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Che genere di Trinità? La teologia trinitaria alla prova dell'epistemologia femminista

di M. Benedetta Zorzi (Roma, 26-28 maggio 2011)

Il femminismo inizia con la coscienza nuova che le donne iniziarono a prendere in conseguenza della rivoluzione industriale che le vide sempre più protagoniste nel mondo del lavoro, nella cultura, nell'economia e nella politica. Benché nelle decadi passate il femminismo abbia messo anche un forte accento sulla liberazione della donna dalla sua oppressione alle strutture patriarcali, oggi, esso si presenta in molte sfaccettature diverse e non raramente tra loro assai divergenti, tanto che si deve oramai parlare di femminismi (cfr. il recente Dizionario delle teologie femministe). Pur nelle loro differenze, i femminismi si muovono comunque tutti a partire da una consapevolezza maggiore dell'esistere come esseri sessuati donna-e-uomo. Il femminismo è un modo di guardare la realtà (non solo da parte delle donne) che prende sul serio le implicazioni profonde dell'essere sessuato della persona e per questo si parla di una vera e propria rivoluzione epistemologica (K. E. Børresen). A parere di chi parla la punta più felice dello sviluppo del femminismo è rappresentata da quel movimenti di uomini che avendo compreso le istanze del femminismo, cercano di riflettere in proprio sul significato della maschilità, non più supposta implicitamente come universale neutra e normante: gli esiti appaiono infatti molto promettenti per una ridefinizione globale della cultura e della società.

L'entrata delle donne nella riflessione teologica, che ha avuto i suoi prodromi con alcune Madri del medioevo (cfr. Børresen) e che come dicevamo è diventata una svolta culturale da meno di due secoli, ha comportato spostamenti di accento anche nella modalità della lettura della Bibbia o della formulazione tradizionale del kerygma. L'accesso delle donne nelle facoltà teologiche data meno di 50 anni e il loro effettivo ruolo come docenti e teologhe è solo agli albori, quando non sembri quasi che oggi stenti ad essere promosso.

Ad essere al centro dell'attenzione fu in primo luogo la Scrittura, ora letta a partire dall'esperienza delle donne. Come accaduto per le altre discipline umanistiche che riscoprivano la presenza delle donne nella storia, anche le teologhe hanno cercato di scrivere (o riscrivere) la storiografia della cristianità dal punto di vista femminile (E. Schüssler-Fiorenza; C. Militello). In ambito dogmatico le teologhe della prima generazione si sono concentrate soprattutto sul discorso su Dio «Padre» o sulla cristologia che impattava i temi della maschilità di Cristo (S. McFague). La teologia femminista ha spinto per la ricerca di un linguaggio inclusivo che fosse segno di una inclusività anche dell'esperienza di Dio. La Trinità stessa però all'inizio non fu considerata troppo degna di attenzione: i nomi maschili del Padre, del Figlio e dello Spirito sembravano avallare a livello ideologico l'idea di un Dio maschio («two males and an amorphous» Johnson) con conseguente legittimazione del patriarcato nelle strutture ecclesiali e dal momento che anche la relazione tra le persone divine era stata considerata soprattutto in modo gerarchico, la dottrina veniva vista come giustificazione della subordinazione della donna all'uomo. Insomma secondo queste prime femministe la dottrina trinitaria sarebbe stata il peggior esito dell'androcentrismo e cioè la divinizzazione della maschilità, diretta a rafforzare una gerarchia tutta al maschile (McFague, M. Daly, E. Johnson).

Recentemente il dogma trinitario è stato però rivisitato in prospettiva femminista (J. Soskice, H. Bacon, S. Coakley) e ci si è convinti che, se compreso a fondo, esso non giustifica affatto un assetto patriarcale dell'antropologia e della chiesa, ma anzi aiuta a superarlo, supportando piuttosto una prospettiva comunionale della società e delle relazioni, in cui le donne possono essere riconosciute nella loro dignità in quanto propriamente soggetti e proprio in quanto differenti.

Sulla linea dei propositi di questo convegno, questo studio si limita a fare il punto della situazione delle questioni intorno al dogma trinitario in prospettiva di genere.

1. «De utero Patris» (XI Concilio di Toledo, 675)

Benché vi sia ancora qualcuno che pensi il contrario (M. Bird -- R. Shillaker), un'immagine di Dio non è senza impatto sul nostro modo di concepire l'uomo, le relazioni sociali (comprese quelle di genere) e l'etica. D'altra parte la Bibbia stessa ci mette in guardia dal fatto che ogni immagine di Dio rischia di diventare facilmente un idolo e in questo caso di giustificare un'ideologia.

McFague sostenne che le parole rivelano il modo in cui pensiamo e questo determina anche il nostro agire, per cui un modo di esprimersi esclusivamente al maschile rischia di supportare un mondo che escluda le donne. In modo forte espresse questo problema M. Daly con una celebre frase: «Se Dio è maschio il maschio è Dio».

Bisogna ammettere che la tradizione ebraico-cristiana si è polarizzata verso immagini di Dio al maschile. Ora noi sappiamo che Dio non ha sesso e quindi sappiamo anche che il maschio non è Dio. Ma significativo risulta che se proviamo a chiamare Dea al femminile (Johnson), molti di noi, me compresa, sentiamo un certo disagio. Le teologhe femministe ci mettono in guardia su questo fatto, dicendoci che se incappiamo in un tale tipo di disagio probabilmente siamo preda già di una ideologia, quella che implica una qualche connessione (implicita e perciò operante acriticamente) tra Dio e la maschilità.

Ora si potrebbe anche riflettere su questo: cosa ci sarebbe di male, se -- dato per scontato che Dio non abbia sesso -- applico la maschilità a Dio? Ovviamente devo chiedermi che cosa questo intende dire di Dio, e cioè devo anzitutto chiedermi che cosa intendo per maschilità, come la connoto, che valori le attribuisco.

Le femministe della prima ora ci risponderebbero che il problema sta nel fatto che un tale linguaggio è metaforico e che le metafore sono sempre condizionate dalla cultura.

A livello teologico dobbiamo rilevare che nella cultura -- almeno patriarcale -- il figlio è normalmente inferiore al padre, mentre per esempio Gesù rivela se stesso essere uguale al Padre (Gv 14, 9). Inoltre l'uso del termine Padre nell'AT è connesso non tanto ad immagini di autorità di tipo patriarcale ma spesso a valori di cura e promozione.

Ebbene il primo problema con cui bisognerà fare i conti è che probabilmente la connessione tra ciò che consideriamo maschile e che applichiamo a Dio è probabilmente più incerta e labile di quanto crediamo.

