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La Kenosi di Dio: Jürgen Moltmann e la sua nuova visione della Trinità

di Emanuela Palmieri (Roma, 26-28 maggio 2011)

«Chi realmente dice Trinità, costui parla della croce di Gesù e non specula su enigmi celesti»1: questa affermazione può essere considerata paradigmatica della teologia trinitaria di Jürgen Moltmann.

Pur avendo dedicato relativamente pochi scritti alla teologia trinitaria, in realtà tutti gli scritti di Moltmann fanno implicitamente riferimento alla sua originale visione della Trinità: solo per fare qualche esempio, l'escatologia che leggiamo in Teologia della speranza è un'escatologia trinitaria ed una cristologia trinitaria è quella presentataci ne Il Dio crocifisso, così come è un'ecclesiologia trinitaria quella che troviamo ne La Chiesa nella forza dello Spirito. Ma qual è questa originale e innovativa visione della Trinità che influenza l'intera opera di Jürgen Moltmann? Nella teologia trinitaria di Moltmann, il punto da cui tutto parte e verso cui tutto converge è la Kenosi di Dio che potremmo definire come «un'assoluta Kenosi dell'Assoluto» nel senso che niente che appartenga a Dio è lasciato fuori da questa Kenosi, niente Dio trattiene per sé, ma offre tutto se stesso interamente a quel mondo e a quell'uomo che Egli stesso ha creato. E proprio per questo motivo il luogo per eccellenza in cui, secondo Moltmann, possiamo cogliere la vera essenza di Dio è la croce di Cristo.

Nelle sue numerose opere Moltmann è riuscito a farci capire perché e in che modo la vera essenza di Dio sia l'amore: la sua opera teologica è e resterà un punto fermo nella storia della teologia perché è riuscita ad aprire una nuova strada da percorrere per guardare Dio non come un essere freddo e intoccabile nella sua assoluta perfezione, ma come Colui che soffre per l'uomo e con l'uomo, come Colui che si fa crocifiggere per amore, come Colui che dona tutto se stesso alla sua creatura che ama, come Colui che sempre si dona, sempre si è donato, fin dalla Creazione, e sempre si donerà fino alla Parusia ed oltre.

La teologia trinitaria di Moltmann è estremamente affascinante anche perché ci fa gustare tutto il sapore delle radici ebraiche della nostra religione, liberandola dalle sovrastrutture della filosofia greca che sono venute ad aggiungersi ad essa nel corso dei secoli e che hanno trasformato il Dio kenotico della Bibbia che dona tutto per amore, il Dio pieno di sentimento e di pathos che così bene ci ha descritto Abraham Heschel,2 in un Dio apatico, immobile nella sua perfezione, lontano anni luce dai travagli dell'uomo: «Ma questi è un Dio, o non piuttosto una pietra?».3

È questo che vuole e sa mostrarci molto bene Jürgen Moltmann: che Dio, il Dio Trinitario, ha un cuore che palpita d'amore ed è un Dio che non solo prova amore ma è amore, e proprio perché la sua essenza stessa è l'amore, questo Dio non può essere altro che trinitario. Dalla Genesi all'Apocalisse quello che ci mostra la Bibbia è un Dio misericordioso e fedele, un Dio dai sentimenti forti, un Dio che, come un marito innamorato, è geloso ed insieme dà fiducia, si rallegra e si adira col popolo che ama: niente potrebbe essere più lontano da questo Dio di cui ci parla la Bibbia del freddo e triste Motore Immobile aristotelico che se ne sta beato nella sua trascendenza ad amare se stesso aspettando che siano gli altri ad amare lui. Ma il Dio della Bibbia, quello a cui Moltmann vuol farci tornare, è un Dio che non aspetta di essere amato ma è Colui che fa sempre il primo passo, che sempre prende l'iniziativa, che sempre ama per primo e si offre alla sua creatura gratuitamente: è, insomma, il più «folle» innamorato dell'Universo!

1. A partire dalla Scrittura

«Ogni teologia che pretenda di essere cristiana dovrà fare i conti con il grido di Gesù lanciato dalla croce»4: la teologia trinitaria di Moltmann affonda profondamente le sue radici nella Scrittura, non però basandosi sulle formule trinitarie presenti nel Nuovo Testamento quanto piuttosto sulla testimonianza della croce che per Moltmann è il luogo di manifestazione trinitaria per eccellenza, infatti «è il sacrificio di Cristo nella morte di Croce quello che ci manifesta l'autodistinzione trinitaria di Dio e ce lo impone alla riflessione.».5

Il nostro autore, per fondare biblicamente la sua teologia trinitaria, fa ricorso al vocabolario dell'abbandono e della consegna del Figlio da parte del Padre presenti nel Nuovo Testamento e focalizza la sua attenzione in maniera particolare su due versetti: «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?»6 e «Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?».7 Il punto da cui parte tutta la riflessione moltmanniana sulla Trinità è il primo di questi due testi e cioè il grido di Gesù in croce che porta il nostro autore a porsi una domanda di base: «Gesù è morto con tutti i sintomi dello spavento più atroce. Come spiegare questo fatto?».8 Egli non morì come Socrate della morte serena del saggio e neanche come i martiri zeloti che morivano nella certezza di essere giusti agli occhi di Dio e nemmeno con la tranquillità data dalla fede con cui morivano i martiri cristiani, come mai? Perché questa estrema angoscia? Perché questa morte «con forte grido e lacrime»?9 La causa dell'estrema angoscia patita da Gesù va ricercata, per Moltmann, nel rapporto personale di Gesù col Padre su cui egli aveva impostato la sua intera vita.

Sulla croce è in gioco il rapporto fra Gesù e suo Padre, fra Dio e Dio: infatti Gesù non rivolge il suo grido al Dio dell'Alleanza ma specificatamente a suo Padre, non siamo di fronte al giusto sofferente dell'Antico Testamento che grida verso Dio ma al Figlio che grida al Padre. Questo lo evinciamo dal significato stesso del Salmo 22 nel quale il salmista non si lamenta compiangendo il proprio destino ma piuttosto si appella alla fedeltà di Dio, il Salmo 22 può quindi essere considerato come una querela giudiziaria in cui l'orante non chiede a Dio di avere compassione di lui ma di mostrare la sua giustizia. Ed è appunto alla fedeltà del Padre nei suoi confronti (notiamo bene non alla fedeltà nei confronti dell'Alleanza o del popolo ma nei suoi confronti) che il Figlio si appella col suo grido perché questo abbandono da parte di Dio mette in gioco non solo l'esistenza personale di Gesù ma la sua esistenza teologica cioè la validità della sua predicazione su Dio, «con tale abbandono, sono allora fondamentalmente in gioco anche la divinità del suo Dio e la paternità del Padre suo, che Gesù aveva reso accessibili agli uomini. Se così stanno le cose, sulla croce non è in agonia soltanto Gesù, ma anche colui per il quale egli visse e predicò, cioè suo Padre.».10

Nel grido di Gesù è in gioco molto più del patto fra Dio e il giusto sofferente, è in gioco la divinità stessa di Dio per cui «il grido di Gesù, formulato con le parole del Salmo 22, non significa soltanto: «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?», ma insieme: «Mio Dio, perché ti hai abbandonato?».11 L'avvenimento della croce è un avvenimento in cui vediamo Dio contro Dio in quanto l'abbandono che separa il Padre dal Figlio è «un avvenimento che si verifica in Dio stesso, è stasis in Dio -- Dio contro Dio -, se bisogna ritener per certo che Gesù ha testimoniato e vissuto la verità di Dio.».12 È sconvolgente pensare che la Prima Persona della Trinità abbandoni la Seconda ed è per questo che ogni teologia cristiana, consapevolmente o inconsapevolmente, ha cercato di dare un senso teologico a questo abbandono perché «il grido di morte che Gesù lancia dalla croce è «la ferita aperta» di ogni teologia cristiana»13 che già a partire dalla riflessione neotestamentaria si cerca di risanare.

