di Giovanni Salmeri (20-21 marzo 2009)
È stato giustamente notato che probabilmente nessun teologo medievale più di Enrico di Gand ha sviluppato una riflessione sistematica sulla funzione del teologo: non soltanto le dettagliatissime prime questioni della sua Summa costruiscono un trattato di epistemologia teologica impossibile da trovare altrove, ma anche numerose questioni disseminate nei suoi Quodlibeta affrontano con precisione ed evidente partecipazione personale i problemi legati alla funzione ecclesiale di una scienza che, da poco nata nella sua configurazione accademica, già evidentemente doveva subire le prime crisi: sia nel faccia a faccia con la scienza profana, sia nel contesto della sua pratica da parte degli ordini mendicanti il cui accento esistenziale era spostato sulla missione, sia nella tensione con l'autorità ecclesiale, che nei confronti dell'autorità dello studium teneva una posizione che a seconda dei punti di vista può essere definita equilibrata o ambigua. La celebre condanna delle proposizioni aristotelizzanti avvenuta a Parigi nel 1277 in questo senso richiede di essere posta in un contesto ampio e differenziato, senza cedere al gusto tutto moderno di interpretare la storia della cultura nell'anacronistica chiave di lettura di lotta tra tradizione ecclesiastica e laicità.
Probabilmente da ridimensionare è invece l'idea, spesso ripetuta negli ultimi decenni, secondo cui Enrico di Gand costituisca il punto di confronto dominante della teologia di Giovanni Duns Scoto: un'idea forse inconsapevolmente favorita dal lecito desiderio di liberare questi dalla stretta mortale del confronto con Tommaso d'Aquino. Il lento procedere della pubblicazione dell'edizione critica della Lectura e dell'Ordinatio di Scoto ha messo più chiaramente sotto gli occhi un panorama molto differenziato, in cui sancti e doctores vengono citati in gran numero: l'uno o l'altro assume il ruolo di punto di riferimento principale a seconda dei casi. Pure effettuato questo ridimensionamento, rimane però vero che sarebbe molto strano che Giovanni Duns Scoto non sia stimolato dalla lettura del grande maestro parigino ad affrontare anche lui una riflessione sul senso e la funzione del teologo e della teologia. È questo il compito che tentiamo brevemente di affrontare qui.
Il punto di inizio obbligato è costituito dalle pagine del Prologo dell'Ordinatio. È qui che Scoto pone la prima questione, in un certo senso preliminare all'intera trattazione della teologia: «se sia necessario che all'uomo in questo stato sia ispirata una qualche dottrina in modo soprannaturale, alla quale cioè non possa giungere con il lume naturale dell'intelletto» (Ord., pr., 1). È facile attendersi da un teologo una risposta positiva. Tale risposta positiva viene infatti argomentata in vari modi, che non è qui il caso di seguire dettagliatamente. Ciò che ci interessa maggiormente è il momento in cui entra in gioco esplicitamente Enrico di Gand. Di lui vengono citati due argomenti a favore della necessità di una dottrina rivelata: il primo, secondo cui il fine soprannaturale dell'uomo esige che egli vi venga preparato tramite una conoscenza parimenti soprannaturale; il secondo, secondo cui la conoscenza naturale, essendo necessariamente mediata dalla sensibilità, necessita di una luce increata per raggiungere dati non sensibili. È questo il primo dei numerosissimi casi in cui Scoto nell'Ordinatio cita argomenti a favore della sua tesi per poi respingerli, con un procedimento che a volte sconcerta per la complessità.
