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La verità incompiuta della Trinità

di Georgia Zeami (Roma, 26-28 maggio 2011)

1. Filosofia ed esperienza religiosa

A dispetto di una consolidata, anche se non poco problematica, lettura della filosofia di Heidegger in senso anticristiano,1 negli ultimi anni si è rafforzato un versante ermeneutico che, invece, pone marcatamente l'accento sull'ispirazione religiosa del suo pensiero.2 A me pare che l'incidenza della problematica religiosa, e in particolar modo della cristiana, sia innegabile nella filosofia di Heidegger. Soprattutto nella prima fase del suo itinerario speculativo, nei corsi dei primi anni Venti3 consacrati all'interpretazione dell'esperienza di fede cristiana, Heidegger, seppur non tematizzando il plesso teologico della Trinità, non soltanto mette in luce, in modo sorprendente, l'andamento intrinsecamente trinitario dell'esperienza di fede, ma di più evidenzia il carattere aperto e potente della verità che da essa dirama.

Che ti serve saper discutere profondamente sulla Trinità,
se non sei umile, e perciò alla Trinità tu dispiaci?
Invero non sono le profonde dissertazioni che fanno santo e giusto l'uomo;
ma è la vita virtuosa che lo rende caro a Dio.
Preferisco sentire nel cuore la compunzione piuttosto che saperla definire.

In questa lunga citazione l'autore della Imitatio Christi ammonisce il credente a procedere per gradi nel cammino della fede, anteponendo alla speculazione l'imitazione, alla teoria la pratica di vita, alla visione l'audizione della voce della Trinità che si articola in modo "sinfonico". Nel 1920, quando Heidegger si appresta a tenere il primo dei corsi dedicati alla fenomenologia della vita religiosa, corso che avrebbe dovuto intitolarsi Fondamenti filosofici della mistica medioevale,4 l'Imitatio Christi non solo compare, al fianco dell'opera di Eckhart, di Bonaventura e di Teresa D'Avila tra i testi di riferimento, ma se ne trova sempre una copia sul suo tavolo di studio e di lavoro di Heidegger. Avvenimento che non è, come vedremo in seguito, privo di significato.

Nei corsi friburghesi dedicati alla Fenomenologia della vita religiosa il filosofo tedesco elegge l'esperienza cristiana della fede a luogo paradigmatico dell'esperienza effettiva della vita, vero e proprio leitmotiv della sua revisione della fenomenologia in quegli anni. Quasi senza soluzione di continuità nelle pagine delle lezioni la filosofia si immerge nelle pieghe dell'esperienza religiosa, rivelandone un carattere che la stessa teologia -- almeno questa è la convinzione del filosofo nei primi anni Venti -- non sarebbe stata in grado di portare alla luce. La filosofia, infatti, e nello specifico la declinazione impressa da Heidegger alla fenomenologia della vita, che riconosce nell'indicazione formale (das formal Anzeige) il suo strumento d'indagine principale, consentirebbe un accesso originario all'esperienza religiosa, dal momento che ne ricalcherebbe la dinamica essenziale -- e non certo i contenuti, spiega Heidegger, i quali piuttosto si rendono comprensibili solo all'interno dell'esperienza stessa5 -- che ne sta a fondamento.

Intesa come modus operandi, l'indagine filosofica appare strumento eccellente capace di aprire un varco di comprensibilità -- che non è tuttavia totale -- nel tessuto vitale dell'esperienza religiosa.6 Il legame istituito tra filosofia ed esperienza religiosa si espone, tuttavia, costitutivamente a molteplici obiezioni, tra cui la più importante è senza dubbio la difficoltà di comporre l'andamento di una disciplina teoretica, universale e necessaria con la praticità, la singolarità e la libertà dell'esperienza religiosa che prende vita nel cristianesimo. Se, insomma, in filosofia viene prima la speculazione dell'imitazione, la teoria della pratica, la visione dell'audizione qual è il punto di congiunzione tra filosofia e religione e, più in particolare, tra filosofia e cristianesimo?

Per comprendere il nesso che lega intimamente filosofia heideggeriana e cristianesimo è necessario sottolineare come dalla prospettiva del giovane Heidegger l'anteriorità dei modi, seppur affermata, non coincida, tuttavia, come mostrerò nel corso della relazione, con una superiorità assegnata alla dimensione teoretica del pensare; quest'ultima, al contrario, viene collocata solo nel secondo stadio del pensiero. Essa è cioè sempre riflessa e mediata.

Ma se il teoretico è il secondo stadio della riflessione -- come Heidegger ammette -- , cosa sta al principio del pensare, ovvero cosa muove la filosofia a intraprendere una ricerca?

