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Prefigurazioni e realtà della Trinità divina e della incarnazione del Verbo nel pensiero platonico

di Rocco Li Volsi (Roma, 26-28 maggio 2011)

1. La concezione trinitaria del Bene nel pensiero platonico

In un contesto religioso politeistico, qual'è quello greco dei secoli precedenti la comparsa del Cristianesimo, pur orientato da un pensiero razionale già dal suo nascere a cogliere un principio unitario di tutta la realtà, la concezione platonica del Bene appariva agli occhi dello stesso filosofo di Atene qualcosa di così sconvolgente e di così difficile comprensione da trattenerlo dal manifestarla apertamente.1

Il Bene, che egli era riuscito a comprendere, se era tale, doveva essere in grado di spiegare ogni livello e ogni forma di esistenza, così come per un momento aveva sperato che avrebbe potuto fare il principio proclamato da un pensatore a lui anteriore: la Mente divina, separata da tutto, di Anassagora di Abdera. Ma si era ingannato.2

Quale sentiero abbia dovuto percorrere Platone attraverso lo studio del pensiero presocratico e di quello a lui contemporaneo, prima e dopo questa delusione, non ci è dato sapere; ma noi riusciamo a ricostruire ugualmente buona parte dei risultati di tale sforzo speculativo e della sintesi che egli andava costruendo ed esponendo nei singoli elementi. Facendo proprio lo stesso metodo dialettico di coloro che lo avevano preceduto nella ricerca dell'arché, e conducendolo alla perfezione,3 Platone si era impossessato di uno strumento che gli aveva permesso di percorrere quel sentiero razionale 'che passa per ogni dove',4 e che conduce l'uomo all'oggetto che per essenza è proprio dell'intelletto: l'idea del Bene.

Il Bene è ciò che in sé è per propria natura assolutamente perfetto; e inoltre, come precisa 'lega ogni cosa al proprio fine, e abbraccia quanto unisce';5 è quel 'Primo Amico che rende amiche tutte le cose': Amico assoluto, a cui solo si dovrebbe attribuire la denominazione di 'amico'.6

Non ostante questa 'amicizia', si tratta di un'idea difficile da cogliere e più ancora difficile da insegnare compiutamente.7 Per di più, se uno volesse negarla, o più semplicemente volesse negare una realtà intellegibile in generale, «nessuno sarebbe in grado di dimostrare a chi parla così che mente, a meno che quell'obiettore non fosse uomo di lunga esperienza e non privo di capacità personale, tale poi anche da prestarsi a seguire una dimostrazione elaborata in modo molto complesso e tratta da lontane premesse».8

Noi ora ci proponiamo di approssimarci a questa comprensione, avendo da anni messo alla prova i testi platonici attraverso una continuamente rinnovata rilettura di dialoghi e lettere, che si sono rivelati carichi di rimandi e allusioni di straordinaria importanza:9 una chiave di lettura che permette l'ingresso del nostro pensiero in quello di Platone, e che si coglie in un motto che è un'avvertenza: Platone nasconde ciò di cui parla.10 Noi ora non presumiamo certamente di esaurire la ricchezza del discorso platonico, né forse di attingere alla sua parola più alta: tuttavia ne tenteremo la scalata a partire dai livelli più bassi di questa complessa visione razionale. Inizieremo dai corpi e dall'anima umana come vengono presentati da Platone, poiché essi hanno una struttura triadica che è espressione di quella del Bene.

Secondo la concezione eraclitea, tutta la realtà corporea è in continuo divenire; e il divenire è definito da Platone l'unione di un 'fluire' e di un 'trattenere': esso cioè è un 'flusso trattenuto'.11 Ciò che viene chiamato 'flusso' è uno stato caotico indefinito, immaginato come un «mare infinito della dissomiglianza»,12 qualcosa che 'si agita sregolatamente e disordinatamente',13 ovvero, come un 'elemento infinito'14 in totale scompostezza, ribelle ad ogni tipo di ordine.15

Questo 'elemento infinito' viene tuttavia costretto da Dio a passare attraverso stati di organizzazione razionale mediante una subordinazione ad 'elementi finiti'16 (intellegibili), che lo 'trattengono' e lo rendono capace «di fornire sensazioni di sé a tutti quelli che sono dotati della sensibilità».17 La realtà corporea appare dunque un misto di due elementi: un 'elemento infinito', energetico e irrazionale, e una determinata quantità di 'elementi finiti', statici e di ordine intellegibile. A causa dell''elemento infinito' i corpi divengono, nascono e muoiono; in ragione degli 'elementi finiti' essi sono, o meglio appaiono ai sensi e sono oggetto di credenza. La loro realtà consiste nel fatto che l''elemento infinito' imita le forme intellegibili assumendone le qualità, così come quando una spola costruita imita l'idea di spola. Ciò che è corporeo è dunque 'sospeso' tra un flusso caotico e determinate forme intellegibili (idee), posto davanti ad esseri capaci di sensazioni. Le qualità corporee perciò non esisterebbero se non esistessero anime sensitive.

