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Perché un filosofo dovrebbe interessarsi di teologia?

di Silvano Zucal (20-21 marzo 2009)

1. Premessa

Mi sia permessa una annotazione di carattere biografico. Sono in Università e nel mondo della ricerca da quasi trent'anni. Non ho mai studiato nella mia vita teologia ma se uno scorre le mie pubblicazioni potrebbe nutrire il sospetto di trovarsi dinanzi non a un filosofo ma a un teologo camuffato. Sia per gli autori su cui ho condotto le mie più importanti ricerche, sia e ancor più per le tematiche affrontate. Provo ad esemplificare.

Ho iniziato le mie ricerche con Karl Rahner e la sua teologia della morte (teologo che ho avuto anche la fortuna di incontrare più volte). Un tentativo -- il mio -- di verificare una «storia degli effetti» della tanatologia di Heidegger di cui Rahner era stato allievo partecipando ai suoi seminari negli anni 1934-1936. Per Rahner potrei però trovare una qualche forma di comprensione perché -- come si sa -- Rahner era comunque nato filosofo con la sua dissertazione per il dottorato in filosofia Geist in Welt (pubblicato poi a Innsbruck nel 1939), obbligato poi a diventare forzatamente teologo, per la bocciatura di quella dissertazione da parte del suo relatore Martin Honecker, lavoro giudicato troppo ardito nel suo approccio ermeneutico a Tommaso d'Aquino.

Ho proseguito poi con Hans Urs von Balthasar proponendo un'analisi della sua interpretazione di Hegel soprattutto con riferimento all'importante opera giovanile del pensatore svizzero Apokalypse der deutschen Seele. Ho tentato di rileggere il rapporto tra «teologia filosofica» hegeliana, in tutte le sue molteplici implicazioni, e teologia cristiana in riferimento appunto alla particolare chiave interpretativa di Hegel che si può cogliere nell'ottica critica di von Balthasar. Anche in questo caso potrei ritenermi parzialmente giustificato perché Balthasar nasce germanista e, a modo suo, filosofo per diventare poi solo successivamente un teologo in senso proprio.

Ha poi assunto un rilievo particolare la mia ricerca più che decennale su Romano Guardini, ricerca che tuttora prosegue. Mi sono occupato della sua concezione di Weltanschauung cristiana, dell'escatologia, della sua filosofia del silenzio e, soprattutto, ho preso in esame la sua analisi della metamorfosi del «religioso» e la correlata fenomenologia della fede che si può rintracciare negli scritti di ermeneutica letteraria, in particolare in quelli dedicati a Hölderlin, Dostoevskij e Rilke e nella sua interpretazione di Nietzsche. Ne ho curato (con la collaborazione di Andrea Aguti) il secondo volume dell'Opera Omnia, relativo alla filosofia della religione, uscito nel 2008. Anche Guardini è figura di confine per cui potrei sentirmi in certo qual modo tranquillo: la sua cattedra era infatti di filosofia della religione oltre che di Weltanschauung cristiana-cattolica.

Mi sono dedicato poi al filosofo austriaco Ferdinand Ebner, che però in realtà si autodefiniva «pneumatologo», curando la prima edizione italiana della sua opera fondamentale, La parola e le realtà spirituali. Frammenti pneumatologici e pubblicando una monografia introduttiva al suo pensiero oltre a coordinare scientificamente su di lui un convegno internazionale. Anche in tal caso, data l'autodefinizione ebneriana, sono evidentemente a rischio di un scivolamento in direzione teologica.

Infine mi sono occupato anche di Dietrich Bonhoeffer cercando di rileggerlo in prospettiva polare-dialettica a vari livelli: nella polarità tra «mondità» e «teologicità», tra sequela radicale e «esistenza animale», fra la «categoria» della benedizione» e quella della croce, tra radicalismo etico e «compromesso», tra ultimo e penultimo. In tal caso Bonhoeffer è indubbiamente teologo ma la sua prospettiva teologica offre staordinarie aperture alla riflessione filosofica.