Normalmente, infatti associamo a Dio i concetti di attività, forza, ipseità. D'altra parte, tradizionalmente alla femminilità vengono associate caratteristiche di debolezza, passività, unite a tenerezza, maternità etc. Secondo R. M. Ruether la caratterizzazione della «femminilità» secondo le caratteristiche di passività, tenerezza etc., sarebbero un ideale creato dallo stesso patriarcato e proiettato sulle donne da uomini che tendono a difenderlo strenuamente in quanto permette loro di mantenerli in posizioni di potere.

Bisogna certamente fare attenzione agli stereotipi. Lo stereotipo non è una descrizione della realtà, ma un'immagine creata tramite un consenso sociale di come si vorrebbe che la realtà fosse e di come questo desiderio dovrebbe essere espresso tramite un comportamento, dei valori e delle relazioni.

Come detto, il Padre che Gesù rivela, sembrerebbe avere caratteristiche tutt'altro che maschili, in questo senso, anzi, Egli è molto più simile alla madre di cui parla Isaia con i tratti tradizionalmente (e stereotipicamente) associati alle donne.

Però ci si chiede: caratteristiche come la compassione, la tenerezza, la cura sono davvero caratteristiche solo femminili o non appartengono alla capacità umana di essere persona, sia in quanto uomo che in quanto donna? D'altra parte, siamo sicuri che caratteristiche come forza, razionalità, dominio, siano caratteristiche solo maschili?

A questo discorso è stato obiettato che la Bibbia stessa usa immagini maschili per parlare di Dio (già Atanasio). La teologia delle donne su questo ha risposto in vario modo. Anzitutto ha ricordato che anche la Bibbia è frutto di una cultura patriarcale (cfr. DV 8; 13 e Interpretazione della Bibbia nella Chiesa 1990) in cui quindi forse più naturalmente le metafore principali per parlare di Dio sono state quelle provenienti dall'esperienza maschile: padre, guerriero, marito geloso etc.

D'altra parte le donne quando hanno iniziato a prendere in mano i testi biblici sono state più sensibili a rilevare nella Bibbia esperienze vicine alla loro esperienza e hanno quindi fatto emergere che Dio, anche nell'AT è detto tramite immagini femminili. Questo approccio ha portato a una serie di filoni dell'esegesi femminista che si possono così riassumere:

  1. il filone della ruah che in ebraico è femminile e le cui funzioni sono spesso associate a metafore femminili (cova, crea spazio, fa vivere etc, Gen 1, 1).
  2. il filone della terminologia dell'utero (rehem) per cui Dio ha amore come di donna, di madre, avendo viscere di misericordia (rahamim). Os 11; Sal 139 [138], 13; Dt 1, 31; 32, 18; Nm 11, 2; Is 1, 2; 42, 14; 46, 3; 49, 14-15. 21; 63, 9; 66, 13; Sal 27, 10; Ger 2, 27; 31, 20;; Gb 38, 28-29.
  3. c'è stato poi tutto il filone di ricerca che ha riscoperto l'immagine della Sapienza con i suoi collegamenti alla antica cristologia sapienziale (cfr. 1 Cor 24-26): Cristo in quanto Logos è identificato con la Sapienza (Lc 7, 35; Mt 22, 8; Gv 1; Col 1), ha quindi caratteristiche femminili (come vedremo meglio sotto); Sap 7, 24-27; 8, 2; Prv 1, 20-33; 8, 2-16. 22. 30; (cap. 24); Sir 51.

Gesù stesso paragona il regno di Dio (basileia in greco è femminile!) alla donna che cerca la dramma perduta (Mt 13, 33; Mt 23, 37; Lc 15, 8-10). È stato rilevato che questo aspetto «femminile» non è complementare ad un altro. La donna in sé, cioè, come la storia del seminatore in sé o le tante altre narrazioni usate da Gesù, implicano che il maschile o il femminile siano immagini complete per parlare del Regno di Dio, e non siano solo una parte che ha bisogno di essere completata dalla controparte sessuale (operazione che tra l'altro per le immagini maschili non avviene mai, come se fossero in se e per sé complete o addirittura integranti il femminile).

Provo ad elencare le affermazioni che vengono apportate nel dibattito teologico con i corrispettivi «sed contra»:

  1. Papa Benedetto XVI, parlando per sua espressa volontà da teologo (Gesù di Nazareth 1), ha detto che Padre è un titolo (quindi in qualche modo più appropriato per parlare di Dio), mentre madre sarebbe solo un'immagine che la Bibbia usa.
  2. Si capisce come, in questa direzione, contro ogni discorso su Dio che tenti di dire Dio al femminile, il motivo biblico è forte: Dio va chiamato «Padre» perché Gesù stesso, il Rivelatore, ha parlato di lui così.
  3. Qualcuno poi, riflettendo sul ruolo della paternità, afferma che un padre deve in qualche modo sempre fare un atto di accettazione, di fede, di volontà (e quindi di amore), rispetto al fatto che quel figlio sia suo, cosa che non avverrebbe tra figlio e madre. In questo modo l'idea cristiana e biblica di un Dio Padre preserva maggiormente la trascendenza di Dio e la sua volontà amorosa e creatrice, rispetto a quanto faccia l'immagine della madre applicata a Dio. Questo punto sarebbe per molti una ragione fondamentale, oltre ai riferimenti biblici, per ascrivere la maschilità alla prima Persona divina.

Sed contra:

  1. Al problema dei titoli/immagini si risponde spesso se non si dia qui implicitamente una svalutazione del carattere simbolico della conoscenza. Oggi riscopriamo come anche le immagini abbiano a pieno titolo una dignità cognitiva. Insomma: che tipo di differenza epistemologica c'è tra un titolo e un'immagine? Altrimenti detto: i titoli sono i modi storici -- condizionati culturalmente -- con cui gli uomini hanno espresso le diverse manifestazioni di Dio nella storia (interpreto così sulla linea del concetto di epinoiai del Logos di Origene), ma mi chiedo se anche alle immagini in teologia non diamo ancora troppo poco valore conoscitivo. S. Tommaso stesso dice che tutte le forme per indicare Dio sono metafore. Su questo punto le teologhe femministe sembrerebbero distinguere meglio dei loro detrattori i concetti di simbolo, similitudine, metafora, analogia (cfr. LaCugna vs A. Kimel, Speaking the Christian God).
  2. Al secondo punto, si risponde spesso con l'argomentazione che il Dio di Gesù, benché sia chiamato padre, ha ben poco del padre-padrino patriarcale e ha molto più caratteristiche materne. Ma a questo si dovrebbe aggiungere anche una riflessione sulla valenza del nominare Dio «padre» da parte di un maschio, riflessione che riprenderemo sotto.
  3. Altri mostrano che nelle stesse immagini bibliche applicate a Dio i ruoli parentali vanno applicati a Dio «via eminentiae» e infatti comportano vere e proprie rotture di genere (per es. Dio madre ha un utero tuttavia è chiamato «egli»): si tratterebbe di una metodologia biblica per indicare che l'immagine è una immagine e non una definizione (M. Frettlöh).

