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Attributi divini ed ontologia trinitaria nel secolo IV

di Giulio Maspero (Roma, 26-28 maggio 2011)

1. Introduzione

La dottrina su Dio uno e trino può essere riletta da una prospettiva essenziale anche per filosofia: gli attributi divini. L'unità, infatti, è l'attributo fondamentale dell'Assoluto, per il fatto stesso di essere tale. Il pensare Dio uno e trino implica necessariamente una discussione dell'unità stessa, che deve essere ricompresa a partire dalla rivelazione cristiana.

La questione in gioco è, più in generale, quella del rapporto tra natura e sopranatura e, più in particolare, quella del rapporto tra fede e ragione. È chiaro, infatti, che la ragione può cogliere solo l'unità di Dio, perché la Trinità appartiene all'abito della fede. Ma se si afferma che Dio è uno nonostante sia trino, si sta praticamente negando la possibilità di trovare una ragione della fede, una ragione che possa essere condivisa dal non credente. C'è, invece, un modo di intendere l'unità e la trinità di Dio che abbia un valore filosofico oltre che teologico? Si può trarre un guadagno autentico per il pensiero umano in generale dalla riflessione sulla Trinità?

Una risposta sembra essere offerta dalla dottrina patristica del sec. IV sugli attributi divini, che qui si intende ripercorrere per sommi capi, soffermandosi poi in modo specifico sulla dottrina dei Padri Cappadoci. In concreto, il loro pensiero sviluppa una estensione della ontologia classica in chiave relazionale, per giungere ad affermare che Dio è uno proprio perché è trino. Questa nuova comprensione dell'essere e della relazione costituisce un valore per ogni uomo, indipendentemente dalla sua fede.

2. Attributi e Sacra Scrittura

Non è possibile, però, avvicinarsi al sec. IV senza passare attraverso l'opera di Origene, il cui influsso risulta fondamentale in tutta la teologia greca successiva. In particolare la sua riflessione mette in evidenza come il tema degli attributi sia direttamente legato all'esegesi biblica e all'interpretazione del dato rivelato.

Nell'Antico Testamento, infatti, il popolo ebreo deve narrare e tramandare come la sua identità sia sorta dall'incontro con l'unico Dio, il Creatore. Perciò la domanda sugli attributi divini sorge spontanea: come si riconosce questo Dio quando lo si incontra? Inoltre, nel progredire della riflessione ebraica i diversi attributi perdono sempre più il loro carattere antropomorfo, venendo purificati e spiritualizzati.

Così, Origene, nel leggere la Sacra Scrittura, deve spiegare come Dio manifesti proprietà che sembrano opposte, ad esempio la giustizia e la misericordia. Per dimostrare l'identità dei diversi attributi, mette al centro della sua riflessione la Bontà di Dio, sostenendo che in Lui Essere e Bene si identificano. Tutto ciò che esiste ha origine dal Creatore e partecipa della Sua Bontà, che è sorgente di ogni cosa. Ma Dio è Spirito,1 per cui le espressioni con le quali si indica nella Sacra Scrittura il rapporto tra il Creatore e la creatura, insieme al Suo agire salvifico nella storia, debbono venire liberate del rivestimento corporeo delle immagini che sono usate solo perché gli uomini possano comprendere. Dio però non si identifica con le immagini stesse ed è, anzi, invisibile e incomprensibile. Per questo l'onnipotenza non significa che Dio possa operare il male: come ciò che è dolce non può produrre l'amaro e come la luce non può fare ombra, così Dio è fedele al suo essere, che si identifica con la Bontà.2

In un certo senso si può dire che Origene sta compiendo un'operazione analoga a quella realizzata da Socrate e Platone sui miti: al di sotto di un rivestimento narrativo letterale, la verità trasmessa consiste nell'identificazione di Essere e Bene. Tuttavia, si dà qui una differenza essenziale, perché i miti non si riferivano ad una storia autentica, mentre la Scrittura sì: i primi rimandano al dominio necessario della natura, le cui forze erano personificate; la seconda, invece, narra l'intervento libero di Dio nella storia, con tutti i chiaroscuri della libera risposta dell'uomo. Il Bene individuato da Origene come senso del testo è quello rivelato nella storia della salvezza dal Dio Creatore e Redentore: è un Bene che si dona per il quale tutto è fondato su amore e libertà.

Proprio per questo l'Alessandrino approfondisce la relazione tra gli attributi divini e la libertà. Il male è ricondotto al cattivo uso del libero arbitrio da parte dell'uomo,3 mentre ogni cosa è segnata dalla bontà dell'atto creativo. L'onniscenza e l'onnipotenza divine non sopprimono la libertà dell'uomo, che non è obbligato a compiere ciò che Dio ha deciso da sempre, come se ci si muovesse ancora in una concezione pagana caratterizzata dal dominio del Fato. Così le profezie presenti nella Scrittura non si realizzano perché sono state pronunciate, ma al contrario sono state pronunciate nel passato proprio perché nel futuro si sarebbero realizzate.4 Il confronto con Celso obbliga Origene a rileggere l'eternità divina non come mero prolungamento del tempo, estrapolazione quantitativa dell'essere finito dell'uomo, ma come presenza e possibilità di relazione con ogni momento della storia. Per questo la freccia causale può essere invertita rispetto alla direzione temporale: il profeta, attraverso la propria relazione con Dio, vede ciò che per Dio eterno sta semplicemente accadendo, mentre per l'uomo nel tempo accadrà nel futuro.

Si assiste così ad una ricomprensione degli attributi filosofici di Dio a partire dalla visione personale e storica che caratterizza il pensiero biblico. Questa operazione è alla radice del procedere teologico e segna un cammino per tutto il pensiero successivo. Certamente essa si trova, con Origene, ancora ad uno stadio iniziale. Ma la sua opera manifesta proprio lo sforzo per elaborare un pensiero che renda conto dell'unità di Dio in un modo consono alla Rivelazione trinitaria.

Questo sforzo è evidente nella difficoltà per collegare gli attributi divini alla Trinità, come si nota in alcuni passi delle opere dell'Alessandrino. Si vede, ad esempio, che solo il Padre si identifica perfettamente con gli attributi, mentre il Figlio è immagine di essi, in un senso ancora segnato dalla degenerazione platonica:

Allo stesso modo penso che con ragione si dirà del Signore che è l'immagine della bontà di Dio (cfr. Sap 7, 26), ma non che è il Bene in sé. E forse il Figlio è anch'egli buono, ma non semplicemente solo buono. E come è l'immagine del Dio invisibile (Col 1, 15), e per questo è Dio, pur senza essere colui del quale il Cristo stesso dice: «Perché conoscano te, il solo vero Dio» (Gv 17, 3), così egli è l'immagine della sua bontà, ma non identico come il Padre al Bene.5

Proprio perché è immagine della Bontà, la seconda Persona della Trinità non può identificarsi perfettamente con la Bontà stessa. La metafisica di base è ancora di taglio platonico: la molteplicità in seno al Primo Principio non può essere ancora espressa, senza cadere in una forma di subordinazionismo almeno verbale. Il fenomeno è evidente anche a proposito della terza Persona:

In quanto solo l'Unigenito è per natura Figlio fin dal principio, in modo tale che sembra che lo Spirito Santo abbia bisogno della sua mediazione per sussistere, non solo per essere (τὸ εἶναι), ma anche per essere sapiente, intelligente, giusto e tutto ciò che bisogna dire di lui, per la partecipazione agli attributi di Cristo già enumerati.6

Si tocca qui il limite della concezione trinitaria origeniana7: l'essere (τὸ εἶναι) della terza Persona non si identifica con l'essere sapiente, intelligente, giusto (τὸ εἶναι σοφὸν, λογικὸν, δίκαιον). Gli attributi divini del Figlio e dello Spirito sono solo partecipati e non posseduti in pienezza.