In questo caso in realtà la confutazione è abbastanza semplice. Il primo argomento di Enrico non è altro infatti che una petitio principii: esso, ragiona Scoto, «sarebbe efficace se fosse provato che l'uomo è ordinato come fine alla conoscenza soprannaturale (e il luogo adatto di questa prova sono le questioni sulla beatitudine), e se oltre a ciò si mostrasse che la conoscenza naturale non dispone in maniera sufficiente per il presente stato a conseguire la conoscenza soprannaturale» (Ord., pr., 68): due cose che appunto suppongono proprio ciò che si vuole dimostrare. Il secondo argomento è da respingere per un motivo più sostanziale: accettarlo significa infatti ammettere una sorta di scetticismo radicale, che limita ogni conoscenza naturale alla sola apprensione di mutevoli dati sensibili. Tale scetticismo non avrebbe in sé nulla di incoerente; incoerente è però contemporaneamente ammettere che una particolare «illuminazione» divina possa far conoscere una verità intellegibile: «la luce increata [divina] non potrebbe usare l'intelletto agente come strumento per giungere ad una conoscenza di nessuna sincera verità [...] . E così segue che nella conoscenza della sincera verità il lume dell'intelletto agente non ha assolutamente nessun ruolo; il che è illogico, perché la sua azione è più perfetta di ogni comprensione, e di conseguenza ciò che è più perfetto nell'anima, in quanto intellettiva, deve in un qualche modo concorrere a quell'azione» (Ord., pr., 67). Insomma, in tal caso non si saprebbe più bene a chi attribuire una conoscenza per la quale l'intelletto umano sarebbe radicalmente inabile.
Quest'ultima argomentazione non sorprende: è un rifiuto della teoria dell'illuminazione di stampo agostiniano, rifiuto abbastanza prevedibile in chi, come rivela la stessa terminologia usata, segue abbastanza da vicino l'antropologia di Aristotele. Un poco diverso sarebbe tuttavia il discorso se tale argomentazione venisse posta nell'intero contesto dell'epistemologia di Scoto, che trova uno dei suoi punti qualificanti proprio nella discussione del carattere scientifico della teologia, che Scoto affronta preliminarmente nel Prologo (ma al quale come vedremo ritornerà in altri passi dell'Ordinatio). Cerchiamo di metterne in luce il problema forse fondamentale: può essere chiamata «scienza» una conoscenza che non si dirige al necessario? Secondo la definizione aristotelica degli Analitici secondi, la risposta è negativa: del contingente non vi è scienza. Applicando tale criterio alla teologia, si cade dunque in un questa alternativa: o tutto l'agire di Dio è necessario, ivi incluso ogni suo gesto ad extra (ivi inclusa la creazione, che dunque assomiglierebbe a qualcosa come un'emanazione); oppure quest'ultimo terreno esula dalla competenza della teologia. Enrico di Gand e Tommaso d'Aquino tentano di sfuggire a quest'alternativa in maniera molto simile, ponendo cioè in una posizione subordinata la conoscenza del contingente nel discorso teologico: è vero che essa non è pienamente scientifica, però essa può fungere da illustrazione e conferma delle verità necessarie che fanno parte a pieno titolo della teologia. Si tratta di una risposta che ha in sé una coerenza, e che tuttavia solo a forza può adattarsi all'effettivo procedere della teologia: se di questa il «testo» fondamentale continua ad essere la Sacra Scrittura (una certezza che tutti i teologi di cui ci occupiamo condividono in linea di principio), come non notare che essa è costituita proprio per la stragrande maggioranza di quei fatti singolari e contingenti che quindi dovrebbero costituire solo un complemento estrinseco? e ancor più, si è disposti a collocare la conoscenza di Cristo incarnato, per eccellenza gesto libero della Trinità divina, al di fuori o almeno ai margini del discorso teologico? È questo evidentemente il punto di vista dal quale Scoto vede una difficoltà insormontabile nell'accettazione pedissequa della teoria della scienza degli Analitici secondi. Bisogna piuttosto secondo Scoto rivolgersi all'Etica Nicomachea, dove la caratterizzazione dell'abito della «scienza» ne evidenzia solo la componente soggettiva della certezza: una certezza dunque che nel campo della fede può essere conferita pure quando all'oggetto considerato manchi il carattere della necessità. Ancor più, bisogna riflettere sul concetto aristotelico di sapienza: se essa riguarda tutt'intera la conoscenza del divino (tanto nei principi quanto nelle deduzioni), allora la conoscenza del contingente sarà qualcosa di analogo all'intelletto, che è appunto conoscenza dei principi. Ogni atto contingente di Dio sarà cioè per così dire un «principio» (principio indeducibile nella sua libertà) a partire dal quale si può sviluppare il discorso teologico.
