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Per una fondazione teologica del concetto di relazione nella dottrina trinitaria

di Luciano Tallarico (Roma, 26-28 maggio 2011)

Il fondamento della teologia della relazione è la Trinità economica ossia tratta l'amore di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo che si rivela in una storia di volti; se Dio fosse un dono, verrebbe fatto a noi attraverso gli altri volti. Se Dio è Dio, deve venire a noi con tutto quello che esiste. Se si accetta questa provocazione per risalire in qualche modo all'esperienza di Dio, bisogna saper andare verso di Lui. Nell'incarnazione, nel Cristo, siamo impegnati non ad uscire dalle persone, dalle cose, ma, se Dio ha un volto, è quello di tutti. È un volto reale che non distoglie dagli altri volti, non cancella il volto delle persone e delle cose, le fa ingrandire e le riassume. Per questo, Dio emerge come la profondità nascosta dentro ogni valore, la verità dentro le verità, la bellezza dentro le bellezze, il valore dentro i valori. È l'immanenza di Dio dentro le cose. Non un Dio collocato prima o dopo, fuori le cose, ma un Dio che alimenta e perfeziona ogni realtà.

La dottrina trinitaria afferma che Dio non è un solitario, quindi potenzialmente un egoista (di per sé anche l'amore potrebbe alimentare egoismo: c'è anche l'amore di sé, l'amore egoista), bensì una famiglia,1 in cui l'amore è sempre in circolo; viene comunicato, dato e ricevuto, non è mai fermo, mai proprietà privata o forza di accaparramento per sé.

La cristologia ci ha insegnato che l'intimità di Dio ci viene svelata solo da Cristo. Dio è amore fecondo e totalmente comunicativo. Perciò ci viene svelata una nuova e diversa paternità. Egli «genera», ma per dare origine ad un soggetto uguale a sé, altrettanto divino quanto è divino Egli stesso, il Padre generante. Il Figlio riceve dal Padre la stessa capacità di amare, cioè di «dare» (ovviamente restituendo). Dio è Padre perché Dio «genera» il Figlio, lo esprime dal proprio «seno» (sembra tornare, con un linguaggio antropomorfico, al modello materno di Dio). Soprattutto il Figlio è talmente uguale al Padre, che ormai possiamo dire che non è divino solo il «generare» e il «dare origine» (e ciò vale anche per lo Spirito Santo) bensì anche l'«essere generato» e il «ricevere». Il vero segreto è l'amore. Lo Spirito Santo svela il segreto di Dio amore. L'amore di Dio è un amore che non consuma né si consuma. Anzi è uno e rende uniti i frammenti, ma senza annegarli o annullarli. Dio non è semplicemente personale; è «tripersonale». Non è solo natura divina; è anche «tre persone divine». Potremmo dire: Dio esiste in quanto si comunica e si dà mutuamente, al suo interno, l'essere. Non, prima c'è e poi agisce; ma è «esercizio perenne dell'atto di esistere» (direbbe san Tommaso). E l'esercizio dell'esistenza-essenza divina è nella comunicazione fra tre soggetti: Padre, Figlio e Spirito Santo. Amore espansivo; non esigenza di avere, ma esigenza di darsi mutuamente. Balbettiamo, certo; ma possiamo almeno cogliere alcuni riflessi. In Dio l'essere è darsi e riceversi nell'amore; perciò è dono e ricambio; è comunicazione e grazia. Il Figlio si restituisce al Padre, quasi gratitudine infinita; il Padre riceve tale «eucaristia» del Figlio quasi come ripresa infinita del suo donarsi. Lo Spirito Santo è il «legame», è la comunicazione che esprime il reciproco rapportarsi del Padre al Figlio e del Figlio al Padre... Lasciamo pure cadere tali acrobazie del linguaggio teologico. Se la realtà della Trinità è più grande di questi balbettii, non lo è però per negarli; non perché in Dio l'amore e la comunicazione e il dialogo siano meno reali di quanto lo possano esprimere le nostre parole; bensì, all'opposto, perché lo sono infinitamente di più.

La fondazione del dialogo nella Trinità ci permette di riproporre il tema della soggettività e della comunicazione e della relazionalità. La persona divina diventa nella teologica trinitaria modello delle persone umane. Ma la persona è partner di un dialogo, non di un composto. Dall'ontologia dell'essere all'ontologia della libertà, non necessariamente da contrapporre. Secondo il messaggio cristiano di Dio-Trinità, la radice e il fondamento dell'essere come tale sono la relazione, la gratuità dell'incontro e dello scambio; la sua finalità è l'amore che riversa nell'azione la bontà dell'essere che si pone per il bene dell'altro; la sua struttura è struttura personale, ontologia di libertà appunto.

Fondamento dell'essere è l'Amore nella libertà, comunicazione essenziale dell'amore reciproco delle persone divine (pericóresi). La teologia trinitaria pone la sua riflessione sul concetto di rapporto o relazione che permetterà ad Agostino, prima, a Tommaso d'Aquino poi, di precisare l'idea di persona identificandola con la stessa relazione: la persona del Padre non è altro che il suo rapporto con il Figlio, vale a dire la sua paternità generante, così come la persona del Figlio si identifica nella sua relazione col Padre, cioè l'essere da lui generato, da sempre e per sempre. La specificazione poi della generazione del Figlio da parte del Padre come «generazione della parola», e quindi come atto conoscitivo, pensante e pensiero, la vedrà originata dall'atto di volontà o di amore. La manifestazione della Parola nella creazione è all'origine spirituale dell'oralità umana e fonte profonda della relazionalità umana, quando intendono umanizzare i propri rapporti sociali ed esistenziali.2

L'Incarnazione, ecco un altro principio teologico invocato per la fondazione del dialogo; esso sancisce l'ingresso nella storia, e poi nella chiesa, del modello trinitario. Il rapporto interno a Dio, tra le Persone divine, viene ad espandersi; per innalzare anche l'uomo e il cosmo alla dignità di partner della comunicazione-dialogo con Dio. Nel Figlio anche noi siamo figli: ecco il senso del dono del Verbo incarnato. In Gesù Cristo la natura umana è intrecciata «con mirabile scambio» alla natura divina; per ricevere ma anche per dare. La teologia parla di «comunicazione (o scambio) di attributi», quasi prolungamento in Gesù Cristo della pericóresi trinitaria (ossia dell'immanenza reciproca delle Persone divine: il Padre nel Figlio e nello Spirito, il Figlio nel Padre e nello Spirito, lo Spirito nel Padre e nel Figlio): a Dio viene data la possibilità, la possibilità di soffrire, di morire, di espiare. . .; all'uomo la libertà piena dal peccato, l'impassibilità, l'immortalità, la divinità... E tramite, Gesù tutti gli uomini sono convocati in qualche modo a tali altezze di alleanza familiare con Dio e di cooperazione con Lui... Il dialogo non si riduce ad avventura storica, ad espediente transitorio. Appartiene al destino dell'uomo, alla sua vocazione più alta. La chiesa non può che essere anticipo, allenamento, segno di tali altezze. La comunicazione tra persone e di persone (e non solo di cose, per quanto divine, quali i sacramenti e le parole in cui ci è data la Parola) è parte dell'essenza e del fine della chiesa.

La fondazione dell'antropologia nella Trinità è senza dubbio una connotazione teologica originale dell'incarnazione che rappresenta senza dubbio la volontà di superare la distanza assoluta, che separa Dio dall'uomo. Questo superamento è possibile solo se Dio stesso assume, nel suo Verbo e Figlio eterno, l'esistenza umana e diventa carne (=uomo). In effetti la Scrittura per parlare dell'uomo ricorre a una grammatica tutta particolare, quella di parlare non già in maniera diretta, ma con un linguaggio mediato nel suo rapporto con Dio. Tutta la Scrittura è un discorso non già su Dio e neppure con l'uomo, ma sul loro rapporto (creazione, alleanza, incarnazione). È così che la Scrittura parla dell'uomo. Il suo unico argomento è raccontare la relazione fra Dio e l'uomo: di qui essa trae il suo punto di vista sull'uomo. Dio, ma anche l'uomo, vengono descritti non già in se stessi, ma sulla base di ciò che sono l'uno per l'altro. Allora il mistero dell'incarnazione è importante anche per l'antropologia e per il discorso sulla relazione vista come Alleanza in senso biblico. Infatti dire che Gesù è Figlio di Dio non è semplicemente e unicamente parlare di Cristo, è anche dire che ogni uomo è chiamato ad essere figlio di Dio (Rom 8, 17). Secondo il mio punto di vista, qui ci troviamo esattamente dinanzi al dato essenziale della fede cristiana, cioè l'incarnazione, come la realizzazione paradigmatica del rapporto fra Dio e l'uomo. In Gesù il credente vede, legge e decifra precisamente il rapporto più stretto che esista, il rapporto per eccellenza, fra Dio e l'uomo, e vi decifra il proprio essere. Come afferma Pascal: «Non soltanto non conosciamo Dio se non attraverso Cristo, ma neppure noi stessi ci conosciamo se non attraverso Gesù Cristo. Fuori di Gesù Cristo non sappiamo cosa sia né la nostra vita né la nostra morte e neppure Dio e neanche noi stessi» (Pensieri, Br. 548). Con l'incarnazione l'umanità esprime qualcosa di Dio per noi. Dire che il Figlio si è fatto uomo non significa dire che il Figlio ha smesso di essere Figlio, non significa neppure che l'umanità gli è aggiunta come puro strumento di manifestazione e di azione. No, l'umanità di Dio non è un travestimento col quale Dio ci dà l'impressione di assumere la nostra condizione, ma continua in fondo a rimanere nella sua luce inaccessibile. Il fatto che Dio è diventato uomo dice qualcosa di Dio stesso. Dice che egli è nostro prossimo, che ha dato pienamente se stesso nella creazione e nel tempo. L'umanità di Dio significa la presenza dialogante di Dio nel mondo; significa la piena dedizione dialogante dell'Amore del Padre per l'uomo, riconosciuto figlio nel Figlio; significa farsi altro nel tempo, diventare uomo nella storia senza cessare di essere Dio di sempre e dell'eternità. Se l'uomo è la comunicazione maggiore di Dio nella creazione, allora Gesù uomo è la massima comunicazione di Dio nella storia. Dice con vigore il Concilio Vaticano II: «Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo. Ha lavorato con mani d'uomo. Nascendo da Maria Vergine, Egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato».3

L'Amore implica comunione, comunicazione, autocomunicazione, donazione di sé a un essere diverso da sé: è ciò che la teologia recupera con il concetto trinitario di pericóresi.

Dio ci si presenta così come assoluta comunione e comunicazione. L'amore di Dio non si dà a partire da una povertà infinita, come nel caso dell'uomo, ma a partire da una incommensurabile sovrabbondanza (eccedenza). È proprio dell'amore traboccare. Così Dio non è solamente Padre, è anche Figlio, totale comunicazione del Padre; non è solamente Padre e Figlio, è anche Spirito Santo, assoluta comunicazione del Padre e del Figlio; non è solamente Padre, Figlio e Spirito Santo, è anche la creazione tutta col suo numero indefinito di esseri, come espressione dell'Amore trinitario che si riversa nello spazio e nel tempo, comunicando la sua verità, la sua bellezza, la sua bontà.

Come l'uomo è tanto più uomo quanto più è al di là di se stesso, così avviene con Dio. Dio è sempre fuori di Dio. Il Padre è sempre con il Figlio. Il Figlio e il Padre sono sempre con lo Spirito Santo. Padre, Figlio e Spirito Santo sono sempre (di fatto) con la creazione, in una cura incessante delle creature.