Ultimo tra gli autori più importanti del mio percorso teorico è il filosofo Carl Dallago, protagonista del «Brenner-Kreis»di Innsbruck. Filosofo panenteista, radicalmente polemico nei confronti di ogni teologia. In tal caso, finalmente, le mie preoccupazioni di un'invasione di campo potrebbero essere tacitate.

Per quanto riguarda invece i temi da me affrontati sono egualmente sospetti di una implicita derìva teologica. Ho affrontato, dedicandovi una monografia, la problematica angelologica, proponendo una lettura complessiva di una tale tematica e, in specie, una sua contestualizzazione nel panorama filosofico del Novecento. Mi sono poi dedicato a un tema di confine filosofico-religioso quale è quello della dialettica «silenzio-parola», coordinando una ricerca unitamente al prof. Massimo Baldini, recentemente scomparso, e pubblicando su tale argomento alcuni saggi e una monografia. Una tale prospettiva di ricerca si è successivamente orientata alla rilettura della tematica della «parola» così come è proposta nelle correnti del «personalismo dialogico» e in modo particolare nella filosofia dialogica cristiana di Ferdinand Ebner. Ancora sul terreno di una lettura filosofica della problematica religiosa, ha coordinato una ricerca sulla cristologia filosofica contemporanea che ha coinvolto una sessantina di colleghi italiani e stranieri: con un progetto organico sono stati così realizzati due tomi di cristologia filosofica dedicati rispettivamente all'Ottocento (Da Kant a Nietzsche) e al Novecento (Da Heidegger a Lévinas).

2. Invasione di campo o necessaria valorizzazione/interazione?

Questa lunga premessa, anche un poco imbarazzante per gli eccessivi riferimenti personali, credo sia però funzionale ad illuminare il problema che intendo affrontare. Ovvero: il filosofo è legittimato a occuparsi di teologia? Se lo fa vien meno allo statuto della sua disciplina? S'annette un àmbito disciplinare che non gli appartiene? Realizza un'impropria invasione di campo? Io credo di poter anzitutto condividere un'affermazione di questo tipo: «In un clima propizio al generale disconoscimento di privilegi e di primati epistemici, in una situazione che non consente facili giustificazioni per reciproche preclusioni di principio, ci si può chiedere quasi programmaticamente: può configurarsi un obbligo critico della filosofia che la indirizzi non solo, come si ritiene per lo più, in direzioni metalinguistiche di tipo estetico o analitico o epistemologico, ma anche in una nuova dirittura di problematico incontro con le questioni teologiche?».1 Wolfhart Pannenberg, in un testo classico sull'argomento, argomenta come filosofia e teologia siano state concepite ora come opposti inconciliabili, ora identificate l'una con l'altra e -- a seconda dell'epoca -- sovra o sub-ordinate l'una all'altra.2 In modo assolutamente schematico si può dire che dall'antichità il loro rapporto si è articolato dapprima nel senso di una differenziazione interna in filosofia e teologia per poi arrivare a due modi di conoscenza progressivamente distinti (e distanti) che si sono autocompresi sempre più come scienza. Se per la Patristica e per il Medioevo i concetti metafisico-filosofici erano il presupposto indiscusso per la riflessione teologica, con l'epoca moderna e con la precisazione del concetto di rivelazione si apre la grande questione del rapporto che si può istituire fra ragione filosofica e rivelazione. Con la seconda modernità e con l'Illuminismo la questione si va a declinare in un confronto polemico tra filosofia e teologia, fra ragione e fede. Sarà il concetto romantico-idealistico dell'autorivelazione di Dio nella storia (pensiamo alla schellinghiana «continua, progressiva rivelazione dell'Assoluto»), fondamentale per la determinazione del rapporto tra ragione e rivelazione, a superare la polemica moderno-illuministica all'interno della critica della rivelazione. Ma anche ad annullare la positiva e feconda tensione tra i due àmbiti, quello filosofico e quello teologico.