Emerge così la tensione tra concezione filosofica ed esigenze imposte dall'interpretazione del testo biblico: Origene riesce a purificare e a portare la comprensione degli attributi sempre più nella linea della libertà, della spiritualità e della dimensione personale ma, con la metafisica a sua disposizione, non riesce ancora a formulare perfettamente che Dio è uno perché è trino. Ci vorrà, per questo, il sec. IV, con i nuovi strumenti concettuali che esso porterà.

3. Il secolo IV e l'arianesimo

Gli attributi divini sono al centro della riflessione teologica del sec. IV, perché Ario adduceva l'eternità e l'immutabilità di Dio per negare la divinità del Figlio. La generazione implicava necessariamente un inizio e quindi escludeva che il Verbo fosse eterno e immutabile.

Atanasio risponde sempre a partire dagli attributi divini, ma da una prospettiva soteriologica: se la vita che Cristo ha comunicato all'uomo non è la Vita di Dio, l'unica ad essere veramente vita eterna, allora la salvezza cristiana non è reale. Così egli afferma che Dio è semplice, infinito e privo di composizione,8 immateriale ed incorporeo,9 eterno, immenso, e che trascende il creato. Nello stesso tempo, però, Atanasio afferma che questo Dio si è incarnato, facendosi vicino ad ogni uomo.

Si gioca qui la partita della reinterpretazione teologica degli attributi filosofici di Dio: se l'eternità e l'onnipotenza escludono la relazione, allora non è possibile esprimere il mistero cristiano. Il Dio uno e trino, infatti, è così grande da mandare il Figlio per farsi uomo, senza contraddire in questo Se stesso. L'entrare in relazione non contraddice l'essere di Dio, che è in se stesso relazione.

Punto fondamentale è il passaggio dalla teologia del Logos, che vedeva nella seconda Persona della Trinità una figura di mediazione ontologica tra Dio ed il mondo, alla teologia delle nature. Origene non riusciva a esprimere compiutamente la divinità del Verbo proprio per lo strumento concettuale cui faceva ricorso: il Logos era segnato filosoficamente da una subordinazione rispetto al primo Principio. Ciò viene corretto mediante l'identificazione della Trinità con l'unica natura divina increata ed eterna:

La Trinità non è stata fatta, ma è eterna. E nella Trinità la divinità è unica, come unica è la gloria della Santa Trinità. E voi osate dividere la Trinità in nature diverse. E dite che, mentre il Padre è eterno, ci fu un tempo nel quale non esisteva il Verbo che sta presso di Lui.10

La distinzione tra il mondo e il Creatore è ora netta, perché Dio è l'unica natura eterna, mentre tutto il resto di ciò che esiste ha una natura creata. In questo modo, la salvezza cristiana viene espressa dal fatto che il Figlio non solo ha, ma è la Vita eterna del Padre, cioè si identifica con quell'unica natura increata che è la Trinità. Allora il Padre non è mai stato senza il Figlio. Così la rilettura teologica degli attributi va di pari passo con una purificazione del concetto di generazione: essa, a differenza di quanto si osserva nel cosmo e, quindi, di quanto la filosofia ha formalizzato, nel caso del Dio uno e trino deve essere concepita come eterna.11 Il Padre è Padre solo perché genera il Figlio, in modo tale che le Persone divine vengono presentate come correlative. E ciò viene richiesto proprio dall'esigenza di tenere insieme tutti gli attributi divini, perché se la generazione non fosse eterna allora Dio avrebbe subito una mutazione iniziando ad essere Padre. La stessa immutabilità divina sostenuta dagli ariani verrebbe meno.

Con Atanasio si vede all'opera il processo di teologizzazione degli attributi divini, che iniziano ad essere reinterpretati in chiave relazionale. Questa dinamica non contraddice le esigenze filosofiche ma piuttosto, a partire dalla novità rivelata, mostra una realizzazione dell'identificazione dei diversi attributi più piena rispetto a dove era giunto il pensiero classico. E ciò è realizzato introducendo il nuovo strumento della teologia delle nature e spostandosi al livello della dimensione personale.

Tutto questo è ancora più evidente nel confronto con gli eredi di Ario. Eunomio, infatti, riteneva platonicamente che ci fosse una connessione tra i nomi e le cose, secondo la sua affermazione riferita da Gregorio di Nissa: l'intimo legame tra i nomi e le cose è immutabile (ἀμετάθετος ἡ προσφυὴς τῶν ὀνομάτων πρὸς τὰ πράγματα σχέσις).12 A ciascun nome corrisponde una realtà distinta,13 in base alla connessione necessaria che lega il mondo delle Idee alla realtà materiale. Perciò l'attributo ingenerato (ἀγέννητος) del Padre escluderebbe l'identità sostanziale con il Figlio generato (γεννητός).

Il punto è che Eunomio non riesce a distinguere due significati diversi dell'attributo ingenerato: il primo sinonimo di non creato, che riguarda quindi il rapporto tra Dio ed il mondo; il secondo significato è, invece, caratteristico dell'immanenza divina in riferimento al Padre in quanto Principio delle altre due Persone, senza che però queste siano sue creature o effetti. Si tratta di una distinzione cui ne corrisponde una parallela per generato: alla prima identificazione di questo termine con l'essere creato e l'essere fatto, si aggiunge una concezione nuova, resa possibile solo dalla rivelazione, per la quale il Figlio è generato eternamente dal Padre senza aver mai iniziato ad essere. Si tratta di un significato puramente relazionale.

La posizione di Eunomio, invece, svaluta la conoscenza umana e il valore degli attributi divini: solo ingenerato esprimerebbe la sostanza divina, mentre tutti gli altri termini come giustizia, bellezza o misericordia sarebbero solo creazioni soggettive e non direbbero nulla veramente su Dio. Il valore della conoscenza umana è così mortificato. Per i Cappadoci, invece, proprio perché nessun nome esprime l'essenza, bisogna ricorrere a molti nomi, in quanto ciascuno, per la partecipazione ontologica, riflette un aspetto dell'essere divino.