Secondo alcuni, poi, da questi indizi femminili presenti spesso accanto al Dio d'Israele maschile, dovremmo derivare un antica idea di una paredra divina, sulla scia delle divinità mesopotamiche, linea che spiegherebbe certi sviluppi presenti nelle sette cristiane gnostiche (C. Moro).

Una traiettoria che ritroviamo variamente testimoniata dai padri (una riflessione che emerge dal testo del Sal 110, 3), come per esempio nel testo di Agostino che citiamo sotto (ma anche Ambrogio, De fide 4, 10, 132 e molti altri) si capisce che il concetto di una generazione «de utero patris» -- che a differenza di Fretlöh, considero direttamente una riflessione su Gv 1, 18 -- viene avanzato in polemica antiariana:

Quella generazione è ineffabile, sebbene derivi dal seno del Padre: questo è il significato, perché Dio ha generato Dio da se stesso, cioè dalla sua sostanza, come, quando nacque dal seno della madre, l'uomo generò l'uomo. (Contra Maxim., I, 7).

In dogmatica insomma questo concetto, utile per descrivere le relazioni intratrinitarie, intende esprimere che l'essere Unigenito, nato e generato dal Padre implica la sua homoousia. Anche l'XI Concilio di Toledo attribuirà un utero al Padre in funzione antiadozionista. J. Moltmann ha visto in questa espressione del concilio di Toledo un modo per superare il linguaggio sessista nel discorso su Dio.

Il fatto che a Dio venga attribuito un utero non significherebbe però per alcune femministe già di per sé una valorizzazione del femminile in Dio. Anzi. Il fatto che si tratti di un utero e non di un pene divino, sarebbe un modo per relativizzare doppiamente la sessualità femminile o per attribuire alla maschilità un'assenza di corporeità, supposta più adatta a Dio. Frettlöh addirittura ipotizza che sarebbe qui il concetto fisiologico antico -- di una sessualità femminile ritenuta fondamentalmente identica a quella maschile ma interna (da Aristotele -- l'utero è un pene interno- e poi Nemesio di Emesa) -- ad aver permesso l'applicazione a Dio Padre di un utero. Il significato andrebbe nella direzione di una generazione intratrinitaria (cfr. logos endiathetos).

Insomma connotare Dio di un utero non sarebbe affatto un indizio di una metafora femminile applicata a Dio e comunque il suo significato emerge a livello storico in funziona antiariana.

Alla terza e pur forte argomentazione, che implica una riflessione sui ruoli di paternità, si può facilmente riproporre al femminile la stessa argomentazione. Il generare biologico, se implica da una parte una sicurezza «biologica» per la donna che il bambino che esce da lei sia il suo bambino (non a caso il patriarcato insiste così tanto sulla verginità delle donne, unico modo per garantire la «sicurezza» del padre), dall'altra tale «biologicità» non dice ancora nulla sull'operazione che resta da fare responsabilmente per far diventare quel bambino il proprio figlio (cfr. Is 9, 5; da contro bastino le troppe notizie su maternità biologiche rifiutate): si ricorderà a proposito la testimonianza di S. Monica nel partorire spiritualmente Agostino. Insomma le vere genitorialità, sia paterna che maternità sono quelle che si chiamano «responsabili». D'altra parte rinunciare ad una immagine biologica di paternità significa anche rinunciare all'idea patriarcale di un padre del tutto autosufficiente.

Non sfuggirà poi che vi sono diversi modelli di paternità, insomma diversi modi di essere padre: il padre-padrino, il padre patriarcale, il padre assente, il padre debole, il padre che è anche madre; il padre tenero, il padre pretenzioso etc. Quale di queste categorie applichiamo a Dio Padre? E non solo ci sono diversi modi di essere padre, ma vi sono diversi modi di sperimentare uno stesso modello e di introiettarlo da parte dei figli. In questa direzione è chiaro che, proprio dal momento che in Dio l'attribuzione sessuata può essere solo di genere (inteso in questo senso à la J. Butler (Gender Trouble), cioè di significato solo attribuito), dal momento che Egli non ha sesso, sarà importante chiarire cosa si vuole intendere quando si dice che Dio è Padre o che è Madre o che è un Padre con un utero.

Indipendentemente da questo, sarà di non poco rilievo il fatto che per una donna la relazione al padre ha connotazioni che la relazione il figlio col padre non può avere: il nominare Dio Padre da parte della donna non può quindi del tutto essere incluso nel nominare Dio Padre che fa un uomo. La donna ha una sua originalità e rivela nella sua relazione a Dio un'identità specifica e insostituibile di Dio, anche nel suo chiamarlo Padre.

2. Della maschilità di Gesù di Nazareth

La maschilità di Gesù è un dato che nessun cristiano che voglia restare tale può mettere in dubbio.

La riflessione femminista ha tentato di evidenziare come la cultura antica abbia considerato la maschilità come l'umanità nella sua perfezione e completezza, a scapito spesso della donna. Questa concezione è stata chiamata androcentrismo. L'assunzione della maschilità da parte di Gesù è stata quindi vista come un privilegio per la maschilità quasi un valore aggiunto.

Tuttavia una maggiore riflessione sui generi maschile e femminili ci fa chiedere se la maschilità di Gesù non implichi una maggiore riflessione sulla parzialità della maschilità che il Logos ha assunto, quale riflessione concomitante a quella sulla portata della sua kenosi: egli ha assunto cioè solo uno dei due generi in cui ha creato l'essere umano. Siamo sulla scia di Fil 2 per cui il Logos non ha assunto solo l'umanità, ma tutte le sue conseguenze, e tra queste la parzialità dell'essere umano sessuato. Anche in base a questo bisognerà chiedersi per esempio se non sia proprio in virtù di questa parzialità assunta che Gesù maschio si è rivolto a Dio chiamandolo Padre.

