni conoscenza. Il racconto della Genesi insegna proprio questo: non che Dio abbia imposto i nomi alle cose, bensì che Dio abbia creato le cose e quindi abbia donato all'uomo la facoltà razionale, perché grazie a essa egli potesse conoscere tutte le cose e dare a ciascuna un nome.

Dio dunque ha creato le cose e ha donato all'uomo l'intelligenza per conoscerle e dar loro un nome. Se Eunomio attribuisce direttamente a Dio l'imposizione dei nomi, spiega il Nisseno, è perché non distingue né, da una parte, tra essere e conoscere, tra esistenza e pensiero, tra creazione delle cose e loro conoscenza, né, dall'altra parte, tra facoltà razionale e uso di quella facoltà. Lo stesso racconto della torre di Babele, aggiunge Gregorio, non attesta che Dio abbia inventato la molteplicità delle lingue, ma solo che abbia lasciato usare liberamente agli uomini la facoltà della parola che aveva loro donato. Supporre al contrario che Dio abbia imposto i nomi alle cose significa pensare Dio antropomorficamente. Ancora una volta, Eunomio dimostra di non distinguere tra piano immanente e piano economico: se infatti è vero che nella Scrittura Dio parla la lingua degli uomini, ciò non riguarda la sua realtà immanente, ma solo la sua economia d'amore per gli uomini. Come una madre dialoga con il suo piccolino per mezzo di versi e gridolini, così Dio accondiscende al linguaggio per amore degli uomini, perché essi possano a lui corrispondere nei limiti delle loro possibilità.8

5.4. Le epínoiai di Cristo

Nella propria teoria dei nomi, secondo la quale i nomi avrebbero detto la sostanza delle cose nominate, Eunomio contemplava due corollari: il primo era che i nomi del Dio non generato sarebbero stati sinonimi tra di loro, ossia diversi nel suono, ma uguali nel significato, in quanto avrebbero detto tutti la medesima assoluta semplicità del Dio supremo; il secondo era che invece alcuni nomi del Dio generato (per esempio, i nomi di "Dio" o "semplice", e così via) sarebbero stati omonimi, ossia uguali nel suono, ma diversi nel significato, rispetto a quelli del Dio non generato, perché altrimenti, in quanto comuni appunto anche al Dio non generato, sarebbero sembrati attestare la consustanzialità del Padre con il Figlio.

Se già la tesi dell'origine divina dei nomi era debole e ingenua, ancora più deboli erano questi due corollari alla teoria eunomiana dei nomi. Gregorio ha gioco facile nel dimostrare che il corollario dell'omonimia dei nomi del Dio generato è arbitrario, fondato com'è su quello che andrebbe invece dimostrato, e cioè sulla differenza di natura tra il Padre e il Figlio; inoltre, a rigor di logica, se i nomi esatti sono quelli per natura, ma i nomi del Dio generato sono detti per omonimia, allora essi sono errati. Il corollario della sinonimia dei nomi del Dio non generato poi, prosegue Gregorio, è ancora più manifestatamente assurdo: come infatti nomi diversi, quali "non generato", "incorruttibile", "semplice" e così via, potrebbero avere lo stesso significato? Il fatto è che qualora si pretenda che i nomi dicano la sostanza delle cose, essi diventano solo fonte di confusione; se invece si comprende che i nomi dicono soltanto i predicati delle cose, allora essi diventano lo strumento per una conoscenza ordinata e distinta della realtà.

I nomi in genere, dunque, e quelli di Cristo in particolare, sono sempre detti "kat'epínoian", "in base al pensiero umano": ciascun nome manifesta cioè un concetto con il quale l'intelletto umano comprende una peculiarità, un aspetto, un predicato dell'oggetto nominato. Quanto all'origine, perciò, i nomi sono imposti alle cose dagli uomini, appunto perché i nomi sono la manifestazione sensibile del pensiero umano (del "no? s"): i nomi dicono le cose non direttamente, bensì attraverso la mediazione del pensiero. Quanto al significato poi, i nomi dicono non la cosa in sé, ma la cosa così come appare all'intelletto che la pensa, la cosa nei suoi predicati: l'intorno ("epí") e non l'interno della cosa. Il dire non manifesta una comprensione delle cose già da sempre acquisita una volta per tutte, non è il deposito di un sapere chiuso e d'origine divina: è espressione piuttosto del processo conoscitivo umano, per sua natura mai concluso, sempre aperto.