Al grido di Gesù in croce Paolo offre la sua risposta in Rm 8, 32 dove afferma: «Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?»,14 questo significa che «il Padre abbandona il Figlio «per noi», cioè lo abbandona per diventare il Dio e Padre degli abbandonati.»15: è proprio nel momento del supremo abbandono dunque che maggiormente splende la luce della Trinità perché è proprio lì sulla croce che Dio si manifesta come amore, e come amore trinitario, infatti qual è il culmine dell'amore se non il consegnarsi all'altro, il donare la propria vita per amore dell'altro? E proprio «in questo avvenimento di donazione «per noi» sta l'unità dell'autodistinzione trinitaria di Dio»16 in quanto è nell'avvenimento della croce che «il Padre consegna il proprio Figlio alla morte assoluta; il Figlio consegna se stesso per noi; il sacrificio comune del Padre e Figlio avviene per mezzo dello Spirito Santo che congiunge e unisce il Figlio abbandonato con il Padre.».17

Per il nostro autore, la teologia della consegna di Paolo non solo spiega il senso del grido di Gesù in croce ma è anche perfettamente in linea con l'affermazione di Giovanni che «Dio è amore»18 e può servirci per chiarire questa affermazione lapidaria perché l'amore di Dio si manifesta proprio sulla croce in quanto è proprio sulla croce che Dio si manifesta come amore cioè come dedizione, pro-esistenza: infatti, nell'evento della croce «nella dedizione del Figlio si manifesta pure la dedizione del Padre. Nella passione del Figlio si evidenzia pure il dolore del Padre.».19

Partendo dai dati scritturistici, dunque, Moltmann giunge ad affermare che le sofferenze del Cristo crocifisso sono le sofferenze di Dio: in questo modo egli supera il concetto metafisico dell'apatia di Dio e si apre ad un nuovo concetto di Dio, un Dio che è capace di soffrire proprio perché è capace di amare, ed è proprio su questo nuovo concetto di Dio, ricavato da un'attenta analisi della Scrittura, che si fonda la teologia trinitaria della croce del nostro autore di cui ci occuperemo nel prossimo paragrafo.

2. Una Teologia Trinitaria staurologica

«Il contenuto della dottrina trinitaria è la croce reale di Cristo. La forma del Crocifisso è la Trinità»20: l'errore che spesso fanno i teologi è, secondo Moltmann, quello di considerare la dottrina trinitaria come qualcosa di astratto che non riguarda la conoscenza del «Dio per noi» che si è rivelato in Gesù Cristo ma piuttosto la contemplazione della maestà divina in se stessa, invece Moltmann ritiene che «di fronte ai misteri della Trinità non ci troviamo [...] nell'atteggiamento filosofico della contemplazione: qui il problema che ci si pone è come si debba intendere Dio nell'avvenimento di Cristo.».21 Ciò che il nostro autore si propone di intraprendere è una ristrutturazione globale della dottrina trinitaria alla luce della croce di Cristo.

Avendo egli posto come base scritturistica, della sua teologia trinitaria il grido di Gesù in croce e la teologia paolina dell'abbandono, ora deve trarne tutte le conseguenze e chiedersi quale concetto di Dio può permetterci di comprendere questo abbandono di Gesù sulla croce. Se restassimo fermi alle vecchie teorie statiche su Dio, l'avvenimento della croce resterebbe incomprensibile e non potrebbe che portare all'ateismo di protesta: in quell'avvenimento, infatti, non è possibile scorgere il volto di un Dio che ama a meno che non operiamo una «rivoluzione nel concetto di Dio» che ci faccia comprendere la croce come manifestazione dell'amore trinitario. Ma in che modo nell'evento della croce si manifesta il Dio trinitario e perché questo Dio trinitario in quell'evento tragico si manifesta come amore?

Colpisce il fatto che in Marco al grido di abbandono di Gesù risponda l'esclamazione del centurione che riconosce Gesù come Figlio di Dio: questo perché quel grido, pur riprendendo un versetto del Salmo 22, non deve essere inteso nello stesso senso in cui lo intende il salmista perché «nel salmo 22 il termine «Dio mio» si riferisce al Dio d'Israele, al Dio del Patto, e viceversa l'«io» abbandonato è il giusto sofferente che richiama Dio alla fedeltà al Patto. Per Gesù invece l'invocazione «Dio mio» ricomprende l'intero contenuto del suo nuovo messaggio sul Regno che si avvicina dando grazia e liberazione, nonché il contenuto del suo proprio vivere in tale vicinanza con Dio da permettergli di parlarne sempre ed esclusivamente come del «Padre mio».».22 Qui dunque Dio non è solo il Dio del Patto ma il Padre di Gesù Cristo e l'io abbandonato non è semplicemente quello del giusto sofferente ma quello del Figlio, per cui, mentre il salmista reclama che Dio rispetti il suo Patto nei confronti del giusto, «Gesù qui reclama che il Padre si dimostri uno con lui, con il Figlio [...] . Con queste parole quindi Gesù rivendica il suo essere con il Padre in quel particolare rapporto nel quale egli è il Figlio»23 e questo ci fa capire come l'evento della croce sia un fatto che avviene tra Dio e Dio per cui, per comprendere il senso di questo avvenimento, è indispensabile parlare un linguaggio trinitario in quanto l'evento della croce è da interpretarsi non come un evento che accade tra Dio e l'uomo ma «come un evento intratrinitario che accade tra Gesù e suo Padre, e dal quale promana lo Spirito.».24 L'evento della croce, infatti, ci rivela le relazioni che stringono il Figlio al Padre e la sua efficacia liberante ci rende manifesta la processione dello Spirito dal Padre. Nell'evento della croce è Dio stesso che si manifesta, e si manifesta come Trinità: «Sulla croce il Padre e il Figlio sono separati nel modo più profondo nell'abbandono ed al medesimo tempo uniti nel modo più intimo nella consegna. Ciò che scaturisce da questo avvenimento che coinvolge il Padre e il Figlio è lo Spirito».25

Se dunque ci poniamo la domanda su cosa significhi per Dio la morte di Gesù, dobbiamo rispondere che la morte di Gesù tocca Dio stesso. Moltmann, però, ritiene sia improprio parlare, come fanno altri teologi, di «morte di Dio» ma preferisce piuttosto parlare di «morte in Dio»: ciò che Moltmann rimprovera a quegli autori, come Rahner o Barth, che hanno parlato di «morte di Dio», è il fatto di ragionare ancora in maniera troppo teo-logica e troppo poco trinitaria. Quando, per esempio, Barth afferma che, nell'avvenimento della croce, «Dio era in Cristo», egli usa un concetto indifferenziato di Dio mentre la strada giusta per comprendere l'evento della croce è di ragionare in termini trinitari: infatti, «è il Figlio che sulla croce patisce e muore. Il Padre soffre con lui, ma non alla stessa maniera.».26 La morte di Gesù avviene dunque all'interno della storia del Dio trinitario, ma colui che muore sulla croce è il Figlio mentre il Padre partecipa di questa morte col suo dolore, e per questo motivo, secondo Moltmann, è molto più corretto parlare di patricompassianismo piuttosto che di teopaschismo e di «morte in Dio» piuttosto che di «morte di Dio».