Il percorso che enfatizza troppo la maschilità di Gesù mi sembra pericoloso, non solo perché rischierebbe di cadere nell'affermazione che Cristo non ha salvato le donne (se prendiamo in modo fote l'affermazione che «ciò che non è assunto non è salvato»). Ma soprattutto perché la maschilità di Gesù è il modo in cui Cristo ha assunto «tutta intera la natura umana»: qui forse dovremmo fare nostra l'argomentazione che Agostino applicava a Ef 4, 13: vir pro homo. La maschilità insomma deve avere valore inclusivo e non escludente le donne, altrimenti non le avrebbe salvate -- e invece lo ha fatto, altrimenti la Chiesa non le avrebbe mai battezzate, mentre ciò non è successo mai né mi risulta che mai la questione si pose come problematica (altra questione da quella se le donne siano create pienamente ad immagine di Dio).

Il problema della maschilità di Gesù insomma deve rispondere a due domande:

  1. se essa rivelerebbe anche la maschilità di Dio (tramite una doppia connessione: quella ontologica di Gesù al Logos- [maschio] e di questo come eventuale rivelatore di una maschilità di Dio). Williams rileva che vi sono somiglianze che possono essere valide senza implicare un'identità sessuale, come quella tra fratello e sorella o tra figlia e padre o tra madre e figlio.
  2. se la maschilità di Gesù implichi che la maschilità sia normativa dell'essere umano e dunque che la maschilità sia la sola capace di rappresentare Dio (sarebbe insomma la maschilità ad essere creata totalmente ad immagine di Dio, mentre la donna non rappresenta totalmente e in sé l'immagine di Dio. Le femministe ci allertano su questo dicendo che questo modo di pensare è androcentrico.

S. Tommaso per esempio, sulla base di una difettosa biologia, presa in prestito da Aristotele, ritiene che Gesù sia maschio perché solo il maschio avrebbe la pienezza dell'umana natura. Solo il maschio quindi rappresenterebbe per lui il genere umano tutto, mentre la donna rappresenterebbe solo il genere femminile e soprattutto ella non può rappresentare Dio (= la maschilità?).

Questa posizione deve ovviamente fare i conti con Gen 1, 27 ma anche con l'enciclica Mulieris Dignitatem dove per la prima volta in un testo magisteriale viene detto in modo inequivocabile non solo che la donna è creata ad immagine di Dio ma che ella lo è in sé e per se stessa (nn. 7-8; 11; 13).

In modo molto drastico Ruether arriva ad affermare su questa scia che se le donne non possono rappresentare Cristo, nemmeno Cristo può rappresenta le donne e in realtà quindi egli non le avrebbe redente. Ma appunto questa strada mi sembra irta di pericoli (cfr. D. Hampson).

D'altra parte resta il problema anche della sessuazione nel corpo risorto di Cristo (T. K. Seim). Qui si aprirebbero nuove piste ancora poco esplorate, ma che evidentemente non sono discussioni sterili. Si ricorderà che Agostino (civ. XXII, 17) fu uno dei primi ad ammettere che le donne risorgeranno qua donne e cioè sostanzialmente sembrerebbe il primo a riflettere sul senso non solo biologico/procreativo ma personale della sessuazione.

Ruether critica che non si capisce come mai se la storicità e la concretezza dell'ebraicità di Gesù, la sua razza, la sua lingua, il colore della sua pelle, non sono state ritenute fondamentali alla sua identità, dovrebbe esserlo la sua maschilità. Le si deve obiettare che questo fu vero nella cosiddetta cristologia della First Quest, che però ha contribuito forse anche ad esiti razzisti. Tornare invece a considerarle importanti (come fa la Thrid Quest ma anche femministe come J. M. Hopkins), assieme alla sua maschilità, vuol dire anche che la teologia non può rinunciare alla sessualità/sessuazione intesa come costitutiva di una identità personale (in relazione?). E se troppo a lungo si è riflettuto da celibi su un'umanità neutra o asessuata, recentemente si mette ancora troppa attenzione sulla sessualità solo nella relazione matrimoniale: sarebbe ora di iniziare a riflettere sulla sessualità dei celibi che aiuterebbe la teologia a sganciarsi da quel paradossale accordo che essa dimostra di avere con la cultura odierna circa la collocazione della sessualità nella struttura dell'essere umano.

L'affermazione di Gal 3, 28 quindi non potrà essere compresa come un'assenza di sessuazione, ma come cancellazione di quelle differenze sociali di subordinazione tipiche dei ruoli sociali (in cui il patriarcato relegava le donne o gli schiavi, cfr. Rm 10, 12; Col 3, 11): in questo c'è da dire che Gesù stesso nella sua vita ha rivelato storicamente un'azione divina inclusiva delle donne al discepolato (Lc 8, 1-3). Queste sono rimaste con lui fin sotto la croce (Mt 27, 55-61//) e anche a loro egli ha scelto di apparire (Mc 16; Lc 24; Mt 28; Gv 20; 1Cor 15, 6).

Andrebbe ricordata anche una tradizione antica presente nella RB che si rivolgeva a Cristo come «Padre».

Non ho incontrato invece una riflessione tra le femministe sul fatto che la tradizione afferma che l'unione tra le due nature avviene nella persona del Logos e non nella persona umana di Gesù.

3. Della femminilità del Logos-Sophia

La tradizione medievale ha conosciuto una tematica assai suggestiva, quella di Gesù Madre. Sono soprattutto Anselmo e Giuliana di Norwich ad esprimersi dicendo che Gesù è Madre. Anche il gesuita Peter Claver (+ 1654) insegnava a rivolgersi a Cristo come padre e madre (Häring); lo stesso Francesco di Sales sembra avesse descritto Gesù sulla croce come una partoriente che attende il suo parto (V Filotea, ma la frase fu successivamente cancellata). (Frischer; McLaughlin).

C'è poi tutto il filone della riflessione sulla Sapienza veterotestamentaria che entra nella Logos-cristologia e che dà vita alla cristologia sapienziale. Su questo gli studi sono stati abbondantissimi (cfr. Johnson).

È indubbio che a Gesù nel NT vengano attribuite parole, funzioni e attributi della Sapienza dell'AT (1 Cor 1, 22-24; 8, 6 = Prv 3, 19; Eb 1, 3 = Sap 7, 26; Mt 22, 8; 23, 34 = Lc 11, 49; Lc 7, 35; 11, 1).1

La tradizione della personificazione della Sapienza giocò un indubbio ruolo nello sviluppo della cristologia con i suoi elementi di preesistenza (Gv 1), di funzione cosmica di governo del mondo (Col 1, 15-20). Meno chiaro il significato che questo può assumere.

Alcuni ritengono che la figura della Sapienza sia stata inserita nella riflessione giudaica come contraltare, per contrastare la grande attrazione che suscitavano i culti legati alle divinità femminili (Dunn).