L'intelletto umano pertanto con molti e differenti nomi tenta di comprendere la natura divina: alcuni sono nomi negativi, che cioè dicono quel che non si addica a Dio, altri sono nomi positivi, che dicono quel che a Dio si addica deducendolo per lo più dall'operare di Dio stesso, ossia dall'economia relativa sia alla creazione sia alla redenzione. In entrambi i casi, tuttavia, non è possibile arrivare a comprendere in un concetto, o a racchiudere in un nome, la natura divina: ma ciò appunto, più che la debolezza dell'intelletto umano, testimonia non solo la sublimità e magnificenza di Dio, ma la stessa grandezza dell'intelletto umano.

Nella sua impresa conoscitiva, infatti, l'intelletto umano è guidato dall'istanza di colmare la distanza che lo separa dall'oggetto da conoscere, dall'istanza di comprendere Dio (come pure ogni altro oggetto di conoscenza, del resto) nella sua sostanza: ma proprio questo, la comprensione della sostanza, è aldilà delle possibilità dell'intelletto stesso. Tale inadeguatezza dell'intelletto a assolvere il proprio compito tuttavia, anziché costituire la miseria dell'intelletto, è attestazione della sua grandezza: l'impossibilità di raggiungere la meta infatti, anziché indurre a rinunciare all'impresa, motiva l'intelletto a andare sempre oltre, a riprendere sempre da capo, in un processo conoscitivo di infinita approssimazione. La conoscenza della sostanza divina può essere soltanto negativa, può consistere cioè solo nel riconoscimento della incomprensibilità e indicibilità della sostanza stessa: proprio per questo, però, il processo conoscitivo è sempre aperto, mai conchiuso.

Eunomio pretende di comprendere la sostanza divina in un concetto (quello dell' "assoluta semplicità") e in un nome (quello della "non-generazione"): pretende di comprendere l'incomprensibile, di afferrare l'inafferrabile, di circoscrivere l'illimitato, di de-finire l'infinito. Tale infatti è la sostanza divina: infinita e illimitata, per questo incomprensibile e inafferrabile. Agli occhi del Nisseno, gli eunomiani appaiono pertanto come i nuovi Samaritani: a essi infatti si addice quel che Gesù disse alla Samaritana al pozzo, -- «Voi adorate quel che non conoscete» (Gv 4, 22), -- in quanto credono di adorare Dio comprendendone la sostanza in un nome, e proprio per questo dimostrano di non conoscere Dio, che per definizione è incomprensibile e indicibile. L'intelletto al contrario, spiega Gregorio, deve riconoscere infine di non poter comprendere l'essere, la sostanza di Dio. Ciò tuttavia non dipende da una deficienza della facoltà conoscitiva umana; dipende piuttosto dalla verità stessa dell'essere: l'essere infatti non è un quid da afferrare, ma una semplice presenza da contemplare, non un oggetto da comprendere, ma un soggetto da toccare e dal quale lasciarsi toccare. Che la sostanza sia un "che cosa" da comprendere è la trappola di cui è prigioniero l'intelletto: che la sostanza sia un "che", una semplice presenza della quale restare meravigliati, è il salto prospettico dall'intelletto alla fede, dalla filosofia alla mistica.

5.5. Assoluta indicibilità della sostanza: ovvero il limite trascendentale dell'intelletto e l'essere stesso come limite

La teoria dei nomi, è stato detto all'inizio, pur essendo un'appendice alla questione centrale della dissomiglianza tra la natura del Padre e quella del Figlio, costituisce in verità la chiave di lettura dell'intera controversia eunomiana. A sua volta, una breve digressione, compresa tra i paragrafi 66-125 del secondo libro, è la chiave di lettura della stessa teoria dei nomi.