È sufficiente questo rapido excursus per intuire come nel rifiuto della teoria dell'illuminazione di Enrico di Gand vi sia dunque qualcosa di più di quanto appaia a prima vista. Il rifiuto della necessità di una continua luce divina sull'intelletto umano non è connesso soltanto (come per esempio in Tommaso) alla rivendicazione della capacità che il creatore ha posto una volta per sempre nell'uomo, ma anche (e qui abbastanza diversamente da Tommaso) ad un'estensione del concetto di scienza che vi faccia entrare il mondo del libero e del contingente. Un mondo che proprio il discorso teologico cristiano rivendica: è proprio qui (osserva Scoto con intelligenza) che il Dio creduto è anche sommamente libero. La ragione umana troverebbe molto più naturale (ciò che in effetti è dimostrato dalle teologie pagane) proiettare la necessità del suo processo razionale sulla prima causa, e pensare che da essa tutto discenda solo necessariamente. È ora che si comprende un poco meglio anche la prima replica ad Enrico di Gand: richiedere una dottrina soprannaturale per conseguire il fine soprannaturale è una petitio principii perché tale fine non compare in maniera cogente nell'orizzonte della razionalità umana, né gli squilibri tra possibili desidèri di conoscenza e beatitudine e parzialità dei risultati ottenibili per vie naturali dimostrano nulla (per lo meno nulla che non possa essere neutralizzato dal sobrio richiamo a mantenersi nei limiti di ciò che è umanamente esperibile). È questo un tema che dobbiamo contentarci qui di accennare.
Esagerare l'importanza del Prologo dell'Ordinatio è probabilmente uno dei difetti interpretativi in cui è più facile incorrere in Scoto. A propiziarlo congiura infatti non solo la circostanza (esterna ma pur sempre significativa) che esso è stato ovviamente la prima parte completa dell'opera di Scoto ad essere disponibile in edizione critica (e l'unica che sia stata più di una volta presentata in forma editorialmente autonoma); l'errore di prospettiva è favorito anche dall'estensione straordinaria che il Prologo assume (se non erriamo superiore rispetto a qualsiasi altro commento alle Sentenze edito), estensione che facilmente induce a credere che le questioni preliminari sul senso della teologia vi siano esaurientemente trattate; e infine dalla perenne tendenza a vedere nei teologi medievali dei «filosofi», in cui gli interessi puramente razionali, se non prevalenti, possono almeno essere senza gran danno isolati dal contesto che li aveva motivati: un'operazione questa, invece, che andrebbe giustificata e circostanziata volta per volta. In questo senso il Prologo può apparire come un trattato di epistemologia teologica più «filosofico» rispetto alla discussione dei singoli contenuti della fede. Errore comprensibile, ma pur sempre errore, che nel caso di Scoto manca inoltre di un'attenuante fondamentale: nessuno può negare che l'autore metta in guardia contro di esso. Un punto significativo lo abbiamo già incidentalmente citato: nel contestare il primo argomento di Enrico, Scoto ha osservato che «il luogo adatto di questa prova sono le questioni sulla beatitudine». È infatti solo in questa prospettiva, propriamente e specificamente teologica, che si può parlare in forma definitiva del fine dell'uomo.