Proprio perché in esso si rende manifesta questa differenziazione tra Padre e Figlio, è l'evento della croce che ci rivela la trinitarietà di Dio, è proprio grazie a questo evento, infatti, che «dal lato esterno di questo mistero, che chiamiamo «Dio», ora si accede alla sua sfera interna, che è trinitaria. Questa «rivoluzione nel concetto di Dio» ci è rivelata dal Crocifisso.».27 Quindi, più consideriamo l'evento della croce come un evento che tocca Dio stesso, più questo ci porta inevitabilmente a scomporre trinitariamente un concetto indifferenziato di Dio: la croce, dunque, è da considerarsi eminentemente un evento di differenziazione. Se usassimo, infatti, un concetto indifferenziato di Dio per intendere l'evento della croce ci troveremmo di fronte a dei paradossi insormontabili in quanto dovremmo affermare che «quanto si è verificato sulla croce fu un avvenimento svoltosi tra Dio e Dio, e che si operò una profonda scissione in Dio stesso, in quanto Dio abbandonò Dio e gli si oppose, e allo stesso tempo si rivela un'unità in Dio in quanto Dio era unito a Dio e adeguato a se stesso. Si dovrebbe così sfociare nel paradosso di un Dio che, sulla croce, morì della morte dell'empio e che tuttavia non morì.».28

Se invece prescindiamo da un concetto di Dio derivato dalla metafisica e interpretiamo l'evento della croce in modo trinitario, cioè come un avvenimento che riguarda le relazioni tra le Persone, allora riusciamo a comprendere il vero significato della croce di Cristo come evento in cui Dio si manifesta per quello che veramente è. E questo avvenimento che ci manifesta Dio stesso nella sua essenza, ce lo manifesta come amore: infatti, se sul Golgotha il Padre abbandona il Figlio, nel Gethsemani il Figlio aveva accettato con dedizione il calice dell'abbandono e se il Figlio soffre la morte dell'abbandono, il Padre, nel suo amore, patisce la morte del Figlio, per cui si può affermare che «in questo sacrificio agiscono e patiscono entrambi, e la croce congiunge il Figlio e il Padre nella piena comunione di quel volere che si chiama amore [...] . Da questo avvenimento, che si verifica tra il Padre e il Figlio, scaturisce la donazione stessa, lo Spirito che accoglie coloro che sono abbandonati, che giustifica gli empi e vivifica i morti.».29 L'avvenimento della croce, quindi, è sì un evento di estrema differenziazione ma anche di totale comunione poiché in esso si verifica un dono reciproco fra il Padre e il Figlio da cui scaturisce un dono per noi, lo Spirito, e questo avvenimento di donazione totale, questo avvenimento di amore è Dio stesso nella sua essenza più profonda: la croce di Gesù ci manifesta che Dio è proprio così, «Dio è amore»!

Nell'evento della croce si rende visibile quel movimento di consegna che eternamente avviene tra Padre e Figlio e che è eternamente generatore dello Spirito, nell'evento della croce l'uomo è inglobato in quell'evento stesso e diventa parte dell'eterna storia d'amore intratrinitaria: «quello che Gesù, nel sermone della montagna, aveva presentato come amore per i nemici, con l'agonia di Gesù sulla croce e il dolore del Padre, nella forza dello Spirito, si è tradotto in un amore che coinvolge i senza Dio e senza amore.».30 Nella croce di Cristo, dunque, ogni storia umana viene inglobata nella storia di Dio perché «in Dio non c'è nulla che sia «fuori della porta»».31

3. La Trinità economica

Dopo aver tracciato i fondamenti su cui si basa la dottrina trinitaria di Moltmann, vediamo ora in che modo il nostro autore consideri le persone della Trinità nella loro distinzione: ci occuperemo ora delle cosiddette opera trinitatis ad extra che vengono ascritte a ciascuna persona della Trinità senza però con questo escludere le altre. Vedremo come, anche in questo campo, Moltmann sia innovativo in quanto adotta un metodo di analisi basato sulla reciprocità che prende in considerazione non solo il significato che Dio assume per il mondo e per la storia umana ma anche il significato che il mondo e la storia umana assumono per Dio.

3.1. La creazione del Padre

«La creazione è un'opera dell'umiliazione divina»32: questa lapidaria affermazione costituisce una bellissima sintesi del concetto che Moltmann ha della creazione che è basato sull'idea kenotica che egli ha di Dio e sulla convinzione che in Dio esiste una strettissima relazione fra actio e passio in quanto è la passione divina che fonda l'azione di Dio, dunque è il suo amore, che è la sua essenza stessa, che lo spinge a creare il mondo.

Di fronte alla creazione Moltmann si pone le seguenti domande: «Per Dio la creazione è necessaria o soltanto accidentale? Deriva dalla sostanza o dalla volontà divina? È eterna o temporale?».33

Per rispondere a questi interrogativi, Moltmann ricorre al concetto di «contrazione» in Dio (tsim tsum) sviluppato dal cabalista ebreo Isaak Luria34 secondo il quale può esistere qualcosa di esterno al Dio onnipotente ed onnipresente, cioè può avvenire una creatio ex nihilo, solo se precedentemente è avvenuta un'autocontrazione in Dio. Dunque, «per creare un mondo «al di fuori di lui», il Dio infinito deve aver dato spazio, in se stesso, ad una finitudine»35 cioè, per creare i presupposti per l'esistenza dell'altro da sé, ha ritratto la propria presenza e potenza: questo spazio che si determina per l'autocontrazione di Dio Moltmann lo definisce «spazio di abbandono di Dio» perché esso è un «nihil nel quale Dio crea la sua creazione e la conserva all'esistenza».36

Questo far spazio in se stesso ad un altro ci dà, secondo Moltmann, una raffigurazione di Dio di tipo femminile che si discosta nettamente da quell'immagine patriarcale di Dio che ha legittimato nel passato il potere del padre sui figli e la moglie e il potere assoluto del sovrano sul popolo. Questa immagine patriarcale di Dio i cristiani l'hanno mutuata dalla religione e dalla cultura romana per cui, a partire dall'epoca costantiniana, Dio è stato visto come il Signore e Padre, come colui che dispone «della vera potestas vitae necisque su tutti gli uomini.».37 Ma è questo il Padre verso cui Gesù si rivolgeva amorevolmente chiamandolo Abbà? È questo il Padre che Gesù ci ha insegnato a invocare attraverso la preghiera del Padre nostro? Dalle Scritture sembra proprio di no perché in esse «l'Abbà di Gesù è quel Dio che in modo materno si impietosisce di quelli che versano nell'abbandono, e un giorno «tergerà tutte le lacrime dai loro occhi» (Ap. 21, 4)».38

Questo Padre «materno», dunque, che si impietosisce per la sua creatura è quel Padre che, per permettere a quella stessa creatura di nascere, le ha fatto spazio dentro di sé limitando se stesso e questa autolimitazione che Dio opera su se stesso per rendere possibile la creazione Moltmann la vede come una vera e propria autoumiliazione, una Kenosi, in quanto Dio contrae se stesso per far spazio all'altro, l'Infinito si auto contrae per fare spazio al finito.