Come ha giustamente asserito Massimo Cacciari questo rapporto o tensione critica continua tutt'oggi, nonostante alcuni teologi e filosofi contemporanei ritengano di poter fare a meno di questo confronto, che invece arricchisce e specifica dialetticamente i due diversi campi di indagine, pur nella diversità delle rispettive metodologie (e -- ovviamente -- dei diversi punti di partenza). La svolta decisiva in questo dialettico rapporto (diversamente da epoche precedenti) è però giustamente còlta da Cacciari quando afferma che oggi non è più la consonanza ma la differenza che rende tra loro inseparabili filosofia e teologia.3 Meglio -- potremmo dire noi -- se in epoca medievale o pre-moderna era una differenza tra i due àmbiti nella consonanza, oggi è piuttosto una differenza nella possibile (anche se non necessariamente scontata) dissonanza. Ma differenza e dissonanza non rendono meno rilevante -- forse anche rendono cruciale -- l'apertura del filosofo al «teo-logico». Questa tesi deve superare il pregiudizio heideggeriano (una vera e propria «scuola del sospetto») che tanto ha influenzato i rapporti tra le due scienze nel Novecento. Heidegger, non senza un tono sprezzante che intendeva rompere drasticamente con i suoi precedenti teologici giovanili, ebbe infatti ad affermare: «Concezioni gnoseologiche, relative alla teoria della conoscenza storica, mi hanno reso problematico e inacettabile il sistema del cattolicesimo»4 e, con esso, la sua teologia. Ciò porterà poi all'affermazione di un necessario divorzio espresso nella famosa conferenza di Tubinga del 9 marzo 1927, Fenomenologia e teologia, ove intendeva asserire l'assoluta incompatibilità tra la teologia che egli intende e qualifica come «scienza positiva» e la filosofia che è invece ricerca e asserzione della problematicità radicale del Dasein: «La nostra tesi è che la teologia è una scienza positiva, e quindi, come tale, si distingue dalla filosofia in modo assoluto. Dobbiamo pertanto chiederci -- afferma Heidegger -- come, ferma restando questa diversità assoluta con la filosofia, la teologia stia in rapporto con essa. Dalla tesi ora enunciata si ricava immediatamente che la teologia, in quanto scienza positiva, è fondamentalmente più vicina alla chimica e alla matematica che alla filosofia. Formuliamo così, nel modo più radicale, il rapporto tra teologia e filosofia, in opposizione alla concezione ordinaria per la quale entrambe le scienze tematizzano in certo modo lo stesso àmbito -- e cioè la vita umana e il mondo -- soltanto che ciascuna segue il filo conduttore di una determinata modalità del cogliere, che per l'una è il principio della fede e per l'altra il principio della ragione. In base alla nostra tesi, ribadiamo che la teologia è una «scienza positiva» e, come tale, si distingue dalla filosofia in modo assoluto. Il compito che ne risulta per la nostra discussione è il seguente: bisogna connotare la teologia come «scienza positiva» e, in base a questa caratterizzazione, chiarire il suo possibile rapporto con la filosofia, da essa assolutamente diversa».5 La teologia cristiana si configura dunque per Heidegger come una «scienza positiva» intendendo per «scienza positiva lo svelamento fondante di un ente dato e in qualche modo già svelato. [... Se] per la teologia cristiana il dato è il cristianesimo come evento storico attestato dalla storia delle religioni e dello spirito [...] il cristianesimo è il positum dato, dunque la teologia è la scienza del cristianesimo».6 In tale prospettiva il filosofo sarebbe completamente fuori gioco perché sarebbe, impropriamente, uno storico delle religioni. Comunque l'area della teologia andrebbe circoscritta, per Heidegger, all'àmbito della fede, dei credenti, essendo «scienza di ciò che si svela nella fede» ovvero di ciò che si crede: «La fede in quanto rapporto d'esistenza con il crocifisso, è una modalità dell'esserci storico, dell'esistenza umana, e precisamente dell'essere storico in una storia che si rivela solo nella fede e per la fede [...]. In quanto autointerpretazione concettuale dell'esistenza che ha fede, cioè in quanto conoscenza storica, la teologia mira unicamente alla trasparenza dell'evento cristiano rivelato nella fede e da quest'ultimo delimitato».7