Ed ecco che Dio, nel suo incommensurabile amore, ha deciso di comunicarsi totalmente a un essere differente da Lui, dunque a un essere creato, non divino, per esprimere il carattere assolutamente sorprendente del proprio amore. Ha creato una natura umana capace di riceverlo, pur rimanendo natura umana creata e limitata. Dio ha voluto divinizzarla non come in un deismo pagano. Il Divino di Dio consiste nel rispettare l'alterità; la creatura continuerà a essere creatura ospitando al tempo stesso Colui che nemmeno il cielo può contenere. Comunicandosi quindi alla creatura, Dio la rende ancor più creatura, ancor più differente dal Divino. S. Agostino lo esprime in una formula concisa: «La creatura è creata mediante la stessa assunzione divina» («ipsa assumptione creatur»: Contra sermonem Artanorum 8, 6). Creata non divina, la creatura è resa capace di accogliere il Divino.

Gesù di Nazaret è stato quell'uomo, eternamente pensato e voluto da Dio, perché in lui Dio stesso potesse riversare tutto il suo amore infinito e tutta la sua comunicazione. Ma al di là della legge dell'incarnazione, c'è un valore primordiale e un fondamento superiore al dialogo, l'azione salvifica universale di Dio in Cristo.

Ultimo fondamento del dialogo è lo Spirito Santo che con i suoi doni o carismi non può essere che protagonista di comunione e, più in concreto, di comunicazione. Secondo le speranze messianiche della Bibbia, lo Spirito Santo verrà effuso su ogni carne. Nella teologia della creazione ciascuna creatura deve giungere a se stessa e sviluppare quel che le è proprio. Lo Spirito creatore che ama l'originale rifiuta l'uniformismo e un pluralismo privo di relazioni. In questa luce lo Spirito è la presenza vivificante nell'umanità intera, il fine della storia di Cristo è la discesa e l'effusione dello Spirito su ogni carne, cioè la vivificazione dell'essere mortale e la compenetrazione con l'amore avvolgente di Dio. Allora il fine di questa storia della Spirito è il ripristino del senso escatologico di tutte le cose e la nuova creazione per la gloria eterna. Il Dio trinitario crea e sviluppa una comunione fra tutte le creature con se stesso e tra di esse, in conformità al proprio essere. La sua comunione e comunicazione sostanziale sono dunque tanto l'origine come il fine del creato. La Chiesa dovrebbe considerare sempre questi aspetti teologici e rispettare l'azione dello Spirito che va oltre i confini ecclesiali per donare la comunione e comunicazione di salvezza di Dio ad ogni uomo. La Chiesa che si erge come esperta di umanità dovrebbe saper accogliere lo Spirito che muove le culture e le religioni verso la loro comunione con Dio; dovrebbe essere segno di comunione, di relazione profonda tra culture e religioni se vuole portare avanti la sua vera vocazione missionaria; essere portatrice dell'amore di Dio ad ogni uomo. Forse, invece di preoccuparsi di se stessa e di salvare la propria istituzione davanti al relativismo, tempo perso dietro ai fantasmi della storia, dovrebbe decentrarsi e costruire ponti di vera comunicazione paritaria per essere segno di pace, comunione fra i popoli e strumento nelle mani di Dio per indicare a tutti la grazia operante nella storia. È l'umanità intera, che rivela la comunità dei figli di Dio come il vero «noi» della relazione con la Trinità salvante.

Il dialogo deve essere considerato come forma di vita che sa esprimere la maturità della persona, della comunità, della chiesa adulta.

Oggi si accusa la Chiesa per la sua struttura troppo istituzionalizzata e giuridica che dimentica le persone e trascura l'uomo. Per superare tutto ciò è importante ricostruire una teologia del dialogo capace di fondare le relazioni interpersonali recuperando il dogma trinitario e la legge dell'incarnazione.

Potremmo fondare la struttura dialogica del vivere cristiano sul dogma della fede cristiana, quello trinitario. Nella Trinità divina intravediamo il «dialogo perfetto»; non l'insufficienza ma la sovrabbondanza apre le Persone divine una all'altra e tra loro; non il bisogno di crescere e di ricevere, ma la forza dell'essere in pienezza porta a comunicarsi e a darsi; non il vuoto di chi non ha ma il perfetto possesso di chi ha sovrabbondantemente, possesso che equivale alla capacità di rigenerarsi perennemente. Dialogo nella freschezza e giovinezza eterna di Dio.

I due dogmi cristiani (Trinità e incarnazione) ci spingono a iniziare nuove relazioni con stile di maturità e di crescita umana. Più che lo stile apologetico e polemista, che sfocia nello scontro, è necessaria la dinamica relazionale delle Persone divine. Le relazioni intratrinitarie ci spingono a costruire una vera arte per saper comunicare, come capacità di rigenerarsi nel dialogo perennemente. Incarnarsi è il dinamismo cristologico paradigmatico per ogni cristiano che sa cercare il dialogo dentro le culture. La Chiesa allora deve partire sempre dalla sua legge di base, «concertare» dialogando per servire la Verità insieme con gli altri. La Chiesa vive la legge dell'incarnazione mettendosi innanzitutto vicino all'uomo, accettandone il mistero radicale fino in fondo: l'esigenza della «comunione», che la Chiesa deve portare per trovarsi alla «pari» con gli altri e camminare con tutti verso la fraternità universale.

1. La teologia della relazione e il fondamento biblico

Il dato fondamentale riguarda il tipo di rapporto tra Dio e l'uomo che si esprime nell'esperienza di fede dell'uomo biblico. Si tratta di un rapporto eminentemente interpersonale e profondamente personalizzante. Il Dio biblico è un Dio vivente, la cui vita si manifesta nell'immediata e spontanea disponibilità a stabilire relazioni «ad extra»: Dio vivo in quanto «parla» e «si dona», interviene nella storia, esprime pensiero e amore rivolti all'uomo, e mira al traguardo ideale di un dialogo di reciprocità come di «Io-Tu». Dio non è un anonimo e neutro «principio» della realtà, o un generico «fondo comune» che starebbe al di sotto (o al di sopra) della realtà; tanto meno un Tutto misterioso e di vaga indeterminatezza. Egli è un Dio che vive di relazioni intense e continuative con l'uomo (anche se non si esaurisce in esse), un Dio che interpella l'uomo e lo eleva alle altezze di un rapporto di quasi «alla pari». Personalità di Dio e personalità dell'uomo si intrecciano, si richiamano e si condizionano a vicenda; l'una chiama l'altra, postula l'altra, promuove l'altra.

Soltanto l'esperienza relazionale pone il fondamento per la formazione del concetto di persona in quanto realtà dell'essere che dispone liberamente di se stesso ed è assolutamente significativo. In tale esperienza, seppure Dio sia e rimanga anzitutto e in definitiva il mistero incomprensibile per eccellenza, la designazione di Dio come persona è legittimata dal suo rapporto con l'uomo. La Bibbia pone questo rapporto relazionale esemplificandolo in maniera primitiva con tutto un genere di antropomorfismi applicati a Dio per rendere palpabile questa realtà dialogica e relazionale. Ma come dimostra Westermann è proprio il termine ebraico panim, che traduciamo con il termine italiano «volto», ad esprimere il concetto di «persona» nell'ambito biblico; questo termine nella teologia biblica dell'AT indica proprio il concetto di «relazione», «comunicazione», «persona».4 Inoltre si deve aggiungere che nella Bibbia dei LXX prósopon indica anche la parte frontale dell'uomo, il volto e corrispettivamente la presenza salutare, perenne, la manifestazione di Dio: colui che va al tempio vede il prósopon di Jahvé, dal momento che egli è certo della presenza e della grazia di Jahvé (così per esempio in Mal 1, 9) .5

Il Dio biblico -- dicevamo -- si mostra vivo e personale soprattutto «ad extra», ma non si risolve nelle sue libere relazioni con l'uomo. Egli fa intuire una vita anteriore più profonda, mostra di custodire un suo proprio mistero, fa capire che il «primum» del suo essere e vivere è costituito da una intimità che rimane assolutamente del tutto insondabile da parte dell'uomo. Ma nel suo rapportarsi all'uomo, il Dio biblico non percorre soltanto le strade invisibili che passano dentro la coscienza umana, attraverso le quali sembra farsi vicina in modo particolare la sua presenza, il suo essere. Anzi, Egli sembra privilegiare quelle esteriori e visibili della storia, attraverso le quali fa sentire più immediatamente la sua azione, il suo vivere. Il Dio che è il Dio che agisce, la natura di Dio e la vitalità operativa di Dio sono la stessa realtà, fanno quasi un tutt'uno, s'intrecciano reciprocamente, fino ad identificarsi. Nel Dio biblico, l'«essere per l'uomo» corrisponde in qualche modo all'«essere per sé», all'«essere in sé». Dio mistero sommamente trascendente e ineffabile, lontanissimo e inaccessibile; eppure, proprio per questo, sommamente immanente nella storia e nella vita dell'uomo, vicinissimo a tutti e a ciascuno.

La prossimità di Dio ai singoli promuove la loro personalità, in quanto capacità di rapporto dialogico di «Io-Tu» con Dio. Questo il paradosso originale dell'esperienza della fede biblica: Dio vien percepito vicinissimo a ciascuno (ad esaltare e portare al massimo grado la possibilità, per ogni singolo uomo, di entrare in relazione di dialogo reciproco personale con Lui), ma al tempo stesso Dio non è catturabile da nessuno (Egli non consente che qualcuno possa disporre di Lui in esclusiva, quasi fosse un bene esauribile). La trascendenza di Dio consente che Egli rimanga sempre disponibile ad altri, a tutti gli altri. Massimo di individualizzazione, e massimo di universalizzazione. Altre tradizioni religiose parlano di un Dio che crea l'uomo per farne quasi una vittima sacrificale che deve venir consumata e distrutta perché possa essere tributata a Dio la gloria che Gli spetta in quanto Essere Unico nella sua assolutezza e trascendenza. La Bibbia invece mostra Dio e uomo posti l'uno di fronte all'altro, quasi in tensione feconda di un vivere l'uno per l'altro. Per questo al centro della Bibbia troviamo l'iniziativa della Parola e dell'Azione di Dio, tese a provocare la risposta della fede e della vita dell'uomo. Il contesto primo non è quello della ricerca umana di Dio, attraverso la «meditazione» (anche se poi questo aspetto troverà un suo posto nella Bibbia), come è il caso di altre religioni orientali. Il «primum» sta nella ricerca che Dio fa dell'uomo, e il segno principale ne è la «preghiera», ossia ciò che esprime il vertice dei rapporti interpersonali.

Senza dubbio le tradizioni religiose che partecipano con la loro parte di verità e di credenza all'apertura esperienziale di un Dio che si dona sempre e in ogni momento a tutti, oltre l'ebraismo, oltre il cristianesimo. L'universalità non viene applicata alla religione in quanto tale, ma alla volontà e all'azione universale e di salvezza di Dio per ogni uomo, in ogni cultura e in ogni religione. Se la rivelazione biblica è un punto di riferimento unico per ogni uomo vicendevolmente, ogni esperienza comprende un «primo» dove è sempre Dio che cerca l'uomo. Siamo cercati per un eterno dialogo con lui, ma siamo cercati per poter avere la possibilità di rispondere a Lui. La preghiera, patrimonio comune di ogni religione, è la risposta di ogni uomo al dialogo interpersonale con Dio, e questo dialogo non è vincolato da confessionalismi o privatizzazioni di Dio, ma è una libera iniziativa di Dio che nella storia coinvolge ogni uomo. L'AT pone così due temi che sono universali nei principi di una teologia della creazione e del principio ecumenico: l'uomo «immagine di Dio»; e il patto di Alleanza che bisogna allargare secondo la teologia della creazione, almeno interpretando la tavola dei popoli di Genesi e altri passi paralleli, agli altri popoli della terra. L'affermazione della identità del popolo in rapporto agli altri popoli mette in luce la tensione fra il momento particolaristico e riduttivo della vocazione-elezione (che sembra a prima vista esprimere il limite dell'amore di Dio, a vantaggio di una sorta di sua cattura e confisca a beneficio di un solo popolo o soggetto) e il momento universalistico che affermerebbe l'uguaglianza di tutti i soggetti umani davanti a Dio. L'esperienza religiosa autentica mantiene vivi tutte due i poli della dialettica; il rischio maggiore sta dalla parte della difficile apertura universalistica.6

Il tema dell'uomo creato ad «immagine di Dio» offre quasi il riassunto più alto dell'antropologia biblica.