Questa autoumiliazione ha luogo prima dell'atto della creazione per cui si può affermare che «il primo di tutti gli atti non è un atto di rivelazione ma un atto di occultamento, non una dilatazione ma una limitazione divina.».39 Dio, dunque, è kenotico fin dal principio perché contrae se stesso affinché l'altro possa avere uno spazio per nascere e tutto questo Egli lo fa per amore: «l'amore creatore di Dio è fondato sul suo amore che si umilia, si abbassa. È appunto l'inizio di quell'autoalienazione di Dio che Fil. 2 considera come il mistero divino del Messia. Già per creare il cielo e la terra Dio si è estrinsecato dalla sua onnipotenza ed ha assunto, da Creatore, l'immagine di servo.».40

3.2. L'incarnazione del Figlio

«La kenosi divina, che ha inizio con la creazione del mondo, raggiunge nell'incarnazione del Figlio la sua figura completa»41: l'incarnazione, dunque, è per Moltmann il culmine del processo di autocontrazione e autoabbassamento, di Kenosi, di Dio. Moltmann, infatti, rifiuta la tesi sostenuta da alcuni teologi secondo cui l'incarnazione del Figlio ha avuto luogo al fine di riconciliare gli uomini con Dio per cui si è resa necessaria a causa del peccato dell'uomo e aderisce piuttosto alla tesi che afferma che l'incarnazione sia stata voluta da Dio fin dall'eternità indipendentemente dal peccato dell'uomo. Sarebbe riduttivo, secondo il nostro autore, considerare l'incarnazione come una semplice «misura necessaria» che Dio prende per risolvere il problema della presenza del peccato nel mondo perché «nell'incarnazione del Figlio abbiamo ben più che un mezzo atto allo scopo e la cristologia è ben più di un presupposto per la soteriologia.».42

Moltmann, dunque, ritiene che l'incarnazione sarebbe avvenuta anche nel caso in cui l'uomo non avesse peccato perché l'incarnazione è la conseguenza dell'amore di Dio. Quello stesso amore quindi che ha prodotto la prima kenosi, cioè quell'autoumiliazione di Dio che ha permesso la creazione, ha prodotto anche questa nuova kenosi che è l'incarnazione la quale non è finalizzata in prima istanza a salvare l'uomo dal peccato ma all'autocomunicazione di Dio al suo mondo.

Ma l'incarnazione di questo «Dio solidale» che vuole auto comunicarsi alla sua creatura unendosi ad essa nell'incarnazione e che, in questo modo, patisce per noi e con noi, è un atto divino rivolto solo all'esterno oppure ad esso corrisponde anche un processo intratrinitario? Come abbiamo detto, secondo Moltmann, «la kenosi divina, che ha inizio con la creazione del mondo, raggiunge nell'incarnazione del Figlio la sua figura più completa»43: egli vede dunque l'incarnazione come l'acme di quella serie di autoumiliazioni che Dio opera su se stesso per fare spazio alle sue creature. Nell'incarnazione del Figlio il Dio Uno e Trino diventa il «Dio umano» operando su se stesso la più completa autoumiliazione in quanto, attraverso l'incarnazione, «Dio non entra soltanto nella finitudine dell'uomo ma anche nella sua situazione di peccato e di abbandono da Dio. Non entra soltanto in questa situazione ma l'accoglie pure e la tramuta in un brano della sua propria ed eterna vita. La kenosi si realizza sulla croce».44

Questa kenosi, dunque, non è soltanto funzionale alla redenzione dell'uomo ma produce anche dei cambiamenti a livello intratrinitario: infatti, secondo Moltmann, «l'incarnazione all'esterno presuppone l'autoumiliazione all'interno. Per tale motivo l'incarnazione incide sui rapporti interiori della Trinità.».45 La motivazione di tutto questo movimento kenotico è l'amore: l'amore di Dio cerca una risposta d'amore da parte dell'uomo ma, essendo l'uomo immagine di Dio, questa risposta dell'uomo deve essere necessariamente data liberamente. Dio non può dunque costringere l'uomo a rispondere al suo amore e così «per garantire questa libertà e la risposta proferita in libertà Dio si limita e si aliena. Riduce la propria onnipotenza perché confida nella libera risposta dell'uomo.».46 L'incontro fra Dio e l'uomo che garantisce questa libertà di risposta è appunto l'incarnazione: in essa, infatti, «Dio incontra l'uomo non «in modo divino» ma «in modo umano» nel Figlio incarnato e crocifisso. Rispetto all'onnipotenza divina ciò significa limitazione e rispetto alla bontà divina dilatazione.».47

Questo significa che l'amore e la bontà divina si dilatano in maniera incommensurabile nell'incarnazione, in essa Dio è forte nella sua debolezza perché in essa il suo amore si esprime in tutta la sua potenza: «Dio non è mai tanto «grande» quanto lo è nella sua umiliazione, mai tanto glorioso quanto lo è nella sua impotenza, mai tanto «divino» quanto lo è nella sua incarnazione.».48

3.3. La trasformazione dello Spirito

«Noi sappiamo tanto poco dello Spirito Santo perché ci è troppo vicino, non perché sia troppo lontano da noi»49: la prima cosa che Moltmann nota quando si avvicina allo studio della persona dello Spirito Santo è la difficoltà che sempre, nella storia della pneumatologia, si è provata nel delineare la personalità dello Spirito Santo e ritiene che questa difficoltà sia causata dal fatto che noi percepiamo troppo fortemente a livello interiore lo Spirito Santo per riuscire a delinearne la personalità, lo percepiamo cioè in maniera così avvolgente a livello esperienziale da trovarci in difficoltà quando, in sede di riflessione, cerchiamo di dare dei contorni precisi alla sua persona.

L'esperienza dello Spirito, infatti, ci permette di percepire una nuova presenza di Dio perché in essa «Dio non si pone più, rispetto alla sua creazione, soltanto come Creatore, non assume più, in quanto Incarnato, soltanto la figura di Rappresentante di noi uomini. Dio, nello Spirito, abita negli stessi uomini. L'esperienza dello Spirito è dunque l'esperienza della schekinah, dell'abitazione di Dio»50: a causa di questa inabitazione dello Spirito, fin da ora gli uomini e le comunità vengono trasfigurate in attesa degli ultimi giorni in cui verrà trasfigurata l'intera creazione.