È la ragione umana che, nella sua limitatezza, deve scomporre quanto è semplice unità e identità in Dio.14 Ancora una volta ciò deriva dalla Scrittura stessa, che fa ricorso a diversi attributi divini. Il punto è che l'essenza di Dio non solo è semplice, ma anche è infinita, in modo tale che la molteplicità dei concetti è l'unico modo per farsene una certa idea.15

Basilio introduce una classificazione dei nomi su Dio, distinguendoli in positivi e negativi. I primi dicono ciò che Egli è, i secondi ciò che non è. Ingenerato è ovviamente un nome negativo, come infinito, invisibile, etc. ma di per sé non basta. Per tentare di dire qualcosa dell'infinita ricchezza di Dio bisogna ricorre ad ogni tipo di attributo, usando anche quelli positivi, come buono, giusto, buono e così via.

Ma il salto metafisico più rilevante si rivela nella distinzione tra nomi assoluti e nomi relativi, che sorge dalla distinzione tra sostanza ed ipostasi: i primi si predicano di tutta l'essenza e quindi si applicano alle tre Persone divine, mentre i secondi si possono riferire solo alla singola Persona. Gregorio di Nazianzo mostra con chiarezza come ingenerato può essere inteso sia come nome assoluto sinonimo di non creato, sia come nome relativo in riferimento al solo Padre, che non è generato e non procede.16 Parallelamente il Figlio è generato, ma non creato.

Ovviamente anche i nomi positivi, pur essendo i più adatti e significativi, non possono mai esprimere pienamente Dio, che rimane sempre al di là della capacità conoscitiva umana.17 Il rapporto tra essere e linguaggio non può venire invertito: prima c'è l'ente e solo dopo il nome.18

Questo tema è particolarmente sviluppato da Gregorio di Nissa, che rispetto a Eunomio si muove in una gnoseologia di taglio più propriamente aristotelico, per la quale il nome è di origine umana e non divina, ed è assegnato dalla ragione in base all'analogia e alla proporzione.19 Per lui i nomi sono successivi rispetto alle cose e sono ombre delle cose (σκιαὶ τῶν πραγμάτων) , che ricevono forma secondo il movimento di ciò che sussiste in un'ipostasi (τῶν ὑφεστώτων).20

La pretesa connessione necessaria tra i nomi e le cose sostenuta da Eunomio permetteva, teoricamente, una ascesa nella conoscenza, risalendo i diversi gradi della scala ontologica. E proprio contro questa prospettiva si scaglia il Nisseno, accusando l'avversario di proiettare dal basso verso l'altro e di violare così il Mistero della teologia (θεολογίας μυστήριον) nell'applicare a Dio quei nomi e quei ragionamenti che sono tratti dalla natura creata e quindi dall'ambito della necessità.21

Invece, per Gregorio, la conoscenza di Dio può procedere solo dall'alto verso il basso, e quindi solo grazie al dono. È l'agire di Dio nella storia che permette di conoscerlo, mentre nessuna idea su di lui può essere a priori. Le stesse nozioni comuni e la conoscenza naturale di Dio sono fondate sull'atto creativo, frutto di libertà e di amore. Così l'unico nome che può esprimere la natura divina è la meraviglia che sorge verso di essa nella nostra anima.22 Dio si chiama stupore.

Entra qui in gioco la distinzione tra l'immanenza e l'economia divine, fondamentale nella risposta ortodossa all'arianesimo. Il mistero della teologia, che Eunomio violerebbe, riguarda proprio la conoscenza della sostanza divina, che di per sé è inconoscibile ed ineffabile.

Questo progresso nella epistemologia e nella gnoseologia teologiche si riflette a livello di comprensione degli attributi divini, come mostra il Contra Eunomium III, una delle opere sintetiche e dogmaticamente più mature di Gregorio di Nissa.

4. Il Contra Eunomium III di Gregorio di Nissa

Usualmente si colloca la data di composizione del Contra Eunomium III di Gregorio di Nissa tra il 381 ed il 383, immediatamente dopo il Concilio di Costantinopoli a distanza di pochi anni dai primi due scritti contro Eunomio, entrambi del 380.23

La struttura stessa di quest'opera può essere letta a partire dalla questione degli attributi divini, che, come si è detto, era centrale nella discussione con i neoariani. Già nel primo capitolo, infatti, si mostra come la risposta all'identificazione eunomiana tra l'essere generato e l'essere creato poteva superarsi solo teologizzando gli attributi divini e mostrando la loro connessione con la generazione del Logos.

Per questo i capitoli dal 2 al 4 analizzano gli attributi di Cristo per mostrare come Egli, generato dal Padre, sia Signore. Così, in primo luogo, si nega che la generazione eterna sia segnata dalla passione, come avviene per le creature (cap. 2). Quindi si analizza l'affermazione «Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» di At 2, 36, per mostrare in che senso Gesù sia stato costituito Cristo e Signore dopo la passione, distinguendo la natura creata da quella increata (cap. 3). Infine, dopo aver distinto, Gregorio si difende dall'accusa di aver introdotto due Cristi e approfondisce con grande efficacia la questione della communicatio idiomatum (cap. 4).

La seconda parte dell'opera analizza invece gli attributi del Figlio studiando la generazione direttamente in divinis. Nel cap. 5, Gregorio riprende il tema del titolo Signore attribuito a Cristo e, in generale, dei diversi nomi attribuiti a Dio. Nel cap. 6 si nega che il Figlio sia stato generato da un atto di volontà del Padre, passando dall'essere al non essere. L'unità eterna e indivisibile tra il Padre e il Figlio è fondata proprio sulla unicità della generazione, radicalmente diversa da ogni forma di generazione a livello creaturale.

Gli ultimi quattro capitoli del Contra Eunomium III possono essere letti come esplicitazione del rapporto tra generazione eterna ed attributi divini, poiché Eternità, Vita e Bontà vengono analizzati dalla prospettiva soteriologica. Nel cap. 7, infatti, Gregorio nega che il prima e il dopo possano essere attribuiti al rapporto tra il Padre ed il Figlio. Non esiste nessun intervallo tra le prime due Persone della Trinità, in modo tale da mostrare come l'attributo Eternità non sia incompatibile con la generazione stessa.

Il cap. 8 applica quanto esposto nel capitolo precedente a proposito dell'eternità all'attributo divino Vita. Infatti, la Vita vera deve essere vita eterna: Cristo salva, perché comunica la vita eterna. E la comunica perché Lui è la Vita eterna. L'importanza di questo capitolo è costituita dal fatto che il rapporto tra attributi divini e generazione è esplicitato. Proprio qui è dove meglio questo rapporto può essere presentato, perché la Vita e il generare possono essere direttamente connessi. Tra i tre attributi Eternità, Vita e Bontà il secondo richiama naturalmente la generazione e la relazione del Padre e del Figlio.

