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«Per visibilia ad invisibilia»: l'ontologia trinitaria di Edith Stein

di Raffaella Pozzi (Roma, 26-28 maggio 2011)

1. Note introduttive: la problematica dell'essere tra ontologia e gnoseologia

La ricerca ontologica di Edith Stein si snoda tra diversi percorsi, che vanno dall'indagine sui cogitata (come negli scritti in cui la filosofa si pone più direttamente entro il solco della fenomenologia husserliana), a quella sui differenti modi di essere degli enti che costituiscono il mondo (come in Akt und Potenz),1 a quella che «dall'analisi dell'ente giungerà all'affermazione ontologica plenaria, cioè all'affermazione teistica»2 (come in Endliches und ewiges Sein). Tale ricerca, che intende indagare la relazione tra soggetto e oggetto, tra coscienza e realtà extra-coscienziale, tra io e mondo, rientra nella più ampia discussione sul rapporto tra gnoseologia e metafisica, che sembra via via assumere un ruolo sempre più importante nella filosofia di Edith Stein e precisarsi come una riflessione sulla problematica dell'essere, vista sia in ordine alla questione della verità, sia, più in generale, all'interno dell'indagine sui vari ordini di realtà. Come chiarirà in Endliches und ewiges Sein, la concordanza dell'ente con il pensiero in quanto verità logica ha sempre un fondamento nell'ente stesso, fondamento che Stein indica come verità ontologica, nel senso che l'ente è ciò che è, come è in se stesso, il che corrisponde, in termini tommasiani, alla distinzione tra veritas in re e veritas in intellectu.3 Come ha ben rilevato Oesterreicher, per Edith Stein come per san Tommaso, la verità è l'essere come si presenta all'intelligenza, il che non significa però pensare che l'essere sia semplicemente il frutto di un'astrazione, bensì piuttosto sottolineare che «la conoscenza è ricalcata sulle cose e le cose sono tali da essere pensate dall'Intelligenza divina nella quale risiede la verità unica ed eterna, della quale le altre verità non sono che dei riflessi frammentari nelle intelligenze create».4 Come si vedrà, l'ontologia di Edith Stein si apre così ad una visione metafisica che, recuperando la tradizione antico-medievale, approda al cristocentrismo nella trattazione delle idee archetipiche, modello di ogni esistente, e che rinviene la presenza del Dio Uno e Trino in tutta la creazione, dagli esseri immateriali a quelli spirituali.

2. «Per visibilia ad invisibilia»: dall'essere finito all'Essere eterno

Grazie allo studio di Tommaso, Edith Stein matura la convinzione che l'ontologia -- definita come la dottrina delle forme fondamentali dell'essere e dell'ente -- sia in grado di dimostrare «che all'interno dell'essere c'è una cesura radicale: la cesura fra un essere puro, che non ha in sé nulla del non-essere, che non ha né principio né fine e che abbraccia in sé tutto ciò che può essere, e un essere finito che inizia e cessa, che è partecipato ad un ente finito. Chiamiamo l'uno l'essere increato; l'altro l'essere creato; e l'ente che corrisponde all'uno e all'altro rispettivamente Creatore e creatura».5

Il percorso che Edith Stein compie per arrivare a questo risultato parte dall'indagine sul dato di fatto del proprio essere, che, come già avevano messo in evidenza Agostino, Descartes e Husserl, da lei citati, rappresenta il punto di inizio di ogni filosofare, la conoscenza più originaria, benché non la prima in ordine cronologico, dato che per raggiungerla è necessario abbandonare l'atteggiamento che proietta verso il mondo esterno, per volgersi piuttosto all'interiorità.6

Quando si intraprende questa via, ci si trova davanti a degli interrogativi che riguardano il proprio essere, l'Io che di esso è consapevole e il movimento dello spirito che porta a questa conoscenza. Penetrando in profondità tali questioni, si scopre che l'essere di cui l'Io è consapevole è un essere temporale, sospeso tra il non-essere-più e il non-essere-ancora, il cui essere attuale dura solo un attimo -- quello dell'essere momentaneo -- e che perciò è caduco. Tuttavia esso è analogon dell'essere eterno -- che è immutabile e perciò è essere pieno in ogni istante -- secondo un rapporto che è di somiglianza della copia con l'archetipo, ma ancor più di dissomiglianza. Se si seguono le lunghe e sottili analisi sui vari enti condotte in Akt und Potenz prima e in Endliches und ewiges Sein poi, si noterà come questo stesso rapporto si abbia in tutti gli ordini di realtà, sia pure secondo modalità diverse. Sulla base di una concezione che si trova anche nello pseudo-Dionigi Areopagita, ogni ente è infatti un analogo dell'essere divino, secondo una gradualità particolare, di modo che le creature si ordinano su vari livelli a seconda che si avvicinino più o meno all'essere divino: «Ad ogni grado corrisponde un diverso modo di essere e una differente forma fondamentale dell'ente: essere materiale, organico, animale, spirituale».7

Se ogni ente è un analogon dell'essere puro, una volta che si sia stabilito che l'essere puro corrisponde all'essere divino -- l'unico il cui essere sia eterno e non soggetto al mutamento -, si potranno rintracciare in tutta la realtà visibile -- interna o esterna all'io -- i segni di quell'impronta conferita dal Creatore alla sua creatura: come Stein scrive nel corso sulla struttura della persona umana, «nel suo mondo interiore, come in quello esteriore, l'essere umano trova rimandi a qualcosa che è al di sopra di lui e di tutto ciò che esiste, da cui egli e tutto ciò che esiste dipende».8