Anche l'opera dello Spirito Santo, dunque, è kenotica in quanto Egli inabita così profondamente in noi per trasformarci dall'interno da rinunciare alle sue stesse caratteristiche personali lasciando che noi lo avvertiamo come qualcosa che ci appartiene intimamente, come una forza che scaturisce dalla nostra stessa interiorità: Egli, in questo modo non è solo il Dio "per noi" e "con noi" ma anche il Dio "in noi" che parla in maniera talmente intima nelle profondità di noi stessi da confondere la sua voce con i palpiti della nostra anima facendone un tutt'uno, in modo tale che lo Spirito diventa «una presenza talmente avvolgente che non viene più nemmeno percepito quale controparte: noi siamo in lui ed egli è in noi».51

4. La Trinità immanente

Mentre nel paragrafo precedente abbiamo analizzato l'approccio di Moltmann alle persone della Trinità nella loro distinzione ad extra, ora vedremo come si muove il nostro autore quando considera la Trinità nella sua unità ad intra. Focalizzeremo, dunque, la nostra attenzione sui due più importanti risultati a cui approda l'intera speculazione di Moltmann sulla Trinità e cioè la teologia della passione di Dio e la teoria sul rapporto reciproco fra Trinità immanente e Trinità economica.

Entrambi questi argomenti sono stati trattati anche da altri teologi: l'idea di un Dio capace di soffrire ha numerosi assertori come Heschel, Mühlen, Jüngel e molti altri, mentre la riflessione sul rapporto fra Trinità immanente e Trinità economica raggiunge la sua acme nel famoso assioma di Rahner «la Trinità economica è la Trinità immanente e viceversa»52 che da Moltmann viene ripreso e portato alle sue estreme conseguenze. È a questi e ad altri autori che Moltmann si ispira per elaborare le sue teorie riuscendo, però, a dare ad esse una nuova coloritura in quanto le arricchisce di apporti originali che sono suoi propri.

4.1. La passione di Dio

«Se Dio sotto ogni aspetto fosse impassibile, sarebbe anche incapace di amare»53: la teologia della passione divina elaborata da Moltmann si basa su due capisaldi. Per prima cosa si fonda sull'adesione piena all'"assioma" di San Giovanni che «Dio è amore» che, per Moltmann, porta con sé come corollario il fatto che chi è capace di amare deve essere necessariamente anche capace di soffrire.

In secondo luogo si basa sull'osservazione del fatto che, se accettassimo l'idea della filosofia greca dell'impassibilità di Dio, la passione di Cristo non potrebbe essere considerata altro che una passione umana perché, se così non fosse, ci troveremmo di fronte al paradosso della sofferenza di un Dio impassibile.

La dottrina del pathos di Dio, dunque, è in grado di giustificare sia l'affermazione che l'essenza di Dio è l'amore, sia quella che la croce è un evento in cui Dio è pienamente coinvolto, e inoltre, come vedremo, ci permette anche di elaborare una teodicea su basi solide.

Uno dei primi pensatori che nell'epoca contemporanea hanno contestato la dottrina del Dio apatico è il filosofo ebreo Abraham Heschel il quale, in polemica con la filosofia di Spinoza, Filone, Jehuda Halevi e Maimonide che sostenevano l'apatia di Dio, qualifica la teologia dei profeti dell'Antico Testamento come una «teologia del pathos divino». Secondo Heschel, nei libri profetici il Dio di Israele è presentato come un Dio che ama l'uomo e si occupa di lui: «Egli non solo governa il mondo con la maestà del suo potere e sapienza, ma reagisce intimamente agli eventi della storia. Egli non giudica le azioni degli uomini con impassibilità e distacco, il suo giudizio è pervaso dall'atteggiamento di colui al quale quelle azioni stanno intimamente e profondamente a cuore. Dio non se ne sta fuori del raggio della sofferenza e del dolore umano. Egli è personalmente coinvolto, perfino influenzato dalla condotta e dal destino dell'uomo.».54

Un altro autore che ha, secondo Moltmann, sviluppato una interessante dottrina sulla teopatia è C. E. Rolt: secondo Rolt l'onnipotenza di Dio consiste nella potenza del suo amore sofferente che si manifesta nella croce di Cristo.

Rolt può essere considerato uno degli autori più significativi di quella teologia anglicana del XIX e XX secolo che ritiene che nella passione storica di Cristo si riveli la passione eterna di Dio per cui l'autosacrificio dell'amore viene da questi teologi considerato come l'essenza stessa di Dio in quanto chi ama, per essere beato, deve dare tutto se stesso all'oggetto del suo amore. Per la teologia anglicana della sofferenza di Dio, dunque, la beatitudine eterna di Dio non si basa sull'assenza di sofferenza ma sul sacrificio di sé fatto per amore.

L'esperienza della congoja (dolore, pena, angoscia) nella vita dell'uomo ispira a Miguel de Unamuno, un altro autore a cui Moltmann fa riferimento, la sua teologia della pena infinita di Dio. De Unamuno rifiuta quella «teologia naturale» che concepisce un Dio incapace di soffrire perché essa ci impedisce di comprendere il senso della croce di Cristo e anche la vera essenza di Dio che è l'amore perché, per de Unamuno, un Dio incapace di soffrire è anche incapace di amare.

Sono questi gli autori a cui Moltmann principalmente si ispira per sviluppare la sua teologia della passione di Dio: ciò che Heschel chiama pathos, e cioè il coinvolgimento di Dio nella storia umana, Moltmann lo chiama autoumiliazione, Kenosi, e delinea la storia di Dio come caratterizzata da una serie di autoumiliazioni: la creazione, l'alleanza, l'esilio, fino all'estrema Kenosi della croce.

Ma questo pathos, o autoumiliazione, di Dio di cui parla Heschel, non può, secondo Moltmann, non implicare un'autodistinzione nell'essenza stessa di Dio: esso, infatti, costringe lo stesso Heschel a sviluppare un concetto bipolare di Dio il quale non solo è assiso sul suo trono celeste ma, contemporaneamente, nella sua shekinah, abita anche in mezzo agli uomini e ne condivide le sofferenze. Il principio di questa autodistinzione in Dio, secondo Moltmann, risiede in quell'amore stesso di Dio che gli permette di soffrire per l'uomo e con l'uomo: è perché la sua essenza è l'amore che Dio è trino in quanto «l'amore non può essere attuato in un soggetto solitario».55

Dio non è solo amore generativo ma anche amore creativo e questo amore creativo è sempre amore sofferente perché per Dio creare significa autolimitarsi per fare spazio alla creatura per poi, dopo averla creata, autoumiliarsi ancora per partecipare alle sofferenze della creatura stessa. Un Dio che ama, dunque, è anche un Dio capace di soffrire e, del resto, se Dio non fosse capace di soffrire, sarebbe più imperfetto di qualsiasi uomo in quanto «un Dio incapace di sofferenza è un essere incapace di partecipazione. Non lo sfiorano alcun dolore e ingiustizia. Senza affetti qual egli è, non può essere nemmeno toccato o scosso da nulla. Non è capace di piangere, perché non ha lacrime. Ma chi non può soffrire non può nemmeno amare, quindi è un essere senza amore».56

E noi oseremmo ritenere perfetto un essere siffatto? No di certo, visto che mancherebbe di qualcosa che possiede anche il più misero degli uomini! Sarebbe il più imperfetto degli esseri perché incapace di sperimentare l'impotenza e la debolezza. Sarebbe un essere solo onnipotente che forse potrà essere temuto ma mai amato: «ma che tipo d'essere sarebbe un Dio solo «onnipotente»? Un essere senza esperienza, senza destino, un essere che non è amato da nessuno. Un uomo che sperimenta l'impotenza, un uomo che soffre perché ama, un uomo che può morire, è quindi un ente più ricco di un Dio onnipotente, incapace di sofferenza e di amore».57

Questa concezione di un Dio estraneo, separato dal mondo e dall'uomo porta facilmente all'ateismo di protesta in quanto non riesce a dare alcuna risposta al problema della sofferenza e dell'ingiustizia nel mondo. Ma se affermiamo che Dio e sofferenza non sono due termini contraddittori ma anzi che «l'essere di Dio è nella sofferenza e la sofferenza è nell'essere stesso di Dio, perché Dio è amore»,58 allora la prospettiva cambia e questa concezione del Dio sofferente diventa davvero in grado di dare una risposta al problema della teodicea.