Esso fonda al tempo stesso la legittimazione radicale dell'antropomorfismo, ossia del parlare di Dio assumendo come specchio l'uomo, e del teomorfismo, ossia del parlare dell'uomo assumendo come specchio Dio. Specularità reciproca. Non semplice espediente retorico, che rimane nell'orizzonte di arbitrari tentativi di linguaggio mitico, poetico-metaforico; ma espressione di convinto realismo e di vera relazione esperita. Questa dignità dell'uomo permette che all'uomo in qualche modo siano trasferiti gli attributi stessi di Dio: la sacralità, l'inviolabilità, l'unicità irripetibile, l'assolutezza; impegna, cioè, ad una sorta di almeno iniziale «scambio di idiomi», cosicché può aver valore ormai un reciproco «in-in»: nell'uomo si nasconde Dio, in Dio si nasconde l'uomo; premessa del mistero della Incarnazione. Questa dignità non privilegia solo alcuni, vale per tutti. Il tema dell'Alleanza fa innalzare l'uomo a un livello di quasi parità con Dio. Certamente, l'iniziativa è di Dio, della sua gratuita benevolenza; il patto non è tra eguali, è frutto di una condiscendenza di Dio.

Il rapporto dell'uomo con Dio, presente nella Bibbia, (attraverso il linguaggio antropomorfico che è un traslato del linguaggio metaforico e se quasi formalmente, anche se poco evoluto, del linguaggio analogico), avvicina la comunicazione degli idiomi usata normalmente nella cristologia per qualificare nel linguaggio biblico il rapporto paritario che intende instaurare Dio con l'uomo almeno sul piano del linguaggio e della libertà. La reciprocità espressa con «in-in» non solo denota la dignità dell'uomo elevata da Dio, ma anche la volontà di Dio di scendere, in modo figurato, dal suo trono, dalla sua altezza trascendente per farsi uno con l'uomo, per camminare insieme con l'uomo (vedi l'esperienza dell'Esodo). Se questa esperienza della persona che inizia nella religione ebraica esprimendosi inizialmente nella «metafisica dell'Esodo» e che giunge poi alla sua pienezza nella religione cristiana cerca di articolarsi in maniera concettuale, questo può fare dapprima soltanto con l'aiuto della terminologia greca. Con la rottura dell'orizzonte greco di comprensione ha luogo certamente anche una trasformazione e un chiarimento dei concetti di φυσία, οὐσία, ὑπόστασις, (e dei loro correlati latini natura, substantia ecc.), delle loro distinzioni e delle loro relazioni. Comunque, in questa coincidenza fra metafisica ebraico-cristiana dell'Esodo, orientata storicamente, e metafisica greca dell'essere, c'è da aspettarsi che il concetto di persona umana, che ne risulta in maniera del tutto nuova, non la possa intendere soltanto come un ente intramondano (anche se forse supremo) al di sopra o al di sotto di altro, ma la debba necessariamente intendere come tale. Il suo essere, viceversa, è determinante per la definizione di ciò che il mondo, e l'insieme degli enti in esso contenuti, è e appare, e del modo in cui così è e si presenta. C'è dunque da aspettarsi che l'uomo nel suo essere personale 'preceda' quello dell'ente intramondano o che 'cada fuori' come eccedente dalla sua struttura umana, perché egli, in quanto persona, è un ente che 'è' e 'dimora' come essenza e come essere e non è stato soltanto determinato a partire dall'essenza e dall'essere.

Il NT approfondisce al massimo l'esperienza di fede trasmessa dall'AT. L'essere uomo arriva ai vertici dell'«essere persona»: diventa persona come e quanto è persona Dio, e non solo quale vicario di Dio e sua immagine; la persona del Verbo assume in sé un singolo individuo umano, Gesù, ed è proprio per questo che l'uomo-Gesù diventa «universale», ossia entra in reale efficace rapporto con tutti. Il NT testifica, perciò, non solo il reciproco «in-in» (Dio nell'uomo, l'uomo in Dio); ma addirittura la singolarità del verificarsi di un caso unico (ma con valore universale) di reciproco «è-è» (in Gesù diventa vero che Dio è uomo, e che l'uomo è Dio).

Gesù diventa così l'universale concreto, il modello di umanizzazione dell'uomo per essere capace di Dio in modo obbedienziale. In Gesù la persona umana tende al suo compimento, diventa più persona, aperta alla trascendenza e al suo felice compimento. Con il principio di incarnazione la persona umana diventa partecipe della «divinità» di Dio, perché capace di una relazione intima di comunione con Lui. L'unione con Dio tocca il suo apice di unione con l'uomo perchè la persona cristificata è figlio nel Figlio. Non abbiamo così un Dio distante da noi, ma intimamente connesso, presente. Non abbiamo un Dio assente e disinteressato al nostro destino, ma un Dio che si fa uno con l'uomo fino ad assumere l'uomo come interlocutore amichevole del suo dialogo e del suo messaggio.

Il Prologo di Giovanni sottolinei almeno tre cose: a) che il soggetto di tutto (creazione e storia, fino all'eschaton) è il Verbo, che «è Dio» e non solo «sta presso Dio», e che «diventa uomo» e non solo «si accosta all'uomo» od entra in relazione con l'uomo; b) che «si fa carne», ad indicare che non entra in una fetta limitata di «umano» (questo popolo, questa razza, questa tribù, questo tipo di umanità...), ma assume tutti perché assume l'uomo alla radice, fin da ciò che è veramente comune a tutti, dalla «carne», da sotto, dalla materialità; c) che si rivolge a tutti in quanto singoli («quelli che lo accolsero» di 1, 12 sta ad indicare che viene provocata la libertà di accettazione o meno del dono di Dio). Questa universalità che abbraccia ogni uomo è messa bene in evidenza nel NT, che testifica la missione profetica di Gesù nei termini di un superamento di ogni discriminazione e di una concezione del Regno di Dio che apre a tutti perché investe ognuno in profondità.

Gesù lotta contro tutti i muri di divisione, esalta la fraternità universale, privilegia addirittura gli emarginati, i peccatori. Per questo proclama la paternità universale di Dio, il quale, del resto, è anzitutto e in modo unico «il Padre suo». La legge di Cristo, culminante nel proclama delle Beatitudini, scuote e mette in moto dall'interno l'uomo, ogni uomo, perché lo prende dal «cuore», dalla coscienza.

2. La Teologia della relazione e il dinamismo trinitario del «dare e ricevere»

L'intimità di Dio ci viene svelata solo da Cristo. Dio è amore fecondo e totalmente comunicativo. Perciò ci viene svelata una nuova e diversa paternità. Egli «genera», ma per dare origine ad un soggetto uguale a sé, altrettanto divino quanto è divino lui stesso, il Padre diventa generante. Il Figlio riceve dal Padre la stessa capacità di amare, cioè di dare (ovviamente restituendo), che il Padre dimostra nel «dare la vita» al Figlio. Ma, in sostanza, che cosa ci dicono tali balbettii? Che si potrebbe parlare di «maternità» di Dio Padre, perché Dio «genera» il Figlio, lo esprime dal proprio «utero materno», ma soprattutto che il Figlio è talmente uguale al Padre, che ormai possiamo dire che non è divino solo il «generare» e il «dare origine» (e ciò vale anche per lo Spirito Santo) bensì anche l'«essere generato» e il «ricevere». Si pensi al significato rivoluzionario di tali affermazioni! Nella nostra mentalità, solo il «produrre», solo il «dare», solo il «generare» sembrano portare in sé autentici segni di paternità, di divinità, di grandezza, di mascolinità. Viene giudicato, invece, segno di debolezza, di infantilità, addirittura di «femminilità», il dover «ricevere», «l'essere fatti, prodotti, dipendenti».

L'amore umano può solo accettare l'alterità di colui che ama, non la può produrre. Ma perché tutto questo? Per la nostra finitudine, in primo luogo. Noi ci troviamo divisi perché c'è in noi il dato personale (singolare, insostituibile) e il dato naturale. Certamente, ciò che ci unisce all'essere amato è quanto è in noi di più libero, di unico; ma il dono resta legato alla natura. Lo stesso si deve dire di quanto noi amiamo nell'altro. Per questo il nostro amore resta sempre imperfetto. O prende atto di una diversità naturale già presente, o ci fa ricercare una fusione sul piano naturale in modo tale che l'altro imiti il nostro carattere o si pieghi alle nostre abitudini. Questa possibilità diventa realtà nel peccato, che mi fa abbandonare alla mia natura e cercare di possedere quella dell'altro.

Allora ciò che ci lega all'essere amato non esaurisce la nostra realtà personale. La relazione con l'altro non coincide con la natura umana. Si prova amore, ma non è l'uomo l'amore. Sta la differenza rispetto a Dio. Perché «Dio è amore»: un amore-evento che è il dono del Figlio da parte del Padre nella storia della salvezza, e di conseguenza una realtà interiore alla Trinità: poiché il per noi divino risponde a un «in sé» divino. Nella sua semplicità, Dio non ha l'amore: egli è amore e niente più. Per questo non conosce, come noi, il conflitto tra la persona e la natura: in lui, ogni persona è la relazione che ha con le altre; in lui ciò che ciascuna persona possiede, lo possiede solo donandolo.

Nella Trinità l'essere Padre, l'essere Figlio e l'essere Spirito, corrispondono a modi radicali diversi del vivere ed attuare l'essenza-esistenza divina, dell'«essere Dio». La comunione, intesa come amore, come esistenza «dono-comunicazione», come donarsi e comunicarsi e non come «possedersi» in modo chiuso ed escludendo altri (l'essere come «proprietà privata»!), si esprime in maniere radicalmente varie; soprattutto nei due sensi reciprocamente invocantesi del «dare» e del «ricevere», ossia dell'amore che si presenta come «dono donante» e come «dono donato», come dono che viene offerto e dato e come dono che viene ricevuto e accolto (per essere poi restituito, in circolo perenne).

Riccardo di San Vittore lo afferma nettamente:

Per ciascuno dei tre, la persona e il suo amore sono una sola e stessa cosa. Essere più persone in un'unica divinità non è altro che il fatto, per molti, di avere un solo e medesimo amore supremo, o piuttosto è essere questo amore che ha per ciascuno una proprietà differente. In Dio una persona non è altro che l'amore sommo distinto ogni volta da una proprietà definita. [...] Ogni persona è la stessa cosa che il suo amore.7

In una parola: in Dio, la relazione non è altra cosa che lo stesso Dio: è, ad esempio, l'amore paterno che si rapporta all'amore filiale. In altri termini, ciò che distingue ciascuna persona è allo stesso tempo ciò che la unisce alle altre due. Per questo l'altro non è qualcuno che bisognerebbe rassegnarsi ad accettare; in Dio, l'amore non solo accoglie ma suscita, promuove. L'amare è questa posizione dell'altro come altro, il Padre non è Padre se non nel suo generare il Figlio, e nel suo possedere la sostanza divina solo donandola. È quindi impossibile, per il cristiano, pensare la divinità fuori del gioco della carità attraverso cui si comunica: Dio non esiste senza il dono che egli fa di se stesso e che è. Ciò che in noi è separato, in Dio coincide. L'unità è questo Amore che pone l'alterità. Il Padre è unito al Figlio senza impedirgli di essere altro da sé, o tollerando che sia altro da sé, ma donandogli di essere altro; ed Egli non è altra cosa che questo stesso dono.