Nel cap. 9, allora, la discussione passa all'attributo Bontà, che non può essere considerato solo nel Padre, ma anche nel Figlio. Cristo che è la Vita eterna ha dato questa vita per noi, rivelando nell'economia che possiede in pienezza l'attributo divino della Bontà. La chiave dell'incarnazione è proprio il dono di sé che Dio fa agli uomini. La morte di Cristo non è segno di inferiorità e di subordinazione, ma manifesta proprio la divinità di Gesù, perché la Vita eterna comunicata e la Bontà assoluta che questa comunicazione manifesta sono lo splendere degli attributi divini.

Il capitolo finale chiude il percorso mostrando che l'Unigenito possiede tutti gli attributi divini nella sua natura divina, e possiede tutti gli attributi umani nella sua natura umana. Da questa prospettiva, l'offesa al Figlio è offesa al Padre, perché i due sono una cosa sola, sono l'unica natura divina. La riflessione cristologica e quella trinitaria sono presentate, dunque, come inseparabili.

Scopo di quanto segue è mostrare come alla base di questo collegamento degli attributi divini e della generazione del Figlio ci sia una nuova metafisica. Si tratta di una ontologia relazionale, in quanto il Primo Principio non è più considerato secondo la prospettiva aristotelica e neoplatonica come essere solitario e privo di relazioni, ma il Padre ed il Figlio sono uno dentro l'altro e uno attraverso l'altro. Gli attributi divini, e quindi l'unità e la vita vere, sono solo nella relazione.

5. Attributi e relazione

Questa lettura sembra essere confermata dalla frequenza con la quale, nel corso del Contra Eunomium III, gli attributi e la generazione appaiono collegati nell'argomentare di Gregorio. Fin dal primo capitolo si mostra, infatti, il legame tra attributi, processione e relazione. Il nucleo del ragionamento, che poi viene sviluppato lungo l'opera, si fonda sull'affermazione di Gv 1, 18 che il Figlio è nel seno del Padre24:

  1. Dio è pienezza ed ha in sé, nel suo seno, la potenza, la sapienza, la luce, la parola, la vita, la verità.
  2. Ma il Figlio, che è nel seno del Padre, rende sempre questo seno pieno
  3. perché mai il Padre potrebbe essere pensato vuoto delle cose buone, ed il Figlio è queste cose buone, cioè potenza e vita e verità e luce e sapienza.

Questo ragionamento è proposto da Gregorio come chiave interpretativa del Dio vero da Dio vero (θεὸν ἀληθινὸν τὸν ἐκ τοῦ ἀληθινοῦ θεοῦ) niceno.25 Il punto è che per Eunomio la generazione implica una diversità sostanziale, in modo tale che la sostanza generata non può essere la stessa della sostanza non generata.26 In questa prospettiva, la processione diventa prova della subordinazione.

La risposta di Gregorio si fonda sul rapporto di mutua immanenza del Padre e del Figlio, per il quale i nomi dati al Figlio sono inconcepibili al di fuori della relazione tra le due prime Persone divine. Infatti:

Figlio, Destra, Unigenito, Logos, Sapienza, Potenza e tutti i titoli simili che indicano una relazione (πρός τι), sono sicuramente tutti usati con riferimento simultaneo a un certo legame relazionale con il Padre.27

La struttura argomentativa parte dagli attributi predicati del Padre per giungere agli stessi attributi predicati del Figlio attraverso la preposizione derivativa ἐκ. Il riferimento al seno del Padre serve proprio a forzare la lettura della derivazione nel senso della mutua immanenza e quindi nel senso della relazione, che diventa chiave interpretativa della generazione.

Per Eunomio, invece, il generato e il non generato devono corrispondere a sostanze diverse. Da qui discende l'impossibilità di leggere il Luce da Luce niceno nel senso dell'homoousios, poiché le formule derivative significano, nella filosofia del linguaggio di Eunomio, che la distanza tra le due luci è la stessa di quella tra il generato ed il non generato.28 La sua concezione metafisica, che vedeva una serie continua di gradi ontologici discendenti tra il Primo Principio e il mondo, si traduceva immediatamente in una gnoseologia indistinguibile dalla ontologia stessa.

Invece per i Cappadoci la fonte di conoscenza degli attributi divini è solo l'economia, cioè l'agire salvifico di Dio, in quanto non c'è nessuna connessione necessaria tra la creatura e il Creatore. Per questo Gregorio di Nissa scrive:

Ma io, istruito dalla Scrittura divinamente ispirata, dichiaro con forza che Colui che è al di sopra di ogni nome diventa di molti nomi per noi, con titoli che corrispondono ai suoi diversi atti di beneficenza: Luce quando scaccia le tenebre dell'ignoranza; Vita quando dona l'immortalità, Cammino quando guida dall'errore alla verità; così anche è detto Torre di forza, Città fortificata, Fonte, Roccia, Vite, Medico, Risurrezione e tutti i nomi simili che sono dati a Lui in relazione a noi, per il suo distribuirsi in diversi modi nei suoi benefici per noi.29

In questo testo emergono i nomi Luce e Vita. Essi non sono nomi propri dell'essenza, ma sono attributi divini, qualità, cioè, che possono caratterizzare solo la natura divina e che l'uomo conosce attraverso l'agire di Dio stesso.

È importante mettere in evidenza che questi attributi costituiscono una autentica conoscenza di Dio, perché sono effetti che possono caratterizzare solo la Sua natura: effetti propri, fondati in una operazione che solo la natura divina può compiere. Nello stesso tempo, la distinzione tra Creatore e creatura è netta. Per questo Gregorio scrive ad Eunomio in riferimento al Prologo giovanneo:

La creazione non era in principio, né era presso Dio, né era Dio; né Vita, né Luce, né Risurrezione, né nessun altro dei nomi propri di Dio.30

La radicalità di questa distinzione spinge la riflessione sul rapporto tra gli attributi divini e la relazione. Infatti il Vangelo ci fa conoscere il Figlio come Dio, Vita, Luce, Risurrezione, etc.: in questo modo, colui che indaga il senso della Scrittura, attraverso la narrazione dell'economia, si trova di fronte non solo alla Luce e alla Vita di Dio, ma anche a Colui che è Luce da Luce e Vita da Vita. E si tratta di una realtà che si impone, perché il Cristo risorge e salva, comunicando la Vita eterna. Da qui le accese parole nel cap. 8 del Contra Eunomium III:

Lo sciagurato non si è accorto che il Vangelo ci insegna a vedere la vita eterna allo stesso modo nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo: il testo dice del Padre che conoscerlo è la vita eterna (Gv 17, 3); del Figlio, che chiunque crede in Lui ha la vita eterna (Gv 3, 15); e dello Spirito Santo, che per colui che ha ricevuto la sua grazia, Egli sarà sorgente d'acqua viva per la vita eterna (Gv 4, 14). Quindi, chiunque desideri la vita eterna, quando trova il Figlio -- intendo il Figlio vero, e non quello che ha un nome falso -- trova in Lui tutto ciò che desiderava, perché anch'Egli è in sé vita e ha la vita in se stesso.31

L'identificazione di Vita e Trinità è cara a Gregorio, ed è fondata nel riconoscimento della Vita come una di quelle caratteristiche proprie di Dio, sorgente di ogni Bene. Così, l'Unigenito deve essere riconosciuto della stessa natura del Padre, perché:

Dio è essenzialmente Vita (αὐτοζωή), e l'Unigenito Dio è Dio e Vita, e Verità e ogni cosa concepibile che sia sublime e propria di Dio.32

Invece tutte le altre realtà solo partecipano della vita, ma non si identificano con essa. Per Gregorio diventa, dunque, assurdo, negare al Figlio la piena divinità.