Nei primi anni Venti, Heidegger non ha dubbi nell'indicare l'esperienza effettiva della vita come ciò da cui la filosofia scaturisce e anche ciò a cui, attraverso un movimento di rimbalzo, deve ritornare.7 L'esperienza effettiva è intesa, anzitutto, nel suo carattere originariamente pratico-esistenziale. Ancora in Essere e tempo -- dove pur si assiste ad un sostanziale slittamento della problematica centrale, poiché se ancora l'esserci effettivo è a tema dell'indagine filosofica, scopo della ricerca non è più una sua comprensione, quanto piuttosto una illuminazione dell'essere -- alla pràxis è assegnato un primato.8 È pratica, ad esempio, la relazione che l'esserci intrattiene con gli enti, intesi originariamente come strumenti in vista della realizzazione di un fine. È pratica, ancora, la relazione fondamentale con gli altri esserci, visti nella loro differenza dagli enti come non utilizzabili.9

Ora, focalizzando l'attenzione sull'esperienza effettiva della vita Heidegger intende non tanto sostenere che la filosofia debba rincorrere la vita nel suo darsi immediato (cioè, non si situa sulla linea di continuità che dal vitalismo giunge, problematicamente, sino a Dilthey il quale invocava un nacherleben l'esperienza vissuta),10 quanto mostrare come la modalità primaria del pensiero, se accoglie la sua originaria vocazione e congiunzione alla vita, sia attuativa e cioè consista nel seguire la dinamica costante che caratterizza l'essere, a sua volta irriducibile a quell'interpretazione metafisica che lo riduce a semplice presenza. La critica heideggeriana al concetto di essere come presenza, peraltro, sorgerebbe, come ha ben sottolineato il teologo Bruno Forte, da un certo influsso della tradizione teologica cristiana e in particolar modo della riflessione sulla Trinità e sul mistero trinitario che, frantumando l'idea stessa di un fondamento stabile e immobile, concepirebbe l'essere in modo nettamente alternativo a quello greco. Ed è proprio sulla base della critica all'essere come presenza che sorge l'idea che il soggetto, nell'esperienza effettiva della vita, si rapporti ai propri oggetti non in modo estrinseco, ma sempre intrinseco e cioè all'interno di un contesto significante e complesso che precede, o sostanzia, i rapporti stessi: il molteplice, in tal modo, viene prima tanto della relazione biunivoca -- tra soggetto e oggetto -- quanto dello stesso soggetto individuale -- che è a sua volta il risultato di un rapporto di identificazione e differenza con l'altro. Se da un punto di vista strettamente storiografico Heidegger tende a collocarsi sulla scia già avviata da Husserl e dalla fenomenologia, affermando che nella vita effettiva non vi è distanza tra soggetto e oggetto, a differenza del maestro, il quale reputava proprio perciò necessario mettere tra parentesi la relazione per guadagnare l'altezza e la distanza della visione, ritiene indispensabile collocare il pensiero proprio su quel varco delicatissimo che separa la vitalità dell'esperienza effettiva dalla riflessione mediata. Mentre la filosofia, in quanto movimento secondo rispetto alla vita, si situerebbe pienamente ad un secondo livello, il pensiero originario, invocato a gran voce in questi primi corsi, seguendo l'andamento vitale -- ma non perciò irriflesso -- e primo della relazionalità complessa della vita, si collocherebbe interamente ad un livello preteoretico.11

Ora, non è senza significato che proprio in questi stessi anni alla incessante richiesta di un sovrappiù di originarietà in filosofia e alla consapevolezza che la dimensione preteoretica sia motore d'avvio di un'autentica riflessione ontologica si accompagni la forte presenza di temi e motivi religiosi. Potremmo addirittura affermare che la fenomenologia della vita effettiva, ovvero l'andamento impresso all'indagine filosofica almeno sino ad Essere e tempo, scaturisca dalla meditazione su testi religiosi e che, perciò, essi siano ispiratori di una svolta filosofica. Non soltanto il binomio filosofia-cristianesimo è nel giovane Heidegger ben più che accidentale, ma il motivo della Trinità, sebbene non tematizzato esplicitamente, agisce dall'interno nella edificazione del tessuto speculativo del suo pensiero.