Ecco allora che in Endliches und ewiges Sein, dopo aver mostrato con le Scritture che quel Dio di cui si può dire solo che sia Dio è l'Io sono, ovvero l'essere in persona, caratterizzato da volontà, libertà e intelligenza, la filosofa procede a indagare il rapporto tra Dio e il creato, sottolineando come questo non possa essere un'immagine perfetta, ma solo "parziale", un "raggio riflesso" di quello e che l'autonomia del creato «non deve essere paragonata a quella del ritratto rispetto alla persona che riproduce, o all'opera rispetto all'artista. È piuttosto simile al rapporto dell'immagine dello specchio con l'oggetto che si specchia o del raggio spezzato rispetto alla luce non spezzata»,9 dove l'oggetto che si specchia e la luce rimangono in sé inaccessibili e allo stesso tempo sono la condizione stessa del sussistere dell'immagine e del raggio, i quali esprimono qualcosa dell'invisibile archetipo.10

3. L'immagine della Trinità nella creazione

La relazione tra il Creatore e la creazione viene considerata simile a quella che si ha fra le tre Persone divine, dato che si può descrivere il rapporto tra il Padre e il Figlio nei termini di un rispecchiarsi in sé di Dio che assomiglia -- pur con le debite differenze -- a quello che caratterizza l'essere umano quando conosce se stesso. Il sapersi di Dio, infatti, perfettamente chiaro e onnicomprensivo, non produce un secondo essere: «la generazione di una "effigie" perfetta di Dio non è la creazione di un nuovo essere al di fuori di quello divino e di una seconda entità divina, ma il conchiudersi interiore e spirituale dell'essere uno».11 Per chiarire cosa sia la perfetta unità dell'"Io sono" in tre Persone, la filosofa ricorre nuovamente a un discorso analogico: poiché l'Essere-Persona divino è l'archetipo di tutti gli esseri-persona finiti, si può risalire alle relazioni fra le tre Persone divine osservando l'essere-uno di una pluralità di persone finite. Mentre in quest'ultimo caso si riscontra una diversità dell'essere e dell'essenza di ogni io nei confronti del tu che gli si contrappone, col quale pure vive -- per la comunanza dell'essere-Io -- nell'unità di un "noi", nel caso dell'Io divino, «L'intera essenza è comune alle tre Persone. Rimane quindi solo la diversità delle Persone in quanto tali: una unità perfetta del noi, come non può essere raggiunta da nessuna comunità di persone finite. E tuttavia in questa unità è possibile la distinzione tra l'Io e il Tu, senza la quale non è possibile il noi».12 Questo noi, in quanto unità dell'Io e del Tu, è un'unità superiore a quella dell'Io ed è, nel suo significato più perfetto, una unità dell'amore, il primo misterioso accenno al quale si trova nell'affermazione di Genesi 1, 25, in cui Dio parla di Sé al plurale: "Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza". Nell'amore, anche quello fra gli esseri finiti, che pure rimane sempre incompiuto, è possibile vedere il farsi uno dei due che si donano reciprocamente l'uno all'altra, pur dediti a sé e "inferire così col pensiero la forma originaria senza macchia"13: «La vita intima di Dio è l'amore eterno, reciproco, senza mutamento, interamente libero, indipendente da tutte le creature, delle Persone divine. Esse si donano reciprocamente l'unica eterna infinita essenza, e l'essere, che ognuno comprende perfettamente e tutte assieme comprendono. Il Padre la dona -- dall'eternità -- al Figlio generandolo e mentre Padre e Figlio se ne fanno dono reciproco, procede da essi, come loro amore e dono reciproco, lo Spirito Santo. Quindi l'essere della seconda e terza Persona è un essere ricevuto e tuttavia non è un essere che risulta nuovo, come quello creato: è l'unico Essere divino che al tempo stesso è dato e ricevuto -- il dare e il ricevere appartengono all'Essere divino stesso».14

Procedendo nell'indagine, Edith Stein si ferma a considerare che se il Creatore, unico Dio in tre Persone, come si è visto, è l'archetipo della creazione, si dovrebbe trovare in essa un'immagine anche lontana dell'unità trinitaria dell'Essere originario e poter giungere, muovendo da ciò, a una più profonda comprensione dell'essere finito. In un'importante nota al testo, l'Autrice chiarisce che, a differenza di Tommaso -- che in questo segue Agostino -, essa intende parlare esclusivamente di immagini della Trinità, poiché esse si trovano anche in creature che per l'Aquinate rivelerebbero solo un vestigio di essa; per la filosofa tedesca, invece, è possibile rinvenire in tutta la creazione un segno e una rappresentazione della causa in una forma che le sia somigliante15: «Tutte le creature hanno una struttura una e trina, in quanto sono fondate su di sé, piene di senso e di forza. Tutti gli esseri autonomi hanno lo sviluppo dell'essere uno e trino, che noi abbiamo chiamato corpo-anima-spirito»,16 sebbene solo le persone spirituali abbiano in comune con la divinità l'essere persone.17

Ogni ente, in effetti, proprio in quanto uno, imita l'unità dell'essenza divina e come tale è immagine della Trinità: nel proprio essere per sé sussistente è immagine del Padre, inizio primo e incondizionato; nelle proprie determinazioni essenziali, in ciò che deve essere, è immagine del Logos, considerato l'archetipo che tutte le riassume; nell'irradiarsi spirituale della propria essenza, che appartiene anche agli esseri materiali, è immagine dello Spirito Santo.

Tale riproduzione della Trinità si manifesta tuttavia secondo modalità che appaiono diverse nei vari esseri finiti.