Il Padre vive in modo fontale e radicale il comunicarsi, l'amore come principio che dà, sia generando (il Verbo) e sia originando (lo Spirito); il Figlio vive l'amore come «essere amato», «essere generato», «essere donato»; lo Spirito vive l'amore come reciproco «va e vieni» del dono, come «restituzione dell'amore» alla sua sorgente. In ogni caso, la Trinità svela che nell'Amore perfetto è resa possibile la pari dignità del «dare» e del «ricevere», dell'amare e dell'essere amati, del totale donarsi e del totale restituirsi. È divino non soltanto l'amare ma anche l'essere amati; non soltanto il generare ma anche l'essere generati; non soltanto il dare ma anche il ricevere!

Allora la Paternità di Dio è in relazione alla figliolanza del Verbo, ma la Paternità è anche principio fontale per questo la fede cristiana sostiene che il Padre è principio e niente più, ma è tale solo impegnandosi tutt'intero e liberamente nel dono per cui egli genera il Figlio e per mezzo del quale egli stesso è ciò che è: il Padre.

Si fa pertanto evidente che il solo esercizio ontologicamente possibile della libertà è l'amore. La frase 'Dio è amore' (1Gv 4, 16) significa che Dio, 'esiste' in quanto Trinità, ossia in quanto 'persona' e non come sostanza. L'amore non è una conseguenza o una 'proprietà' della sostanza divina, [...] bensì ciò che costituisce la sua sostanza, ciò che permette a Dio di essere ciò che egli è: il Dio unico. Così l'amore cessa di essere una proprietà qualificativa, e pertanto secondaria, dell'essere, per diventare la categoria ontologica per antonomasia.

È del resto significativo che «il Dio» di cui parla l'evangelista Giovanni sia il Padre, colui che invia il suo unico Figlio.

Il dogma sancito a Nicea e Costantinopoli predichi il vero Dio costitutivamente come «scambio», «comunione viva», come «relazione di amore reciproco» nel darsi e nel riceversi totale e senza residui; in un dono costante nella comunione e nella comunicazione reciproca senza fine. Tutto questo movimento perenne di dare-ricevere reciproco ha una ricaduta anche sulla creazione in modo principale sull'uomo che è creato ad immagine e somiglianza della Trinità. Per questo è necessario mettere in evidenza come il nostro «noi» deve modellarsi sul «noi» della Trinità, ma deve esserne anche segno profetico che lo manifesta al mondo.

Questa prospettiva trinitaria che rinnova l'antropologia cristiana non vale solo per i singoli, ma anche per la collettività e quindi anche per la Chiesa.

La Chiesa, in quanto insieme e famiglia dei credenti (prescindendo dalla mistica presenza in essa della Trinità), non cambia di segno, non passa mai dalla parte del Padre (anche se viene chiamata «madre»); essa rimane «sotto la parola» (addirittura sotto il Verbo, sotto Gesù) e «sotto il sacramento» (ossia -sotto- l'azione dello Spirito); quindi, resta «figlia» del Padre celeste. Essa è frutto dell'amore che parte dal Padre; è recettiva dell'Amore divino che la precede, anche se poi è elevata alla dignità di cooperare misteriosamente alla diffusione dello stesso Amore ricevuto. Solo in quanto è un «noi» convocato diventa un «noi» convocante; solo in quanto discepola diventa in qualche modo «maestra».

Tutti i ruoli ecclesiali, per quanto importanti, non possono rivestire il carattere di configurazione al «Padre», a colui che è «principio e fine» di tutto, «principio senza principio». Nella Chiesa, ogni ruolo o ministero non dovrà che rafforzare la configurazione al «Figlio» e quindi consolidare la dignità di «fratello», per celebrare un «noi» di «fraternità», pena la sua inautenticità.

In conclusione possiamo affermare che la Teologia della relazione va al di là di una descrizione dell'essenza divina, generica e astratta, per formulare la dinamicità del Padre, del Figlio e dello Spirito nelle loro reciproche relazioni e rapporti dove l'«Amore che si dona», «che esce da sé» costituisce l'essenza concreta del mistero trinitario. Quindi non una dottrina immanente astratta, ma una dottrina che arriva alla kénosi più profonda nell'incarnazione e nella croce.

Per questo si può affermare, a partire da una concezione dinamica, che la forza d'amore creatore costituisce in Dio stesso il principio di ulteriori espansioni fuori di sé: la creazione, il Cristo, la chiesa, l'umanità redenta. Quindi è l'Amore il principio dinamico essenziale delle relazioni immanenti ed economiche della Trinità.

La questione del dono è allora posta sulla base della donazione compiuta dal donatore: è Dio che dona. Se ciò che è dato è inteso nel senso proprio del termine, come dono, è necessariamente presupposto un donatore, che non si risolve nell'essere, o meglio, nella donazione, perché a lui appartiene il dare. Il problema è ancora una volta dislocato al livello del mistero del trascendente, del donatore che primariamente è dono a se stesso.

3. Le « relazioni » di Gesù

Anche per ciò che riguarda Gesù, diventa necessario mettere in luce la sua valenza di «fermento» dell'umanità e della storia. Questo discorso si collega con l'attenzione allo Spirito Santo che agisce in ogni tempo e luogo, e mette in azione ogni uomo proprio attraverso le relazioni concrete. Finora la cristologia ha avuto accenti troppo «monofisiti», nonostante le apparenze in contrario: ha insistito prevalentemente su Gesù «figlio di Dio», fino ad allontanarlo dall'umano, troppo «in alto» e troppo «altro», quasi inaccessibile, irraggiungibile.

Il ritorno al Vangelo intende ridare Cristo a ogni uomo, a ogni generazione per sentire in Lui il compagno del nostro cammino, inviato da Dio come nostro fratello; per riprendere con Lui relazioni di vita, prospettive di giustizia, valori fondati sull'amore; infine, costruttori con Lui di un mondo nuovo a modello del Regno di Dio.

Per questo è necessario ripropone le «relazioni» di Gesù raccontate dai Vangeli come parti fondanti per una riflessione cristologica realista.

Anzitutto, la nota dominante nella vicenda Gesù: la centralità decisiva del suo vivere la relazione. La relazione anche per Lui è qualcosa di costitutivo del suo essere stesso.

Conosciamo tutti il proverbio che, quasi a slogan, sentenzia: «dimmi con chi vai e ti dirò chi sei»! E noi avremmo potuto tradurre il quesito che sta alla base della nostra sessione («chi è Gesù? ») nell'interrogativo: «quali le relazioni di Gesù? », «con chi aveva rapporti Gesù? ». Ma il dato biblico sta a dimostrare che Gesù si qualifica proprio a partire dalle relazioni che ha intessuto. Forse, anche noi in questi giorni abbiamo dato mano a un po' di sbilanciamento sul versante polemico, là dove ci si compiace di rilevare un Gesù che va contro corrente, che dà il privilegio agli ultimi, agli emarginati. Certamente gli stessi Vangeli abbondano nel dare risalto ai rapporti in orizzontale, verso l'uomo. Ma la radice nascosta di questo atteggiamento di Gesù sta nella sua relazione in verticale, col Padre.

Si potrebbe fondare l'identità di Gesù non a partire dai titoli messianici o della cristologia indiretta del NT, né dall'unione ipostatica, ma dall'essere stesso di Cristo dalle sue relazioni. Le relazioni sono qualcosa di costitutivo del suo essere e lo qualificano in ciò che lui pretende di essere: il Dio con noi. Per affermare questo dovremmo rivalutare la «relazione» in senso prettamente biblico e non in collegamento con il pensiero della Scolastica.

Sicuramente il fondamento ad essere immagine e somiglianza di Dio, oltre alla dissomiglianza ontologica, sia dovuta all'essere relazionati a Dio nella libertà e nell'amore. La relazione può costituire non tanto una sostanza a sé, ma il rapporto essenziale tra Dio e l'uomo, anche se pone una prospettiva più profonda al di là della visione aristotelico-tomista.

La segnalo soltanto per indicare quanto sia urgente oggi recuperare il valore delle concretissime relazioni umane di Gesù. Mi permetto di esprimere la gioia intensa che in questi giorni sto provando nel verificare quanto anche di Gesù si possa e si debba dire che il suo «essere» è costituito dalla «relazione». Ho rimeditato sulla scoperta di S. Agostino, che riflettendo sul mistero della «persona» (ovviamente in Dio anzitutto, ma poi anche con riferimento all'uomo), è arrivato a pensare questa in termini di «relazione sussistente». Non abbiamo ancora tratto tutte le conseguenze di questa rivoluzionaria prospettiva. Per la filosofia greca (Aristotele) la «relazione» sta alla periferia dell'essere; non è «sostanza», è un «accidente», anzi sta all'ultimo posto, perché presuppone che una realtà sia già costituita, prima, in se stessa, e solo dopo si apra lo spazio per le sue «relazioni». Ma questa visione domina anche oggi nella nostra cultura; si fa fatica a pensare che la «relazione» sia costitutiva del nostro esistere. Ebbene, ecco la scoperta di S. Agostino: la «relazione» (almeno in Dio, nelle persone divine) viene prima di tutto, è anzi costitutiva dell'essere, è «relazione che fa essere», l'essere consiste nel rapportarsi... Esistenza come relazione. Relatio ut subsistens... Permettete che i teologi si gustino anche certe formule!! Ebbene, in questi giorni ho avuto la sensazione che la Bibbia, così come ci è stata messa davanti dagli amici che ci hanno aiutato a decifrarla per rintracciare il volto di Gesù, mostra che anche l'uomo può e dovrebbe esprimersi come essere fatto di relazione. L'umanità storica di Gesù appare totalmente un tessuto di relazioni senza limiti di estensione e di profondità.

Dobbiamo chiarire che già la teologia medioevale dopo le precisazioni di Agostino aveva affrontato il problema delle relazioni interne alla Trinità che di riflesso portavano innovazioni anche all'antropologia cristiana, in quanto il punto di incontro tra l'uomo e Dio non sta solo nello spirito, ma anche nella relazione che passa attraverso la divinizzazione dell'uomo che predispone la natura umana alla piena unione con Dio. Quindi è necessario presentare brevemente tale dibattito.

Aristotele inserisce la relazione nelle categorie (quantità, qualità, azione, passione...) e la considera come posteriore alla nozione di sostanza: come potrebbe esserci relazione se prima di un ente non si è stabilito che cosa sia in se stesso? La relazione è cosa diversa dalla sostanza, che non potrà mai essere una relazione. Per Aristotele la relazione si fonda sull'essere, è la categoria meno dotata di essere: può stabilirla nell'essere solo un atto del pensiero. Nel pensiero platonico (Plotino soprattutto) la relazione viene vista come una qualità operante di fatto che si basa su un'essenza o su un'entità di ragione soltanto. Nel platonismo allora non ci si sofferma tanto sulla distanza tra relazione ed essere (come nell'aristotelismo) proprio perché, idealisticamente si concepiva pensiero ed essere come aventi una medesima natura.