2. Il positum della fede cristiana

Per tracciare adeguatamente i rimandi alla Trinità è necessario, in prima battuta, recuperare quell'idea che della fede cristiana Heidegger sintetizza nella celebre conferenza del 1927. L'audace definizione, posta nell'esordio di Fenomenologia e teologia,12 lungi dal coincidere con una mera declassificazione della teologia cristiana, dal rango di scienza ontologica a quello di scienza ontica, mette in luce, a me pare, un carattere determinante della fede cristiana che sta a fondamento della teologia come scienza e, nello specifico, della figura trinitaria quale momento essenziale di essa. La teologia è, al pari della matematica o della biologia, una scienza positiva in quanto si edifica sul fondamento di una determinata regione dell'ente dischiusa anticipatamente alla comprensione. Il positum della teologia risiederebbe precisamente nella cristianità, e cioè nell'incipit di una relazione tra Dio e l'uomo che resta sospesa tra il già della rivelazione e il non ancora della parousìa. L'evento esperienziale-concreto della crocifissione, da intendersi come interruptio del tempo cronologico e, insieme, come apertura di un orizzonte ulteriore di significatività, se per un verso è datum, assimilabile ai dati che stanno a fondamento delle altre scienze positive, per l'altro si differenzia da ogni altro positum assumendo la forma del factum. Segnando il posizionamento di una verità che resta in attesa di una completa realizzazione,13 possiede, cioè, un carattere ontologicamente incompiuto.

L'evento esperienziale-concreto della crocifissione, letto quale momento che registra l'insorgere di un mutamento, se per un verso è assimilabile perciò a qualsiasi altro avvenimento storico, per l'altro è irriducibile alla dimensione storico-spaziale del tempo, poiché consiste precisamente nell'apertura di un evento che richiede partecipazione promettendo rigenerazione.14 Una simile rigenerazione non è, tuttavia, rimandata ad un tempo fuori dal tempo, ma in qualche modo già accade e avviene. Peculiarità della fede cristiana, fondata su un avvenimento storico, è a parere di Heidegger, l'essere in se stessa storica, e ciò significa che essa non soltanto si temporalizza, ovvero vive nel tempo, ma vive il tempo,15 temporalizzando fattualmente l'esistenza credente e la verità che è accolta nell'annuncio della rivelazione. Sulla scorta di simili considerazioni Heidegger può, perciò, affermare che solo una teologia -- da intendersi come lo sviluppo razionale e coerente di un sistema della fede (che non lascia spazio ad alcun approccio laico al positum da cui deriva) -- capace di accogliere la sfida di una fede storica potrà corrispondere all'essenza del factum ontologico che ne sta a fondamento. Una simile impresa è, però, realizzabile -- è interessante il termine usato dal filosofo tedesco -- solo per avventura, e cioè sganciandosi dalle certezze di quei sistemi che le forniscono aprioristicamente un assetto razionale e funzionale.16

Ora la questione della Trinità, e della verità che nella e dalla Trinità scaturisce, deve essere ricondotta al tassello primario della definizione heideggeriana della fede cristiana e cioè l'istituirsi di un rapporto ontologico che attraverso la crocifissione si stabilisce tra l'uomo e Dio. Elemento centrale di un simile rapporto, il Cristo è il fra-mezzo, ovvero il tramite attraverso cui è possibile, per un verso, testimoniare la verità e, per l'altro, realizzare se stessi. Cristo non sarebbe, insomma, termine mediano, poiché se così fosse la rivelazione si ridurrebbe ad un momento di un movimento dialettico triadico, tale per cui colui che muore sulla croce sarebbe soltanto la pars finita di una pars infinita. Come nell'incedere della dialettica hegeliana, si dovrebbe assumere che il tolto rimane per essere conservato e che la morte è, perciò, soltanto un stadio strumentale alla resurrezione. Qui si tratta, invece, di un'interruzione che genera un mutamento irreversibile, spostando l'intero movimento dialettico dall'interno all'esterno. Cristo indicherebbe, in tal modo, il medium della verità cristiana, e cioè la via sulla quale è necessario incamminarsi per giungere a Dio. Via della testimonianza, della conversione e dell'esempio, la frammezzità del Cristo non soltanto incide sulla natura della sostanza divina, spezzandone l'integrità, ma agisce nell'orizzonte mondano nel suo insieme, ridisegnando e riconfigurando il tempo, il sapere e la stessa identità dell'esistenza credente.

Se, insomma, dalla prospettiva teologica, come peraltro nell'incedere della dialettica hegeliana, il positum della fede cristiana si rende trasparente attraverso la dinamica trinitaria Padre-Figlio-Spirito, dalla prospettiva dell'accesso fenomenologico -- che, si badi, non si spinge sino all'emersione del cosa, ma si limita a tratteggiare il come di un vissuto, ovvero la modalità attraverso cui l'esistenza cristiana si rapporta ai propri contenuti -- la fede, e dunque la Trinità, non può essere vista e intesa in se stessa, ma piuttosto va seguita nel suo farsi storia nella storia del singolo credente, e cioè nella sua esperienza effettiva. Heidegger, insomma, indagando il come dell'esperienza cristiana della fede, intende mostrare l'incidenza e le fattezze che la Trinità assume nell'esperienza effettiva del singolo. Se la fenomenologia della vita, infatti, ha lo scopo di mettere in luce la modalità fondamentali con cui la vita effettiva è vissuta, allora il fine delle indagini heideggeriane sul cristianesimo originario sarà mostrare come il credente viva la propria fede, ovvero come il motivo trinitario si dialettizzi effettivamente nell'esistenza concreta.