Negli esseri corporei inanimati essa viene rinvenuta innanzitutto nella struttura dell'ente, poiché «in quanto supporto materiale della sua essenza esso è qualcosa che si costituisce da sé, attraverso la sua essenza è qualcosa pieno di senso e può, in virtù della forza della sua forma essenziale, svilupparsi nel proprio essere»; in secondo luogo, l'unità e la trinità si ritrovano nello sviluppo dell'essere, in cui si riscontrano «il formarsi in sé nella forma propria della essenza, il possesso dell'essenza informata, e l'uscire da sé in un'attività esterna (prendendo parte al rapporto causale della natura corporea e irradiando la propria essenza nel mondo spirituale) ».18

Rispetto ai corpi inanimati, negli esseri viventi si ha una immagine più forte della Trinità: del Padre, in quanto essi sono costituiti da sé e hanno in sé il proprio principio; del Logos, poiché rappresentano un'unità di significato conclusa, in quanto forma delimitata da sé; dello Spirito, perché portano in sé la forza per sviluppare la propria essenza e per generare nuovi prodotti.

Benché in tutti gli esseri viventi lo sviluppo più o meno perfetto di ciascuno dipenda dal mondo circostante, dal quale possono accogliere materie estranee, informarsene e servirsi delle forze insite in esse per sviluppare e realizzare la loro essenza, vi è tra loro una differenza: mentre infatti nelle piante la formazione è ancora una struttura puramente materiale, negli animali la vita dell'anima è movimento interno e formazione di una struttura appunto animata, che rimane comunque legata e condizionata dal corpo: in tutto ciò «si manifesta un superamento della materia che va molto al di là dell'anima delle piante, cioè una propria vita interiore sciolta dalla materia che occupa spazio, che si rispecchia nel prodotto materiale già formato (nel corpo) attraverso una trasformazione costante (nei fenomeni espressivi), e che fa del corpo uno strumento per la sua azione nel mondo esterno».19

Proprio nello sbocciare della vita interiore -- che porta già in sé il sigillo della Trinità -- si può vedere un nuovo rapporto di imitazione con la divinità: essa, infatti, «in quanto vita permanente è immagine del Padre, in quanto vita piena di significato (e lo è per i suoi contenuti, anche se non sono ancora contenuti compresi dall'Io stesso) un'immagine del Figlio, e in quanto vita, manifestazione di forza ed irradiamento dell'essenza, un'immagine dello Spirito Santo».20 Si tratta di una vita interiore che, insieme alla formazione del corpo e all'agire nel mondo esterno, non è il frutto dell'azione personale dello spirito libero, bensì semplicemente un "accadere": proprio perché non sono compresi né liberi, si parla di esseri viventi impersonali.

Tra gli esseri viventi personali, un discorso più approfondito merita l'essere umano, la cui caratteristica precipua sembra essere la sua anima: essa, in quanto forma informante la materia, si distingue dalle forme inferiori e, in quanto spirito, si differenzia da quella degli spiriti puri; «non solo è un intermediario tra spirito e materia, ma è una creatura spirituale, non solo prodotto dello spirito, ma spirito formante».21

La natura spirituale dell'anima, che le consente di ascendere al di sopra di sé e di rivolgersi a Dio, come i puri spiriti, pur rimanendo radicata nella vita corporeo-sensibile, è il presupposto per l'unione con Dio. Quella appena ricordata è però soltanto una delle tre azioni informanti proprie dell'anima: essa, infatti, attua la formazione del corpo, secondo l'anima vegetale, pur essendo il prodotto un corpo umano e dunque strumento e campo di espressione di uno spirito libero, e vive in questo corpo e si forma secondo la specie dell'anima animale, seppure la sua vita sensibile sia legata allo spirito e da esso formata: «Così nell'uomo sono uniti nell'unità di un'unica essenza i regni distinti della creazione, mentre al di fuori dell'uomo essi sono soltanto in un legame di azione e di significato».22 La triplice azione così delineata deve essere considerata come unità trinitaria, così come trino è anche ciò che essa forma, vale a dire l'unità corpo-anima-spirito: «Se cerchiamo di mettere in relazione questa unità trinitaria con quella divina vedremo nell'anima, in quanto fonte che si crea da sé e si forma nel corpo e nello spirito, l'immagine del Padre; nel corpo in quanto espressione dell'essenza ben delimitata, l'immagine del Verbo eterno; nella vita spirituale l'immagine dello Spirito divino».23 La stessa anima è caratterizzata da una unità trinitaria, poiché il suo attingere forza in sé, il suo formarsi in modo ben delimitato e il suo passare da sé alla vita spirituale la rendono immagine del Padre; il suo entrare in una materia ad essa estranea durante la formazione del corpo può essere paragonato all'incarnazione del Verbo; il suo uscire da sé in un mondo esterno che dà ad essa la propria impronta riporta all'azione dello Spirito nella creazione.