Secondo alcune teologhe, questa traiettoria che mostra la divinità di Gesù come quella della Sapienza incarnata, implicherebbe che la maschilità di Gesù non riveli la maschilità stessa di Dio. La divina Sapienza rivela Dio ed essa viene rivelata anche dalla maschilità. Gesù incarnerebbe quindi una forma femminile di Dio (Johnson).

D'altra parte a Gesù vengono attribuite quelle viscere di misericordia (splankne) che erano proprie del Dio «materno» dell'AT (Mt 9, 38; 14, 14; 15, 32; 20, 34; Mc 1, 41; 9, 22; Lc 7, 13; Gv 11, 33; Mt 23, 37).

Gesù-Sapienza insomma -- anche tramite la sua maschilità -- sarebbe rivelatore della grazia di Dio, di un Dio amoroso e compassionevole, insomma di un Dio «femminile» o meglio dei tratti femminili di Dio (Lc 13, 34)?

Il tema invece che troviamo testimoniato da Agostino secondo cui la kenosi di Cristo «maternae infirmitatis est, non amissae maiestatis» (En Ps. 58, 1, 10) sarebbe passibile di critica. Anche questa immagine supporrebbe, infatti, un subordinazionismo femminile.

4. Femminilità dello Spirito Santo

Nel primo millennio fu possibile descrivere lo Spirito con analogati femminili, benché spiritus in latino diventò maschile e pneuma, benché neutro in greco, fosse percepito maschile (cfr. Girolamo).

Sempre di nuovo allo Spirito sono state attribuite caratteristiche femminili; sarebbe lui secondo Moltmann l'utero di Dio. Ruah è femminile e l'immaginario applicato a Ruah è sempre materno già in AT; lo Spirito santo sarebbe quindi l'aspetto materno di Dio (gli viene infatti attribuita la funzione di far nascere al battesimo, di incorporare a Cristo nell'epiclesi etc.).

Congar e Moltmann sottolineano che lo Spirito Santo sarebbe il principio femminile della divinità; e siccome lo Spirito è uguale al Padre e al Figlio questo ribilanciamento promuoverebbe la dignità delle donne e porterebbe ad una vera comunità fi di uguali; poiché infatti siamo stati creati e redenti ad immagine di un tale Dio, la Trinità sarebbe la garanzia ultima che permetterebbe di costruire comunità senza privilegi o sottomissioni dell'uno o dell'altro sesso.

I problemi di questa applicazione sono almeno tre, forse quattro:

  1. il primo è che -- almeno da parte di alcune femministe -- normalmente si ritiene che in questa femminilizzazione dello Spirito all'interno della Trinità, lo schema che si applica resta fortemente subordinazionista. Lo Spirito è il più oscuro, invisibile, senza volto (come sottolinea Kasper); sembra una sorta di «amorfo tra due maschi» (Johnson); egli soffre anche di una povertà di terminologica (Mühlen); sembrerebbe comunque subordinato perché procede-da ed è mandato-da; non ha una attività sua propria, ma piuttosto completa quella degli altri due, in una funzione che appare subalterna. Mentre il Logos avrebbe funzione attiva, porterebbe novità e sarebbe fonte di trasformazione, rivelando così l'aspetto maschile di Dio, lo Spirito Santo avrebbe caratteristiche femminili perché di passività, ricettività, preservazione, insomma una funzione di secondo piano. L'associazione della femminilità con lo Spirito rinforzerebbe quindi solo la subordinazione della donna nella chiesa e nella società. La donna in questa identificazione insomma perde la sua identità al pari dello Spirito che non ha un nome personale.
  2. Il secondo problema è che qui, come per le altre due Persone, in base al principio della mutualità interna alle Persone della Trinità, le caratteristiche comuni sono mutuabili; se quindi attribuiamo allo Spirito la femminilità o la passività, se perfino al Padre in qualche modo abbiamo visto attribuire caratteristiche femminili e come già la storia della cristologia del Logos-Sophia ci aveva avvertiti: c'è una fluidità del simbolismo di genere nelle Persone della Trinità. Ciò vuol dire che maschilità o femminilità applicate a Dio non riguardano proprietà proprie (che non sono transitive) ma comuni. Le proprietà comuni sono transitive. Esse sono quindi attribuibili a tutta la divinità, è per questo che Dio può essere chiamato Madre o Padre ad eguale titolo, come ricordava papa Giovanni Paolo I.
  3. Il terzo problema che ho presente fin dall'inizio di questa trattazione e che riprenderemo in seguito, è che seguendo questa strada stiamo rischiando ad ogni passo il triteismo.
  4. Un quarto problema è di carattere biblico: allo Spirito Santo viene attribuito in una occorrenza un pronome maschile (Gv 16, 13).

In generale ogni schema che in qualche modo implichi una subordinazione di una Persona divina non rispetta la coordinazione che da Costantinopoli in poi diventa prescrittivo per la riflessione su questo mistero. La stessa relazione Padre-Figlio non può pensarsi gerarchica (siamo tutti d'accordo che la sottomissione del Figlio sia storica ma per quanto riguarda la sottomissione eterna che sarebbe implicata da testi come Fil 2, 5. 7; Gv 5, 18 e 1 Cor 11, 3 e 15, 28 la cosa è discussa).

Il genere è importante per una riflessione nella Trinità, ma certamente esso non è specifico di una identità all'interno della Trinità, appunto perché esso inerisce alla nostra natura, e fa parte del nostro parlare di Dio, ma non inerisce alla natura divina che è senza sesso.

5. Immagini della famiglia

Come è noto Agostino rigetta la questione se la Trinità si possa pensare come padre, madre e figlio (trin. XII 5, 5). Non solo perché Agostino con una certa difficoltà inserisce la donna per se stessa nell'immagine di Dio, ma soprattutto perché Dio non è un io singolare e queste tre individualità non sono tre dèi. È il concetto di persona così come era sviluppato in quel tempo che risulta inadeguato per servire ad un'imago di questo tipo. Lo stesso Tommaso non ha un buon concetto metafisico di persona per cui la femminilità non sarebbe per lui espressione della persona piena.