Che senso avrebbe allora un'incursione filosofica nel teo-logico? Soltanto -- per Heidegger -- una forma di camuffata teologia, di apologetica. Se la «filosofia cristiana» è per lui un «ferro ligneo» 8 (fondandosi su presupposti attinti a una fede religiosa), l'apertura del filosofo (credente o meno) a ciò che è propriamente teologico è un «ferro ligneo» raddoppiato, un'ambiguità radicale. Il sospetto è che Heidegger, in virtù dei suoi trascorsi teologici giovanili, abbia una concezione della teologia come luogo (assolutamente) pacificato, di mera mediazione teorica di un fatto. Una teologia neo-scolastica (in senso deteriore) che non abbia più in sé la bellezza di cui parlava Karl Barth: «Si può ben affermare che la teologia è una scienza di eccezionale bellezza. Si può anche dire senza timore che, tra tutte le scienze, essa è la più bella. È sempre un segno di barbarie annoiarsi della scienza. Ma è doppia barbarie, quando è la teologia che annoia o che può annoiare qualcuno. Non si può che essere felici e contenti di essere teologi: diversamente non si è teologi. Facce acide, pensieri tristi e conversazioni annoiate sono del tutto intollerabili in questo ramo del sapere. Che Dio ci preservi dal quello che la teologia cattolica annovera come uno dei sette vizi di un monaco: il taedium, ossia quella ripugnanza interiore circa le grandi verità spirituali di cui tratta la teologia. Noi dobbiamo tuttavia renderci conto che solo Dio ce ne può preservare».9 Bella la teologio solo perché (e allorché) inquietante, come giustamente annota Cacciari: Heidegger ritiene la teologia filosoficamente estranea perché parte dall'infondato «presupposto che la teologia non abbia a che fare con quella Bekümmerung, con quella inquieta attenzione, affatto irriducibile ad ogni forma di religio, che, per Heidegger, marca [invece] il cuore della ricerca filosofica».10 La teologia è sì estranea alla filosofia se quella «radicale inquietudine» è (più o meno completamente) smarrita,11 se essa diventa -- direbbe Ferdinand Ebner -- del tutto autoreferenziale e presume un'oggettività impropria: «Il teologo, in quanto pratica la teologia appunto come una scienza che si presenta oggettivamente, può divenire vittima spirituale della tendenza alla sostanzializzazione. È vero che il suo pensare ha come punto di partenza la fede nel carattere personale dell'esistenza di Dio; egli opera poi del tutto spensieratamente, dimentico di tale punto di partenza, con il concetto di sostanza divina, come se la personalità e la sostanzialità dell'esistere -- la prima un fatto non ulteriormente spiegabile della vita spirituale nella sua realtà, la seconda null'altro che un'oggettiva necessità speculativa -- fossero riconducibili ad armonia nella riflessione. A rigor di logica un tale teologo dovrebbe coerentemente tendere a ridurre Dio e il suo rapporto con l'uomo e con il mondo, la sua incarnazione nella vita di Gesù e la redenzione dell'uomo per tramite di questa, ad una formula matematica, nella quale ovviamente non sarebbe eliminata la sua stessa esistenza, bensì anche quella di Dio. Il che naturalmente non può avvenire, né nell'uno né nell'altro caso».12 Solo se la teologia si libera dall'illusione di un linguaggio oggettivante analogo a quello oggettivante e calcolante delle scienze positive e naturali potrà ritrovare quel modo di pensare e quel linguaggio che -- direbbe Heidegger -- non consiste più nel «rappresentare qualcosa come un oggetto» ma nel «poetare» e nell'avvertire sul piano esistenziale lo Smisurato che non può essere oggetto di utilizzazione.13 In tale ottica il divorzio radicale tra filosofia e teologia non è più necessario ma entrambe sono accomunate dalla ricerca del rapporto con lo Smisurato, dall'ermeneutica d'esso. E la necessità della filosofia di affrancarsi dalla teologia (o dalle tematiche teologiche) rimane un pre-giudizio. Pre-giudizio da cui è rifuggita, in modo paradigmatico, una pensatrice raffinata come María Zambrano.