4. La centralità del Logos divino

Come si è visto, a partire dalla ricerca dell'essenza della realtà che lo circonda e della propria soggettività, l'essere umano può essere condotto ad una sfera trascendente: l'esperienza della contingenza e della finitudine propria e di tutto il mondo sensibile spinge infatti l'intelletto a pensarsi come radicato in un Essere eterno che si rivela non solo come il fondamento d'essere di tutto ciò che è, ma anche come il datore di senso dell'intera realtà e colui grazie al quale questa diviene comprensibile. Nella razionalità del mondo finito, infatti, si possono rinvenire le tracce di quel Logos che è il Senso di tutte le cose e nel quale era stata prevista tutta la creazione. Come già Agostino e Tommaso, anche Stein parla di un essere delle cose nel Verbo, che precederebbe il loro essere in se stesso e sarebbe ad esso superiore: «l'essere delle cose in sé -- il loro essere reale, come noi diciamo -- sarebbe da ricondurre all'essere delle corrispondenti idee in Dio [...] . Le idee -- secondo questa concezione -- sono archetipi delle cose e le cose le loro immagini. Ma il fatto che le idee abbiano il potere di chiamare all'esistenza le loro immagini, e di foggiare la materia ad immagine delle idee lo devono al loro essere nel Logos che le rende viventi e con ciò contemporaneamente attive».24 Le idee delle cose sono cioè incluse nel Logos come degli archetipi, unite per sempre nello spirito divino che si limita e si articola in loro in quanto immagine originaria del mondo creato: la molteplicità gerarchizzata delle essenze che popolano il mondo intellegibile scaturisce dunque da un atto di autolimitazione di Dio nella visione della creazione, che appare da allora come inclusa nell'essenza divina.25 Essendo in Dio, che è vita, attualità, unico, semplice e indiviso, le idee non possono essere prive di vita: «L'essere di Dio è essere spirituale ed essere spirituale è essere-trasparente-a-sé, cioè conoscere ed essere-conosciuto. Dio come ciò che si è conosciuto da sé: questo è il Logos, questo è il Verbo divino -- il Verbo che è Dio ed è vita. Per mezzo del Verbo tutto è stato fatto, poiché nell'unità della vita divina è inclusa l'intenzione creativa».26 Tale intenzione creativa è anch'essa una, anche se opera nella molteplicità delle idee sin dall'eternità: «Comprese nell'unità del Logos divino, le forme pure sono il prototipo delle cose nello spirito di Dio, che pone nell'esistenza le cose con la forma del fine loro prescritto. [...] . Grazie alle forme originarie, noi possiamo pensare ora l'essere divino non solo come motore del mondo, ma anche avente un legame particolare con ogni creatura».27 Proprio in virtù del fatto che le cose sono create sulla base di queste forme pure, si può parlare, per la filosofa tedesca, di una "connessione" di ogni ente e della totalità di tutti gli enti nel Logos: «La loro [di tutti gli enti, scil.] "connessione" nel Logos è quella di un tutto significante, di un'opera d'arte compiuta, in cui ogni tratto particolare si inserisce al suo posto nell'armonia di tutto il quadro, secondo una legge purissima e rigorosissima. Ciò che noi cogliamo del "senso delle cose", ciò che "entra nel nostro intelletto", si rapporta a quel tutto significante come singoli suoni perduti di una sinfonia lontana, che mi siano portati dal vento».28 L'equivalenza qui posta tra forma pura o idea e senso mi induce a dire che per Stein le cose non sarebbero create da Dio sulla base di un modello astratto contenuto nella sua infinita mente, quasi che questa fosse una sorta di recipiente dal quale trarre ora questo ora quell'ente, copia del modello perfetto, bensì piuttosto grazie al particolarizzarsi di un senso che si rende evidente a un'intelligenza, nei vari enti, come rifrazione dello splendore della Luce da cui tutto proviene. In Dio c'è infatti semplicità assoluta ed è solo in rapporto al finito che si costituisce la molteplicità degli exemplaria. Il creato è strutturalmente rapportato a questi exemplaria, che in Dio sono un atto solo e che nella creazione risplendono come rifrazioni dell'unica luce a cui la materia risponde coerentemente secondo la propria essenza e le proprie leggi.29 Da un lato, dunque le idee divine, in quanto molteplicità significante articolata, sono il quid di ogni ente, così come abbracciato dalla mente di Dio, dall'altra, in quanto causa di ogni ente, temporale o intemporale, sono l'unica e semplice essenza divina, con la quale ogni ente sta in particolare rapporto di imitazione e in virtù della quale esso è posto nel proprio essere e perciò creato. In altri termini, le idee o essenzialità, di cui Edith Stein parla in Endliches und ewiges Sein, possono essere intese come rifrazioni dello Splendore dell'Uno ripetute nella molteplicità, il luogo in cui l'Unico si annuncia nella propria volontà di darsi nel suo eterno spirare Amore e di creare immagini a immagine del Logos, nel quale il Padre vede eternamente riflesse tutte le cose. Secondo tali essenzialità sono riprodotte le caratteristiche essenziali delle strutture composite, di modo che esse entrano nel mondo attuale-reale attraverso le quidditates o essenze, che non possono essere colte mediante astrazione dall'intelletto, ma possono essere trovate dallo spirito in quanto senso di tutto ciò che è: la conoscenza dell'ordine del logos, della concatenazione delle cose, è il modo propriamente filosofico della elevazione al senso dell'essere e all'Essere del senso.30

A fronte di tutto ciò, il Logos appare nel suo duplice volto: Egli è nello stesso tempo l'essenza divina conosciuta, ovvero la conoscenza di Sé fatta persona, e l'archetipo e la causa prima di ogni essere creato.