3. Contro la Triade dialettica in direzione della Trinità concreta

Il testo in cui l'esperienza cristiana della fede è vista nel suo andamento intrinsecamente trinitario è, senza dubbio, il corso del 1920-1921 Introduzione alla fenomenologia della vita religiosa.17 In queste lezioni Heidegger elegge l'esperienza paolina a paradigma del Cristianesimo delle origini -- non certo un'origine data dalla vicinanza temporale, ma propriamente un'originarietà, una'autenticità del vissuto -- . Il motivo mistico è a tal punto decisivo nel plesso delle epistole paoline che Heidegger non esita ad indicare la celebre formula in Cristo come il vero leitmotiv della sua esperienza di predicatore errante.18 Al fondo del motivo mistico se, per un verso, è presente il rimando all'unione con Dio, e dunque l'idea di unità, per l'altro esso è scandito da un costante riferimento al plesso trinitario e dunque dall'irruzione di un'inquietudine e di una precarietà che contrassegna l'intera speculazione paolina

Ora a partire dalla formula in Cristo e dall'indicazione della comunità dei credenti come corpo mistico di Cristo -- paradigmatico è I Cor, 12, 12. 31 -- , il giovane filosofo friburghese delinea una straordinaria dinamica di vita che vede nel motivo trinitario tanto l'attuazione di una precisa modalità storico-effettiva, quanto l'indicazione di una verità che si contrappone nettamente a quella greca in virtù un'identità aperta e potente.

Da qui deriva sia una specifica dinamica temporale, ermeneutica ed esistenziale trinitaria, dinamica che Heidegger rintraccia nel tessuto delle epistole paoline, sia una configurazione della verità che si apre alla testimonianza nell'esistenza credente ed è, perciò, nel senso dell'accesso fenomenologico, caratterizzata da una costante inquietudine e attesa. Analizzeremo, dunque, in primo luogo il triplice andamento della Trinità nell'esperienza della fede paolina (A) e, in secondo luogo, la specifica configurazione della verità che dalla e nella Trinità prende vita prendendo spunto dall'interpretazione heideggeriana del X libro delle Confessiones di Agostino19 (B).