Secondo Moltmann il problema della teodicea è «la ferita aperta della vita in questo mondo»59 e nessun credente può sottrarsi al tentativo di dare ad esso una risposta. I Padri della Chiesa ritenevano che la sofferenza e la morte fossero la pena che Dio aveva disposto per il peccato degli uomini, ma già alcuni teologi del passato, come Origene, avevano avuto delle perplessità riguardo a questa teoria. Sicuramente esiste un legame fra peccato e sofferenza però non si può arrivare ad affermare che se non ci fosse il peccato non ci sarebbe neanche la sofferenza perché la morte e la sofferenza sono conseguenza dei limiti della realtà creata.

E poi come spiegare la sofferenza degli innocenti e dei giusti? «La sofferenza di Caino può essere ancora considerata come pena per il fratricidio. Ma la sofferenza di Giobbe è tutta un'altra cosa».60 Né il teismo con il suo Dio apatico né l'ateismo col suo «lieto annuncio della morte di Dio» che dovrebbe liberare l'uomo sono grado di dare una risposta alla domanda del giusto sofferente.

L'unica risposta al grido angosciato dell'uomo sofferente può venire, secondo Moltmann, dal «Dio crocifisso» perché «la persona che in questa sofferenza grida verso Dio, in fondo si pone in sintonia con il grido di morte del Cristo agonizzante, del Figlio di Dio».61 Chi soffre, infatti, allo stesso modo del Cristo in croce, soffre in quanto ama perché se non fosse capace di amare, nemmeno se stesso, diventerebbe indifferente a tutto e non soffrirebbe più, per cui l'uomo non accetta la sofferenza, propria e altrui, perché ama.

L'avvenimento del «Dio crocifisso» è in grado di dare una risposta al grido di dolore dell'innocente «perché in questa «morte di Dio» l'amore ha ucciso la morte».62 Nell'evento della croce, infatti, Dio stesso ha fatto proprie la sofferenza e la morte, esse sono diventate componenti della sua vita e quindi colui che ama, e amando sperimenta la sofferenza, «si inserisce nella storia del Dio umano»63 e in questo modo sperimenta la vittoria di Cristo sulla morte poiché «quando soffriamo perché amiamo è Dio stesso che soffre in noi»64 dato che, attraverso l'abbandono di Cristo sulla croce, tutti gli uomini abbandonati sono entrati a far parte della storia divina.

Secondo Moltmann, dunque, in forza della morte di Cristo noi viviamo in Dio cioè «prendiamo parte del processo storico e trinitario di Dio. E come partecipiamo attivamente e passivamente della sofferenza di Dio, così partecipiamo anche della sua gioia quando amiamo, preghiamo e speriamo».65

Una volta affermata la sofferenza di Dio, sorge però una domanda: è possibile conciliare questo concetto della sofferenza divina con quello della libertà di Dio? Un Dio che per amore partecipa delle sofferenze degli uomini può apparire come un Dio che non è autosufficiente e quindi non è libero.

In realtà sofferenza e libertà in Dio sono due termini perfettamente conciliabili se usiamo un concetto di libertà che sia adeguato a Dio: noi, infatti, di solito quando parliamo di libertà, usiamo il linguaggio del dominio secondo il quale la libertà significa il potere che il padrone esercita sui servi. Tale concetto di libertà ci porta a ritenere che Dio sia libero nel momento in cui può esercitare la sua sovranità assoluta e disporre a proprio piacimento dei suoi servi che sono gli uomini: ma non è questo, secondo Moltmann, il concetto di libertà adeguato a Dio.

Quando parliamo della libertà di Dio non dobbiamo usare il linguaggio del dominio ma piuttosto il linguaggio della comunione secondo il quale libertà non significa potere ma amicizia e condivisione: «questa libertà sta nella reciproca e comune partecipazione alla vita, in una comunicazione che non conosce dominio e asservimento. Nella partecipazione reciproca alla vita le persone diventano libere trascendendo i limiti della propria individualità».66

È questo, secondo Moltmann, il concetto di libertà più adeguato per comprendere la libertà di un Dio che è amore: il Dio trinitario, infatti, non si rivela come un despota che esercita il proprio dominio sui suoi servi ma «si rivela come amore nella comunione del Padre, Figlio e Spirito. La sua libertà sta quindi nell'amicizia che egli offre agli uomini e attraverso la quale li rende suoi amici. La sua libertà è il suo amore che può essere ferito, la sua apertura, il suo venire incontro, ciò per cui soffre con gli uomini che ama, per loro intercede e così dischiude il loro futuro. Mediante la sofferenza e il sacrificio, mediante la dedizione e la pazienza, Dio dimostra la sua libertà eterna. [...] E in tal modo non parla soltanto come Signore ma presta pure ascolto all'uomo da Padre.».67

4.2. Il rapporto fra Trinità immanente e Trinità economica

«La Trinità economica non rivela soltanto la Trinità immanente ma si ripercuote pure su di essa»68: è un'affermazione molto forte questa, addirittura ancora più forte dell'"assioma" di Rahner «la Trinità economica è la Trinità immanente e viceversa»,69 vedremo in queste pagine in che modo Moltmann riesce a giustificare questa sua affermazione.

Sappiamo che dall'antichità fino ai nostri giorni, i teologi hanno operato una distinzione nella Trinità fra immanenza ed economia, cioè fra il Dio in sé e il Dio per noi. Secondo Moltmann, è il fondamento stesso su cui si basa questa distinzione ad essere sbagliato: questa distinzione, infatti si basa sull'osservazione di tipo metafisico della differenza che esiste fra Dio e mondo e a causa della quale il mondo può dipendere da Dio ma Dio non può dipendere dal mondo perché mentre Dio è eterno, impassibile e indipendente, il mondo è temporale, passibile e dipendente. Queste distinzioni, però, sottolinea Moltmann, «sono state ricavate dall'esperienza del mondo, non dall'esperienza di Dio»70 per cui la distinzione che esiste fra Dio e mondo non ci autorizza a porre dei limiti al Dio Uno e Trino traendo dall'esperienza di questa distinzione fra Dio e mondo una ipotetica distinzione in Dio fra immanenza ed economia.