3. Conclusione: ermeneutica e ricerca di un «senso»

Con tali premesse, proprio l'accentuazione della valenza ermeneutica della filosofia, porta a riconsiderare esperienze come quella religiosa -- con la corrispondente mediazione a livello teologico -- come un àmbito fors'anche privilegiato di applicazione della ricerca e della riflessione filosofica. Si tratterebbe -- in altri termini -- di un tentativo di cogliere nell'evento religioso e nelle sue mediazioni linguistiche e razionali una fonte ricca e singolare di interrogativi sul piano antropologico ed un corrispondente orizzonte di risposte sul terreno del «senso» che meritano egualmente d'essere illuminati, evidenziati e portati sul terreno di un adeguato discernimento speculativo. In caso contrario la filosofia rischia di cadere in una sorta di autocensura preventiva. Cacciari giustamente si chiedeva se «la filosofia può essere fedele a se stessa, rinunciando a comprendere [ermeneuticamente] il teo-logico».14 La separazione forzosa pecca di una voluta astrattezza: «Al di là di ogni astratta conciliazione, così come di ogni astratta separazione, filosofia e teologia si riguardano essenzialmente».15 Per quanto mi riguarda, la teologia come depositum fidei mediato sul piano razionale offre al lavoro ermeneutico del filosofo uno straordinario àmbito applicativo. La possibilità di ampliare lo spettro del lavoro filosofico che -- accanto all'ermeneutica dell'artistico (estetica filosofica), dei costumi (etica filosofica), del politico (filosofia politica) ... -- potrà incrociare con l'ermeneutica del «teo-logico» la sfida ultima del «senso».

Nulla in contrario, anzi, all'istituzione in àmbito accademico di cattedre di storia della teologia cristiana (o delle istituzioni teologiche) ma sarebbe ben triste che un filosofo in quanto tale non si misurasse mai, ad esempio, con gli abissi teorici del Vangelo di Giovanni. E per non farlo completamente da dilettante non si misurasse con la teo-logia che intorno a quel testo si è andata a costruire nei secoli. Una filosofia totalmente separata dal «teo-logico» è una patologia per la teologia (condannata a forme di patetico emozionalismo o di esegetismo filologico fine a se stesso) ma è anche un rattrappirsi preoccupante per la filosofia. Un processo di separazione della filosofia dalla teologia parte dall'assunto che la filosofia -- ogni filosofia -- si elabora (deve essere elaborata) programmaticamente a prescindere dalla fede. Vero, se per questo si intende che la filosofia ambisce a una riflessione aperta (potenzialmente universale), che non chiede adesioni se non alla forza delle proprie argomentazioni. Ciò non toglie che il filosofo credente, per una forma di Einfühlung con le teologie che mediano la sua fede, può sapere cogliere in esse e di esse potenzialità teoriche straordinarie che poi offre alla comune riflessioni. È avvenuto così per i grandi filosofi dell'Ebraismo del Novecento (sempre aperti al teo-logico della loro tradizione) come Martin Buber, Franz Rosenzweig, Emmanuel Lévinas. Che non chiedono/chiedevano ai loro allievi conversioni all'Ebraismo e non le chiedono a noi. Ma costruiscono piste teoriche straordinarie che alimentano la riflessione