Sembra sia stato Scheeben ne I misteri del Cristianesimo a tentare per la prima volta di avanzare il parallelismo Padre-Figlio- Spirito santo con uomo-donna-figlio (seguito da Schmaus, Moltmann, Boff e altri come Stanieloae). Ovviamente i tre generano in una generazione vergine, dove quindi il genere è ammesso ma senza nessun collegamento alla sessualità. Sappiamo che questa posizione che stacca il genere del tutto dalla sessualità (anche se per le persone umane) è oggi apertamente condannata dal Magistero. Ma questa pista sembra da chiudersi non solo per questo motivo.2

In una rielaborazione recente di questo schema, William applicando la maschilità alla prima Persona, in quanto trascendente e la femminilità alla seconda sulla scia della cristologia sapienziale, afferma che in Dio si tratta di un matrimonio. Il matrimonio infatti sarebbe una relazione più profonda di quella tra padre e figlio e non implicherebbe, a differenza di quest'ultima, differenze di essenza/grado. Questo sarebbe in accordo con il NT che concepisce la creazione del Padre tramite il Figlio (1 Cor 8, 6), quale azione di tutta la Trinità. Tuttavia come nel parto la donna ha un ruolo maggiore nella nascita del figlio, così questo schema attribuirebbe al Figlio un ruolo maggiore nella creazione.

In questo schema però le qualità femminili, come avere un utero (Is 46, 3), sarebbero da attribuire alla seconda Persona della Trinità, mentre lo Spirito assumerebbe il genere a seconda della persona con cui entra in relazione: parakletos che sembrerebbe supporre la maschilità in Gv 16, 3 o ruah.

Queste idee avrebbero già un'antica testimonianza e sembrerebbero di origine gnostica: vi è infatti un detto di Gesù presente nel Vangelo degli ebrei (passo riportato da Origene in Comm. In Joh 2, 12) secondo il quale Gesù si riferisce allo Spirito come a «sua madre» («Poco fa mia madre, lo Spirito, mi ha preso per uno dei miei capelli e mi ha trasportato sul grande monte Tabor»).3 Questo spiega l'identificazione dello Spirito con la Sapienza di Prv 8, 22 in uno degli schemi teologici antichi che ritroviamo per esempio in Teofilo di Antiochia (Ad Aut 2, 22) che è subordinazionista.

Sulla scia dello schema di Adamo, Eva e Seth, proposto da Gregorio di Nazianzo (Or. 30, 20), la Trinità sarebbe considerata parallelamente come una famiglia, laddove a volte è il Figlio ad essere maschile (Eva) e lo Spirito femminile (Seth) altre volte viceversa. Come accade nella famiglia, l'identità sessuale del figlio non sarebbe importante, ma egli sarebbe importantissimo per la funzione di legame tra i genitori (questo sarebbe stato implicitamente ammesso da Riccardo da S. Vittore quando parla del fatto che un terzo è importante per l'amore nella Trinità).

Come abbiamo visto questo schema implica uno schema subordinazionista o del Figlio o dello Spirito e quindi una relativa concezione subordinazionista della donna. Qui ci viene in aiuto da una parte Nicea che con l'homoousios taglia netto queste implicazioni e ogni tentazione di considerare solo il Padre propriamente Dio e conseguentemente solo l'essere umano maschile propriamente e perfettamente umano (Burrus). Dall'altra il concetto di perichoresis contrasta il subordinazionismo latente in questo modello. È infatti la relazione a rendere una persona tale, e non il matrimonio. Anche per quanto riguarda la subordinazione: essa fa parte non della Trinità immanente ma solo economica. L'obbedienza del Figlio è nella Trinità economica e non in quella immanente.

Il rischio di un tale approccio è interpretare la Trinità in totale parallelismo con il mondo creato o addirittura con quello dopo il peccato (la subordinazione della donna proviene infatti da una struttura di peccato), e non in senso analogico. Il rischio di arianesimo è in agguato in ogni tentativo di questo tipo.4

Le tre persone divine non sono persone come lo sono quelle di una famiglia; non sono tre come il numero tre. In modo particolare il concetto di famiglia e il concetto di persona che essa implica, ha un limite intrinseco che rischia ad ogni momento il triteismo.

Va infine segnalato che il «Padre materno» e la «Madre paterna» (Boff; Moltmann) sanno di patripassianismo insomma di monarchianismo/modalismo se non chiariamo la relazione tra ruoli e identità sessuata (sex-gender).

Insomma, fortemente problematico su vari aspetti, questo tentativo di pensare la Trinità in analogia alla relazione familiare (cfr. anche F. Mayr o L. Boff) non riabilita il femminile ma lo ricolloca nella subordinazione ineguale. I problemi che si incontrano in questo tipo di discussioni sono così riassumibili:

  1. Si suppongono una Maschilità e una Femminilità archetipe (divine?) che restano da dimostrare (se non siano cioè solo astrazioni del concreto esistere di uomini e donne).
  2. Vengono attribuiti al maschile o al femminile, come naturali, connotati che sono invece culturali, frutto cioè dell'aspetto che i ruoli di uomini e donne nella società hanno assunto in una determinata epoca o luogo.
  3. La femminilità (e quindi la donna) assume solitamente una posizione subalterna (passiva, ricettiva, e in definitiva inferiore).

Si capisce come il nucleo di questi problemi sia nel tipo di connessione che viene teoreticamente pensata tra sex e gender.

6. Impronunciabilità e inconoscibilità della natura di Dio

In questo discorso del dire Dio va ricordato che le metafore tutte implicano una sorta di corporeità che Dio non ha; si tratta cioè di nomi che dicono Dio sempre in relazione a noi e non quale egli è in se e per sé (cfr. DV 13).

La stessa rivelazione non dissolve il mistero che Dio è. L'elenco dei teologi che nella tradizione hanno sottolineato questo sarebbe lungo (Giustino, Clemente, Ireneo, Tertulliano, Origene, Cappadoci, Agostino, Ps-Dionigi, Tommaso). In particolare i Cappadoci, che sono stati tra i protagonisti della prima formulazione del dogma trinitario, ci sono in questo ancora maestri.

Opponendosi ad Eunomio i Cappadoci affermarono che l'essenza di Dio è innominabile e inconoscibile. Essi negarono ogni comparazione tra generazione umana e divina. Dio non è maschio per il fatto che è chiamato Padre, nè ha a che fare con matrimoni, gravidanze o aborti (Gregorio di Nazianzo, Or. 31, 8). Dio non compie atti sessuali, come si ammetteva invece per le divinità pagane. Sulla scia di Origene, anche i Cappadoci affermano che Dio non è comparabile a nessuna realtà individuale corporea (Coakley).

Sono essi a ricordarci che Dio non è il nostro linguaggio essendoci una diastasis tra noi e Lui.

Ma come ha detto recentemente Jean-Luc Marion: "Quello che stupisce non è tanto la nostra difficoltà a parlare di Dio, quanto la nostra difficoltà a tacere di Lui".

7. Essenza di genere o persona di genere?

Se da una parte dobbiamo rinunciare a parlare della Trinità immanente, possiamo però descrivere i suoi rapporti con noi, uomini o donne e la cui identità personale viene determinata anche dalle relazioni a e dai ruoli che abbiamo.