Si tratta dell'affermazione esplicita dell'incomprensibilità e indicibilità della sostanza divina. In primo luogo, spiega Gregorio, essa è conseguente alla differenza ontologica che separa la natura increata da quella creata: la conoscenza intellettuale infatti attiene solamente all'essere creato, perché essa avviene secondo coordinate spazio-temporali (le coordinate proprie della natura creata appunto), mentre l'essere divino è aldilà dello spazio e del tempo. Ma ancora di più, l'incomprensibilità della sostanza divina discende dalla differenza tra essere e comprendere: l'essere infatti, sia quello creato sia quello increato, non è un "che cosa" che si possa afferrare, "comprendere", ma un "che", una semplice presenza che si lascia solamente "contemplare".

Indicibile e incomprensibile, dunque, è non soltanto la sostanza divina, ma la sostanza in genere: essa è quell'indicibile che è il presupposto di ogni dire, che non può essere detto in sé, ma solamente "guardato-attraverso" il dire stesso; è quel fondamento, esso stesso infondato e infondabile, quell'unità e identità che appare solo nella molteplicità e alterità: per questo la sostanza, la stessa indicibilità della sostanza, non può esser detta, ma soltanto mostrata tra le righe, a margine, in una digressione.

L'incomprensibilità della sostanza, dunque, non è dovuta solamente a un limite della facoltà conoscitiva dell'intelletto umano: è dovuta piuttosto alla nozione stessa di "sostanza". Da un punto di vista gnoseologico, l'incomprensibilità della sostanza mostra il limite trascendentale del conoscere stesso: il conoscere non può esaurire quell'essere che presuppone, così come il dire non può colmare l'intervallo che separa l'intelletto dall'oggetto nominato e che costituisce appunto la condizione di possibilità del dire stesso. Da questo punto di vista, inafferrabile è la sostanza come inafferrabile è la propria ombra, invisibile è la sostanza come invisibile all'occhio che osserva è l'occhio stesso. Ma l'incomprensibilità della sostanza mostra anche il limite stesso dell'essere, mostra l'essere come limite, come soglia, continuo trapassare reciproco di sostanza e predicati, identità e differenza, unità e molteplicità: essenza dell'essere, cuore dell'essere è quell'identità che non può "ri-velarsi" se non come differenza. La sostanza dunque è incomprensibile per sua stessa natura: è inafferrabile come inafferrabile è la luce, che si mostra non in sé stessa, ma solamente nei colori delle cose che illumina.

5.6. Un'interpretazione allegorica della storia di Abramo quale teoria della conoscenza di Dio

Di contro a Eunomio, Gregorio dimostra che la sostanza di Dio è incomprensibile: di Dio dunque è possibile soltanto una conoscenza negativa? In effetti, confutare la teologia eunomiana comporta la delineazione di una teoria della conoscenza di Dio. Gregorio assolve infine anche questo compito attraverso una breve interpretazione allegorica della storia di Abramo: Abramo infatti è il padre della fede in quanto modello dell' "itinerarium mentis in Deum", dell'itinerario della conoscenza di Dio.

Ebbene, la storia di Abramo insegna che per conoscere Dio non basta l'intelletto, ma è altresì necessario il concorso della fede: il comprendere infatti costituisce solo un momento del processo conoscitivo, e nemmeno quello originario. L'essere, si diceva, non è un quid da afferrare: la fede è appunto quella forma di conoscenza che anziché possedere l'oggetto, si lascia piuttosto possedere da esso; la fede infatti riconosce nell'essere non un oggetto da comprendere, ma un soggetto con il quale entrare in relazione, non un "che cosa" da afferrare, ma una semplice presenza, un Vivente dal quale lasciarsi inabitare e nel quale dimorare. Se l'intelletto conosce per "comprensione", la fede conosce per "concezione": la fede fa dell'incomprensibilità della sostanza il suo concepimento come alterità vivente. Ma se l'intelletto non esaurisce la conoscenza, la fede stessa è apertura a una conoscenza sempre ulteriore; se l'intelletto rinvia alla fede, la fede a sua volta rinvia continuamente all'intelletto: perché essa è quel silenzio adorante dal quale nasce ogni parola da dire, è quel concepimento che genera sempre un nuovo essere da comprendere. La conoscenza diventa così la dinamica stessa del vivere e del pensare, l'infinito processo di concezione e comprensione, il circolo ermeneutico in cui l'oggetto da comprendere è di volta in volta riconosciuto come alterità che mi precede e mi comprende, e che sempre nuovamente chiede di essere concepita e generata.