di tutti. Così può egualmente accadere -- credo -- per chi ha una frequentazione, da filosofo, delle teo-logie cristiane. La radicalità dell'impresa filosofica non può che fare i conti -- pena il venire meno di una tale radicalità -- con il «discorso sulla fede», con la «narrazione teorica sulla fede» (se vogliamo dare un altro nome al teo-logico). La sua stessa radicalità o spregiudicatezza teorica non può permettere (e non può permettersi) che esistano, per così dire, dei territori franchi che presumono di sottrarsi alla sua indagine o che essa deliberatamente intende lasciar fuori dalla sua indagine. Indagine che intende -- in quanto radicale, totale e (letteralmente) spregiudicata -- applicarsi all'intera esistenza umana, ai suoi vissuti, alle sue credenze. Il rischio culturale generale è che da un lato il pensiero filosofico si assolutizzi non trovando un «oltre» a cui applicarsi con la fatica del concetto e con la pazienza ermeneutica e che il pensiero teologico sia condannato a una forma progressiva di «ghettizzazione». Quelle che già avvenuto nelle Università italiane con l'esclusione delle facoltà teologiche può determinarsi anche sul terreno culturale generale. Teologi chiusi nelle facoltà teologiche (solo) confessionali, teologia minata dal virus dell'autoreferenzialità; filosofi che non incontrano mai in vita un teologo (e teologi che non incontrano filosofi che non siano quelli delle facoltà teologiche), filosofia minata dal virus dell'autosufficienza presuntuosa. Manca l'incontro, fruttuoso per tutte e due le prospettive disciplinari e per i loro protagonisti, tra la riflessione filosofico-antropologica e la prospettiva della proposta teologica che si basa su una (presunta dice il filosofo anche credente quando fa il filosofo) rivelazione. Emblematico è in tal senso il discorso cristologico. Se la fede cristiana in Gesù Cristo viene concepita teologicamente come fede nell'autorivelazione incondizionata e definitiva di Dio, come amore incrollabile e fedele verso tutti gli uomini, allora un pensiero filosofico che cerca di comprendere ermeneuticamente il significato di un tale evento, dovrà assolvere diversi compiti. Di fronte a tale evento che la teologia definisce disposto da Dio (un evento fondativo in modo incondizionato, definitivo, universale)16 la filosofia sarà interpellata da tutta una serie di questioni. Proviamo a segnalarne alcune. La questione del fine dell'uomo, il concetto stesso di «rivelazione», la questione della capacità umana di ascoltare un'eventuale rivelazione connessa a quella della possibilità -- in tal modo implicitamente affermata -- di conoscere quella rivelazione, la possibilità stessa di una rivelazione definitiva all'interno di una storia contingente e aperta. O ancora, dato oggi il consenso sul fatto che il fondamento per l'eventuale adesione ad una rivelazione implica il soggetto toccherà alla filosofia indagare e discutere come e con quali categorie dovrà essere interpretata l'orgine di una tale soggettività anche e soprattutto in rapporto all'Assoluto che la precede. In altri termini: quale struttura del soggetto potrà determinare (o meglio consentire) il concetto o l'idea di un senso definitivo.