È proprio in tale contesto che si trova una seconda, e crediamo non meno importante, presa di distanza di Scoto da Enrico di Gand, anzi per essere più esatti da gran parte della teologia medievale. Tale dissenso è curiosamente analogo al precedente: anche in questo caso viene negata l'esigenza di una luce. Non si tratta qui però del lume che permetterebbe una conoscenza capace di oltrepassare la fragilità dell'esperienza sensoriale, ma del lumen gloriae, quello che l'uomo dovrebbe ricevere per essere capace, nella beatitudine, di godere della visione di Dio. Scoto in realtà contesta la teoria del «lume della gloria» per due ordini di motivi. Il primo è a ben vedere analogo al precedente e possiamo parafrasarlo così: che cosa significa che l'intelletto ha bisogno di una luce particolare per vedere Dio? Che sia Dio in sé che debba essere «illuminato» è a dir poco assurdo; se tale luce è invece una qualità estrinseca che dovrebbe aggiungersi all'intelletto, in che senso sarebbe ancora l'intelletto umano a godere di questa visione? L'argomentazione di Scoto è in realtà un poco più elaborata, e fa leva sull'ipotesi di un «concetto» necessario per vedere Dio; se quest'ultima va respinta in forza del carattere «intuitivo» di tale futura conoscenza di Dio, tanto più è inutile e anzi incomprensibile l'ipotesi di un lume aggiuntivo: «Se l'oggetto in sé presente basta per causare l'azione della visione, quanto a ciò che è richiesto dalla parte dell'oggetto, allora non si richiede un concetto; se poi l'intelletto è semplicemente passivo, avendosi solo con il carattere in grado di accogliere rispetto all'atto della visione, dato che per la ricezione sola non è richiesta alcuna forma da parte dell'intelletto [...] allora un "lume della gloria" non è richiesto. [...] Quanto infatti un oggetto è più in sé stesso luce, tanto meno per esso viene richiesta una luce; né essa è richiesta per la ricezione, come è stato detto; dunque mi pare ancor meno necessario affermare il lume che il concetto» (Ord., IV, 49, 535).
Tale argomentazione di carattere gnoseologico si presta facilmente ad essere classificata tra le opinioni di Scoto cui la storia della dottrina cristiana ha dato torto. Pochi anni dopo la sua morte, nel 1312 il concilio di Vienne condannerà in effetti l'opinione secondo cui «anima non indiget lumine gloriae ipsam elevante ad Deum videndum et eo beate fruendum» (DS *895). Una volta contestualizzata, tale citazione sovente citata appare in realtà di intento molto più circoscritto: essa è parte infatti di alcune tesi di «begardi, beghine e fratelli del libero spirito», tesi che complessivamente sostengono la possibilità per l'uomo di giungere in questa vita ad uno stato di perfezione e beatitudine che libera da qualsiasi vincolo morale: un panorama questo quanto mai lontano da quello di Scoto. La stessa opinione che abbiamo prima citato è in effetti la seconda parte di una tesi più ampia che così comincia: «quaelibet intellectualis natura in se ipsa naturaliter est beata»: Scoto non crede affatto questo, pensa invece che la presenza di Dio «faccia a faccia» sia causa del tutto sufficiente di una visione soprannaturale, comunque venga intesa la natura dell'intelletto, senza ipotizzare un misterioso «lume» sulla cui natura in effetti anche i teologi che lo sostengono molto dissentono.
Lo scetticismo di Scoto nei confronti di questa tesi diventa più chiaro quando si osserva il secondo ordine di motivi che egli adduce. Essa gli pare infelice perché funzionale ad un'altra tesi, questa volta non superflua, bensì errata: quella che individua in un atto intellettuale l'essenza della beatitudine. Tocchiamo qui uno dei più noti punti di distinzione polemica tra tomismo e scotismo. Pure senza entrare nel dettaglio delle argomentazioni di Scoto è necessario ricordare che la sua presa di distanza è però solo indirettamente nei confronti di Tommaso: egli si preoccupa invece di rivendicare lo specifico dell'antropologia e teologia cristiana contro Aristotele e, in una maniera più sottile che rischia di passare inosservata, contro Avicenna. In loro, argomenta a più riprese Scoto, l'amore del fine viene concepito come una sorta di conseguenza meccanica e necessaria della conoscenza del fine. Ma così facendo la libertà dell'uomo rimane inspiegabilmente dimezzata: in grado cioè di scegliere i mezzi ma non di volere liberamente il fine ultimo, cioè in fin dei conti aderire con amore libero a Dio. Affermare che la beatitudine è essenzialmente un atto di amore non significa dunque togliere alcunché alla sua dimensione intellettuale, ma affermare che essa è il presupposto per qualcosa che è ancora più nobile (esattamente come affermare che la teologia è una scienza pratica non significa negare che essa abbia un aspetto teoretico). Si tratta di argomentazioni che vengono sviluppate in maniera molto precisa e che dunque non hanno nulla a che vedere con quella vaga «affettività» sovente attribuita alla scuola francescana: sarebbe al contrario interessante allineare i passi in cui Scoto demolisce un'interpretazione «sentimentale» della vita cristiana nonché della teologia.