Nel trapasso dall'intelletto alla fede, dunque, l'essere da oggetto da comprendere diviene soggetto da concepire. Qualora tale trapasso non avvenga, qualora l'intelletto pretenda di comprendere esaurientemente l'essere, l'essere stesso verrebbe meno: l'essere infatti, stretto nella presa della comprensione, sarebbe, per così dire, "fagocitato" dall'intelletto conoscente e diverrebbe, da soggetto vivente, cosa morta, idolo. L'idolatria e il nichilismo sono l'esito necessario di una conoscenza di Dio soltanto "comprensiva", e non anche "per fede": Dio diventa non-essere oppure idolo, proiezione dei pensieri dell'intelletto, oggetto di manipolazione. Per questo, come recita un famosissimo passo della Vita di Mosè (165), ogni concetto con il quale l'intelletto pretenda di comprendere la sostanza divina, anziché far conoscere Dio, fa piuttosto di Dio stesso un idolo.

La conoscenza di Dio non è la comprensione di un oggetto, ma la relazione con un'alterità vivente: per questo la prassi altresì attiene alla conoscenza di Dio non meno della dottrina. Dal momento che l'identità di Dio si "ri-vela" come irriducibile alterità, l'intelletto rinvia non solo alla fede, ma anche alle opere, il pensiero alla vita; come la comprensione si fa infine contatto, così la parola si fa allocuzione e gesto, azione liturgica. Non a caso, all'interpretazione allegorica della storia di Abramo fa da contrappunto, alla fine del nono tomo del terzo libro, l'affermazione del primato della prassi sulla dottrina: nel Contro Eunomio, all'esito mistico della filosofia, corrisponde l'esito pragmatico (liturgico) della dottrina (dei "dógmata").

La conoscenza è la dinamica stessa della relazione d'amore, trapassare reciproco non solo di intelligenza e fede, filosofia e mistica, ma anche di teoria e prassi, contemplazione e azione: la conoscenza è la dialettica di uno sguardo rivoltomi che stimola alla sequela e di una sequela che cerca il volto dell'amato; non solo un essere toccati che invita alla comprensione e una comprensione che tende a toccare, un silenzio che genera parola e una parola che si fa adorazione silenziosa, ma anche un abbraccio che sprona a camminare e un camminare che invoca l'abbraccio, una contemplazione dalla quale nasce l'azione e un'azione che cerca il riposo della contemplazione.

5.7. La teoria della conoscenza di Dio come teoria dell'esperienza dell'amore di Dio

Per Gregorio, il linguaggio, come la natura creata, è caratterizzato dal "diástema": il dire vive infatti dell'intervallo che separa sia il soggetto conoscente dagli oggetti nominati, sia le parole stesse tra di loro (il linguaggio, per dirla con de Saussure, è «un sistema di differenze»). Tuttavia, proprio come la natura creata, anche il linguaggio aspira a superare quell'intervallo che pure lo fa essere: il dire ambisce a afferrare gli oggetti nella loro identità, sebbene appunto ambito del dire in verità siano soltanto gli oggetti nelle loro differenze, in sé stessi e tra di loro. L'impresa del linguaggio assomiglia alla fatica di Sisifo: un continuo approssimarsi alla vetta, alla sostanza delle cose, destinato a scivolar giù dopo ogni passo, a dover riprendere da capo dopo ogni tentativo. Ma l'irraggiungibilità della vetta, il limite stesso del dire, rappresenta in verità la ricchezza del linguaggio: come infatti il limite creaturale era risultato condizione di possibilità dell' "epéktasis", di un infinito progresso delle creature nel bene, così il limite del linguaggio, ossia l'indicibilità della sostanza, è quella soglia che fa del processo linguistico e conoscitivo un processo infinito, euristico, di inesauribile approssimazione all'essere.