Al di là della problematica cristologica, potremmo offrire a mo' d'esempio anche un altro indice di tematiche filosofiche emergenti in rapporto al teologico. Le diverse qualificazioni della struttura originaria del soggetto aperto all'Assoluto o sua immagine, come libertà razionale o come autocoscienza preriflessiva nel loro rapporto con le corrispondenti idee di Dio. La discussione intorno alla ellenizzazione del cristianesimo. La ricezione della filosofia e del pensiero ebraici e il loro rapporto con il cristianesimo. La teodicea e -- più in generale -- il discorso sulla fine dell'uomo e sulla fine della storia. Il rapporto tra monoteismo e politeismo. La «teologia politica» in rapporto al teologico rivelato. Il rapporto tra una «teologia filosofica» che eventualmente approdi all'asserzione argomentata della trascendenza di Dio e la riflessione teologica sull'evento della rivelazione divina. Il tema del nichilismo e quello della gnosi. Il problema del mito.

Un filosofo non può dunque che aprirsi al «teologico» superando l'avvertimento di Heidegger e, insieme, il ritorno a forme di idealismo filosofico che ingloberebbero il teologico in àmbito totalmente filosofico (come in Hegel che -- affermava Barth -- aveva realizzato compiutamente una filosofia che «avrebbe fatto della ragione umana la ragione di Dio»). Con taglio ermeneutico il filosofo arricchirà il proprio profilo e percorso teorico avendo assunto e posto a tema un'eccedenza abissale che non può che fecondamente inquietarlo. Non potrà che scandagliare «insonnemente» (espressione di Italo Mancini) il confronto tra ciò che è mondano e penultimo e ciò che potrebbe essere ultramondano e ultimo pur nella consapevolezza della problematicità permanente del suo procedere: «Sono stato insonnemente tentato (o salvato) dalla domanda: quale e quanta filosofia può sopportare il Kerigma cristiano o (quanta filosofia) [...] può sopportare ogni forma di religione figlia del libro e della parola che, in tal caso, ha lo statuto kerigmatico?».17 Sulla scia di Mancini occorre indubbiamente essere consapevoli della difficoltà cui va incontro una trattazoine filosofica del teo-logico, del senso cristiano e dell'oggetto teologico nella sua ricchezza comunque sempre imprevedibile e sovrumana. Il rischio, sempre dietro l'angolo, in cui incorre una «trattazione-determinazione filosofica» del kerigma cristiano e dell'Oggetto teologico è quello riduzionistico: «ridurre» l'incoordinabilità, straordinarietà, autosufficienza e totale apriorità del kerigma: «Il dato non è mai totalmente dato, ma va interpretato e la comprensione è un atto deuteronomico al darsi (fides ex auditu). In altre parole nella filosofia [...] come qui viene concepita, il verbo chiave non è il pensare, ma il riconoscere, e la questione sta anche nel misurare quanto pensare, per modo di precomprensione, sta in questo riconoscere».18 E, pur con tali puntualizzazioni manciniane, legate alla sua «logica dei doppi pensieri» (ovvero la duplice istanza della ricerca filosofica sul teologico con i suoi limiti e della contestuale paradossalità e imprevedibilità della libera e incompribile iniziativa divina che si autorivela all'uomo),19 appaiono essere convincenti, queste parole di Bruno Forte: «La filosofia può tradursi in un puro commento dell'ora presente, e quindi risolversi in giustificazione ideologica dell'adesso, se non si lascia provocare dall'alterità irriducibile, dalla novità imprendibile della differenza, non risolvibile in identità. [...] La lama del dolore del tempo, cui ci è dato di appartenere, non può non interrogare tutti con pari forza e radicalità, filosofi e teologi. In queste condizioni, si presenta più che giustificata la [...] domanda: Può la filosofia essere fedele a se stessa, rinunciando a comprendere il teo-logico? [...] La risposta va cercata nei luoghi dell'incontro (la questione dell'Altro), del confronto (il pensiero «di» Dio)20 e della differenza, che unisce filosofia e teologia nella storia dell'Occidente e nel nostro presente (la sfida della Croce)».21 Il pensiero filosofico in Occidente infatti è ancora sfidato dalla croce, provocato dallo scandalo del Dio incarnato e crocifisso22 per cui -- come affermava Luigi Pareyson -- ancor oggi per il filosofo «il cristianesimo non è cosa davanti a cui si possa restare indifferenti. Bisogna scegliere o pro o contro. Non c'è via di mezzo: ogni posizione intermedia è stata spazzata via dalla crisi della cultura moderna».23

Copyright © 2009 Silvano Zucal

Silvano Zucal. «Perché un filosofo dovrebbe interessarsi di teologia?». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno, Parma 20-21 marzo 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [35 KB].

Note

  1. Cfr. Editoriale della rivista «Filosofia e teologia», n. 1. Più in generale su questa tematica è prezioso lo studio di Angelo Marchesi, Filosofia e teologia. Quale rapporto?, Franco Angeli editore, Milano 1999. Testo

  2. Cfr.Wolfhart Pannenberg, Theologie und Philosophie. Ihr Verhältnis im Lichte ihrer gemeinsamen Geschichte, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1996, p. 20. Testo

  3. Cfr. Massimo Cacciari, Filosofia e teologia, in Aa. Vv., La Filosofia, Utet, Torino 1985 (4 voll.), vol. II. pp. 365-421. Testo

  4. Cfr.Bernhard Casper, Martin Heidegger und die Theologische Fakultät Freiburg, in «Freiburger Diözesanarchiv» C (3ª serie, XXII), 100 (1980), pp. 534-541, tr. it. in Franco Volpi, Heidegger e Aristotele, Daphne, Padova 1984. Testo