3.1. Il triplice andamento della Trinità nell'esperienza della fede

Il tempo cristiano

Al principio dell'analisi delle epistole paoline, Heidegger sottolinea con forza la differente declinazione della temporalità presente nella predicazione paolina e nei racconti evangelici. Mentre nei Vangeli è annunciato, infatti, l'avvento del regno di Dio attraverso il racconto della vita di Cristo, nelle Epistole paoline è predicato il vangelo di Cristo, attraverso la cronaca del costituirsi delle prime comunità.20 La predicazione di Paolo -- scrive Heidegger -- è totalmente incentrata su un presente storico-esistenziale a partire dal quale il passato e il futuro vengono ridisegnati e sottratti a una semplice interpretazione cronologica; da un lato, il passato cui rimanda l'apostolo è memoria di un aver già saputo ed un esser già divenuti -- ovvero rimanda all'attualità di uno stato -- dall'altro il futuro della verità nuda e compiuta getta la propria ombra sul presente determinandone l'anticipazione -- sul tempo della parousia, scrive l'apostolo, non ho bisogno di dirvi, poiché voi sapete già con certezza (I Tes, 5, 1. 5). Paolo non annuncia, come gli evangelisti, la salvezza nel tempo futuro, ma afferma, piuttosto, la certezza che coloro che vivono in Cristo sono già salvi, predicando, dunque, un Messia presente. Ora sebbene l'articolazione del tempo sembri seguire apparentemente il delinearsi della successione cronologica, ovvero il riconcorrersi di passato, presente e futuro, in realtà il tempo determinante per il cristiano -- e questo è evidentissimo nelle due Lettere ai Tessalonicesi -- è quello della parousia. Heidegger fornisce della parousia un'ardita interpretazione.21 Se ci limitassimo, spiega il filosofo friburghese, a ricondurre la parousia al contenuto meramente escatologico dell'annuncio -- che l'inizio del tempo della fine è prossimo -- non si comprenderebbe fino in fondo la specifica dinamica temporale lungo la quale il cristiano vive il proprio tempo. Se, cioè, la parousia corrispondesse ad un determinato momento che occorre alla fine del tempo, allora essa comporterebbe l'estinzione del tempo, ovvero il suo comparire dopo il passato, il presente e il futuro. Il tempo della parousia si materializzerebbe nell'esistenza cristiana cancellando e superando il tempo dell'attesa. Paolo, invece, scrive Heidegger, pur vivendo nella sospensione tra il tempo dell'attesa e quello della parousia, non pensa una simile relazione in termini di contrapposizione o di esclusione; al contrario, azzarda il filosofo friburghese, egli ritiene che il tempo dell'attesa coincida con quello della parousia. Se, nell'esordio della sua interpretazione Heidegger aveva affermato che peculiarità del cristianesimo era vivere non nel tempo, ovvero nella successione di passato, presente e futuro, ma il tempo, qui si fa chiaro che il tempo del cristiano è il momento sempre presente dell'attuazione di una condotta di vita.22 Il cristiano vivrebbe sulla propria pelle l'unità del tempo, il kairòs della parousia. La dinamica temporale cristiana in un certo senso riprodurrebbe l'andamento trinitario che, se per un verso, si delinea nella triplicità fenomenica, per l'altro è racchiuso nell'integrità di dio. L'unità del tempo, insomma, non è un momento che viene alla fine del tempo, poiché se così fosse passato, presente e futuro si risolverebbero in una triade conologico-temporale. Al contrario l'istante, il kairòs, precede e sostanzia il tempo. E tuttavia, la concrezione dell'istante esperita nell'esistenza concreta della fede non immobilizza affatto il tempo racchiudendolo in un momento determinato. Al contrario proprio l'istante, in quanto tempo vissuto dell'attesa, dell'inquietudine e della tribolazione dilata all'intero corso dell'esistenza mondana, e dunque al tempo cronologico, la necessità che ogni momento sia l'attimo propizio per la decisione ad assumere su di sé la provenienza da Dio, la presenza della Croce e la salvezza dello spirito.

L'identità cristiana

È attraverso l'analisi della Lettera ai Galati che Heidegger mostra la natura peculiare dell'identità paolina e, perciò, dell'identità cristiana più in generale. Paolo, riferendosi al momento della sua conversione a Cristo, dice che nella sua vita è accaduta una anastrophè.23 Su questo termine il filosofo tedesco si sofferma, sottolineando come esso non indichi semplicemente un mutamento di vita, ma un ritorno all'origine. Non a caso Paolo dice: il Signore che mi scelse fin dal seno di mia madre (Gal, I, 15). La conversione, dunque, genera indubbiamente una frattura nell'esistenza paolina, ma tale frattura comporta un movimento di rimbalzo al principio, ovvero al suo essere più proprio. Quest'ultimo, scrive Heidegger, è inscindibile tanto da Dio quanto dalle comunità cui, di volta in volta, egli sente d'appartenere. Nella I Lettera ai Tessalonicesi si avverte concretamente come Paolo si trasformi all'incontro con la comunità di Tessalonica e come i tessalonicesi si trasformino all'incontro con Paolo.24 Così se la trasformazione dei Tessalonicesi dipende dal contenuto dell'annuncio di Paolo, che l'inizio del tempo della fine è prossimo, che la contingenza e l'imminenza di questo evento esige decisioni impellenti, allo stesso modo la trasformazione di Paolo dipende dalla ferma fiducia che i Tessalonicesi hanno nella veracità di quell'annuncio. Paolo non è più soltanto un singolo predicatore errante, ma un tutt'uno, ogni volta, e tutte le volte in modo diverso, con le comunità cui si rivolge, e queste stesse sono tali nella relazione con lui. Isolare l'identità paolina dalle comunità costituirebbe, quindi, un fraintendimento della sua situazione esistenziale. Al contrario è necessario interpretarne l'identità in base alla triplice scansione esistenziale della sua vita credente. La sua identità è data, infatti, dalla composizione concomitante del suo Selbstwelt (mondo del sè), ovvero del suo essere un predicatore errante, strappato via al fariseismo delle leggi che egli aveva difeso con fervore, del suo Mitwelt (mondo degli altri), le comunità della Grecia e dell'Asia minore cui di volta in volta si rivolge, e del suo Umwelt (mondo ambiente), il sovrapporsi della cultura farisaica, giudaica e pagana. L'identità paolina, insomma, reca le tracce di un triplice andamento. E se i contenuti della situazione esistenziale si laicizzeranno in Sein und Zeit, tuttavia resterà immutato nel tessuto speculativo dell'analisi ontologico esistenziale la determinazione dell'identità come il frutto del mondo del sé, del mondo degli altri e del mondo ambiente.