Per Eunomio la derivazione implica una diversità di sostanza ed una discesa nel grado ontologico. In questo senso la sua esegesi è dettata dai presupposti filosofici della metafisica aristotelica e neoplatonica, che prevede la scala ontologica. Se una realtà deriva da un'altra, quindi se possiede relazioni, necessariamente deve essere inferiore e non può essere il Primo Principio. Mentre per Gregorio tra il Creatore e la creatura c'è una distanza incolmabile, per Eunomio esistono gradi di essere intermedi. Per questo, nell'ultimo capitolo del Contra Eunnomium III, questi sarà accusato dal Nisseno di seguire la religione egiziana caratterizzata dalla concezione di esseri demonici, cioè ontologicamente a metà strada tra il Cielo e la terra.33

In questo modo, la distinzione tra immanenza ed economia, insieme all'affermazione della netta separazione tra la natura divina e le nature create, spinge Gregorio verso la formulazione della connessione tra attributi e relazione. Infatti, a Eunomio, il quale sostiene che la Destra del Padre è creata, in quanto è sostanza diversa da quella del Primo Principio, scrive:

Colui che ha occhio per guardare la verità, vedrà che ciò che è l'Altissimo, lo stesso vedrà essere anche la Destra dell'Altissimo: increata dell'increato, buona del buono, eterna dell'eterno, e per nulla compromessa nella sua eternità per il fatto di essere nel Padre per la generazione.34

Si vede qui in azione la relazione che viene espressa attraverso l'uso dell'attributo ripetuto in forma genitiva: ἄκτιστον ἀκτίστου͵ ἀγαθοῦ ἀγαθήν͵ ἀϊδίου ἀΐδιον. Infatti, il nome stesso di Destra del Padre è un nome relativo, così come il nome Figlio, termine che parla del Padre, perché indica la relazione con Lui (ἡ σχετικὴ πρὸς τὸν πατέρα τοῦ υἱοῦ σημασία).35

6. La teologizzazione degli attributi

Proprio la relazione diventa fondamentale nella concezione del rapporto tra economia ed immanenza, perché ci sono dei nomi, conosciuti attraverso l'economia, che però non indicano semplicemente la natura divina, ma si riferiscono specificamente alle Ipostasi divine e le identificano attraverso le mutue relazioni. Così il nome di Figlio rinvia al Padre.

È essenziale notare che questi nomi, a cui si ha accesso solo attraverso la rivelazione e la storia della salvezza, non rimangono al livello del mero agire di Dio, ma parlano dell'immanenza stessa, senza per questo offrire una definizione della sostanza divina. In questo modo l'immanenza e l'economia, pur essendo distinte, non sono separate, poiché la dimensione relazionale permette di accedere alla dinamica interpersonale del Dio uno e trino.

Il fatto che i nomi del Padre e del Figlio parlano dell'immanenza è evidente per l'identificazione della dimensione relazionale con l'essere l'uno nell'altro:

anche se questi due termini non sono usati insieme, se uno è omesso è tuttavia implicato dall'uso dell'altro. Così uno è nell'altro e corrisponde all'altro (τῷ ἑτέρῳ τὸ ἕτερον), ed entrambi sono considerati in uno solo, in modo tale che nessuno di questi può essere pensato senza l'altro.36

L'essere dentro l'altro di una Persona rispetto all'altra è tradotto da Gregorio, con grande abilità espressiva, a livello di essere l'uno nell'altro dei rispettivi attributi. Se il Figlio è nel Padre che è l'eternità, non può non essere eterno:

essendo nel Padre, Egli non è in Lui solo per un solo aspetto, ma tutto ciò che il Padre è riconosciuto essere, quello stesso per ogni aspetto è in Lui il Figlio. Così Questi è incorruttibile perché è nell'incorruttibilità del Padre, buono perché è nella Sua Bontà, potente perché è nella Sua potenza, e poiché Egli è tutti quegli attributi che di predicano del Padre secondo il meglio, egli è anche eterno nella Sua eternità.37

E ciò vale nelle due direzioni, come reciproca è l'immanenza delle due Persone divine espressa dal Io sono nel Padre ed il Padre è in me di Gv 14, 10,38 in modo tale che l'attributo è vero proprio perché esso è relazionale:

Una sola bontà, sapienza, giustizia, prudenza, potenza, incorruttibilità e tutto ciò d'altro che appartiene ai significati più elevati, tutto è detto di entrambi e in un certo modo ciascuno ha la sua forza nell'altro (ἐν τῷ ἑτέρῳ τὸ ἕτερον): il Padre fa ogni cosa attraverso il Figlio e l'Unigenito, che è la Potenza del Padre, realizza ogni cosa.39

Ci si trova di fronte a un cambio di prospettiva metafisica, perché quello che, in chiave aristotelica, è letto come accidente e segno di inferiorità ontologica, cioè la relazione, diventa qui segno della realtà e della assolutezza dell'attributo. Tradotto in termini di unità, si potrebbe dire che per Gregorio Dio è uno proprio perché è trino, così come è vita proprio perché genera ed è generato.

Quello che è entrato in gioco è un altro livello dell'analisi metafisica, che è reso accessibile solo grazie alla rivelazione trinitaria: il livello propriamente personale e relazionale. Così, per Gregorio, l'essenza divina rimane inconoscibile, eppure l'uomo può conoscere qualcosa dell'immanenza. Il muro apofatico impedisce di passare sulla via del possesso della sostanza divina, ma apre la strada alla conoscenza personale, alla conoscenza relazionale, che tocca la profondità dell'essere, senza che il Mistero di Dio perda la sua radicale incomprensibilità. Questo livello è indicato dal πως εἶναι:

Esistere in modo non generato è uno degli attributi di Colui che è, ma la definizione dell'Essere è una cosa, la definizione del modo di essere (πως εἶναι) un'altra.40

Non generato è nome che riguarda l'essenza, ma dire che il Figlio è generato non tocca la sua identità di natura con il Padre, ma esprime il suo modo di esistere come Dio. In questo senso il πως εἶναι si identifica con il πρός τι, cioè con la relazione (σχέσις).