Non è tuttavia direttamente di esse che ci vogliamo occupare, bensì del posto che vi occupa la questione del «lume della gloria»: un posto che va cercato con pazienza perché enunciato con chiarezza sì, ma di passaggio. Scoto è convinto che la tesi del carattere essenzialmente amoroso della beatitudine sia intimamente connesso, se non addirittura identico, al primato della carità. Qui Paolo e Agostino sono concordi e inequivocabili: «"La più grande di esse è la carità" (1Cor. 13, 13) e Agostino afferma: "Tra i doni di Dio nessuno supera il dono della carità, né lo eguaglia" (La Trinità, V, 19): ed evidentemente parla di un dono di altro carattere» (Ord., IV, 49, 202). Come è possibile opporsi ad affermazioni così autorevoli? Per Scoto in un solo modo: cioè ipotizzando un misterioso «lume della gloria» che nell'aldilà scalzerebbe il primato della carità: «A Paolo e ad Agostino si risponde che essi intendono parlare rispetto allo stato terreno, ma nello stato celeste il lume della gloria è più nobile. Ciò si dimostra per il fatto che ciò che a causa della sua perfezione non ammette un'imperfezione è più perfetto di ciò che a causa della sua imperfezione la ammette; ma il lume della gloria a causa della sua perfezione non può trovarsi nell'uomo su questa terra, mentre la carità può trovarcisi. Ciò si conferma per il fatto che è più perfetto ciò che distingue il perfetto da quell'imperfetto che è comune ad entrambi; ma il lume della gloria distingue l'uomo che contempla Dio da quello su questa terra, mentre la carità è comune» (Ord., IV, 49, 204). Questa confutazione è ingegnosa sì, ma agli occhi di Scoto è teologicamente gratuita e antropologicamente bizzarra: gratuita perché che la visione di Dio esiga un «lume della gloria» diverso da lui stesso è una tesi che in nessun modo si può fondare sulla Scrittura; bizzarra perché supporrebbe che in patria la gerarchia delle facoltà subisca un capovolgimento rispetto a ciò che avviene in via, un capovolgimento che quasi creerebbe una specie diversa da quella umana piuttosto che perfezionarla.
Se il nostro intento è misurare il confronto di Scoto con Enrico di Gand riguardo al carattere epistemologico della teologia, l'essenziale deve essere ancora detto. Nella concezione di Enrico c'è infatti una tesi qualificante che lo caratterizza: quella del «lume medio». Dopo ciò che abbiamo detto, è facile immaginare che questa medietà si situi appunto tra il lume naturale e il lume della gloria, due istanze che segnano per così dire il punto di partenza della conoscenza dell'uomo e quello di arrivo, la percezione intellettuale di qualsiasi realtà e la contemplazione di Dio cui tende tutta la vita cristiana (e quindi mediatamente tutto il discorso della teologia). Ora, la tesi di Enrico è che la conoscenza propria della teologia non è ovviamente la seconda cosa, ma non può neppure ridursi alla prima. La conoscenza teologica è dunque qualcosa di intermedio, che corrisponde ad una particolare illuminazione divina: appunto, un lume medio.