Il sapere cristiano

Ad uno sguardo estrinseco la dinamica conoscitiva che caratterizza l'esistenza cristiana potrebbe riassumersi nella formula solo a chi crede sarà rivelato. Questa formula, in qualche modo, converge con la dinamica fondamentale dell'ermeneutica, tale per cui la comprensione è possibile solo dopo aver accettato i presupposti della comunicazione stessa. Ora, non v'è dubbio che dalla prospettiva heideggeriana l'ermeneutica s'intrecci con la comprensione religiosa.25 E tuttavia nella dinamica del sapere che ha luogo nell'esistenza cristiana sembrano racchiudersi e comporsi le due modalità fondamentali dell'esperire cristiano, e cioè il vivere il tempo e l'essere già divenuti.26 Heidegger intravede un nesso tra l'attesa, la modificazione esistenziale e il sapere della fede, nesso che si sostanzia in una dinamica a-oggettuale. Il sapere di Dio è, in qualche modo, un sapere certo -- Agostino al principio del X libro delle Confessiones scrive di sapere in modo certissimo di amare Dio, ma di non sapere cosa ama quando ama Dio -- , ma allo stesso tempo è privo di un contenuto determinato. Il carattere non oggettuale del sapere cristiano se, per un verso dipende dalla specifica natura del Dio in cui si crede -- ma nel corso dell'interpretazione paolina, è bene annotare, Heidegger non usa questo argomento -- per l'altro sembra essere il frutto della specifica modalità o attuazione propria dell'esistenza credente.27 Scrive Heidegger: il sapere della parousia è un glaubende Wissen, ovvero un sapere credente.28 Si noti che Heidegger qui utilizza un participio attivo (glaubende) e non passivo (glaubente). Se avesse scelto un participio passivo allora significherebbe che il sapere che possiedono è dai cristiani creduto. Heidegger, invece, intende sottolineare una diversa configurazione e cioè che è questo stesso sapere, al quale i cristiani si affidano, ad attuarsi nella modalità del credere. Nell'ansia e nella tribolazione si articola il sapere credente, un'ansia e una tribolazione che connotano la fede nel suo statuto più autentico e che non cesseranno nemmeno quando sarà presente la perfezione (I Cor, 13, 13). Il sapere, insomma, della fede non consta di una stabilità che sola può essere garantita dall'immobilità dell'oggetto creduto. Al contrario proprio la dinamica intrinseca all'oggetto della fede, la Trinità come esplicazione sempre attuale della rivelazione, riveste il sapere di una costante inquietudine. Fede e inquietudine non rappresentano, in tal modo, momenti distinti o stadi che si escludono reciprocamente, quasi a immaginare che all'instabilità della prima debba seguire la stabilità della seconda, ma la trama della stessa esistenza credente.29

3.2. La possibilità è superiore alla realtà: la verità cristiana in fieri

Vorrei chiudere il mio intervento riferendomi a una pagina molto bella del corso del 1922 Agostino e il Neoplatonismo. In questo corso Heidegger pone l'accento sul carattere di transizione dell'esperienza religiosa agostiniana, che scandisce il passaggio tra lo Ur-Christentum, luogo originario della fede, e la Romanitas, intesa come mediazione e incorporazione delle categorie filosofiche greche in vista di una stabilizzazione della fede. Questo passaggio investe l'intero plesso concettuale del cristianesimo, ma è forse la concezione della verità a subire il contraccolpo più decisivo. Sebbene Agostino si situi al principio della Romanitas, si può tuttavia ancora riconoscere nella sua speculazione la dimensione autentica del cristianesimo e della verità che nella e dalla Trinità scaturisce.