Qui si inserisce una riflessione sull'identità di genere che riguarda da vicino anche le categorie con cui si è elaborato il dogma della Trinità: ousia, prosopon, hypostasis, (physis). Sappiamo già la difficoltà di tradurre in latino ciascuno di questi termini (si ricorderà ad esempio che Girolamo non capiva come i greci potessero accettare la formula treis hypostaseis).

Come è stato già detto, i femminismi presentano una gamma di tendenze teoretiche anche molto differenti tra loro. In linea di principio possiamo parlare di due tendenze estreme ed opposte: potremmo chiamare essenzialismo la linea che crede in una essenza del maschile o del femminile che informerebbe l'identità personale degli uomini e delle donne a livello «ontologico» (e qui l'identità personale e i suoi ruoli sarebbero determinati essenzialmente dalla struttura anatomica dei corpi, cioè dal sex). Potremmo chiamare decostruzionista la tendenza che ritiene l'identità il frutto di una autodeterminazione totale di sé, al punto che il genere potrebbe essere del tutto staccato dal sex (una sorta di ruolo senza essenza). Nel primo caso -- stando ai termini trinitari tradizionali -- avremmo una hypostasis determinata da o coincidente con l'ousia; nel secondo un hypostasis determinata e/o coincidente con il prosopon

Abbiamo insomma da una parte il discorso essenzialista che implica un concetto di natura (ousia) inteso inteso in senso staticcizzato e che sarebbe prescrittivo nei confronti dell'identità (hypostasis) e dei ruoli (prosopa); dall'altra un concetto di individuo che suppone un dualismo tra cultura e natura, essenza e apparenza, sulla base di una idea di soggettività personale (hypostasis) assolutamente individualista e performativa.

A mio parere la nozione di essenza intesa in modo aristotelico nell'essenzialismo e l'idea di individuo inteso in senso post-moderno nella Gender Theory della Butler risultano entrambe incapaci di reggere una riflessione sull'identità personale dei generi maschile e femminile. Ciascuno è tuttavia capace di dire una parziale verità sulla persona: essa è determinata (ma come e quanto?) dalla sua sessuazione corporea e tuttavia essa va anche «costruendosi» tramite le sue esperienze e i suoi ruoli.

Propongo qui alcuni punti della dottrina della trinità che possono venire in aiuto per una riflessione sull'identità di genere, riflessione che è ancora nella sua infanzia ed è di là dal poter vedere un orizzonte di soluzione.

Le differenze personali in Dio sono la cifra della relazione, spiegava Agostino nelle belle pagine del trin. V, 5, 6-6, 7;8, 9. Questa idea è diventata classica nella formulazione di Anselmo: «omnia unum sunt in divinis, ubi non obviat aliqua relationis oppositio» (Proc. Sp. S., 1) recepita dal Concilio di Firenze (Decretum pro Iacobitis, DS 1330).

Nel Dio trinitario la differenza e l'alterità sono parti costitutive della sua vita interna (la dinamica delle Relazioni).

La definizione di persona secondo Boezio «naturae rationalis individua substantia», non potrebbe essere accettata come significato del termine persona in trinitaria: ne scaturirebbero tre dèi, perché tre sostanze o tre centri di volontà autodeterminantesi.

Il femminismo della differenza che vede la diversità femminile/maschile come delle essenze, non regge a questo concetto, perché le persone umane sessualmente differenziate non sono ontologicamente differenti.

D'altra parte Tertulliano, il primo ad inserire il termine persona in teologia, lo usa per escludere l'uno o l'altro ruolo (il prospon greco) che un Dio monarchiano assumerebbe in diversi momenti. Persona indica in Tertulliano un essere con relazioni sostanziali interne (cfr. Adv. Prax. 27). Questo concetto di persona esclude l'idea di persona queer.

Quando il concetto viene sviluppato nel IV-V secolo, in relazione a Dio si affermano tre persone e una natura, mentre in relazione a Cristo una sola persona con due nature. Ed è in riferimento alla persona di Cristo che nella ep. 137 Agostino usa il termine persona, volendo intendere l'essere umano singolo come inesplicabile miscela di anima e corpo. L'unità corpo-anima cioè nella persona umana è tale che non si può dire né che io sono solo il mio corpo, né che sono solo la mia anima (cfr. il «paradigma complesso», Bonaccorso).

Come nella definizione di Calcedonia si dice che nella persona di Cristo c'è una unità tra le due nature «inconfuse, immutabiliter, indivise, inseparabiliter» (DS 302), così ogni persona umana costutuisce una indivisibile unità anima-corpo.

Cosa possiamo dedurre da questi punti fermi?

Anzitutto mi pare, contro la teoria del gender à la Butler, che si possa dire che le persone sessuate non sono determinate nella loro identità solo a partire da un ruolo che svolgono; d'altra parte, contro l'essenzialismo, l'uomo e la donna non sono due essenze (MD 6). Si tratta di differenze che scoprono la propria identità piena (riguardante anche il corpo) proprio in relazione. Persona quindi non è concetto essenziale ma relazionale, la cui libertà non si costituisce e costruisce contro quella delle altre persone. Nemmeno però è concetto determinato solo dal ruolo assunto.

La differenza di cui è portatore il corpo non è senza rilievo. Tale differenza da una parte (come in trinitaria) si presta bene a rimandare al tipo di alterità interna alla condivisione ontologica della stessa natura (umana), dall'altra costituisce un dato specifico che determina tutta la persona (come in cristologia).

Le teorie del gender alla Butler sembrano condividere con tanta parte della la storia della teologia cristiana proprio la negazione di un significato del corpo in relazione a Dio, un corpo invece sessualmente rilevante non solo in campo genitale e procreativo, ma anche sociale e culturale e magari ecclesiale e sacramentale. La sessualità infatti non è fondamentale solo ai fini della procreazione ma è in gioco sempre nel nostro relazionarci.

Tuttavia siamo ancora lontani dall'aver idee chiare rispetto alla relazione tra «anima» e corpo sessuato, per tirare conclusioni più chiare. Per questo è urgente focalizzare in antropologia su questo punto gli sforzi della riflessione.

8. Che genere di Trinità?

In questo titolo possiamo notare il problema del termine «genere», che può essere usato nel significato di «razza» «specie» (come nell'ironico titolo) o come invece specificazione dell'uno o dell'altro sesso. Ben dice questa ambiguità, quindi, ciò che abbiamo visto in queste riflessioni.