L'argomento è il nucleo stesso del capitolo 8, che vuole mostrare come essere in modo assoluto e proprio non escluda l'essere in relazione, perché, se così fosse, nemmeno il Padre sarebbe in modo assoluto. Il filo del ragionamento è il seguente:

  1. in primo luogo Gregorio accetta la possibilità che solo l'essere senza relazione (ἄσχετον) sia assoluto.41
  2. Giovanni, però, non solo dice che il Figlio è Logos del Padre e nel seno del Padre, ma anche che è Dio, senza aggiungere altro. Così dice che è Luce e Vita in modo assoluto (cfr. Gv, 1, 1-4).
  3. Per di più, se fosse vero che l'essere nella relazione esclude l'essere in modo assoluto, nemmeno il Padre sarebbe in modo assoluto, perché Gv 14, 10 dice che Egli è nel Figlio.

Il testo è molto chiaro e costituisce un punto di arrivo nella risposta di Gregorio, che porta all'assurdo gli argomenti di Eunomio. L'evangelista Giovanni dice, infatti:

che il Verbo era Dio, ed era Luce, ed era Vita (cf Gv 1. 1-4), e non soltanto che era nel principio e presso Dio e nel seno del Padre, cosicché mediante questa specificazione il Signore è privato dell'essere in senso proprio. Dicendo che era Dio, egli taglia la strada a coloro che corrono verso la malvagità e, ancor più importante, egli prova la cattiva intenzione dei nostri avversari. Perché, se essi sostengono che essere in qualcosa è un segno del non essere in senso proprio, loro sicuramente saranno d'accordo che nemmeno il Padre è in senso proprio. Infatti, essi imparano dal Vangelo che come il Figlio è nel Padre, così anche il Padre è nel Figlio, secondo ciò che dice il Signore (Gv 14. 10). Dire che il Padre è nel Figlio e che il Figlio è nel seno del Padre è, infatti, lo stesso.42

Anche il nome Padre indica il modo concreto di esistere come Dio della prima Persona della Trinità. Si tratta di un nome che esprime relazione al Figlio. Le due Persone divine sono correlative: la loro natura è l'Essere stesso, è assoluta, nello stesso tempo ciascuno di loro esiste nella relazione con l'altro. Il πως εἶναι è dato dal πρός τι, in modo tale che, se per assurdo si dicesse che il Figlio non esiste, ne seguirebbe necessariamente anche la non esistenza del Padre (ἡ τοῦ πατρὸς ἀνυπαρξία).43

7. Conclusione: una nuova ontologia

La dottrina di Gregorio di Nissa nel Contra Eunomium III può essere letta come punto di arrivo di quell'opera di teologizzazione degli attributi iniziata da Origene, per rendere conto del senso della Sacra Scrittura, portata poi avanti da Atanasio e dagli altri due Cappadoci. La riflessione trinitaria e la riflessione sugli attributi divini vanno di pari passo.

Alla luce della scoperta dei nomi relativi, che si applicano al livello delle ipostasi, anche i nomi assoluti di Dio debbono essere ricompresi in chiave relazionale, in modo tale che l'unità di Dio non venga più letta e misurata secondo il paradigma naturale e creaturale che implica solitudine. Si scopre, infatti, che l'unità fondata sulla comunione personale e sulla relazione è più fondamentale e più originaria rispetto all'unità conosciuta dalla filosofia classica. Ciò che prima era solo accidentale e derivato è ora identificato con l'Assoluto.

Ma questa inversione ha richiesto lo sviluppo di un nuovo approfondimento ontologico, che, senza opporsi alla metafisica greca classica, la completa e la supera. Gli attributi divini sono reinterpretati in senso autenticamente teologico venendo compresi nella loro dimensione propriamente relazione. Si scorge, allora, come Dio non sia uno nonostante sia trino, ma sia uno proprio perché è trino, così come la vera Vita è quella che consiste nell'eterna generazione del Figlio da parte del Padre e la vera Bontà è ancora questa stessa Vita come Dono infinito ed eterno che sgorga dal seno del Padre. Tutti gli attributi vengono a identificarsi nella dimensione personale e relazione di Dio uno e trino.

Ma la scoperta di questa dimensione specificamente teologica, proprio perché tocca il fondo dell'essere, riguarda ogni uomo, indipendentemente dalla fede. Il valore assoluto della persona e la centralità della relazione rappresentano un guadagno per tutto il pensiero umano. Come non si può parlare di Dio senza purificare il linguaggio umano tratto dall'esperienza naturale, così la trascendenza della persona esige che il linguaggio del singolo, fondato sulla sua esperienza particolare, venga purificato nella relazione con l'altro. Il percorso teologico del sec. IV può rappresentare, quindi, un modello per apprezzare la dimensione dialogica anche a livello antropologico, una dimensione di cui ha particolarmente bisogno l'uomo di oggi, che rischia sempre più di dimenticare il Dio uno perché trino.

Copyright © 2011 Giulio Maspero

Giulio Maspero. «Attributi divini ed ontologia trinitaria nel secolo IV». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [**52 B].

Note

  1. Questo è un punto centrale per tutta la teologia di Origene, cfr. M. Simonetti, articolo Spirito Santo, in A. Monaci Castagno (Ed.), Dizionario Origene, Città Nuova, Roma 2000, p. 451. Testo

  2. Origene, Contra Celsum, 3, 70: SC 136, 160. Testo

  3. Cfr. ibidem, 6, 55: SC 147, 316-8. Testo

  4. Cfr. ibidem, 2, 20: SC 132, 336. Testo

  5. Οὕτω τοίνυν ἡγοῦμαι καὶ ἐπὶ τοῦ σωτῆρος καλῶς ἂν λεχθήσεσθαι ὅτι εἰκὼν ἀγαθότητος τοῦ θεοῦ ἐστιν͵ ἀλλ΄ οὐκ αὐτοαγαθόν. καὶ τάχα καὶ ὁ υἱὸς ἀγαθός͵ ἀλλ΄ οὐχ ἁπλῶς ἀγαθός. καὶ ὥσπερ εἰκών ἐστι τοῦ θεοῦ τοῦ ἀοράτου καὶ κατὰ τοῦτο θεός͵ ἀλλ΄ οὐ περὶ οὗ λέγει αὐτὸς ὁ Χριστὸς ἵνα γινώσκωσί σε τὸν μόνον ἀληθινὸν θεόν͵ οὕτως εἰκὼν τῆς ἀγαθότητος͵ ἀλλ΄ οὐχ ὡς ὁ πατὴρ ἀπαραλλάκτως ἀγαθός. (Idem, Frammento di Giustiniano (Ep. ad Menam), SC 253, n. 75, pp. 53-54). Testo

  6. μόνου τοῦ μονογενοῦς φύσει υἱοῦ ἀρχῆθεν τυγχάνοντος͵ οὗ χρῄζειν ἔοικε τὸ ἅγιον πνεῦμα διακονοῦντος αὐτοῦ τῇ ὑποστάσει͵ οὐ μόνον εἰς τὸ εἶναι ἀλλὰ καὶ σοφὸν εἶναι καὶ λογικὸν καὶ δίκαιον καὶ πᾶν ὁτιποτοῦν χρὴ αὐτὸ νοεῖν τυγχάνειν κατὰ μετοχὴν τῶν προειρημένων ἡμῖν Χριστοῦ ἐπινοιῶν. (Idem, In Joannem, 2, 10, 76, 2-7: SC 120, 256) Testo