A parere di Heidegger la narrazione della condizione esistenziale connotata dall'insorgere e dalla lotta contro la tentazione -- luogo paradigmatico del X Libro delle Confessiones -- rappresenta il tentativo agostiniano di attuare una vera e propria indagine fenomenologica ante litteram dell'esperienza di fede cristiana.30 Le tentazioni scandiscono a tal punto l'esistenza umana, che il vescovo di Ippona non esita a definire la vita in se stessa una costante tentazione. Ora, però, se per un verso la tentazione dà luogo ad una situazione dolorosa, per l'altro costituisce la condizione esistenziale privilegiata mediante cui è possibile esperire il proprio essere autentico. Un solo esempio per chiarire quella che, secondo Heidegger, è la posizione di Agostino. Quando ci si sveglia bruscamente dopo aver sognato di cedere alla tentazione ci si trova in uno stato di agitazione e colpevolezza. Pur essendo consapevoli di non aver ceduto alla tentazione, allo stesso tempo sentiamo un enorme senso di colpa per ciò che è accaduto nel mondo onirico. Al risveglio insomma si avverte una distanza tra il sé razionale e desto e il sé avvolto nel mondo onirico del peccato. Heidegger ritiene che il passaggio dal sonno alla veglia non debba essere interpretato come l'opposizione tra due stati. Procedendo in tal modo si porrebbe l'accento sulla differenza tra contenuti, operando della situazione una interpretazione teoretico-dialettica. È invece necessario ascoltare attentamente Agostino che si sofferma, invece, sul carattere transitorio di una simile esperienza. Il transeo, infatti, più che la seduzione della tentazione, indica una esperienza autentica del sé: la scissione tra i due stadi non è opponente, ma connotata da un costante mutamento, da una ferma instabilità. Cosa comanda il Dio rispetto alla tentazione? Non tanto, spiega Agostino, di estinguerla, ma di sopportarla, e cioè di portarne il peso. Non il peso, evidentemente della singola tentazione, ma il peso che la vita è in se stessa essendo una costante tentazione. Portare il peso della vita significa assumerne il carattere lacerato e inquieto, appropriarsi della costante sospensione del transeo, quel movimento del passare il cui arresto coincide con la perdita della vita stessa. Bisogna mantenersi, insomma, nell'inquietudine della vita affinché si apra la propria esistenza a Dio che è vis vita, vera vita, ma anche veritas.

La verità della Trinità non coinciderebbe, insomma, dalla prospettiva agostiniana con il possesso stabile di un contenuto, ma con l'assunzione in proprio di un compito che deve esser costantemente esercitato dal credente nell'esercizio della sua fede: mantenersi desti e vigili, come scrive ripetutamente l'apostolo di Tarso nelle sue lettere.

Heidegger si sofferma lungamente sul carattere inquieto dell'esistenza cristiana, distinguendo i cristiani dai non cristiani proprio a partire dall'insicurezza con cui i primi tengono alla verità e dalla sicurezza che, invece, caratterizza l'attaccamento dei secondi, i quali hanno smesso di cercare perché rassicurati dal possesso di una verità completa e compiuta.

«Ciò che è amato in quel momento [dagli uomini] -- un amore in cui si cresce mediante la tradizione, la moda, la comodità, l'angoscia di fronte all'inquietudine, il timore di trovarsi improvvisamente nel vuoto -- diventa esso stesso "verità" [...] da qui non vogliono lasciarsi stanare, con la motivazione, per loro in un certo senso genuina, di non voler essere ingannati, ossia di non essere per così dire "sfrattati" da ciò che hanno come verità».31 Coloro che credono che la verità si totalmente rivelata e immobile, sono rassicurati da una metafisica serenità; essi temono, perciò, di esser sfrattati dal momento che pensano di dimorare nella verità. Essi non comprendendo ciò che già Agostino aveva messo in luce e cioè che è la verità a dimorare in loro: «avremmo potuto credere che il tuo verbo fosse lontano dal contatto dell'uomo, e disperare di noi, se non si fosse fatto carne e avesse dimorato in noi».32

L'incontro con la verità non ha niente a che fare con il possesso di un oggetto o con il sapere stabile di una nozione, ma coincide con la possibilità di corrispondere all'annuncio di Dio che diviene attraverso il Cristo invito partecipazione e nello Spirito promessa di realizzazione.

Copyright © 2011 Georgia Zeami

Georgia Zeami. «La verità incompiuta della Trinità». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [**41 B].

Note

  1. Soprattutto in ambito cattolico, già durante i primi anni della ricezione italiana, ne sottolinea il carattere ateistico C. Mazzantini, Martino Heidegger. Osservazioni critiche sulla sua dottrina dal punto di vista della filosofia neoscolastica, in "Rivista di filosofia neoscolastica" 1935, pp. 268-282, a cui fa seguito A. A. Colombo, Martin Heidegger. Il ritorno dell'essere, Il Mulino, Bologna 1964. Paradigmatica è poi l'interpretazione di L. Pareyson, Heidegger: la libertà e il nulla, in «Annuario filosofico» (5) 1989. Testo

  2. A sottolineare, invece, il carattere religioso del suo pensiero M. Jung, Das Denken des Seins und der Glaube an Gott. Zum Verhältnis von Philosophie und Thologie bei Martin Heidegger, Königshausen & Neumann, Würzburg 1990; P. De Vitiis, Il problema religioso in Heidegger, Bulzoni, Roma 1995; H.-G. Gadamer, L'ultimo Dio. La lezione filosofica del XX secolo, Reset, 2000; L. Samonà, Implicazioni etico-religiose della fatticità, in Heidegger e gli orizzonti della filosofia pratica. Etica, estetica, politica, religione, A. Ardovino (a cura di), Guerini, Milano 2003, pp. 189-208; S. Poggi, La logica, la mistica, il nulla. Una interpretazione del giovane Heidegger, Edizioni della Normale, Pisa 2006. Testo