5. Note conclusive

Come si è visto, Stein è convinta che «È proprio di tutto ciò che è finito il fatto di non potersi comprendere da sé, di rimandare ad un primo essere che deve essere un essere infinito, meglio, l'infinito, perché l'infinito può essere solo unico. Definiamo questo essere primo e infinito Dio, visto che i suoi attributi corrispondono alla nostra idea di Dio. In questo modo, dobbiamo considerare un'evidenza ontologica il fatto che l'essere umano, come tutte le cose finite, rimanda a Dio e sarebbe incomprensibile senza relazione con l'essere divino, vale a dire, sarebbe incomprensibile tanto il fatto che esso sia (la sua esistenza) quanto quello che esso sia ciò che è».31 Il raggiungimento di questa consapevolezza non deve essere però inteso come la conquista di una semplice idea, destinata a rimanere viva solo sul piano intellettuale, poiché, come sottolinea Melchiorre, «Il rinvio ad una fondazione del determinato non può, d'altra parte, essere considerato in termini puramente logici, ideali: se le determinazioni in cui si avverte il rinvio sono reali, l'irrelativo o l'incondizionato che le fonda deve a sua volta pur essere reale: senza questa realtà, ogni reale determinazione verrebbe a mancare».32 Il pericolo dell'infinitizzazione del finito da parte dell'uomo, che Feuerbach ha così bene messo in evidenza nella riduzione della teologia ad antropologia, e che è sotteso alla concezione stessa dell'idea di Dio, può essere infatti scongiurato qualora si consideri il pensare come un'obbedienza della mente al vero che si manifesta: «Prima di affermare in che modo la trascendenza di Dio sia dicibile, è necessario concedere alla trascendenza il diritto di potersi comparire nel pensiero in forza di una sua evidenza, cioè di un suo comparire nel pensiero in forza della sua verità»,33 e non di una nostra decisione su Dio o nei confronti di Dio. Solo infatti «se al pensiero di Dio corrisponde una reale determinazione di Dio, che il pensiero non decide ma dalla quale si lascia decidere, possiamo avere la tranquilla certezza che Dio è nel pensiero in forza di sé».34 In questo senso l'analogia, che ci consente di significare Dio che non conosciamo a partire dall'ente che conosciamo, a partire cioè da quei rimandi a cui accennavo sopra, può essere considerata uno strumento che non si qualifica come mera invenzione linguistica dell'uomo, bensì come corrispondenza del pensiero alla verità. Come si è visto anche in Edith Stein, sulla base dell'esperienza ontologica fondamentale, si perviene alla consapevolezza dell'essere come esistenza di qualcosa, giungendo però al contempo all'impossibilità dell'affermazione di questo essere come pieno e non contraddittorio e alla necessità di ammettere l'Essere come origine e fondamento di quella stessa esistenza. In tal modo, «lasciando pensare l'essere, l'Essere si crea nel pensiero un luogo in cui -- per dirla con Heidegger -- egli stesso abita "co-originariamente" (gleichürsprunglich), anche se in modo non immediatamente evidente e scontato».35 Un Essere che si presenta nella sua irriducibilità e differenza rispetto all'essere nel cui pensiero si rivela, ma al quale risulta profondamente unito in quanto, appunto, sua origine e fondamento.

Nell'ontologia di Edith Stein, allora, diviene centrale l'analogia, perché, via via che si approfondisce come rapporto di similitudo e insieme di maior dissimilitudo, essa risulta essere uno straordinario strumento per pensare l'Origine e il Principio, che pure non viene mai colto nella totalità della sua verità, rimanendo esso incommensurabile al discorso razionale. Come ha sottolineato Garulli,

l'originalità dello studio dell'analogia da parte della filosofa tedesca sta nel fatto che essa, pur ricollegandosi alla dottrina tomistica, dalla quale è intesa come partecipazione dell'essere delle creature all'Essere di Dio, presuppone un ampliamento di questa nella direzione mistica e in quello che egli chiama il filone ebraico del pensiero della filosofa tedesca, opportunamente mediato dagli scritti di Dionigi l'Areopagita36 e che può essere ricondotto alla consapevolezza che il più intelligibile, l'Ipsum esse, non è però a parte hominis il più compreso. Se infatti l'analogia «serve a scoprire dei rapporti, ma non la realtà dei termini rapportati», occorre riferirsi al simbolo -- e alla teologia simbolica -- per vedere «come ci si può avvicinare all'invisibile per mezzo del visibile».37 L'immagine che di volta in volta Stein utilizza, ha un significato e una portata che Zordan definisce "anagogica": essa, infatti, «non ci presenta l'essere e gli enti finiti come degli "in sé" autoreferenziali, ma rimanda, in quanto immagine-copia (Abbild), a un'immagine-originale (Urbild) e rivela l'essere eterno. Il movimento ascendente inscritto nell'immagine-Abbild, tuttavia, si radica in un movimento discendente ancor più originario, che rovescia in qualche modo quello dell'analogia: se l'essere eterno non avesse foggiato l'immagine secondo l'archetipo e non continuasse ad essere presente in essa, non sarebbe possibile alcun "essere condotti in alto" a partire dalle forme finite».38 Se la Verità non ci venisse incontro con bontà e misericordia, rischieremmo, salendo in alto, di smarrirci, abbandonati i riferimenti e le regole del discorso razionale, e di essere condannati al silenzio. Ma «Dio è al di là del silenzio. Non si può dire che Dio "è" allo stesso modo in cui si intende che "l'universo è", oppure che "la totalità è". Dio non è l'infinito "oltre" pensabile a partire dalle misure della esistenza. [...] Dio non ha la sua misura nell'essere che abbraccia tutte le cose; Egli è al di là dell'essere [...] . L'ignoranza diviene dotta nella consapevolezza che ogni categoria dell'esistenza è inadeguata in rapporto a Dio; ed è silenzio liberamente eletto in attesa di verità».39

Copyright © 2011 Raffaella Pozzi

Raffaella Pozzi. ««Per visibilia ad invisibilia»: l'ontologia trinitaria di Edith Stein». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [**48 B].