Per capire se davvero esiste una distinzione fra Trinità immanente e Trinità economica è necessario, secondo Moltmann, ragionare a partire dalla croce di Cristo e non dell'esperienza che abbiamo del mondo: è infatti la croce di Cristo che ci ha fatto conoscere la Trinità. È proprio questo aver trascurato l'importanza fondamentale dell'evento della croce per determinare il rapporto fra Trinità immanente e Trinità economica che Moltmann rimprovera a Rahner, pur aderendo al famoso «assioma» di quest'ultimo: infatti, ciò a cui la tesi dell'identità fra Trinità immanente e Trinità economica deve servire è di esprimere «la reciprocità tra l'essenza e la rivelazione, tra l'interno e l'esterno del Dio Uno e Trino. La Trinità economica non rivela soltanto la Trinità immanente ma si ripercuote pure su di essa».71

Alla luce della croce si rivela anche insufficiente la distinzione agostiniana fra le opera trinitatis ad extra e le opera trinitatis ad intra, le quali rivelerebbero l'unità di Dio verso l'esterno e la trinità di Dio verso l'interno, perché l'evento della croce ci mostra che la Trinità agisce in maniera differenziata sia ad intra che ad extra: infatti, «l'avvenimento di croce (all'esterno) può essere concepito soltanto in modo trinitario, cioè «diviso», e quindi in modo differenziato. Viceversa, la consegna del Figlio sulla croce si ripercuote pure sul Padre ed è motivo di dolore infinito. Sulla croce Dio procura la salvezza verso l'esterno per la sua intera creazione ed al medesimo tempo soffre in se stesso, al proprio interno, la sventura del mondo intero. Alle opera trinitatis ad extra rispondono fin dalla creazione del mondo le passiones trinitatis ad intra. In altri termini non sarebbe possibile comprendere Dio come amore».72

Non si può comprendere, dunque, secondo Moltmann, il rapporto fra Trinità immanente e Trinità economica secondo il vecchio schema platonico dell'idea e del suo fenomeno, del prototipo e della sua immagine, ma bisogna comprenderlo piuttosto come un rapporto di reciprocità: usando questo parametro «non si equipara il rapporto che Dio ha con il mondo con il rapporto che egli ha con se stesso ma si afferma che il primo incide su quest'ultimo, anche se primariamente da questo determinato».73 Non è possibile, secondo Moltmann, giungere a nessun'altra conclusione diversa da questa quando la Trinità immanente è conosciuta alla luce della croce di Cristo perché «il dolore della croce connota la vita interiore del Dio Uno e Trino dall'eternità e per l'eternità.».74 Moltmann, dunque, porta alle estreme conseguenze l'"assioma" di Rahner in quanto non si limita a sostenere un'identità fra Trinità immanente e Trinità economica, ma arriva ad affermare che la Trinità si costituisce in quanto tale nell'evento della croce di Cristo.

La «storia di Dio», però, non è solo una storia di sofferenza, secondo Moltmann, perché non è soltanto il dolore della croce a caratterizzare la vita interiore di Dio ma «anche la gioia dell'amore corrisposto nella glorificazione mediante lo Spirito connota dall'eternità e per l'eternità la vita interiore del Dio Uno e Trino».75 Esiste, dunque, nella dottrina trinitaria di Moltmann, una decisa apertura escatologica perché come «la croce del Figlio caratterizza la vita interiore del Dio Uno e Trino, anche la storia dello spirito, caratterizzerà, con la gioia della creatura liberata e con Dio unificata, la vita interiore di questo Dio»76: non dimentichiamo, del resto, che Moltmann, oltre ad essere il teologo della croce, è anche il teologo della speranza e che nel suo pensiero croce e speranza non devono essere mai disgiunte come non devono mai essere disgiunte croce e resurrezione perché «una croce senza risurrezione significherebbe fallimento e Gesù di Nazaret non sarebbe il Cristo di Dio. Una risurrezione senza croce suonerebbe solo miracolo, metamorfosi nella glorificazione, prolessi astratta del futuro. La risurrezione del crocifisso è prolessi e speranza per i senza speranza, è prolessi e speranza nella croce del presente.».77

Secondo Moltmann, dunque, esiste uno strettissimo legame fra dottrina trinitaria ed escatologia: infatti, «la Trinità economica si compie nella Trinità immanente quando la storia e l'esperienza della salvezza saranno compiute. Quando tutto sarà «in Dio» e «Dio tutto in tutti», la Trinità economica verrà superata nella Trinità immanente, e ciò che rimarrà sarà soltanto il cantico eterno del Dio Uno e Trino nella sua gloria.».78

5. La critica di H.U. von Balthasar

Come tutte le nuove teorie che portano ad uno sconvolgimento delle vecchie idee, questa nuova dottrina kenotica della Trinità proposta da Moltmann non è stata esente da critiche di vario genere facendo addirittura "gridare allo scandalo" alcuni teologi.79 Altri teologi, però, come von Balthasar, pur non condividendo in pieno le teorie di Moltmann, hanno avuto lucidità teologica sufficiente per non scandalizzarsi affatto di fronte a questa novità capace di sconvolgere gli schemi consolidati: von Balthasar, infatti, pur pronunciando delle critiche a riguardo, ha ripreso buona parte della dottrina trinitaria di Moltmann apportandovi però quei correttivi che evitano il rischio, latente nella teologia di Moltmann, che la storia di Dio finisca per confondersi con la storia del mondo.

Quella di von Balthasar è diventata in questo modo non solo una critica interessante e ben fondata teologicamente, ma anche costruttiva: egli, infatti, sottolinea giustamente come, nella teologia trinitaria di Moltmann, sia presente il pericolo di irretire Dio nel processo del mondo. Questo pericolo proviene, secondo Balthasar, sia dall'identificazione totale che Moltmann opera fra Trinità immanente e Trinità economica sia dal fatto che, nel pensiero di Moltmann, «la croce diventa non soltanto il luogo privilegiato (in ultima analisi unicamente valido) dell'autorivelazione della Trinità, ma addirittura il luogo del suo vero adempimento».80 Su questa strada Moltmann finisce per cadere nelle spire dell'hegelismo e della teologia del processo di Whitehead: nel pensiero di Moltmann, infatti, «la processio (intradivina) del Figlio viene identificata con la sua missio (economica)»81 e in questo modo il processo trinitario e il processo del mondo finiscono per coincidere.

Balthasar, nella sua teologia trinitaria, troverà il modo per risolvere questa ambiguità presente nel pensiero di Moltmann pur tenendo ferma la centralità dell'evento della croce nella vita trinitaria e lo farà affermando la presenza della Kenosi già all'interno stesso delle processioni trinitarie. Balthasar, infatti, ritiene che l'unico modo per evitare sia di escludere la vicenda di Cristo dalla vita trinitaria sia di confondere la vita trinitaria col processo del mondo è «quello di collegare l'evento della Kenosi del Figlio di Dio a ciò che, per analogia, si può indicare come «evento» eterno delle processioni divine. [...] Noi non sapremo mai esprimere la profondità abissale dell'autodonazione del Padre, il quale, in una eterna «sovrakenosi» si «priva» di tutto ciò che egli è e può per produrre un Dio consustanziale, il Figlio.».82

Comunque, anche se Balthasar, è riuscito a focalizzare l'attenzione su alcuni elementi che sono effettivamente punti deboli della dottrina trinitaria di Moltmann, essa, nel suo complesso, non perde né la sua validità né il suo fascino soprattutto riguardo alla scoperta dell'essenziale kenoticità di Dio. La dottrina della Kenosi come propria dell'essenza stessa del Dio trinitario, e non come un semplice episodio della sua storia, è una dottrina veramente innovativa che deve restare un punto fermo negli studi di teologia trinitaria perché distrugge dalle fondamenta la vecchia idea di un Dio che se ne sta beato in se stesso e che dava l'impressione che Trinità immanente e Trinità economica fossero due entità separate che non avevano nulla in comune fra loro.