  5. Cfr. Martin Heidegger, Phänomenologie und Theologie, in Wegmarken, Gesamtausgabe, vol. IX, Klostermann, Frankfurt 1976, tr.it.a cura di Franco Volpi, Segnavia, Adelphi, Milano 19943, p. 7. Testo

  6. Ivi, p. 9. Testo

  7. Ivi, p. 13. Testo

  8. Cfr. ivi, p. 22. Testo

  9. Karl Barth, KD, II, 1, p. 740. Testo

  10. Massimo Cacciari, Filosofia e teologia, cit. , p. 366. Testo

  11. Cfr. ivi, p. 367. Testo

  12. Ferdinand Ebner, Schriften, vol. I, pp. 228-229. Testo

  13. Cfr.Martin Heidegger, Fenomenologia e teologia, cit., pp. 30-31. Testo

  14. Massimo Cacciari, Filosofia e teologia, cit., p. 365. Testo

  15. Ibidem. Testo

  16. Cfr. Hansjürgen Verweyen, Gottes letztes Wort. Grundriss der Fundamentaltheologie, Friedrich Pustet Verlag, Regensburg 2000, p. 24. Testo

  17. Italo Mancini, in Introduzione a Luigi Sartori (ed.), Essere teologi oggi, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 27. Testo

  18. Italo Mancini, Teologia dei doppi pensieri, in Luigi Sartori (ed.), Essere teologi oggi, cit., pp. 81-95, qui p. 82. Testo

  19. Per Mancini la filosofia «ha il compito di rettificare (parola di Kant) l'oggetto teologico e di renderci esigenti; ha la capacità di presentarci lo schema di possibilità del Kerigma che poi si presenterà nella sua positività, ma il passaggio dal possibile al reale è una delle cose più difficili e non so se ho raggiunto un traguardo sicuro» (Italo Mancini, Teologia dei doppi pensieri, cit., p. 83). Testo

  20. In modo in parte discutibile Forte afferma che se la questione di Dio, la «cogitatio Dei» impegna sia la filosofia che la teologia il genitivo «di Dio» nel caso della filosofia sarebbe un genitivo oggettivo mentre per la teologia sarebbe un genitivo soggettivo ovvero mentre la filosofia disputerebbe intorno a Dio («de Deo») come di un oggetto, la teologia sarebbe invece ascolto di Dio, riflessione e colloquio con Dio. Cfr. Bruno Forte, Teologia in dialogo, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999, p. 63. Ferdinand Ebner affermava invece l'opposto ovvero che proprio la teologia disputa intorno a Dio in terza persona come di un oggetto mentre la filosofia pneumatologico-dialogica da lui postulata prevede un «Wissen um Gott», un «sapere Dio/di Dio» solo in virtù di un dialogo interiore con Dio e in virtù del suo «venire incontro» dialogico all'uomo. Lo stesso Forte però ammette che talora esiste «una teologia che interpreta il genitivo della cogitatio Dei in senso meramente oggettivo; è quella che Lutero chiama la theologia gloriae, una teologia cioè che parla di Dio come del suo oggetto, di cui disporre e decidere, e rispetto al quale argomentare; è quanto Heidegger definisce onto-teologia, pensiero che riduce Dio a ente» (Bruno Forte, Teologia in dialogo, cit., p. 63). Interessante su questo punto la posizione di Italo Mancini: «Se è vero, infatti, che il massimo di filosofia è quello di poter parlare di Dio, il minimo di teologia è quello di poter parlare con Dio. Per cui sono molto incline a ritenere che la possibilità della preghiera rappresenti lo spartiacque tra il massimo filosofico del parlar di Dio, il portento della ragione, e il minimo teologico del parlare con Dio, che solo il dono dall'alto può assicurare e legittimare» (Italo Mancini, Teologia dei doppi pensieri, cit., p. 86). Testo

  21. Bruno Forte, La Parola della fede. Introduzione alla Simbolica ecclesiale, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1996, pp. 71-72. Testo

  22. Cfr. ivi, p. 80. Testo

  23. Luigi Pareyson, Esistenza e persona, Il Melangolo, Genova 19854, p. 11. Testo

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