Prima di liquidare questa posizione come frutto di un semplice amor di sistema, bisogna capirne le ragioni, che in realtà sono serissime. Alle sue spalle, come Scoto fa chiaramente capire nel riassumerla, ci sono per lo meno due motivazioni in tensione fra loro. La prima potremo definirla storico-tradizionale: si tratta della forte tradizione, che potremmo definire alessandrina per l'Oriente e agostiniana per l'Occidente, che vede la possibilità per l'uomo (in una certa misura perfino il dovere, nei limiti delle sue possibilità personali) di comprendere i contenuti della fede. Non si tratta di quel comprendere elementare del senso di un enunciato (senza il quale ovviamente non si potrebbe avere neppure fede), ma piuttosto dell'afferrare discorsivamente il senso, le ragioni, la struttura logica interna. La seconda motivazione è invece di ispirazione propriamente teologica: questa comprensione razionale, perfetta finché si voglia, non si identifica ancora con il vedere Dio, che è il premio che l'uomo può ottenere solo in patria. L'esempio di Enrico che Scoto riferisce è da questo punto di vista abbastanza convincente: «Se di un'eclissi che già è in corso uno che non vede la luna dicesse che la luna si è già eclissata, crede ciò che non vede con gli occhi né comprende, perché non sa grazie al corso dei moti celesti che in tal momento necessariamente la luna debba eclissarsi. Colui invece che conosce ciò in questo modo, comprende che la luna si eclissa, sapendo che esiste una qualche eclissi in un singolare vago e così in universale; ma non nel singolare determinato, a meno che la veda davanti agli occhi percependola in particolare. Colui poi che la vede, ha una certissima comprensione di questa eclissi in quanto è determinata in particolare; di questa eclissi determinata in particolare l'astronomo, senza vederla, ha soltanto fede ovvero opinione, benché di essa abbia scienza in un singolare vago e in universale» (Ord., III, 24, 26). In questo modo quindi si salva sia la specificità della conoscenza teologica, sia la duplice differenza dalla visione della gloria e (questo è in realtà il punto che qui interessa di più) dalla credenza della fede. È insomma per questo motivo che il teologo continua a «credere» pur avendo riguardo ai medesimi oggetti una conoscenza più alta: è solo la visione che annulla la fede (seguendo l'affermazione paolina), non invece una dimostrazione indiretta, quale è quella teologica.
Che cosa pensa Scoto di ciò? La lettura del Prologo dell'Ordinatio ci lascia completamente senza risposta. È questo un secondo caso, più notevole del precedente, in cui bisogna osservare che limitarsi al suo testo è fuorviante. Ad un'attenta lettura infatti il grosso del Prologo, pur essendo ovviamente un discorso teologico, non ha però per oggetto la teologia, ma piuttosto la «dottrina soprannaturalmente rivelata», cioè, come è chiaro dalle argomentazioni di Scoto, lo stesso contenuto della rivelazione di Dio, ciò che insomma si può trovare nell'annuncio elementare della fede cristiana. Contrariamente a ciò che spesso si legge, Scoto nel Prologo si interroga per esempio sulla necessità di questa, non della teologia. È vero che poi in importanti sezioni, quella sul carattere scientifico della teologia (a cui ci siamo prima riferiti) e quella (la più ampia di tutte) sul suo carattere «pratico», egli si interroga direttamente sulla teologia; tali argomentazioni però potrebbero essere interpretate come un modo indiretto e a fortiori per porre in luce la natura della rivelazione cristiana; e rimane comunque vero che la peculiarità del discorso teologico non è stata ancora definita e delimitata. Che cos'è allora la teologia per Scoto?
Il lettore deve avere molta pazienza per giungere, dopo molte centinaia di pagine, al punto dove la questione viene affrontata: nel libro terzo, quando il tema diretto è costituito dalla virtù teologale della fede. È qui che finalmente compare il confronto con la teoria di Enrico di Gand. Scoto anzitutto non è affatto convinto che questa salvi la possibilità della compresenza di fede e teologia. Conoscere dimostrativamente qualcosa significa semplicemente non dovervi (e quindi non potervi) più credere: in colui che apprende delle dimostrazioni geometriche (questo è il controesempio di Scoto) non vi è più alcuno spazio per la fede che egli precedentemente prestava alle conclusioni che l'esperto di geometria gli comunicava. Se dunque l'insuperabilità della fede nella vita presente va presa sul serio, la teologia stessa dev'essere interpretata in modo differente. Più radicalmente ancora, la teoria di tale «lume medio» non si lascia collocare in nessuna esperienza concretamente descrivibile. Una conoscenza scientifica richiederebbe l'apprensione chiara dei principi: ma io teologo, dice Scoto, «non ho nessun concetto in nessun lume riguardo a Dio trino e uno che non possa avere un eretico o un non credente in assoluto; ciò risulta dal fatto che lo stesso concetto che io affermo riguardo a questi termini e alla conclusione formulata, l'eretico stesso lo nega; ma è certo che l'eretico non possiede il concetto dei termini in maniera distinta sotto i propri caratteri, dunque neppure io lo possiedo» (Ord., III, 24, 44).