  7. Cfr. D.L. Balás, The Idea of Participation in the Structure of Origen's Thought. Christian Transposition of a Theme of the Platonic Tradition, in Origeniana I, 257-275. Testo

  8. Cfr. Atanasio, De decretis Nicaenae synodi, 22: Athanasius Werke, II, p. 18. Testo

  9. Cfr. ibidem, 10: Athanasius Werke, II, p. 9. Testo

  10. οὐκ ἔστι γενητὴ ἡ τριάς, ἀλλ΄ ἀΐδιος καὶ μία θεότης ἐστὶν ἐν τριάδι καὶ μία δόξα τῆς ἁγίας τριάδος, κἂν σχίζειν αὐτὴν εἰς διαφόρους φύσεις τολμᾶτε· τοῦ πατρὸς ἀιδίου ὄντος τὸν συγκαθήμενον αὐτῷ λόγον λέγετε ὅτι ἦν ποτε ὅτε οὐκ ἦν (Idem, Contra arianos, 1, 18: Athanasius Werke, I, p. 127). Testo

  11. Ibidem, 1, 14: Athanasius Werke, I, p. 123-4. Testo

  12. Gregorio di Nissa, Contra Eunomium III, 5,32,6-8: GNO II, 171,22-24. Testo

  13. Cfr. ibidem 5,18: GNO II, 166,11-25. Testo

  14. Cfr. Basilio, Adversus Eunomium, 1, 6: SC 299, 184-6. Testo

  15. Cfr. ibidem, 1, 10: SC 299, 204-6. Testo

  16. Gregorio di Nazianzo, Oratio 29, 10: SC 250, 196-8. Testo

  17. Cfr. Idem, Oratio 30, 18: SC 250, 262-4. Testo

  18. Cfr. Basilio, Adversus Eunomium, 1, 12: SC 299, 212-6. Si veda anche l'Oratio 28 di Gregorio di Nazianzo. Testo

  19. Gregorio di Nissa, Contra Eunomium, II, GNO I, 298, 10-19. Testo

  20. σκιαὶ τῶν πραγμάτων εἰσὶν αἱ φωναί͵ πρὸς τὰς κινήσεις τῶν ὑφεστώτων σχηματιζόμεναι (Ibidem, 150, 12-13: GNO I, 269, 11-14). Testo

  21. Cfr. Idem, Contra Eunomium, III, 2,24: GNO II, 59,28-60,9. Testo

  22. ἕν ἐστι σημαντικὸν τῆς θείας φύσεως ὄνομα͵ τὸ ἀρρήτως περὶ αὐτῆς ἡμῖν θαῦμα κατὰ ψυχὴν ἐγγινόμενον (Ibidem, 6,4,14-5,1: GNO II, 187,9-11). Testo

  23. Cfr. J.I. Ruiz Aldaz, articolo Contra Eunomium III, in L.F. Mateo-Seco e G. Maspero, Dizionario di Gregorio di Nissa, Città Nuova, Roma 2007, pp. 143-146. Testo

  24. Cfr. Gregorio di Nissa, Contra Eunomium, III,1,48-49: GNO II, 20,8-21,5. Testo

  25. La formula nicena nel Contra Eunomium III appare esplicitamente in 1,65,12 (GNO II, 27,3) e in 1,85,9-10 (GNO II, 33,15-16), in questo caso accompagnata dal luce da luce (φῶς ἐκ φωτός͵ θεὸς ἀληθινὸς ἐκ θεοῦ ἀληθινοῦ). Testo

  26. Cfr. ibidem, 1,67: GNO II, 27,21-28,6. Testo

  27. υἱὸς δὲ καὶ δεξιὰ καὶ μονογενὴς καὶ λόγος καὶ σοφία καὶ δύναμις καὶ τὰ τοιαῦτα πάντα͵ ὅσα πρός τι λέγεται͵ καθάπερ ἐν συζυγίᾳ τινὶ σχετικῇ τῷ πατρὶ πάντως συνονομαζόμενος λέγεται. (Ibidem, 1,133,9-134,1: GNO II, 48,19-22) Testo

  28. ὅσον διέστηκε τὸ γεννητὸν πρὸς τὸ ἀγέννητον͵ τοσοῦτον παρήλλακται τὸ φῶς πρὸς τὸ φῶς (Ibidem, 10,18,4-6: GNO II, 296,7-9). Testo

  29. ἐγὼ δὲ τοῦτο παρὰ τῆς θεοπνεύστου γραφῆς διδαχθεὶς θαρσῶν ἀποφαίνομαι͵ ὅτι ὁ ὑπὲρ πᾶν ὄνομα ὢν ἡμῖν πολυώνυμος γίνεται κατὰ τὰς τῶν εὐεργεσιῶν ποικιλίας ὀνομαζόμενος͵ φῶς μὲν ὅταν ἐξαφανίζῃ τῆς ἀγνοίας τὸν ζόφον͵ ζωὴ δὲ ὅταν τὴν ἀθανασίαν χαρίζηται͵ ὁδὸς δὲ ὅταν πρὸς τὴν ἀλήθειαν ἀπὸ τῆς πλάνης χειραγωγήσῃ· οὕτω καὶ πύργος ἰσχύος καὶ πόλις περιοχῆς καὶ πηγὴ καὶ πέτρα καὶ ἄμπελος καὶ ἰατρὸς καὶ ἀνάστασις καὶ πάντα τὰ τοιαῦτα πρὸς ἡμᾶς ὀνομάζεται͵ ποικίλως ἑαυτὸν ταῖς ἡμετέραις εὐεργεσίαις καταμερίζων. (Ibidem, 8,10,7-11,1: GNO II, 242,8-18) Testo

  30. Cfr. ibidem, 6,64,4-6: GNO II, 208,24-26. Testo

  31. μὴ καταμαθὼν ὁ δείλαιος ὅτι τὴν αἰώνιον ζωὴν ἐπίσης πατρί τε καὶ υἱῷ καὶ πνεύματι ἁγίῳ τὸ εὐαγγέλιον ἐνορᾶν δογματίζει͵ περὶ μὲν τοῦ πατρὸς οὕτως εἰπόντος τοῦ λόγου ὅτι τὸ γινώσκειν αὐτὸν ἡ αἰώνιός ἐστι ζωή͵ περὶ δὲ τοῦ υἱοῦ ὅτι πᾶς ὁ πιστεύων εἰς αὐτὸν τὴν αἰώνιον ἔχει ζωήν͵ περὶ δὲ τοῦ πνεύματος τοῦ ἁγίου ὅτι τῷ δεξαμένῳ τὴν χάριν ἔσται πηγὴ ὕδατος ἁλλομένου εἰς ζωὴν αἰώνιον. οὐκοῦν πᾶς ὁ ποθῶν τὴν αἰώνιον ζωήν͵ ἐπειδὰν εὕρῃ τὸν υἱόν͵ τὸν ἀληθῆ λέγω καὶ οὐ ψευδώνυμον͵ ὅλον εὗρεν ἐν αὐτῷ ὅπερ ἐπόθησε͵ διότι καὶ αὐτός ἐστιν ἡ ζωὴ καὶ ἐν ἑαυτῷ τὴν ζωὴν ἔχει. (Ibidem, 8,20,11-21,4: GNO II, 246,10-20) Testo