Il pensiero filosofico ha influito soprattutto sulla Scolastica che eredita la distinzione, divenuta in seguito classica, tra relazione reale (relatio realis) e razionale (relatio rationis tantum). La Scolastica distinse nella relazione l'esse in e l'esse ad. L'esse in dice che cosa è la relazione in se stessa cioè l'essere connaturato di un accidente in una sostanza, (ciò vale per le relazioni poste nell'ambito creaturale, nella Trinità si tratta invece di relazioni reali sussistenti). L'esse ad dice invece il rapporto al termine che spiega il concetto stesso di relazione. Più sinteticamente si parla di relatio praedicamentalis (rapporto accidentale ed estrinseco) e relatio trascendentalis (rapporto essenziale di una cosa con un'altra, cioè non si può definire una cosa se non in riferimento ad un'altra). Ma non è tanto e solo importante nella Scolastica l'uso linguistico della categoria di relazione e ciò che filosoficamente significa, quanto la realtà cui essa rimanda. Relazione viene cioè a spiegare la Trinità in Dio. Il merito del pensiero agostiniano in ordine all'accentuazione della persona come relazione nello specchio delle tre principali attività spirituali: memoria in adeguazione all'essere quindi al Padre; l'intelletto riferito al pensiero quindi al Figlio; la volontà da cui scaturisce l'amore applicato allo Spirito.8 Agostino di fatto ha preferito il termine relazione a persona per spiegare la Trinità. Secondo lui persona si addice meno alla Trinità che relazione. Se persona è substantia individua come può predicarsi della Trinità dove tutto è relazionalità? Persona è un termine assoluto predicato dell'individuo nella sua singolarità, come può riferirsi in senso compiuto alla Trinità? La categoria di relazione dice meglio, secondo Agostino, come e che cosa sia veramente la Trinità di Dio e cioè interscambio, donazione reciproca, circolazione d'amore, comunione. Le relazioni, secondo la teologia agostiniana, sono reali e dicono perché in Dio, dove tutto è sostanziale, vi è distinzione dei Tre della Trinità. La nozione di relazione esce dalla dottrina aristotelica degli accidenti per assumere altre connotazioni che sono quelle proprie della eternità di Dio. Così pure la relazione non si rifà alla categoria di sostanza, perché relazione è esse ad aliud, sostanza è esse ad se. L'insistenza di Agostino sui termini relativi in Dio che ne esprimono la pluralità risulterà, come si vedrà tra poco, estremamente feconda nella elaborazione teologica contemporanea. In Agostino la dottrina delle relazioni esprime la comunione di vita intratrinitaria che agisce anche all'esterno, nel creato, in particolare sull'uomo, mediante la storia della redenzione e la santificazione del singolo credente.

All'interno della coscienza morale -- secondo Agostino -- vale a dire in ogni singolo uomo, si concentra il dramma dell'incontro decisivo tra il Bene e il Male, ma non solo in quanto dialettica fra legge (di Dio) e libertà (dell'uomo), bensì anche come dialettica fra «grazia» (= offerta di salvezza, di amore, di comunione: grazia sanante ed elevante) e risposta (di accoglimento o di rifiuto). Come a dire che tutto Dio, non solo il Dio della legge e del giudizio (anzi, in primo luogo il Dio che ama, che «si dona» e si fa dono), viene incontro al singolo uomo per intrecciare patti di Alleanza con lui. Mentre la filosofia potrebbe forse arrivare a sancire la grandezza della coscienza come sacrario dell'incontro drammatico fra legge e libertà, il cristianesimo certamente pone al centro il mistero della coscienza come santuario dell'incontro drammatico fra grazia e libertà, e cioè fra due amori convocati a comunione. Agostino scaverà ancora più a fondo sollevando l'arduo problema della predestinazione; non importa, qui, riflettere su soluzioni specifiche, interessa il significato di tale attenzione: ogni singolo uomo è termine dell'intenzione eterna di Dio e del suo progetto globale. Prenderne coscienza è già un primo passo nella affermazione della propria dignità di persona.

La categoria «coscienza» è qualcosa di indispensabile per capire il contatto continuo fra Dio e l'uomo. Nella coscienza è iscritta la volontà di Dio (Rom 2, 15) e in essa risplende la luce della verità divina (2 Cor 4, 6). Per i cristiani infatti la coscienza è il luogo della dignità della persona umana, è in un certo modo la voce di Dio che ci parla attraverso la parte migliore di noi stessi, attraverso quanti ci circondano e, specialmente per i cristiani, attraverso la Parola di Dio nella Bibbia.

Con Tommaso d'Aquino abbiamo una fusione delle categorie di persona e relazione, e così quando si parlerà di Dio si dirà che è relazione reale e sussistente (S. Th., I, q. 30 a. 1). Per san Tommaso sarà precisamente la categoria di relazione a fondare le persone in Dio. L'ordine della spiegazione trinitaria di Tommaso è la seguente: processioni, relazioni, persone, missioni. Le processioni sono le origini intradivine cioè i processi vitali in Dio, sono immanenti e sono due: generazione e spirazione (Tommaso si serve così della psicologia aristotelica corretta). Le relazioni sono quattro, due per ciascuna processione: paternità e filiazione, spirazione attiva e spirazione passiva. Tommaso spiega concettualmente prima le relazioni in Dio (S. Th., I, q. 28) e poi il rapporto tra le persone e le relazioni divine (S. Th., I, q. 30). La concezione di relazione impiegata da Tommaso è inizialmente aristotelica. Una relazione può essere naturale (come ad es. la figliolanza) e perciò reale, può essere solo nell'intelletto e allora è solo mentale. Una relazione reale se è fuori di Dio è creatura, ma in Dio la relazione reale coincide con la sua stessa essenza. In Dio le relazioni che derivano dalle processioni sono naturali e perciò anche reali. È proprio della relazione riferirsi al suo opposto e in Dio le relazioni comportano opposizione e l'opposizione dice distinzione, ma siccome la relazione è reale è pure reale la distinzione in Dio.

Alcuni teologi poi considerano il pensiero di Tommaso nella sua evoluzione speculativa e ne distinguono due fasi. Mentre nella prima Tommaso scopre che l'essere è la natura di Dio, nella seconda dimostra che l'essere di Dio è essere-in-relazione.9 Pertanto, se Dio può essere descritto come l'ente sommamente attuale e semplice, tale esistenza è tuttavia personale, anzi tripersonale, in virtù della differenziazione delle persone divine nelle loro relazioni reciproche.

Le impostazioni agostiniana prima e tomista poi spiegano bene l'unità divina e cercano di illustrare con le relazioni personali la Trinità. Vi sono però altre tradizioni, soprattutto quella mistico-personalista che mette maggiormente in rilievo la pluralità in Dio analizzando la dinamica dell'Amore che esce al di fuori di sé ed è la nuova impostazione della Metafisica dell'Amore. Grandi maestri come Riccardo di san Vittore o san Bonaventura si impongono, il primo con la sua indagine della condilezione dell'amore che non risulta essere soltanto, amore reciproco, bensì l'amore tra il Padre e il Figlio che non può non dirigersi ad una terza Persona, coinvolgendole tutte e tre nella stessa circolazione d'amore, il secondo nel presentarci creativamente la categoria di circuminsessione che riesce a dire bene il mistero della comunione nella distinzione.

A parere di Lacoste sono stati elaborati vari paradigmi innovativi proprio in teologia come in morale:

Ma se l'uomo esiste a immagine di Dio, è altrove che la corrente maggioritaria della patristica e della teologia medioevale ne vedrà la prova migliore: nell'essere spirito che è il proprio dell'uomo all'interno della creazione, o in un'incomprensibilità che l'uomo condivide con Dio. Né le relazioni trinitarie né il mistero dell'umanità del Cristo cadono sotto il colpo delle teorie e pratiche dell'analogia elaborate dal XIII sec.: così Suarez disporrà di una teologia delle relazioni divine ma intenderà le «relazioni reali create» (Disp. Met. 47) in modo che non deve niente alla teologia.10

Ma se questo è vero allora dobbiamo domandarci come il concetto di relazione possa essere applicato nel rapporto tra Dio e l'uomo, poiché tutto ciò sarebbe una visione nuova che rivoluzionerebbe anche il trattato di antropologia cristiana.

L'esperienza dello Spirito è senza dubbio riscontrabile in ogni uomo trascendentalmente aperto ad una possibile rivelazione e azione di grazia di Dio, come ha ben argomentato il teologo K. Rahner.11

Nel nostro secolo assistiamo, nella elaborazione teologica del mistero trinitario, ad una ripresa del tema della relazione particolarmente atta a spiegare il paradosso trinitario. La categoria agostiniana della relazione è ripresa e coniugata meglio con quella di persona ed è arricchita dal contributo del personalismo medioevale (Riccardo di san Vittore) e moderno. Soprattutto la filosofia dialogica Buber, Ebner e Levinas12 che vede la persona umana come essere in relazione, essere intersoggettivo, aiuta la teologia cristiana a concepire la Trinità in senso personalistico e dinamico (il rapporto Io-Tu si apre al Noi) in relazione con l'uomo. Il concetto di relazione, maggiormente approfondito, fa uscire il pensiero trinitario da una concezione troppo sostanzialista di Dio a favore di una visione più agapica e comunionale. Secondo il teologo Luigi Sartori se si fosse lavorato di più sulla categoria di relazione, per lo meno quanto su quella di persona, si sarebbe arrivati a rendere più attuale il discorso trinitario in ordine alla dignità della persona e ad una visione più comunitaria della società (soggetto planetario). Una valorizzazione più creativa del pensiero patristico porta così a coniugare meglio persona e relazione nel senso che relazione non è mai qualcosa di aggiuntivo alla persona, ma è la persona stessa; la persona esiste, per sua essenza, soltanto come riferimento. Solo così la dottrina trinitaria della relazione può uscire dalle secche di una concezione sostanzialistica che di fatto ha impoverito il Dio cristiano. Il teologo e filosofo Przywara, sostiene nel suo testo Analogia entis che «benché Dio e la creatura non abbiano in comune né forma né genere [...] l'analogia dell'essere costituisce un ponte».13 Ma anche l'analogia soprannaturale discendente, nella quale la creatura è rinvenuta nella «forma di Dio», avviene una analogia naturale ascendente del perfezionarsi della natura verso la perfezione di Dio. Quindi Przywara, sviluppando la teologia di s. Tommaso afferma:

Il «sopra» sovrano di Dio (in cui Egli, essendo unità essenziale di essentia ed esse, è Egli stesso per Sé, a Sé e in Sé) fa parte dell'intimo «dentro» di Dio (grazie a cui l'essenza e l'esistenza della creatura, e qualsiasi loro unione di fatto, dipendono da Lui, sicché Egli è alla creatura più «intimo» di se stessa). Secondo: in questo, però, l'essere della creatura (dato dall'unione di essenza ed esistenza) possiede un'autentica autosufficienza, sia per quanto riguarda l'essenza, sia per quanto riguarda l'esistenza [...] perciò l'«io sono» della creatura, nell'unità (di fatto) del suo essere, è autenticamente somigliante all'«Io Sono» dell'essere divino, che è uno per essenza. Questo è però anche il cardine del rapporto concreto tra Dio e non-Dio, dato che qui il mistero soprannaturale dell'incarnazione culmina nella questione dell'essere di Cristo. Da un lato, l'unica persona divina presuppone, in quanto unica sostanza, che anche l'esse divino di Cristo sia unico; dall'altro lato, la realtà dell'umanità di Cristo implica come esse secundarium, pur se non accidentale, anche un esser-uomo, nel senso di una nova habitudo esse personalis praeexistentis ad naturam humanam. È quindi chiaro che l'analogia di Tommaso d'Aquino, anche e soprattutto in ciò che la contraddistingue come tale, culmina nell'analogia entis: il termine entis sta a indicare che tra Dio e la creatura c'è una tale distinzione che essi non hanno in comune nemmeno il genus, e tuttavia che proprio qui si annuncia la radicale positività di un'unità di fondo. L'analogia entis di Tommaso d'Aquino si caratterizza per l'intimo rapporto che istituisce tra i due termini usati per indicare l'uomo e il mondo: l'uomo come in confinio di natura e spirito.14

Przywara avvertì fortemente la tensione fra il senso della presenza del divino nel mondo e nella storia e l'irraggiungibile trascendenza di un Dio sempre più grande di come possiamo concepirlo.