Neppure affermare una natura soprannaturale ed esteriormente invisibile di questo lume risolve alcunché; esso dovrebbe infatti perlomeno avere (al pari della carità) una duplice conseguenza esteriore e interiore, che invece, osserva con un'ironia un po' triste Scoto, non consta affatto: «coloro che secondo loro hanno questo lume, a causa di questo lume non insegnano meglio, né aderiscono nella mente agli oggetti di fede più fermamente rispetto agli altri semplici che non hanno un lume siffatto: spesso anzi meno» (Ord., III, 24, 47). Tale carattere soprannaturale fa inoltre entrare in un vicolo cieco: perché o questo lume viene ritenuto un dono contemporaneo al battesimo: e questo significherebbe che, vanificando proprio l'intenzione che ne aveva giustificato l'ipotesi, esso sarebbe inseparabile e indistinguibile dalla fede; oppure esso è un dono gratuito di Dio: e allora, dice Scoto, «inutilmente ci affaticheremmo nello studio e nella ricerca della verità, e sarebbe una strada molto migliore per pervenire alla scienza della teologia star seduti in chiesa e pregare Dio di concederci questo lume» (Ord., III, 24, 51; un'osservazione questa che qualsiasi lettore avveduto di Enrico di Gand percepisce subito come ad hominem: forse pochi come lui hanno sottolineato, contro le tentazioni «carismatiche», la necessità dell'impegno umano nello studio).
Ma che cos'è allora la teologia come scienza? La risposta di Scoto è analitica e indiretta. Fermo restando che attenendosi alla definizione stretta degli Analitici non può esistere una «scienza» sui medesimi oggetti sui quali si ha la «fede», si possono prendere in esame tre abiti che possono sì coesistere con la fede. Il primo è quello della conoscenza di tutte le verità della Scrittura e l'assenso immediato ad esse in forza all'autorità divina: un abito che non coincide con la fede, se non altro perché non è affatto richiesto per la salvezza. Il terzo è quello della certezza che ebbero coloro che per primi ricevettero la rivelazione: una certezza tutta speciale che non poteva derivare da un'inesistente evidenza degli oggetti rivelati. Nessuno di questi abiti si avvicina però a ciò che si intende come teologia: entrambi infatti, pure se in un certo senso si estendono di là dai confini della fede (e di qua dai confini della visione) mancano totalmente di quell'aspetto argomentativo che può permettere di definire la teologia come abito scientifico, seppure in un senso lato. Andando per esclusione, non rimane che il secondo abito per trovare che cosa Scoto intende per teologia.