Note

  1. Per le ragioni addotte da Julen Urkiza nell'introduzione all'edizione spagnola dello scritto per l'abilitazione del 1931, ritengo che il titolo che rispecchia maggiormente le intenzioni dell'Autrice sia Akt und Potenz e non quello con cui l'opera è comunemente nota, ovvero Potenz und Akt (cfr. Urkiza Julen, Nota introductoria a Acto y potencia. Estudios sobre una filosofía del ser, in Stein Edith, Obras completas, III: Escritos filosóficos. Etapa de pensamiento cristiano, a cura di Urkiza Julen e Sancho Francisco Javier, Editorial del Monte Carmelo-Editorial de Espiritualidad-Ediciones El Carmen, Vitoria-Madrid-Burgos 2007, pp. 225-236) Testo

  2. Cristaldi Giuseppe, L'opera filosofica di Edith Stein: Essere finito e essere eterno, «L'Osservatore Romano», 22 liglio 1972, p. 3. Testo

  3. Cfr. ESGA 11/12: Endliches und ewiges Sein. Versuch eines Aufstiegs zum Sinn des Seins. Anhang: Martin Heidegger Existenzphilosophie, Die Seelenburg, Herder, Freiburg im Breisgau 2006, pp. 254-258; tr. it. di Vigone Luciana, Essere finito e essere eterno. Per una elevazione al senso dell'essere, Città Nuova Editrice, Roma 1988, pp. 322-326. In queste pagine Stein tratta anche della verità trascendentale: ogni ente ha un significato e l'ente è un intelligibile, cioè ha qualcosa che può penetrare in uno spirito conoscente ed essere afferrato da questo; la verità trascendentale si caratterizza dunque come l'essere manifesto per lo spirito e l'essere ordinato allo spirito da parte dell'ente. La differenza tra verità logica, ontologica e trascendentale delineata in questo testo corrisponde a quella dei tre concetti di verità esposti nel primo articolo della prima Quaestio de Veritate. Rileva in proposito Tommasi che se nell'Aquinate essere e vero non possono coincidere concettualmente, perché, se così fosse, non sarebbe più possibile distinguere il pensiero dall'essere, la distinzione irriducibile che ne consegue non pregiudica però per Stein la possibilità di una contemporanea comunicabilità tra il piano del pensiero e quello dell'essere, sia pure tra le tensioni di una necessaria, e al contempo difficile, sostenibilità teorica. Tra ente reale ed ente pensato c'è infatti un ponte, che è costituito dall'attività intellettiva: l'ente pensato è considerato da Tommaso come lo specchio fedele dell'essere, anche se non coincide con esso; l'intelletto, dopo aver pensato l'essere e averlo categorizzato, torna sull'ente reale e si riapre ad esso, per adeguarvisi al termine del processo di ricerca del vero; grazie a questo movimento, l'intelletto può in un certo modo ricondurre ad unità l'equivocità dell'essere, in modo tale che si scioglie la tensione tra «l'immediatezza con cui la nozione di ente, nella sua attualità, si deve dare all'intelletto (che è in certo modo radicalmente passivo nei suoi confronti e lo coglie immediatamente come principio fondante della filosofia), e il fatto che però l'ente è anche risultato di un operare dell'intelletto stesso, di una risalita a ciò che è più semplice e universale nell'ordine dei concetti, in certo modo di una "costituzione" (l'ente è infatti alla base, come fondamento, dell'intelletto astraente) (Tommasi Francesco Valerio, La dottrina tommasiana dei trascendentali e dell'analogia nell'interpretazione di Edith Stein, «Aquinas», XLVII, 2 (2004), pp. 475-497, alla p. 490). Testo

  4. Oesterreicher John M., Edith Stein, Philosophe juive devant le Christ, Editions Ad solem, Genève 1998, p. 52. Testo

  5. Probleme der neueren Mädchenbildung, in ESGA 13: Die Frau. Fragestellungen und Reflexionen, Herder, Freiburg im Breisgau 2000, pp. 127-208, alle pp. 160-161; tr. it. Problemi della formazione delle ragazze oggi, ne La donna. Questioni e riflessioni, a cura di Ales Bello Angela e Paolinelli Marco, Città Nuova Editrice - Edizioni OCD, Roma 2010, pp. 171- 283, alle pp. 219-220; Subito dopo Edith Stein aggiunge che, sebbene le espressioni usate siano desunte dalla terminologia teologica, quanto viene enunciato può considerarsi puramente filosofico. Ricordo che questo ampio testo era stato preparato da Edith Stein per un corso che doveva tenere nel semestre estivo del 1932 presso l'Istituto di Pedagogia Scientifica di Münster. Testo

  6. Zimmermann sottolinea che la ricerca del punto di partenza per il tentativo di una salita al senso dell'essere condotta da Edith Stein costituisce un buon esempio di come l'Autrice faccia diventare fecondi, nel suo pensiero, impulsi antichi e moderni: la trattazione prende infatti avvio dal De ente et essentia di Tommaso, ma prosegue fenomenologicamente con l'analisi e le riflessioni sul campo della coscienza e dell'io (cfr. Zimmermann Albert, Begriff und Aufgabe einer christlichen Philosophie bei Edith Stein, in Herbstrith Waltraud (Hrsg.), Denken im Dialog. Zur Philosophie Edith Steins, Attempto Verlag, Tübingen 1991, pp. 133-141, alla p. 135). Dello stesso avviso risulta Schulz: «[...] quella cartesiana riflessione su di sé da parte dell'io pensante in cui, secondo un'interpretazione corrente, si sarebbe compiuto il passaggio dalla filosofia antico-scolastica alla filosofia della coscienza dell'età moderna, costituisce in forma modificata il punto di partenza dell'opera capitale [Endliches und ewiges Sein, scil.] di Edith Stein» (Schulz Peter, Il problema del "realismo tra fenomenologia e Scolastica: sugli scritti filosofici di Edith Stein, in Besoli Stefano e Guidetti Luca (a cura di), Il realismo fenomenologico. Sulla filosofia dei circoli di Monaco e di Gottinga, Quodlibet, Macerata 2000, pp. 701-721, alla p. 718). Testo