A suo giudizio, l'Assoluto è dentro e al di là delle creature, immanente e trascendente nello stesso tempo. Ma la presenza di Dio in noi non pregiudica la nostra autonomia dinamica, protesa (con l'aiuto della grazia) verso l'Infinito. Quindi Przywara ha insistito molto sull'analogia ontologica partecipativa (o analogia entis) che fa sì che tra noi e Dio ci sia un'insopprimibile comunanza di essere, anche se la dissomiglianza è assai maggiore della somiglianza.

Anzi il teologo Luigi Sartori va decisamente oltre le prospettive della Scolastica egli trova allora una certa difficoltà verso una prospettiva filosofica che non riconosca la «relazione» come costitutiva del nostro esistere, forse perché ogni realtà finita, dal momento e nella misura in cui essa è l'evento della partecipazione all'essere, è unica realtà con l'infinito soltanto nella diversità.

La questione era già stata dibattuta tra le due scuole di pensiero: quella di s. Tommaso e quella di Duns Scoto, come ci illustra Luigi Iammarrone:

Ma c'è pure un'altra ragione che muove Scoto a sostenere l'identità reale tra la creatura e la relazione di dipendenza da Dio. Essa si fonda sulla uniformità del rapporto a Dio esistente in tutte le creature. Poiché tutti gli enti che si distinguono da Dio sono da Lui prodotti dal nulla, è chiaro che tutti vengono egualmente a dipendere da Lui nel loro stesso essere. Ora questo scaturisce dall'essenza stessa degli esseri creati. Di conseguenza la relazione di dipendenza a Dio non può essere qualche cosa di accidentale, cioè che si aggiunge all'essenza già costituita, ma deve essere realmente identica all'essenza degli esseri creati.15

Si può allora palare in Duns Scoto di relazione trascendentale. Infatti se una relazione con una determinata realtà assoluta è data come necessaria, e con essa adeguatamente identica, la relazione viene chiamata «trascendentale».

Sono note a tutti le diverse opinioni dei filosofi e dei teologi circa la natura della relazione di dipendenza che lega la creatura al Creatore. S. Tommaso con la sua scuola sostiene che la creazione passiva è una relazione predicamentale, cioè accidentale, che nasce nella creatura per il fatto che il suo essere (esse) realmente dipende da Dio Creatore.16 Il soggetto proprio di tale relazione accidentale è tutta la creatura. Tuttavia la creazione in quanto relazione ha come termine diretto l'essere stesso della cosa creata e la cosa stessa per mezzo del suo stesso essere.17 Se si considera la sua realtà accidentale, la relazione di creazione radicalmente inerisce alla creatura stessa intesa come struttura formale, ma secondo il carattere proprio che è quello di riferirsi ad altro, appartiene per sé allo stesso essere della cosa, per mezzo del quale la cosa si riferisce a Dio.18 Per s. Tommaso « l'essere partecipato, in quanto tale, è il fondamento della relazione di creazione: la creazione passiva è una dipendenza dell'ente creato nell'esse o quanto al suo esse».19 Scoto, con la sua scuola, identifica realmente la creazione passiva col suo fondamento (l'essere della creatura) e sostiene che essa è una relazione trascendentale. Secondo Scoto, le relazioni nelle creature sono accidenti (e quindi predicamentali), quando le creature si riferiscono ad enti dai quali non dipendono essenzialmente. Ovunque invece si verifichi il caso di una dipendenza essenziale, allora la relazione della creatura non è un accidente, cioè non è una realtà realmente distinta dalla sua essenza.20 Ora la creatura dipende essenzialmente, cioè secondo tutto il suo essere, dal Creatore. Di conseguenza la relazione di dipendenza deve essere realmente identica alla sua essenza. Tutte le creature, a motivo della loro finitezza e contingenza, si trovano nella condizione di dipendenza essenziale dal Creatore. Tale relazione che conviene alle creature in quanto enti, indipendentemente dal genere predicamentale in cui possono trovarsi a causa della loro particolare natura, da Scoto viene chiamata trascendentale.21 Tutte le creature pertanto nell'intimo della loro costituzione essenziale sono strutturate e permeate dalla relazione trascendentale di dipendenza rispetto al Creatore. Senza questa dipendenza la loro esistenza sarebbe assurda.22

Da questa analisi della storia del concetto di relazione nella filosofia scolastica si può intravedere come si potrebbe uscire da questa problematica ripartendo dalla rivelazione cristiana e da come la Bibbia rivaluti la «relazione» senza partire da una problematica sostanzialista, bensì da una prospettiva biblico-teologica e cristologica.

Bordoni ci dà un primo punto di partenza a partire dal rapporto tra rivelazione cristiana e il pensiero antico:

È proprio la rivelazione cristiana del mistero di Dio che ha illuminato l'intelletto della fede, consentendo ad esso di approdare ad una nuova comprensione dell'essere. Ciò ha portato al superamento delle grandi forme categoriali del pensiero antico (sostanza-accidenti), per le quali esso era definito primariamente come un «in sé» (sostanza), rompendo così l'ontologia chiusa della sussistenza sostanziale legata alla rigida necessità cosmica della natura, quale espressione più alta dello stesso ordine entitativo. La nuova comprensione dell'essere immette il pensiero nel circuito della dinamica dell'atto e della vita in una essenziale apertura nella relazione all'altro, grazie alla quale si realizza il proprio essere in sé. Ormai è proprio la persona a costituire il vertice della perfezione analogica dell'essere. In essa, l'emergenza della relazione rende possibile rompere il carattere monolitico dell'ideologia dell'identità assoluta, propria delle ontologie sostanziali, per evolvere la dialettica dell'identità in dialettica dell'amore-comunione. L'essere, compreso come relazione all'altro nel quale raggiunge la perfezione di sé, comporta quella comunicazione e dono, per cui vengono a coincidere «l'auto-relazione e l'etero-relazione».23

Da questo punto di vista Bordoni passa alla considerazione cristologia che determina anche una profonda correlazione con l'antropologia cristiana:

Storicamente il pensiero cristiano è passato dalla nuova comprensione dell'essere, elaborata alla luce della fede nel Dio rivelato in Gesù Cristo, nella sua tripersonalità ed unità, alla sua estensione ed applicazione all'ambito cristologico ed antropologico. In Gesù Cristo, l'affermazione dell'essere personale divino di Figlio di Dio è stata considerata talora come una difficoltà per la salvaguardia della sua autentica ed integra umanità. Il Concilio Costantinopolitano II (553) aveva dato, già a suo tempo, un importante contributo al problema ora accennato, con l'affermazione della condizione anypostatica dell'umanità di Cristo: l'essere 'persona divina' del Cristo non svuota il suo essere umano, ma lo porta al suo più alto grado di perfezione che consiste nella forma più elevata di personalizzazione. Per questo egli vive umanamente, nella coscienza e libertà, l'identità divina filiale, elevando l'uomo al suo stesso essere personale in relazione al Padre ed allo Spirito. Pertanto, si può affermare che in Gesù Cristo, proprio nella umanizzazione della persona del Verbo ad opera della sua incarnazione, giunge a compimento l'essere persona dell'uomo. È proprio in questo evento, dunque, che si rivela l'enigma uomo: se dunque Cristo non è l'eccezione ontologica, ma diventa, dalla sua posizione eccezionale, la rivelazione di tutta l'essenza dell'uomo, allora anche il concetto di persona cristologico costituisce per i teologi l'indicazione di come si deve interpretare la 'persona'.24

Anche il gesuita Gamberini, nella sua teorizzazione di una ontologia della relazione e in riferimento alla cristologia, mette in crisi il rapporto tra rivelazione e pensiero greco:

Né si mette vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si rompono gli otri e il vino si versa e gli otri van perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi, e così l'uno e gli altri si conservano» (Mt 9, 17). Secondo il commento di Étienne Gilson, questo vino nuovo non sarebbe altro che la rivelazione cristiana, mentre gli otri vecchi rappresenterebbero la filosofia classica. Per Étienne Gilson, gli otri vecchi della filosofia sono ancora buoni per conservare il vino nuovo. «Il pensiero cristiano portò vino nuovo, ma i vecchi otri erano ancora buoni» (É. Gilson, L'Esprit de la Philosopbie Médiévale, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 19832, 82, nota 1). G. Florovsky commenta questa affermazione di É. Gilson dicendo che certamente gli otri non si sono immediatamente spaccati, ma questo non è andato a beneficio del vino nuovo, in quanto il vino nuovo è andato a perdere col tempo il suo odore genuino, assimilando l'odore del vino vecchio. «Infatti, la nuova visione richiedeva nuovi termini e categorie perché venisse espressa in modo adeguato e confacente» (G. Florovsky, «Creation in Saint Athanasius», in Studia Patristica, 1962, 38). In parte condividiamo il commento di Florovsky all'affermazione di É. Gilson, d'altra parte dobbiamo osservare che, nonostante un'iniziale perdita di aroma, sembra che la novità del vino evangelico nei secoli sia stata talmente dirompente da mandare in frantumi gli otri della metafisica classica. Dunque non è tanto il vino che ha perso il sapore, ma sono gli otri che si sono rotti. A nostro parere è questa la situazione attuale della metafisica. L'ontologia della sostanza, che strutturava la metafisica, è andata in frantumi: questo avvenimento epocale sta avendo ripercussioni non solo nella filosofia, ma nella stessa teologia.25

La critica alla manualistica operò nel senso del superamento della teologia scolastica per una ontologia della relazione e per una metafisica dell'amore come spiegazione della correlazione tra Dio e l'uomo. Con la «svolta antropologica» nella riflessione teologica l'oggettività della teologia non può implicare il non coinvolgimento del soggetto credente; tanto meno in un contesto di Alleanza, quale è quello che la rivelazione biblica, in crescendo, ha sancito e valorizzato fino al culmine disegnato dall'incarnazione. Dio e uomo si chiamano l'un l'altro e si specchiano a vicenda; parlare di Dio (nel contesto biblico-cristiano) è sempre anche un parlare dell'uomo, e viceversa. Per rinnovare la teologia occorre una metafisica che tenga conto di quell'essere specifico che è lo «spirito» e si sviluppi soprattutto in una ontologia della coscienza, della libertà e dell'amore. La metafisica classica basata sull'essere, come concetto proprio della materia, rischia di livellare tutto verso il basso, nel minimo: tutto appare come «ente» piuttosto fragile, quindi è necessaria un'attenzione primaria all'essere che specifica lo spirito e i suoi dinamismi di libertà e di amore. Per questo, partendo dalle molte possibili vie del divenire, si può verificare l'essere: dalle molte differenze si arriva all'unità. Questo chiede di accettare la storia. Criticamente è ovvio, ma è qualcosa che non sembra ancora pacifico a tutti.