La presentazione è insolitamente precisa e sobria: questo è l'abito di chi sa «interpretare la Scrittura, spiegare le deduzioni e risolvere le obiezioni» (Ord., III, 24, 62). Ma che cosa significa interpretare la Scrittura? Scoto individua due casi. Nel primo un passo oscuro viene interpretato tramite un altro più chiaro; a tale caso si riferisce Agostino (citato in questo contesto) quando egli loda l'oscurità della parola divina: «L'oscurità della parola divina è utile anche perché genera più interpretazioni della verità e porta alla luce della conoscenza, quando uno interpreta in un senso e l'altro in un senso diverso, in modo tuttavia che l'interpretazione data a un passo oscuro deve essere confermata o dalla testimonianza di cose evidenti o da altri passi per nulla dubbi, sia che, nel trattare molte cose, si giunga anche a quella intesa da chi ha scritto[, sia che questa sfugga ma in occasione della discussione di una profonda oscurità si affermino alcune altre cose vere]» (La città di Dio, XI, 19, cit. in Ord., III, 24, 62). È solo a questo punto che si comprende con chiarezza che cosa Scoto ha scritto centinaia di pagine prima, quando nell'importantissima (e non poco sottovalutata) seconda parte del Prologo ha definito l'eresia come la conseguenza della lettura di passi della Scrittura -- mentre l'ortodossia è la conseguenza del confronto di passi della Scrittura. Il secondo caso dell'interpretazione è ancora più interessante, perché è forse in esso che Scoto meglio manifesta la coscienza del fatto che ai suoi tempi ormai la teologia non è più sacra pagina, una trasformazione che evidentemente gli pare irreversibile sì, ma bisognosa di essere compresa esattamente: in questo secondo caso si interpreta «con l'aiuto di altre scienze, cosa alla quale giunsero in tempi recenti i dottori mescolando la filosofia alla Sacra Scrittura (il che senza dubbio ha molto valore, soprattutto quando si usano temi metafisici per comprendere la verità della Scrittura riguardo alla Trinità, alle intelligenze [angeliche] e alle realtà astratte)» (Ord., III, 24, 63). Il fatto che siano mescolati elementi scientifici non deve però far dimenticare, soggiunge Scoto, che la certezza finale è sempre solo quella delle premesse meno evidenti, cioè di quelle di fede. Qualcosa dunque di diverso dalla fede, ma che proprio in quanto non strettamente scientifico può coesistere con essa. La «soluzione delle obiezioni» e la «spiegazione delle conclusioni» (le altre due funzioni che erano state riconosciute a questo abito) possono essere comprese in maniera analoga.
Sorprende la fermezza e la sobrietà con la quale, dopo le ardite ipotesi di Enrico, Scoto riporta la teologia sulla terra. Non solo nella teologia non c'è proprio nulla di soprannaturale, ma essa neppure garantisce nulla sull'adesione alle verità di fede. I teologi non sono affatto più credenti dei semplici cristiani, anzi spesso è vero il contrario. Non è difficile sentire in questo un'eco della risposta che Francesco, il padre spirituale di Scoto, diede a frate Antonio: «Ho piacere che tu insegni la sacra teologia ai frati, purché in questa occupazione non estingua lo spirito dell'orazione e della devozione, come sta scritto nella Regola» (FF 252): che è come dire che la teologia non solo non ha per presupposto soggettivo la fede, ma potrebbe addirittura contenderle il posto nel cuore dell'uomo. Ciononostante, Scoto è convinto che la teologia, nel suo paziente lavoro di confronto e interpretazione, e perfino nella sua forma moderna di «mescolamento» tra Scrittura e metafisica, svolge una funzione importante, soprattutto di fronte al mondo. In pochi come in lui (una volta che venga liberato dal perenne fraintendimento che vi vede tratti «fideistici») c'è la continua rivendicazione di un ruolo che potremmo chiamare «culturale» del cristianesimo. Contro chi, forse sotto l'euforia del nuovo fiorire della razionalità nel XIII secolo, voleva ricondurre la forma di pensiero cristiano e la sua etica ad una «pura» razionalità, egli rivendica dovunque gli paia opportuno il loro carattere propriamente cristiano: per esempio, non è un prodotto di pura razionalità pensare l'uomo e Dio a partire dalla libertà, non lo è porre l'amore al di sopra di ogni cosa, non lo è pensare e vivere l'esistenza in funzione di qualcosa di infinito. Tutte queste sono soltanto possibilità per il pensiero e la vita umani, non solo non inevitabili ma sotto certi aspetti perfino improbabili. È la fede cristiana che li rende reali, in tutta la loro bellissima e imprevista consonanza con la natura umana. E la teologia cristiana, questa strana forma di razionalità ibrida, qui non può fondare nulla nel senso dell'evidenza scientifica, e tuttavia può e deve sforzarsi di «interpretare, spiegare, risolvere». Con serietà, possibilmente con amore, ma senza la garanzia di nessuna luce.
Copyright © 2009 Giovanni Salmeri
Giovanni Salmeri. «Nessuna luce. Fede, teologia e contemplazione in Giovanni Duns Scoto». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno, Parma 20-21 marzo 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [34 KB].
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