La teoria antropologica e gnoseologica del Nisseno, la dottrina cioè dell'"epéktasis" e quella dell'"epínoia", sono essenzialmente un pensiero del limite, dunque un pensiero anti-ideologico: il logos umano non può fissare l'essere in un'idea, in un'immagine, perché il limite, l'intervallo, la differenza che lo separa dall'essere è incolmabile, inesauribile. Al contrario, da questo punto di vista, la pretesa eunomiana di dire la sostanza di Dio, di pensare Dio nella sua pura identità e semplicità, è istanza ideologica: è l'illusione metafisica di comprendere la propria origine, di afferrare l'essere nella sua identità. Ma l'identità dell'essere si lascia dire e pensare solo in quanto differente! Si comprende così in maniera definitiva l'equivocità della teologia eunomiana: essa afferma la differenza in Dio solo per preservare l'assoluta identità del Dio supremo, ma appunto preservando l'assoluta identità del Dio supremo finisce con il farne un idolo, con il perdere cioè paradossalmente l'identità stessa di Dio; l'identità di Dio infatti, una volta che si presuma di averla compresa, con ciò stesso in verità è ridotta all'identità dell'intelletto che la pensa. Si tratta del medesimo inganno di cui è vittima Apollo: anch'egli, volendo afferrare Dafne, la perde. Il pensiero ideologico è un buco nero che tutto fagocita, distruttivo e autodistruttivo: riduce l'essere a non essere, a cosa morta, a oggetto di manipolazione, e così finisce con il toglier vita, essere e ragion d'essere anche a sé stesso. Ma l'identità dell'essere è inafferrabile come il raggio di luce: ogni qual volta si creda di averla afferrata, dilegua. L'identità di Dio, e degli esseri in genere, è irriducibile alterità, dicibile solo in quanto differente dall'intelletto che la pensa: il pensare e il dire vivono appunto di questa dialettica di identità e differenza, circolo virtuoso di Odissea e Iliade, di tensione all'identità e esodo nella differenza.

L'identità dell'essere, la sostanza di Dio, è inafferrabile perché non è un "che cosa", ma un "che", non un quid, ma una semplice presenza: è quell'invisibile che rende possibile ogni visione, è la luce che rende ogni cosa visibile, ma è in sé stessa invisibile, è quell'indicibile che è il presupposto di ogni dire e che non è coglibile in sé, ma solamente nel dire stesso, attraverso il dire. L'istanza metafisica di comprendere la sostanza si trasmuta così in meraviglia di fronte alla semplice presenza dell'essere: è il trapassare dell'essere da oggetto a soggetto, da sostanza a volto, da essenza a presenza; è l'esito mistico della filosofia di Gregorio di Nissa, il trapasso dalla comprensione alla concezione, dalla costruzione logica al tocco interiore, dall'istanza di emancipazione al sentimento di appartenenza, dalla fatica del concetto al riposo della contemplazione; è altresì l'esito pragmatico della dottrina del Nisseno, il trapasso dalla teoria alla prassi, dai "dógmata" all'azione liturgica, dalla dottrina all'invocazione e alla preghiera.