  7. ESGA 13, p. 161; tr. it. p. 220. Testo

  8. ESGA 14: Der Aufbau der menschlichen Person. Vorlesungen zur philosophischen Anthropologie, Herder, Freiburg im Breisgau 2004, p. 32; tr. it. di D'Ambra Michele, La struttura della persona umana, Città Nuova Editrice, Roma 2000, p. 70. Testo

  9. ESGA 11/12, p. 297; tr. it. p. 371. Testo

  10. Si può qui notare che l'immagine dello specchio per rappresentare il rapporto tra l'Archetipo di tutte le cose e tutto ciò che è, è piuttosto ricorrente negli Autori della Cristianità: per tutti, ricordo Hildegard von Bingen, per la quale Dio era come uno specchio che contiene tutte le sue opere oltre l'età e il tempo, e dunque prima ancora che siano create (cfr. Hildegard von Bingen, Liber Divinorum Operum Semplicis Hominis, in Migne J. P., Patrologiae latinae, vol. 197: S. Hildegardis abbatissae opera omnia, ad optimorum librorum fidem edita, Paris 1855, col. 746 B: «Sicut enim in speculo omnia quae coram ipso sunt radiant, sic in sancta Divinitate omnia opera ejus sine aetate temporum apparverunt») e Nikolaus von Kues, per il quale Dio è lo specchio perfetto, in cui coincidono tutti i contrari, che contiene tutti i volti e le immagini e nel quale tutte le cose si vedono: «Omnis igitur facies, quae in tuam potest intueri faciem nihil videt aliud aut diversum a se, quia videt veritatem suam. Veritas autem exemplaris non potest esse alia aut diversa, sed illa accidunt imagini, ex eo, quia non est ipsum exemplare» (Nicolai da Cusa, Opera ominia, 6: De visione Dei, edidit Adelaida Riemann, Hamburg, in aedibus F. Meiner 2000, VI). Testo

  11. ESGA 11/12, p. 298; tr. it. p. 372 (modificata). Testo

  12. ESGA 11/12, p. 299; tr. it. p. 373. Testo

  13. Prendo l'espressione da Gerl Hanna-Barbara, Edith Stein. Vita -- Filosofia -- Mistica, tr. it. di Sansonetti Giuliano, Morcelliana, Brescia 1998, p. 191 [tit. orig. Unerbittliches Licht. Edith Stein -- Philosophie, Mystik, Leben, Mathias Grünewald Verlag, Mainz 1991]. Testo

  14. ESGA 11/12, p. 300; tr. it. p. 374 (modificata). Ho tradotto "neu entstehendes" con l'espressione " che risulta nuovo" perché la soluzione adottata dalla Traduttrice - "generato", detto dell'essere creato -- mi sembra teologicamente poco accettabile, oltre che potenzialmente fonte di equivoci. Ancora, si può dire che l'essere di Dio è vita che si autogenera in un movimento eterno in sé, che è «un eterno creare-Se-stesso dalla profondità del proprio essere infinito come darsi donante dell'eterno Io a un eterno Tu e un reciproco eterno riceversi e ridonarsi», il cui frutto è lo Spirito Santo (ESGA 11/12, p. 300; tr. it. p. 374 - modificata). Testo

  15. Come si legge nell'Appendice dedicata ad Heidegger, Edith Stein esprime questa convinzione anche in risposta all'Autore di Sein und Zeit, per il quale il senso dell'essere si esplica solo nell'essere dell'Esserci: per lei invece ogni cosa, anche inanimata, esprime un senso e offre un rimando che consente di salire al senso dell'essere. Testo

  16. ESGA 11/12, p. 391; tr. it. p. 477. Testo

  17. Come sottolinea Vigone, Edith Stein, nel capitolo settimo di Endliches und ewiges Sein, utilizza la Rivelazione per conoscere l'essere finito, per cogliere, per quanto possibile, l'unità trinitaria dell'Essere originario e per rinvenirne analogicamente l'immagine nel creato (cfr. Vigone Luciana, Introduzione al pensiero filosofico di Edith Stein, Città Nuova Editrice, Roma 1991, II ed., p. 78). Testo

  18. ESGA 11/12, pp. 357-358; tr. it. p. 439. Il simbolo di tale sviluppo, proprio dell'ambito dell'essere materiale, può essere rintracciato nei tre stati costitutivi della materia (solido, liquido e gassoso), che sono i tre fondamentali modi di occupare lo spazio. Testo

  19. ESGA 11/12, p. 359; tr. it. p. 441. Testo

  20. ESGA 11/12, p. 360; tr. it. p. 442. Testo

  21. ESGA 11/12, p. 360; tr. it. pp. 442-443. Testo

  22. ESGA 11/12, p. 390; tr. it. p. 476. Cfr. anche ESGA 14, p. 40; tr. it. p. 79, dove, con riferimento alla cosmologia di Tommaso, si dice che essa ci mostra come la problematica dell'essere umano sia legata a quella di tutto il mondo reale e a quella della distinzione tra gli ambiti della realtà: «Pertanto essere uomo significa essere allo stesso tempo cosa materiale, pianta, animale e spirito, ma tutto questo in modo unitario». Ales Bello, rifacendosi alle posizioni assunte nel Rinascimento italiano da Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, ha parlato a questo proposito di "uomo microcosmo" (cfr. Ales Bello Angela, Presentazione a Stein Edith, La struttura della persona umana, pp. 5-25, alla p. 17). Testo