Il «gender trouble» in cui siamo incappati quando abbiamo cercato di definire (il senso del) le sessuazioni nelle Persone della Trinità è anche un chiaro esempio del limite del nostro linguaggio al quale dobbiamo arrenderci. Come abbiamo visto, ciascuna persona della Trinità (hypostatsis) e la Trinità tutta intera (ousia) può essere descritta in termini maschili e/o femminili e questi assumono significati diversi: in particolare la femminilità presente in Dio non sempre può equivalere ad una valorizzazione della femminilità e della donna. La Trinità può essere sì, utilizzata per giustificare assetti ideologici maschilisti, ma può anche valere il contrario: essa può aiutare anche una visione maggiormente «woman friendly» della chiesa e della società.

Ci siamo trovati di fatto davanti alle interpretazioni dei ruoli maschili o femminili, quando riferiti a Dio. Si può quindi supporre, come fa P. M. Collins, che la stessa maschilità, la cui percezione sta fortemente cambiando, plasmerà presto nuovi aspetti dello stesso Dio Padre.

Parlare di Dio in termini sessuati implica una connotazione di desiderio, di amore affettivo e di relazione personale che resta la modalità più forte con cui noi esseri umani sperimentiamo un legame radicale, forte e orientante (come è quello con Dio). Una totale desessualizzazione della Trinità insomma non è auspicabile, benché nella tradizione, già prima di Agostino (che ne offre 13) abbiamo avuto differenti immagini, anche non personali, per parlare della Trinità.

Sotto questo punto di vista è significativo che la formula battesimale promossa dalla teologia femminista che si rivolgeva a Dio come «Creatore, Redentore, Sostenitore» sia stata recentemente condannata. Si trattava di una formula tendeva ad un vero inclusivismo evitando associazioni maschili o femminili con Dio o con ciascuna delle persone divine restando comunque rispettosa dei titoli biblici. Essa presentava però diverse difficoltà: anzitutto distinguendo Dio solo per le sue attività rischiava di cadere nel sabellianismo e inoltre non metteva in evidenza le relazioni tra le Persone. In secondo luogo, essa rimuoveva il collegamento tra umanità e Trinità presente per esempio nel tema dell''ad immagine'. La cosa più grave resta a mio parere la mancanza di personalità di Dio. In fondo la condanna di questa formula potrebbe essere letta proprio come l'irrinunciabilità da parte della fede di attribuire una certa personalità a Dio e la personalità -- in termini umani -- non può che essere associata sempre alla sessuazione che sa dire meglio di qualunque altra determinazione caratteriale l'identità e la differenza tra gli esseri umani. Con questa irrinunciabilità della personalizzazione nel nominare Dio, la teologia afferma anche che la sessualità è struttura fondamentale della persona umana. Essa, cioè, non va intesa esclusivamente come un mezzo per il mantenimento della specie, ma rivela intrinsecamente in sé caratteristiche relazionali, mutuali, comunionali e spirituali per cui non possiamo rinunciarvi senza rinunciare all'umanità stessa in quanto umana.

Parlare di Dio, insomma è parlare anzitutto dell'uomo e del suo destino. Dio non è né maschio, né femmina, ma ha creato l'uomo e la donna a costruire le proprie persone e a plasmare le loro relazioni ad immagine dell'amore di Cristo Risorto. L'uomo e la donna trovano la loro piena maturità quando imparano ad integrare e dosare in sé resistenza e resa, azione e passività, tenerezza e decisionalità.

E come l'immagine dell'uomo viene accresciuta dall'ammettergli caratteristiche femminili, di tenerezza, cura e vulnerabilità, così l'antropologia sarà arricchita quando anche la donna sarà sempre più considerata capace di rappresentare non solo l'aspetto femminile di Dio. Le caratteristiche tradizionalmente ritenute maschili di autorità, potere, razionalità e leadership sono oramai una conquista delle donne nella società odierna e tale conquista ha dimostrato che ciò che si credeva femminile «per natura» era in realtà un'ideologia culturale. Ciò che abbiamo inteso in passato per maschile e femminile non potrà che diventare sempre più parte di una maggiormente compiuta e matura definizione dell'antropologia duale e della vita cristiana.

A fronte di questo è emerso con chiarezza che una lettura più corretta delle relazioni divine scardina ogni attribuzione ultraletterale del genere alla Trinità, scardinando anche ogni pretesa di una comunità che non tenendo conto della pari dignità dei generi nel costruire una comunità crede di rivelare il volto completo di Dio.

Certo Dio resta ineffabile, ma per non restare del tutto senza parole dobbiamo prendere immagini tratte dalla creazione, coscienti che il Decalogo impone che nessuna di queste immagini sia considerata sostitutiva e completa per dirLo. Che queste immagini allora siano molteplici e che siano tra loro anche conflittuali, perché ci ricordino che in niente Dio è contenuto e definito compiutamente. Che le tante imagines trinitatis siano quindi sessuali e desessualizzate, personali e depersonalizzate, perché una vita spirituale sia ricca e sana.

Se però l'unica immagine autentica di Lui resta il vivente (Gen 1) che gli dà gloria (Ireneo) vuol dire che mistero di questo Dio che non è tre e che non è solitario, più che definito può essere adorato in quel culto spirituale (Rm 12, 1) che, nella verità (Gv 4) delle persone che siamo -- sempre più «multitasking» e nella necessità di gestire ruoli diversi, in relazioni multiple e di vario tipo -, costruisce una comunità di uguali, come atto della stessa economia divina (LaCugna).

Il dogma della Trinità alla prova dell'epistemologia femminista regge: esso rinforza e afferma i valori della soggettività e della differenza, permette il linguaggio dell'eros nel discorso su Dio e sfida la teologia a svilupparsi verso una comprensione sempre più piena della Rivelazione.

Copyright © 2011 M. Benedetta Zorzi

M. Benedetta Zorzi. «Che genere di Trinità? La teologia trinitaria alla prova dell'epistemologia femminista». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [**53 B].

Note

  1. Per il passaggio (misogino) di Filone. Testo

  2. Ma si vedano le analisi socio-culturali di H. Haering, Die Mutter als die Schmerzensreiche , 661-65. Testo

  3. Anche il Vang. di Tommaso; nel Vang. di Filippo lo Spirito Santo è una vergine consorte del Padre. Testo

  4. Gioacchino da Fiore -- nota Williams -- suggerisce di spiegare non la Trinità partendo dal mondo ma viceversa. In questo caso l'immagine della Trinità nella famiglia umana implicherebbe uguaglianza e pari dignità tra uomo e donna, nonostante ruoli differenti: unità nonostante eguaglianza in essenza. Sed contra: cfr. il concetto di Rivelazione espresso in DV 13. Testo

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