La teoria della conoscenza di Dio diventa così teoria dell'esperienza di Dio: conoscere Dio è fare esperienza di Dio. Ma che cos'è esperienza? "Péiro", in greco, è il "passare da parte a parte"; analogamente "experiri", in latino, secondo un'etimologia poco scientifica ma suggestiva, è l'andare ("ire") a partire da un punto di partenza ("ex") attraverso un percorso ("per"): "esperienza" è la dinamica stessa del conoscere e dell'essere, il "continuo trapassare reciproco" di identità e differenza, silenzio e parola, mistica e filosofia, ma anche di vita e pensiero, gesto e interpretazione del gesto. Il trapassare è senza soluzione, la tensione è irrisolta, il cammino è "aporetico" (etimologicamente: "senza possibilità di passare oltre" . . . quel trapassare!): l'"experiri" ha un "ex", ha un "per", ma non ha un "ad", un punto d'arrivo. L'esito mistico e pragmatico della teologia del Nisseno non è un "exitus", un superamento definitivo della filosofia, della dottrina: ogni contatto mistico con Dio invita infatti a una nuova comprensione filosofica di esso, ogni rito esige sempre nuovamente un'interpretazione che lo inveri e gli dia senso. L'esperienza di Dio è senza termine, perché Dio stesso è mistero: non un segreto, il quale una volta svelato è finito, ma un mistero, quell' "absconditus" che si svela solo "ri-velandosi".

Conoscere Dio è un cammino mistagogico: è essere introdotti, iniziati al mistero di Dio, alla sua stessa vita, in un'infinita dinamica di svelamento e velamento, di avvicinamento e distanziamento, di toccare e dileguare, come anche di im-pressione ed es-pressione, di interiorizzazione ed esteriorizzazione. La teoria della conoscenza di Dio è una teoria dell'esperienza dell'amore di Dio, un'iniziazione al mistero del Dio cristiano, del Dio che è amore. Ma che cos'è amore?

Amore è contatto, unione; ma non solo: amore è quell'unione che genera vita e parola. Non a caso, Dio, il Dio che è amore, è generazione eterna ed eterno Logos (proprio questo è il novum della rivelazione cristiana che l'eresia ariana non seppe accogliere fino in fondo), e la maledizione cui è condannata l'umanità separata da Dio, l'umanità non ancora inserita nella vita, nell'amore di Dio, è la sterilità e il mutismo (la maledizione di Elisabetta e Zaccaria). L'unificazione con l'uno, l'unione mistica con Dio, in quanto unione d'amore, non è solo superamento del logos, della parola e della comprensione, ma è "concezione": concepimento di una nuova vita, di un nuovo logos. La notte mistica non è solo il superamento della luce del giorno, che tutto separa e distingue, ma è anche il principio di un nuovo giorno: trapassare reciproco di silenzio e parola, sentimento di appartenenza e istanza di emancipazione, in una spirale che è "ri-petizione", desiderio (una spirale è la dinamica del desiderio: compenetrazione del cerchio e della retta, ripetizione sempre nuova, novità nella ripetizione!) e ricerca ("petere" in latino è "ricercare") del volto amato, rispetto al quale paradossalmente quanto più mi unisco, tanto più mi emancipo. È questa l'esperienza del rapporto d'amore dell'uomo con Dio, ma è anche l'esperienza del rapporto d'amore in Dio.

Come Dio può essere uno, se è trino? È l'interrogativo capitale della controversia eunomiana, e di quella ariana in genere. La dottrina gregoriana delle tre ipostasi, -- come si è cercato di dimostrare al termine della Prima Parte, -- così come ogni dogma del resto, non costituisce una risposta sufficiente a quell'interrogativo; essa piuttosto fissa soltanto i confini, i criteri di comprensibilità del mistero del Dio uno e trino: una volta chiarito che Padre e Figlio si distinguano ipostaticamente, ma non sostanzialmente, e che tra di essi non vi sia una differenza nel senso del più e del meno, resta ancora da comprendere infatti cosa sia quell'unità di sostanza. In una difficoltà analoga, -- come è stato rilevato al termine della Terza Parte, -- resta impigliata anche la questione cristologica: se la natura divina incarnandosi innalza la natura umana, ma essa stessa non si abbassa, in che senso è reale l'unità di divinità e umanità in Cristo? Le dottrine della differenza ontologica tra Dio e le creature, del principio della predominanza e della communicatio idiomatum fissano le coordinate entro le quali comprendere il mistero cristologico, ma quel mistero certo non lo comprendono esaurientemente. Ma appunto non si tratta tanto di comprendere, quanto piuttosto di entrare nel mistero, in quello di Cristo come in quello della Trinità: in entrambi i casi, nel mistero dell'amore.