Il fatto è che tutta la tradizione antica ha sempre collegato la perfezione più all'essere che al divenire: Dio è sostanza, atto puro, motore immobile ecc. Orlando Todisco ha pubblicato un grosso volume intitolato Lo stupore della ragione: il pensare francescano e la filosofia moderna. In quel testo lui rivaluta la linea francescana, che prosegue in Pascal e Blondel, valorizzando la carità e le componenti affettive dell'uomo. Mentre nel pensiero classico è la filosofia greca dell'essere a modulare la formulazione dei dogmi e a impostare la metafisica come se tutto il poter essere si fosse già realizzato, dando il privilegio al mondo materiale, dove l'essere si rispecchierebbe in modo privilegiato e si offrirebbe alla conoscenza dei nostri sensi. In quella concezione, l'uomo sarebbe solo un soggetto posto davanti all'oggetto da conoscere. Per il cristianesimo invece Dio è libertà e la libertà ha molti mondi possibili che potrebbe creare, tanto più che poi abbiamo il miracolo e le varie eccezioni a ciascun mondo. L'essere che abbiamo davanti allora è solo una forma, una realizzazione, un essere che è posto nelle mani di una libertà e che quindi non è più esaustivo e può venire elevato, purificato, amplificato ecc. La modernità ha puntato tutto sul soggetto e cioè sulla coscienza e sulla libertà dell'uomo, mentre noi restavamo ancorati alla difesa del valore opposto: l'oggettività.

Quindi l'attuale situazione spinge verso questo rovesciamento: la scienza ha preso il posto della filosofia come modello del pensiero e si muove come ricerca senza limiti, come manifestazione di potenza, come azione più che atto. È quasi un concetto estatico dell'essere, che muove ad uscire da sé verso un perenne qualcos'altro. Non è più la materia la base del reale, ma l'energia che quasi la rende precaria, effimera, decadente. Allora bisogna privilegiare l'essere espresso dai viventi, soprattutto dallo spirito dell'uomo, che è pensiero, libertà, amore; deve prevalere su quello delle cose, che livella tutto al basso, verso la materia.

Forse più pertinente può apparire il richiamo al principio dell'amore per l'attivazione di un'autentica dinamica di unità e di universalità. Finora il privilegio andava al principio della ratio, del conoscere, e in tal modo era inevitabile che si venisse a fornire fondamento ed alimento all'affermazione di uno stile di «introversione egocentrica» (anche nella concezione scolastica il conoscere disegna un processo di assunzione degli oggetti dentro il soggetto e quindi di modulazione della res che sta fuori perché si adegui e si proporzioni al soggetto; al contrario dell'amare che muove il soggetto verso l'oggetto e tende a far sì che quello si plasmi sulla forma di questo; il conoscere obbliga a dividere e a distinguere, l'amare conduce all'unione fino all'«ex-tasi», all'uscita da sé). Ma come costruire una vera ontologia dell'amore? La storia della filosofia segnala soltanto qualche tentativo parziale (Kant, Hegel, Bulgakov); i teologi invocano spesso tale nuova ontologia (Kasper, J. M. Tillard, Sequeri...), ma non fanno molti passi per promuoverla effettivamente; qualcosa sembra delinearsi.

La rivelazione attraverso la creazione e l'incarnazione sono i due momenti decisivi per l'ontologia della relazione come lo scambio di idiomi tra Dio e l'uomo perché nel valore reciproco dell'«in-in» nell'uomo si nasconde Dio, in Dio si nasconde l'uomo; premessa dell'Incarnazione.

Anzitutto richiamo le riflessioni di Karl Rahner sull'unione ipostatica come culmine reale verso cui tende la natura umana in quanto tale, vale a dire di tutti, pure senza intaccare la sua gratuità di dono e la irripetibile singolarità di Cristo in cui tale dono si realizza. Ricordo pure le riflessioni di L. Bof (pur se discutibili nel loro fondamento probativo) circa Maria, nella quale si sarebbe verificato un analogo dono di «unione ipostatica» (questa volta in riferimento allo Spirito Santo). Rammento poi il passo della Gaudium et Spes n. 22, insistentemente citato da Papa Giovanni Paolo II, nel quale si afferma che in forza della incarnazione «Dio in qualche modo si è unito ad ogni uomo » [...] . E poi il caso di Gesù che in quanto uomo non sarebbe «persona» pone in evidenza la questione escatologica: la persona non raggiunge forse il suo acme soltanto quando entrerà nel «Noi» assoluto ed eterno? Come il verus Christus che si completa nel Christus totus? Quando mai qui in terra la persona diventa, come in Dio, «totalmente dedizione», esaustivamente dono senza residui «ad alios»? Allora soltanto si realizza la piena divinità dell'uomo, quando arriva a compimento il dono della piena umanità di Dio. Per concludere, non ci resta che da ammirare e da meditare la verità della lucida intuizione di san Tommaso d'Aquino: Persona significat id quod est perfectissimum in tota natura (S. Th. I, q. 29 a. 3).

Emergono due prospettive: l'incarnazione come possibile realizzazione della natura umana e la divinizzazione dell'uomo. In effetti per divinizzazione la teologia intende dire che l'uomo, pur mantenendo la sua condizione di creatura, nella grazia ha accesso a una reale partecipazione alla natura divina.

Questo itinerario va visto in rapporto al mistero di Dio che si fa uomo. Il «farsi uomo», per Iddio, non interessa solo il primo istante dell'incarnazione, nel quale, del resto, la sostanza del mistero si realizza tutta intera. Il farsi uomo è anche un discendere entro l'uomo, un umanarsi progressivo; anche se, alla luce di una teologia essenzialistica, i momenti successivi al primo istante rappresentano solo degli... accidenti (!). Ma accanto al Dio che si fa uomo, in Cristo, c'è anche l'altro aspetto, quello dell'Uomo che si fa Dio. C'è il movimento di ascensione dell'umano che entra sempre più nel cerchio del divino. Accanto alla kénosis c'è la glorificazione; accanto alla umanizzazione c'è la divinizzazione. In Cristo non c'è solo Dio che si avvicina a noi, ci siamo anche noi che ci avviciniamo a Dio. Se Dio entra nei nostri limiti: si fa «schiavo»; l'uomo entra nella sua regione di vita: si fa «libero». La «schiavitù» porta alla «liberazione» e alla «libertà».

La dottrina della divinizzazione trova il suo fondamento biblico in 2 Pt 1, 3-4 ed è stata sviluppata in modo particolare dalla teologia orientale, che lascia aperto il problema delle modalità della sua attuazione. Invece la teologia attuale, in prospettiva personalistica, preferisce una interpretazione trinitaria e cristologia: l'uomo partecipa alla natura divina come figlio, in comunione con il mistero del Figlio unigenito del Padre. Vi è perciò analogia tra deificazione e filiazione adottiva.26

Se l'incarnazione è il punto di partenza della relazione di Dio in Cristo e attraverso di Lui ad ogni uomo, allora la relazione anche in Gesù è come processo di un farsi, di un divenire reale, la relazione come apertura senza limiti, a tutti.

Gesù entra nel processo delle relazioni per attuare una reale edificazione di sé, un realissimo «divenire uomo» (anche come presupposto di un «divenire figlio di Dio»). Abbiamo parlato sempre -- e giustamente -- di vicenda, di storia. Tale vicenda può essere interpretata in due modi: come processo di «manifestazione» di ciò che già vien dato ed esiste, di ciò che si è, e come processo di «realizzazione» di ciò che è ancora in potenza, in germe, quasi piuttosto in fase di valore ideale e di finalità. S. Paolo divide spesso le sue lettere in due parti: nella prima traccia ciò che per grazia già siamo in quanto cristiani, nella seconda spinge a vivere coerentemente; prima l'«indicativo» (si dice) e poi 1'«imperativo»; ma con un tale realismo, che si dà quasi valore assoluto ai due momenti (Paolo parla di un «già»: siamo già salvati, già risuscitati, già glorificati. . .; ma poi sembra dire il contrario, che siamo ancora in cammino; comunque, egli intima: «diventa ciò che sei! »). Non si tratta di alternativa tra i due significati: le relazioni devono « mostrare-esprimere-manifestare » la realtà che già si è, ma al tempo stesso devono «realizzarla-costruirla».

La dinamica del «già» e «non ancora» viene applicata anche all'antropologia come mistero della comunione tra l'uomo e Dio, quasi a dire che l'uomo è fatto per l'unione con Dio. Questo dinamismo non è determinato dalla fisicità dell'essere, ma dal divenire attraverso cui l'essere si automanifesta e si autorealizza in pienezza.

Il carattere attivo-costruttivo-creativo della relazione è tipico di ogni uomo e anche di Gesù. In effetti dal NT emergono due sottolineature: il «cresceva» di cui parla spesso S. Luca nei racconti dell'Infanzia di Gesù: la frase sintetica della Lettera agli Ebrei, 5, 7-8: «Da ciò che ha patito ha imparato l'obbedienza».

In termini moderni si direbbe che anche Gesù è passato attraverso un «processo di identificazione» per conseguire la sua «identità». Ha accettato il tempo, è entrato in pieno nel «mondo delle relazioni». Può essere significativo il raffronto con la scelta del Battista. Questi evidenzia il Regno di Dio come realtà fuori della storia: privilegia il deserto quasi specchio dell'eternità, predica la conversione come «evento» e come «salto» di uscita dal mondo, fa muovere gli altri verso di lui. Gesù invece sembra dire a tutti: «vengo io»!; esce lui verso gli altri; si mette in moto, dentro la realtà in cui la gente vive, passa di villaggio in villaggio, percorre tutte le strade, quasi per annodare tra loro tutte le cose e le persone che incontra; ed anche dopo la sua vicenda storica egli assicura i suoi che resterà con loro «fino alla fine dei secoli», come a dire che sta ancora sotto le leggi della crescita.

La creazione e il mistero dell'incarnazione hanno in comune questa voglia di relazione che promana da Dio stesso. Dio crea con la Parola il linguaggio come il luogo attraverso cui Dio crea rapporti con l'uomo; infatti la Parola di Dio si incarna attraverso parole umane. L'uomo è costituito a partire dalle sue relazione perchè è strutturalmente un essere socievole, che si realizza solo se il suo adattamento sociale è veramente maturo e attivo. Dio incontra l'uomo attraverso mediazione dialogiche e attraverso incontri veramente umani. Dio fa crescere l'uomo dentro questa comunione trinitaria fatta di relazioni con ogni Persona divina, la quale dona all'uomo di partecipare a questa realtà divina. Non si può arrivare a Dio se non attraverso il fratello che si vede, dice S. Giovanni. Chi vuole relazionarsi con Dio deve intrecciare un mondo di relazioni attraverso Gesù Cristo (le opere di misericordia).

Il centro della sua predicazione e della sua testimonianza di vita è la paternità divina: Dio è Padre ed è padre di tutti. È dal Padre che Egli attinge la propria missione di superamento di tutte le barriere e discriminazioni. Il Dio di Gesù non divide, non pone confini, non chiude né esclude. Ed è per questo che Gesù vive da pellegrino, da nomade, quasi senza fissa dimora, appunto «sui confini» e per superare i confini [...] . Gesù disegna proprio questa posizione per la chiesa stessa: vivere sui confini, per essere principio di legame e conciliazione universale [...] . Gesù non ha fretta di arrivare a tutti, perché ama sostare nell'incontro con ciascuno, e non passare di corsa dall'uno all'altro. Resta fedele ai limiti dello spazio e del tempo; non intende bruciare le tappe e costruire una universalità fittizia e fragile. L'intensità del rapporto, più e prima che l'estensione. Gesù tende a un «tutti» realissimo, diremmo: «all'universale concreto», perché dà il primato all'amore: Non ama «sostituti»; anche se si fa nostro vicario presso, il Padre, lo fa in quelle cose che sono fuori della nostra possibilità («riconciliazione con Dio», «vittoria sul peccato»), e per accrescere la nostra partecipazione viva al rapporto con Lui e attraverso Lui con il Padre.