  32. ἡ μὲν θεότης αὐτοζωή ἐστι͵ θεὸς δὲ ὁ μονογενὴς θεὸς καὶ ζωὴ καὶ ἀλήθεια καὶ πᾶν εἴ τι ὑψηλὸν καὶ θεοπρεπές ἐστι νόημα (Ibidem, 6,75,1-3: GNO II, 212,15-18). Testo

  33. Cfr. ibidem, 10,41: GNO II, 305,11-27. Testo

  34. ὁ γὰρ ὀφθαλμὸν ἔχων πρὸς τὴν ἀλήθειαν βλέποντα οἷον τὸν ὕψιστον ὁρᾷ͵ τοιαύτην καὶ τὴν δεξιὰν τοῦ ὑψίστου κατόψεται͵ ἄκτιστον ἀκτίστου͵ ἀγαθοῦ ἀγαθήν͵ ἀϊδίου ἀΐδιον͵ μηδὲν τὴν ἀϊδιότητα τοῦ γεννητῶς εἶναι αὐτὴν ἐν τῷ πατρὶ καταβλάπτοντος· (Ibidem, 4,26,4-8: GNO II, 144,5-9). Testo

  35. Cfr. ibidem, 2,143,6-7: GNO II, 99,9-10. Testo

  36. κἂν μὴ τὰ δύο ῥηθῇ ταῦτα ὀνόματα͵ τῷ ἑνὶ καὶ τὸ παρεθὲν συσσημαίνεται· οὕτως ἔγκειται καὶ ἐνήρμοσται τῷ ἑτέρῳ τὸ ἕτερον καὶ ἐν τῷ ἑνὶ καθορᾶται ἀμφότερα͵ ὡς μὴ ἂν ἐφ΄ ἑαυτοῦ νοηθῆναι τούτων τι χωρὶς τοῦ ἄλλου. (Ibidem, 2,143,7-144,1: GNO II, 99,10-15) Testo

  37. ἐν τῷ πατρὶ ὢν οὐ καθ΄ ἓν μόνον ἐστὶν ἐν αὐτῷ͵ ἀλλὰ κατὰ πάντα ὅσα νοεῖται ὁ πατήρ͵ διὰ πάντων ἐστὶν ἐν αὐτῷ. ὡς οὖν ἐν τῷ ἀφθάρτῳ τοῦ πατρὸς ὢν ἄφθαρτός ἐστι καὶ ἐν τῷ ἀγαθῷ ἀγαθὸς καὶ ἐν τῷ δυνατῷ δυνατὸς καὶ ἐν ἑκάστῳ ὢν τῶν πρὸς τὸ κρεῖττον ἐν τῷ πατρὶ νοουμένων ἐκεῖνό ἐστιν͵ οὕτως καὶ ἐν τῷ ἀϊδίῳ πάντως ἀΐδιος (Ibidem, 6,10,7-12: GNO II, 189,17-22). Testo

  38. Cfr. ibidem, 7,53,1-54,1: GNO II, 233,25-234,6. Testo

  39. ἀγαθότης μία͵ σοφία δικαιοσύνη φρόνησις δύναμις ἀφθαρσία τὰ ἄλλα πάντα͵ ὅσα τῆς ὑψηλῆς ἐστι σημασίας͵ ἐφ΄ ἑκατέρου ὡσαύτως λέγεται καὶ τρόπον τινὰ ἐν τῷ ἑτέρῳ τὸ ἕτερον τὴν ἰσχὺν ἔχει· ὅ τε γὰρ πατὴρ διὰ τοῦ υἱοῦ τὰ πάντα ποιεῖ ὅ τε μονογενὴς δύναμις ὢν τοῦ πατρὸς ἐν ἑαυτῷ τὸ πᾶν κατεργάζεται (Ibidem, 5,47,3-8: GNO II, 177,18-21). Testo

  40. τὸ γὰρ ἀγεννήτως εἶναι ἓν τῶν ἐπιθεωρουμένων ἐστὶ τῷ ὄντι͵ ἄλλος δὲ τοῦ εἶναι καὶ ἄλλος τοῦ πως εἶναι ὁ λόγος· (Ibidem, 5,60,8-10: GNO II, 182,11-13). Testo

  41. Cfr. ibidem, 8,39,6 -40,1: GNO II, 253,12-15. Testo

  42. θεὸς ἦν ὁ λόγος καὶ ζωὴ ἦν καὶ φῶς ἦν͵ οὐ μόνον ἐν ἀρχῇ καὶ πρὸς τὸν θεὸν καὶ ἐν κόλποις τοῦ πατρὸς ὤν͵ ὥστε διὰ τῆς τοιαύτης σχέσεως ἀναιρεῖσθαι τοῦ κυρίου τὸ κυρίως εἶναι· ἀλλὰ τῷ εἰπεῖν ὅτι θεὸς ἦν͵ τῇ ἀσχέτῳ ταύτῃ καὶ ἀπολύτῳ φωνῇ πᾶσαν περιδρομὴν τῶν εἰς ἀσέβειαν τρεχόντων τοῖς λογισμοῖς ὑποτέμνεται καὶ ἔτι πρὸς τούτοις͵ ὃ καὶ μᾶλλον͵ ἐλέγχει τὴν τῶν ἀντικειμένων κακόνοιαν. εἰ γὰρ τὸ ἔν τινι εἶναι σημεῖον ποιοῦνται τοῦ μὴ κυρίως εἶναι͵ οὐδὲ τὸν πατέρα κυρίως εἶναι πάντως συντίθενται͵ μεμαθηκότες ἐν τῷ εὐαγγελίῳ ὅτι ὥσπερ ὁ υἱὸς ἐν τῷ πατρί͵ οὕτω καὶ ὁ πατὴρ ἐν τῷ υἱῷ μένει κατὰ τὴν τοῦ κυρίου φωνήν. ἴσον γάρ ἐστι τῷ ἐν κόλποις εἶναι τοῦ πατρὸς τὸν υἱὸν τὸ ἐν τῷ υἱῷ τὸν πατέρα εἶναι λέγειν. (Ibidem, 8,40,11-41,6: GNO II, 253,25-254,11) Testo

  43. Cfr. ibidem, 6,50,7-51,1: GNO II, 203,21-23. Testo

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