L'unione del Logos eterno alla natura umana, da un punto di vista logico, dal momento che non comporta alcuna diminuzione della divinità del Logos, sembrerebbe essere un'unione estrinseca, senza reale coinvolgimento, quasi un deus ex machina per legittimare la redenzione degli uomini, per chiudere con un "lieto fine" la tragedia umana. Il fatto è che di quell'unione è possibile rendere ragione in maniera adeguata non da un punto di vista logico, ma solo in quanto essa divenga oggetto d'esperienza mistica: in quanto il Logos si faccia carne! La mirabile unione di Dio e uomo in Cristo si rivela allora come quel tocco interiore con il quale la natura divina tanto più emancipa la natura umana, quanto più la unisce a sé, tanto più la differenzia da sé, quanto più la assimila a sé: un'unione che perciò tanto più si rende comprensibile, quanto più si fa concezione, concepimento, e sequela, un'unione della quale tanto più è possibile parlare, quanto più si fa adorazione silenziosa e gesto liturgico. Qual è dunque l'unità di natura umana e divina in Cristo? È l'unità di un volto che è tanto più il suo, quanto più diventa il nostro! E l'unità della sostanza divina?

Nemmeno di essa è possibile rendere ragione in maniera adeguata da un punto di vista logico: essendo tre le ipostasi, infatti, necessariamente la sostanza divina risulta unica solo in senso astratto, generico; unica in senso concreto è piuttosto la sostanza di ciascuna ipostasi (termine greco del quale, non a caso, il calco latino è "substantia"). Ma come appunto i tre possono concorrere all'unità, a un'unità che sia concreta? Ancora una volta, l'unità in Dio, come già l'unità in Cristo, si lascia pensare come unità concreta soltanto da un punto di vista mistico, ossia come unità d'amore delle tre ipostasi (non è l'amore, del resto, la massima concretezza, l'unica sostanza e sussistenza di ciascun essere?): gioco di sguardi, di volti che tanto più assumono sussistenza ipostatica propria, quanto più sono uno (il gioco di sguardi nell'icona della Trinità di Rublëv, nella quale non a caso i tre hanno il medesimo volto!). «In principio era il Logos» (Gv 1, 1): il principio (la nostra stessa origine, Dio) non è il silenzio del nulla, bensì il silenzio dell'intimità, di un'intimità d'amore che da sempre genera il Logos; e il Logos è Parola che tanto più afferma la propria differenza ipostatica, quanto più si fa invocazione d'unione, preghiera: dialettica di silenzio e parola, concepimento e generazione.

La verità e l'amore del Logos divino sono la verità e l'amore del nostro stesso logos, del nostro pensare e parlare di Dio. Tanto più possiamo parlare di Dio, quanto più lo adoriamo in silenzio, tanto più comprendiamo i nomi del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, quanto più confessiamo i loro nomi e ci segniamo con essi. «Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»: una conclusione che è già nuova "esperienza" di Dio, trapassare reciproco di comprensione e concezione, fatica del concetto e riposo della contemplazione, parola e tocco interiore, dottrina e azione liturgica, pensiero e preghiera; una conclusione che è già "ri-petizione", rinnovato desiderio e ricerca del volto dell'Amato.

Copyright © 2011 Massimiliano Zupi

Massimiliano Zupi. «Un'unica sostanza e tre ipostasi: ovvero la rivelazione dell'essere di Dio come originario inter-esse». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [**118 B].