  3. M. Heidegger, Phänomenologie des religiösen Lebens, GA. Bd. 60, Hrsg. M. Jung, T. Regehly und C. Strube, Klostermann Frankfurt a. M. 1995; tr. it. Fenomenologia della vita religiosa, F. Volpi (a cura di), Adelphi, Milano 2003. Testo

  4. Il corso avrebbe dovuto tenersi nel 1918-1919, ma venne poi disdetto. Di esso rimangono bozze e appunti preparatori. M. Heidegger, I fondamenti filosofici della mistica medioevale, in Fenomenologia della vita religiosa, cit., pp. 381-421. Testo

  5. Ivi, p. 90 e ss. Testo

  6. Ivi, p. 105-106. Testo

  7. Ivi, p. 40. Testo

  8. Cfr. F. Volpi, L'esistenza come "praxis". Le radici aristoteliche della terminologia di Essere e tempo, in AA. VV., Filosofia, 1991, pp. 215-252; Essere e tempo: una versione dell'Etica Nicomachea? Heidegger e il problema della filosofia pratica, in Heidegger e la filosofia pratica, P. Di Giovanni (a cura di), Flaccovio, Palermo 1994, pp. 333-370. Testo

  9. Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, Max Nimeyer Verlag, Tübingen 1967; tr. it. Essere e tempo, P. Chiodi (a cura di), Longanesi, Milano 1976, §§15-18; 25-27. Testo

  10. Cfr. W. Dilthey, Das Problem der Religion, G.S., IV, Lipsia-Berlino 1924, pp. 288-305. Testo

  11. Cfr. M. Heidegger, L'idea della filosofia e il problema della visione del mondo, G. Cantillo (a cura di), Guida, Napoli 1993. Testo

  12. M. Heidegger, Fenomenologia e teologia, a cura di N. De Feo, La Nuova Italia, Firenze (Scandicci) 1994. Testo

  13. Ivi, pp. 9-14. Testo

  14. Ivi, p. 10. Testo

  15. M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, cit. p. 118. Testo

  16. M. Heidegger, Fenomenologia e teologia, Ivi, p. 18. Testo

  17. Si tratta del corso tenuto a Freiburg nel semestre invernale 1920-1921. M. Heidegger, Introduzione alla fenomenologia della religione, in Fenomenologia della vita religiosa, cit., pp. 33-203. Testo

  18. Ivi, pp.119-120; p. 177. Testo

  19. Si tratta del corso tenuto a Freiburg nel semestre estivo 1921. M. Heidegger, Agostino e il Neoplatonismo, in Ivi, pp. 205-377. Testo

  20. Ivi, p. 120 Testo

  21. Ivi, p. 90 e ss. Testo

  22. Ivi, p. 140. Testo

  23. Ivi, p. 108. Testo

  24. Ivi, p. 133. Testo

  25. Cfr. M. Heidegger, Aus einem Gespräch der Sprache. Zwischen einem Japaner und einem Fragenden, in Unterwegs zur Sprache, Hrsg. F.-W. Von Hermann, GA Bd. 12, Klostermann, Frankfurt a. M. 1985, pp. 83-155; tr. it., Da un colloquio all'ascolto del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, p. 83-125. Testo

  26. «L'essere divenuti è inteso nel senso che accogliendo ciò che va accolto si entra in una relazione con Dio». M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, cit., p. 135. Testo

  27. «Questo sapere è del tutto diverso da ogni altro sapere e ricordare. Esso risulta soltanto dal contesto della situazione dell'esperienza cristiana della vita», ivi, p. 134 Testo

  28. Ivi, p. 142. Testo

  29. Cfr. la voce Pistèuo curata dal fraterno amico di Heidegger R. Bultmann in Theologisches Wörtebuch zum Neuen Testament, G. Kittel (hrsg.), Stuttgart 1959; tr. it., Grande lessico del Nuovo Testamento, F. Montanini- G. Scarpat- O. Soffritti (a cura di), Paideia, Brescia 1975. Testo

  30. Cfr. Agostino, Confessiones, X, 30-34. Testo

  31. Ivi, p. 259. Testo

  32. «Potuimus putare verbum tuum remotum esse a coniunctione hominis et desperare de nobis, nisi caro fieret et habitaret in nobis». Agostino, Confessiones, X, 43, 69. Testo

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