La scoperta di un Dio kenotico, la cui Kenosi non avviene solamente nell'incarnazione e nella morte in croce, ma che è kenotico fin dal principio perché, già prima della creazione, si autoumilia per fare spazio alla sua creatura, ci permette di guardare alla Trinità con uno sguardo nuovo, ci permette di guardare al Dio trinitario non soltanto come a un Dio per noi ma anche, e soprattutto, come a un Dio con noi che ci ama tanto da autoumiliarsi per condividere le nostre sofferenze e questo perché «fin dall'eternità l'essenza di Dio è amore capace di soffrire, disposto al sacrificio, amore che si dona. [...] Prima ancora che venisse eretta sul Golgotha la croce, c'era già una croce nel cuore di Dio. Nella morte del Figlio si è svelato il cuore eterno della Trinità.».83

Copyright © 2011 Emanuela Palmieri

Emanuela Palmieri. «La Kenosi di Dio: Jürgen Moltmann e la sua nuova visione della Trinità». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [**66 B].

Note

  1. J. Moltmann, Il Dio Crocifisso, Queriniana, Brescia, 1973, p. 241. Testo

  2. Cf A. Heschel, Il messaggio dei profeti, Borla, Roma, 1993. Testo

  3. J. Moltmann, Il Dio..., cit., p. 259. Testo

  4. Idem, p.181. Testo

  5. P. Lapide - J. Moltmann, Monoteismo ebraico-dottrina trinitaria cristiana, Queriniana, Brescia, 1980, p.41. Testo

  6. Mc 15,34 Testo

  7. Rm 8,32 Testo

  8. J. Moltmann, Il Dio..., cit., p.173 Testo

  9. Ebr 5,7 Testo

  10. J.Moltmann, Il Dio...,cit., p.178. Testo

  11. Idem, p.179. Testo

  12. Ibidem Testo

  13. J. Moltmann, La via di Gesù Cristo. Cristologia in dimensioni messianiche, Queriniana, Brescia, 1991, p.194. Testo

  14. Rm 8,32 Testo

  15. J.Moltmann, La via..., cit., p.201. Testo

  16. P. Lapide - J. Moltmann, Monoteismo ebraico..., cit., p.43. Testo

  17. J. Moltmann, Trinità e Regno di Dio.La dottrina su Dio, Queriniana, Brescia, 1983, p.95. Testo

  18. 1Gv 4,16 Testo

  19. J. Moltmann, La via..., cit., p.205. Testo

  20. J. Moltmann, Il Dio..., cit., p287 Testo

  21. Idem, p.278. Testo

  22. J. Moltmann, Il «Dio crocifisso». Il problema moderno di Dio e la storia trinitaria di Dio, Concilium anno VIII, fascicolo 6, pp.39-40. Testo

  23. Ibidem. Testo

  24. Idem, p.46. Testo

  25. J. Moltmann, Il Dio..., cit., pp.285-286. Testo

  26. Idem, p.237. Testo

  27. Ibidem. Testo

  28. Idem, p.286. Testo

  29. J.Moltmann, Prospettive dell'odierna teologia della croce, in J.Moltmann,W.Kasper,H.-G.Geyer,H.Küng, Sulla teologia della croce, Queriniana, Brescia, 1974, p.45. Testo

  30. J.Moltmann, Il Dio..., cit., pp.289-290. Testo

  31. Ibidem. Testo

  32. J. Moltmann, Trinità..., cit., p.109. Testo

  33. Idem, p.116. Testo

  34. Cf G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino, 1993, pp.270-274. Testo

  35. J. Moltmann, Dio nella Creazione, Queriniana, Brescia, 1992, p.110. Testo

  36. Idem, p.111. Testo

  37. J. Moltmann, Nella storia..., cit., p.33. Testo

  38. Idem, p.39. Testo

  39. J. Moltmann, Trinità..., cit., p.121. Testo

  40. J. Moltmann, Dio nella..., cit., p.112. Testo

  41. J. Moltmann, Trinità..., cit., p.130. Testo

  42. Idem, p.127. Testo

  43. Loc. cit. Testo

  44. J. Moltmann, Trinità..., cit., p.131. Testo

  45. Ibidem Testo

  46. Ibidem Testo

  47. Ibidem Testo

  48. Idem, p.132. Testo

  49. J. Moltmann, Lo Spirito della vita, Queriniana, Brescia, 1994, p.183. Testo

  50. J. Moltmann, Trinità..., cit., p.115. Testo

  51. J. Moltmann, Lo Spirito..., cit., p.321. Testo

  52. K. Rahner, La Trinità, Queriniana, Brescia, 2004, p.30. Testo

  53. J. Moltmann, Trinità..., cit., p.33. Testo

  54. A. Heschel, Il messaggio ..., cit., p.9. Testo

  55. J. Moltmann, Trinità..., cit., p.68. Testo

  56. J. Moltmann, Il Dio..., cit., p.259. Testo

  57. Ibidem Testo

  58. Ibidem Testo

  59. J. Moltmann, Trinità, cit., p.60. Testo

  60. Idem, p.62. Testo

  61. J. Moltmann, Il Dio..., cit., p.295. Testo

  62. Idem, p.297. Testo

  63. Ibidem Testo

  64. Idem, p.296. Testo

  65. Idem, p.299. Testo

  66. J. Moltmann, Trinità..., cit., p.67. Testo

  67. Ibidem Testo

  68. Idem, p.174. Testo

  69. Loc. cit. Testo

  70. J.Moltmann, Trinità..., cit., p.172. Testo

  71. Idem, p.174. Testo

  72. Ibidem Testo

  73. Ibidem Testo

  74. Idem, p.175. Testo

  75. Ibidem Testo

  76. Ibidem Testo

  77. R.Gibellini, La teologia di Jürgen Moltmann, Queriniana, Brescia, 1975, p.235. Testo

  78. J. Moltmann, Trinità..., cit., p.175. Testo

  79. Cf B. Mondin, La Trinità mistero d'amore, ESD, Bologna, 1993; J.E. Vercruysse, Der gekreuzigte Gott. Zu Jürgen Moltmanns gleichnamigen Buch, in Gregorianum, 2/1974; H. Schützeichel, Der Todesschrei Jesu. Bemerkungen zu einer Theologie des Kreuzes, in Trierer Theologische Zeitschrift, 83. Jg., 1/1974; H. Dembowski, L'essere di Dio è nella sofferenza, in M.Welker (ed.), Dibattito su «Il Dio crocifisso» di Jürgen Moltmann, Queriniana, Brescia, 1982; H.H. Miskotte, La sofferenza in Dio, in M.Welker (ed.), Dibattito..., cit. Testo

  80. H.U. von Balthasar, Teodrammatica, Jaca Book, Milano, 1999, vol.IV, p.299. Testo

  81. H.U. von Balthasar, Teodrammatica, Jaca Book, Milano, 1995, vol.V, p.195. Testo

  82. H.U. von Balthasar, Teologia dei tre giorni, Queriniana, Brescia, 1990, p.22. Testo

  83. P. Lapide -- J.Moltmann, Monoteismo..., cit., p.44. Testo

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