La paternità di Dio pone in considerazione è fondata sul principio di Creazione: ogni uomo è creato per l'immagine di Dio e per diventare figlio di Dio. Il Nuovo Testamento pone il contenuto della paternità di Dio su una base decisamente nuova, quando con questo concetto indica la posizione unica e esclusiva di Gesù nei confronti di Dio e la fa risalire al suo fondamento ultimo. In concreto la paternità di Dio è in primo luogo la sua relazione verso il Figlio, che appartiene così all'essenza stessa di Dio. In tal modo, però, essa non è più spiegata primariamente a partire dalla analogia con la paternità umana, bensì 'ogni' paternità ha la sua origine in Dio (Ef 3, 15): la paternità, fondata trinitariamente sulla relazione tra Padre e Figlio, si estende soteriologicamente agli uomini, dal momento che la creazione, fatta per essere conforme al Figlio, deve partecipare alla figliolanza di Cristo (Rom 8, 29). Muovendo analogicamente dall'uomo la Sacra Scrittura conosce, accanto ad affermazioni sulla paternità di Dio, anche affermazioni che gli attribuiscono piuttosto una maternità: Dio somiglia a una madre che allatta (Is 49, 15), manifesta per il popolo un amore simile a quello di una madre per i propri figli (Os 11, 1-4), consola come una madre (Is 66, 13), appare come una levatrice (Is 66, 9) .27

La paternità di Dio non possiede alcuna analogia nella sessualità della paternità umana (né nelle idee patriarcali da qui dedotte); essa è piuttosto una immagine dell'amore totale e radicale di Dio, che all'interno delle relazioni umane può essere riprodotta sia nella maternità sia nella paternità.

La paternità di Dio per tutti, indicata da Gesù, viene espressa nella predilezione degli ultimi.

Il segno dei segni che mostra autentica la passione per l'universalità, per tutti, sta nel riservare il primo posto a coloro che rischiano di restare fuori, non contati perché si ritiene che non contano, gli esclusi, quasi senza valore [...] . Certo, Gesù non fonda una setta, un partito degli esclusi; la predilezione per gli ultimi Egli la intende proprio come segno e prova dell'apertura a tutti. Ma certamente la «carta di identità» di Gesù la forniscono questi ultimi; si veda Mt 25, «avevo fame, sete... voi mi avete o non avete sfamato, dissetato... ». Dio è invisibile; solo i fratelli ossia il prossimo (dice S. Giovanni) lo rendono visibile. Gesù ha detto «chi vede me vede il Padre»; ma poi ha indicato la lista dei miseri per dirci chi rende visibile Lui. Gesù non ci ha lasciato in eredità delle foto, ma delle persone reali.

Nelle sue relazioni con gli altri Gesù non intende soltanto dare, vuole realmente esprimere recettività. Gesù ha imparato l'obbedienza attraverso l'abbandono pieno e totale in Dio. Questo è addirittura un apice, perché se Gesù si dona a noi lo fa perché «è donato» da Dio.

Per noi cristiani, il Verbo Figlio di Dio è «generato» dal Padre, ossia è Dio in quanto essenzialmente riceve dal Padre, rappresenta il divino in quanto recettivo, in quanto «dono donato». Perché l'ultima parola, e non solo la prima, sta nell'Amore e nella gratuità. Addirittura il sentirsi amati precede l'amare; Gesù amò perché amato, per trasmettere l'amore ricevuto. Lo Spirito Santo ha il ruolo di far circolare l'amore nei due sensi, del va e vieni, di andata e di ritorno: dal Padre a Gesù (in quanto amore che dona) e da Gesù al Padre (in quanto amore ricevuto che si restituisce). Le chiese invocano sempre di più lo Spirito Santo, appunto per imparare la gratuità di un amore capace anche di ricevere. Questa spiritualità vale anche per noi singoli. Dobbiamo sperimentare l'amore in pienezza, per imparare a diventare noi stessi dono, e non solo a fare dei doni, fino al vertice di una esperienza mistica nella quale Dio ci fa il dono di capire che non solo «comunicando amore (l'amore di Dio) riceviamo amore (l'amore da Dio) », ma anche «ricevendo amore (l'amore da Dio) doniamo amore (l'amore di Dio) ».

L'amore va considerato la caratteristica fondamentale di tutta la realtà, di quella di Dio e di conseguenza anche di quella delle creature. Il compito della teologia può quindi essere solo quello di presentare Dio come colui che ama e di ricavare di qui gli impulsi che permettano di considerare l'amore anche come elemento fondamentale dell'esistenza umana, che abbraccia tutti i campi della vita: il rapporto con Dio, con se stessi, col prossimo e non da ultimo (a motivo dell'odierna problematica ecologica) con il mondo quale creazione dell'amore di Dio. L'affermazione che Dio è amore si presta quindi spesso facilmente ad essere contestata e rappresenta sempre una sfida per il credente. La possiamo accettare solo se riconosciamo che tale amore raggiunge il suo apice paradossale nella dedizione del Figlio in croce. L'amore di Cristo chiama l'uomo a preoccuparsi e a collaborare alla realizzazione del piano divino originario e non abbandonato, malgrado tutto il peccato, piano che vuole trasformare per amore gli uomini in figli di Dio e farli pervenire alla comunione della sua vita trinitaria (cfr. Ef 1, 4). Un simile comportamento può aiutare a rendere effettivamente plausibile 1'amore quale vincolo più intimo di tutta la realtà e di ogni principio di relazione.

Copyright © 2011 Luciano Tallarico

Luciano Tallarico. «Per una fondazione teologica del concetto di relazione nella dottrina trinitaria». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [**95 B].

Note

  1. Usiamo, se c'è permesso, per parlare di Dio e della Trinità un linguaggio sempre inadeguato che oscilla tra esempi antropomorfici, analogici e metaforici. Testo

  2. D. Grasso, La comunità trinitaria, in Il messaggio di Cristo, Cittadella, Perugia 1976, 30-60; Gerhard Ebeling, Dio e la Parola, Queriniana, Brescia 1969; P. Miccoli, Homo Loquens. Oralità e scrittura in Occidente, Urbaniana, Roma 1998; P. Tillich, Dio in relazione, in Teologia sistematica, Vol. I, Claudiana, Torino 1996, 308-326; A. Pellegrini, Teologia come comunicazione. Riflessione preliminare fra complessità e globalizzazione, Aleph, Firenze 2001, 11-29. 92-146. Testo

  3. GS 22. Testo

  4. E. Jenni-C. Westermann, Dizionario dell'Antico Testamento, II, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1982¹, 393. Testo

  5. GNLNT XI, 411 ss., Grande Lessico del NT, G. Kittel (ed.), Brescia 1965. Testo

  6. J. M. Gundry-Volf, Universalismo, in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, G. F. Hawthorne-R. P. Martin-D. G. Reid (a cura di), R. Penna (ed. it. a cura di) San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 1566-1574. Testo

  7. Riccardo di San Vittore, La Trinité, (trad. fr. Gaston Salet), SC 63, 353 (V, 20). Testo

  8. Ibid, 154. Testo

  9. Tommaso, S. Th., I, 32, q. 1. Testo

  10. J.-Y. Lacoste, Essere, in Dizionario Critico di Teologia, P. Coda (ed. it. a cura di), Borla\Città Nova, Roma 2005 Testo

  11. «Se c'è una esperienza dello Spirito, se questa esperienza dello Spirito, intesa cristianamente, compare anche al di fuori di un cristianesimo riflesso, verbalizzato e istituzionalizzato, se tale esperienza dello Spirito, ovunque appaia, è già propriamente un reale evento rivelativo, allora ciò che viene inteso con la espressione 'trascendentalità elevata dalla grazia' certamente è sempre una realtà rivelata, è sempre tematizzato nella sua forma migliore e più pura nel cristianesimo esplicito, dal quale probabilmente riceve una maggiore chiarezza riflessa, ma 'trascendentalità elevata dalla grazia' non è un concetto, al quale, in una riflessione antropologica, si potrebbe introdurre solo molto tardi con la citazione di dati teologici positivi. Ovunque si parli di trascendentalità illimitata e non venga frenato il coraggio di una tale illimitatezza, ma l'uomo si abbandoni senza riserve all'assolutezza effettiva della propria trascendentalità, si fa l'esperienza della trascendentalità, che, elevata dalla grazia, porta da sé al contatto immediato con Dio, sia che ciò venga riflesso o meno, sia che il singolo possa compiere o meno una tale riflessione, senza il ricorso alla riflessione che, di fatto, avviene in quella che noi chiamiamo storia cristiana esplicita della rivelazione»: K. Rahner, Esperienza dello Spirito e decisione esistenziale, in AaVv., L'esperienza dello Spirito. In onore di Edward Schillebeeckx, Queriniana, gdt 83, Brescia 1974, 192. Testo

  12. Questi filosofi sono considerati notevolmente da Sartori perché il loro contributo filosofico è innovativo ed è un buon punto di partenza per la costituzione di una Metafisica dell'Amore.fia dialogica ( Testo

  13. E. Przywara, Analogia Entis. Metafisica. La struttura originaria e il ritmo cosmico, Vita e pensiero, Milano 1995, 134. Testo

  14. Ibid, 197. Interessante è anche la parte che Przywara sviluppa parlando del rapporto di reciprocità tra fenomenologia, reologia e relazionologia, ma il discorso non prevede di approfondire tali questioni che rimangono uno stimolo filosofico interessante per elaborare una filosofia della relazionalità: E. Przywara, Analogia Entis. Metafisica. La struttura originaria e il ritmo cosmico, 373-391. Testo

  15. L. Iammarrone, Giovanni Duns Scoto metafisico e teologo. Le tematiche fondamentali della sua filosofia e teologia, Miscellanea Francescana 2003², Roma 2003, 452. L'autore cita: Duns Scoto, Ord., II, d. l, q. 5, n. 261-263; VII, 129-130. Testo

  16. Tommaso, De Pot., q. 3, a. 3 Testo

  17. Id., De 4 oppositis, c. 4. Testo

  18. Id., De 4 oppositis, c. 4. Testo

  19. A. Molinaro, La nozione di creazione, in StPat 12 (1965) 412. Testo

  20. Duns Scoto, Ord., II, d. 1, q. 4, n. 278; VII, 138-139. Testo

  21. Duns Scoto, Ord., 11, d. 1, q. 4, n. 277; VII, 137-138. Testo

  22. Id., Ord., II, d. 1, q. 5, n. 287; VII, 141-142. Testo

  23. M. Bordoni, Cristologia ed antropologia, in Aa.Vv., Cristologia e antropologia, C. Greco (ed.), AVE, Roma 1994, 52-53. Testo

  24. Ibid, 52-54. Testo

  25. P. Gamberini, Ontologia di relazione e cristologia, in Aa.Vv., Cristologia e antropologia, C. Greco (ed.), AVE, Roma 1994, 52-54. Questo contributo teologico è sicuramente una buona sintesi e punto di partenza fondamentale per una ricerca teologica sul valore dell'ontologia della relazione. Testo

  26. M. FLicx- Z. Alszeghy, Fondamenti di una antropologia teologica, L. E. F., Firenze 1970, 281-301. Testo

  27. Questo aspetto è presente anche in Sartori che presenta la maternità di Dio in un articolo apparso nella collana «crescere nella fede /3» edito dal Messaggero di Padova. Sartori parla appunto di Dio come padre e madre ma inserendo l'uomo nella relazione divina come famiglia: L. Sartori, Dio è padre e madre, anzi famiglia, in Aa.Vv., Dio come Padre. La primavera dello Spirito, Messaggero, Padova, 1987, 14-17. Testo

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