Note

  1. Il corsivo lo utilizzeremo per la scrittura dei titoli di libri, o di parole in lingue diverse dall'italiano, o per sottolineare giochi di parole, come ad esempio appunto qui, tra essere e inter-esse. Testo

  2. Alle virgolette alte ("") ricorreremo per racchiudere definizioni o termini tecnici. Le citazioni di testi invece saranno messe tra caporali («»). Testo

  3. Del resto, in altre due precedenti e più impegnative pubblicazioni ci siamo già cimentati nella traduzione e commento di ampi brani del Contro Eunomio (Gregorio di Nissa, Le belle ascese. Antologia del "Contro Eunomio", M. Zupi ed., Padova 2001) e nella ragionata presentazione e discussione della relativa bibliografia secondaria (M. Zupi, Incanto e incantesimo del dire. Logica e/o mistica nella filosofia del linguaggio di Platone (Cratilo e Sofista) e Gregorio di Nissa (Contro Eunomio), Roma 2007). Testo

  4. Nella trascrizione del greco in alfabeto latino, per esigenze tipografiche, non abbiamo distinto tra epsilon e eta, né tra omicron e omega. Testo

  5. È evidente che il maggiore imbarazzo Gregorio lo trova nel definire la caratteristica propria dello Spirito Santo. Era un problema del resto comune a tutti e tre i Cappadoci: se il Nazianzeno ricorre alla distinzione tra generazione ("ghénnesis") e processione ("ekpóreysis"), termine quest'ultimo che, come è noto, diventerà ufficiale nella Chiesa per dire la "generazione" dello Spirito Santo dal Padre, il Nisseno, come già Basilio, preferisce sottolineare invece che la generazione del Figlio è direttamente dal Padre, mentre quella dello Spirito è dal Padre attraverso il Figlio, dottrina questa che diventerà propria delle chiese d'Oriente. Si tenga comunque presente che nel Contro Eunomio, e nella controversia ariana e eunomiana in genere, la questione pneumatologica è quasi del tutto assente. Testo

  6. Gregorio, in particolare nel secondo tomo del terzo libro del Contro Eunomio, offre una bellissima lettura del prologo di Giovanni, che utilizza tuttavia non tanto per dimostrare il carattere volontario della generazione del Logos, quanto piuttosto la natura consustanziale del Figlio rispetto al Padre (l' "en" dell'«in principio» dell'incipit starebbe appunto a dimostrare la coappartenenza del Logos rispetto al Dio non generato). Ciò nondimeno, tale sottolineatura si spiega facilmente in funzione antiariana: di contro a Eunomio non occorreva certo ribadire la volontarietà della generazione dell'Unigenito, bensì la sua consustanzialità rispetto al Padre. D'altro canto, che il titolo di "Lógos" testimoni a favore della volontarietà della generazione divina è confermato dal fatto che la formula gregoriana, «come la parola è generata dall'intelletto» (Contro Eunomio III,6,29), ricorda l'origeniano «sicut e mente voluntas» (De principiis I,2,6; IV,4,1). Testo

  7. "Rivelare" etimologicamente non significa "velare nuovamente" (il prefisso "re-" in latino infatti in questo termine ha il valore privativo di "togliere il velo, svelare" e non quello iterativo di "velare nuovamente"); tuttavia in italiano il vocabolo si presta a questo suggestivo e efficace gioco di parole, sebbene scientificamente infondato. Testo

  8. Il paragone della parola che Dio rivolge agli uomini con il «farfugliare qualcosa» da parte di una madre «per rispondere ai versi privi di senso del suo piccolino» (Contro Eunomio II,419) può sembrare poco felice. In effetti, bisogna riconoscere che da un punto di vista strettamente linguistico la teoria dei nomi gregoriana è deludente: per Gregorio, infatti, i nomi sono mere etichette delle cose (cfr. ad esempio Contro Eunomio II,150). Non solo, ma il Nisseno non esita nemmeno a affermare recisamente che il linguaggio non attiene affatto alla natura divina (Contro Eunomio II,148) e che il nome di "lógos" non è adatto a dire l'ipostasi del Figlio ad intra (Contro Eunomio III,9,37-41). Ciò certamente non toglie che c'è comunque pure un Gregorio per il quale il linguaggio collabora sinergicamente con il pensiero e la cui gnoseologia in generale non ha nulla da invidiare alla contemporanea filosofia del linguaggio. Testo

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