  23. ESGA 11/12, p. 390; tr. it. p. 476. Testo

  24. ESGA 10, p. 78; tr. it. p. 141 (modificata). Testo

  25. Cfr. Dubois Marcel-Jacques, L'itinéraire philosophique et spirituel d'Edith Stein, «Revue Thomiste», LXXXI, 2 (1973), pp. 181-210, alla p. 190. L'autolimitazione di Dio, qui ricordata da Dubois, viene evocata da Edith Stein nel corso del quinto capitolo di Endliches und ewiges Sein, laddove essa scrive a proposito delle idee: «Sono contenute nel pensiero divino assieme ai loro rapporti con le cose create. Non sono qualcosa che si aggiunge dall'esterno allo Spirito divino, bensì la sua propria essenza nell'autorestrizione e limitazione che pone quando si determina come archetipo per le cose finite» (ESGA 11/12, p. 265; tr. it. p. 335, modificata). Mi sembra che si possa qui rintracciare -- pur con le debite riserve, legate al fatto che, a quanto si sa, la filosofa tedesca non conosceva la mistica ebraica - una eco della concezione di Isaac Luria per cui Dio si ritrae per fare spazio all'altro: come bene sintetizza Scholem, infatti, secondo questo autore «Dio - per garantire la possibilità del mondo -- dovette rendere vacante nel suo essere una zona, dalla quale quindi Egli si ritrasse; una specie di mistico spazio primordiale, in cui Egli potesse ritornare nell'atto della creazione e della rivelazione. Il primo di tutti gli atti dell'Essere infinito, dell'En-Sof, non fu pertanto un movimento verso l'esterno, ma verso l'interno, un movimento entro se stesso, un restringersi in sé -- se posso usare questa ardita espressione -- di Dio, "da sé in se stesso". Quindi invece di produrre una prima emanazione dal suo essere o dalla sua forza fuori di sé, l'En-Sof al contrario si sprofonda giù nel fondo di se stesso, si concentra in se stesso; ed ha fatto sempre così fin dal principio della creazione» (Scholem Gershom, Le grandi correnti della mistica ebraica, tr. it. di Russo Guido, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 355 [tit. orig.: Die jüdische Mistik in ihren Hauptstromungen, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1952]). Testo

  26. ESGA 10: Potenz und Akt. Studien zu einer Philosophie des Seins, Herder, Freiburg im Breisgau 2005, p. 78; tr. it. di Caputo Anselmo, Potenza e atto, Città Nuova Editrice, Roma 2003, p. 142 (modificata). Testo

  27. ESGA 11/12, pp. 202-203; tr. it. pp. 266-267. Testo

  28. ESGA 11/12, p. 107; tr. it. p. 153. Come ebbe a dire Dubois, l'originalità dell'ontologia steiniana consiste nel modo in cui l'Autrice rende conto del legame tra l'ordine intelligibile del mondo delle essenze e il mistero della creazione: il reale rivela l'essenziale, nel senso che il mondo creato ci rimanda ad un mondo intellegibile composto di idee e archetipi, ma questo dà a quello il senso e il fondamento (cfr. Dubois Marcel-Jacques, L'itinéraire philosophique et spirituel d'Edith Stein, p. 188). Testo

  29. Faccio qui riferimento all'ipotesi interpretativa della forma come archetipo dinamico proposta in Malaguti Maurizio, In humanitatem spiritus, Inchiostri Associati Editore, Bologna 2005, pp. 107-123. Testo

  30. Cfr. Secretan Philibert, Essence et personne. Contribution à la connaissance d'Edith Stein, «Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie», XXVI, 2-3 (1979), pp. 481-504, alla p. 486. Testo

  31. ESGA 14, p. 159; tr. it. p. 215. Testo

  32. Melchiorre Virgilio, Figure del sapere, in Melchiorre Virgilio (a cura di), Pensare l'essere. Percorsi di una nuova razionalità, Marietti, Genova 1989, pp. 13-27, alla p. 16. Testo

  33. Sgubbi Giorgio, Dire Dio nel dirsi di Dio. Riflessioni sull'analogia, in Malaguti Maurizio /ed./, Prismi di verità. La sapienza cristiana di fronte alla sfida della complessità, Città Nuova Editrice, Roma 1997, pp. 308-338, alla p. 321. Testo

  34. Ivi, p. 320. Testo

  35. Ivi, p. 322. Testo

  36. Cfr. Garulli Enrico, Conoscenza analogica e simbolica secondo Edith Stein, in Metafore dell'invisibile. Ricerche sull'analogia. Contributi al XXXIII Convegno del Centro di Studi filosofici di Gallarate, aprile 1983, Morcelliana, Brescia 1984, pp. 162-173, alla p. 167. Testo

  37. Ivi, pp. 172-173. Testo

  38. Zordan Paolo, Immagine e simbolo: alcune considerazioni sul pensiero di Edith Stein, «Divus Thomas», CXI, 50 (2008/2), pp. 143-160, alle pp. 147-148. Testo

  39. Malaguti Maurizio, Al di là del silenzio, ne Il linguaggio della mistica. Atti dell'incontro di studi filosofici Cortona 6-7 ottobre 2001, Accademia Etrusca, Cortona 2002, pp. 9-21, alle pp. 12-13. Testo

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