Analogamente, l'anima umana ha una struttura triadica che si distingue da quella del suo stesso corpo.18 Infatti, poiché l'anima coglie ciò che è identico e ciò che è diverso nelle cose, essa deve possedere due elementi corrispondenti, che Platone chiama semplicemente identico e diverso, la cui unione dà luogo ad un terzo elemento: il misto. 19 In questo modo, con l'identico noi cogliamo, ad esempio, l'identità dei colori in quanto colori; con il diverso la loro diversità rispetto ai suoni; mentre con il misto cogliamo ciò che è misto di identità e diversità rispetto a sé e ad altro. Nello stesso tempo, distinguendo identico da diverso, comprendiamo che ciascuno di essi è 'uno' ed entrambi sono 'due', e così la serie dei numeri; e in fine, attraverso le qualità sensibili delle cose, cogliamo il loro 'essere', cioè la loro intellegibilità: ad esempio, dalla sensazione di una spola l'idea di spola.20

Senza inoltrarci nel problema, qui ci basta aver compreso come per Platone l'anima abbia una struttura triadica, formata appunto di identico, diverso e misto. Ora, pur ritenendo opportuno riportare soltanto più avanti la teoria della partecipazione, è tuttavia necessario dire fin da ora che l'identico è dello stesso ordine intellegibile degli 'elementi finiti' di cui è composto il corpo, ed è l'identico dell'Intellegibile divino di cui parleremo, dal quale deriva. La teoria della partecipazione ci spiegherà più chiaramente che tutto ciò che esiste, esiste perché partecipa dell'Essere, il quale è una realtà di ordine intellegibile, ed è anzi l'intera intellegibilità. Di questo Intellegibile partecipano le anime, ricevendo un identico 'intero', e i corpi, ricevendone una 'parte'.21

Nell'analisi dialettica compiuta da Platone, questo Essere, che è 'uno' alla maniera parmenidea, non è tuttavia l'Uno in sé, o assoluto, che la ragione distingue: l'Essere è uno, ma non è l'Uno; e anzi, poiché è 'uno' ed 'essere', ognuno dei due (l''essere' e l''uno') sarà sempre due ad ogni distinzione successiva.22 In questo modo, l'Essere appare contemporaneamente uno e molti, e ad esso vanno attribuiti l'infinito dei numeri e la serie dei contrari. In altri termini, l'Essere possiede un'infinita ricchezza di intellegibilità in quanto intero Intellegibile, ed è nel contempo infinito e finito: infinito nella sua intrinseca molteplicità, finito nella sua unità; infinito nelle sue parti, finito come intero.23

Di contro, l'Uno in sé, pur essendo infinito, non può essere molteplice proprio perché non è contemporaneamente finito: soltanto ciò che è finito è determinabile quantitativamente e numerabile. Dell'Uno in sé non si può infatti dire nulla, né nulla gli si può attribuire, in quanto ogni attribuzione è sempre una determinazione limitante. È per ciò apofatico, al di là dell'intellegibilità, e dunque al di là dell'Essere stesso: l'Uno in sé non è dicibile, né pensabile, e neppure 'è'.24 E mentre l'Essere è identico e diverso rispetto a sé e agli altri, l'Uno in sé non è né identico né diverso né rispetto a sé né rispetto agli altri; e tuttavia, poiché è 'uno', senza cui non esisterebbe nessuna cosa, in quanto 'una', è totalmente diverso da ogni realtà e insieme 'non è diverso da nulla',25 in quanto è presente in ciascuna cosa, senza essere alcuna cosa.26 L'Essere stesso, il quale è Uno Essere,27 riceve la propria unità dall'Uno in sé, come ogni altro essere.28

Per Platone dunque diversi sono i discorsi sui due 'Uno': apofatico quello sull'Uno in sé, catafatico quello sull'Uno Essere. Ma Platone afferma anche che i due 'Uno' sono uniti nell'istante, cioè fuori del tempo, a formare un terzo 'Uno'.

Riprendiamo per la terza volta. Se l'uno è, come abbiamo visto, non è necessario che esso dal momento che è uno e molti [condizione dell'uno che è: seconda ipotesi] e non uno e non molti [condizione dell'uno in sé: prima ipotesi] e partecipa del tempo, non è necessario che, appunto perché è, partecipi qualche volta dell'essere e che, poiché non è, qualche volta non vi partecipi? -- Necessario. -- Ma quando vi partecipa, proprio allora sarà possibile ad esso di non parteciparvi, o quando non vi partecipa, di non parteciparvi? -- No, di certo. -- Quindi partecipa e non partecipa dell'essere in tempi diversi; è questo il solo modo per cui possa partecipare ed insieme non partecipare di una medesima cosa. -- Esatto. -- Dunque c'è anche il tempo in cui l'uno viene a prender parte all'essere e il tempo in cui lo sta abbandonando? Come sarebbe possibile infatti che ora abbia l'essere, ora non ce l'abbia, se mai gli accade di prenderlo e poi di abbandonarlo? -- In nessun altro modo. -- [...] E poiché uno e molti viene all'essere e muore, non dobbiamo forse dire che, quando viene ad essere uno, muore all'essere molti, e, quando molti, muore all'essere uno? -- Certo. -- Poiché viene ad essere uno e molti, non è necessario che si divida in parti e si rifonda in uno? -- Certo. -- [...] -- E quando muta? Non quando è fermo, non quando è in moto, non quando è nel tempo. -- No, infatti. -- Ma dunque ci sarà questa cosa assurda in cui esso è allorquando muta? -- Che cosa? -- L'istante. Pare che 'istante' significhi qualche cosa di simile: ciò da cui qualche cosa muove verso l'una o l'altra delle due condizioni opposte. -- [...] -- Per lo stesso discorso anche quando passa dall'essere uno all'esser molti e dall'esser molti all'esser uno non è né uno né molti né si divide in parti né si rifonde in uno, e quando passa dal simile al dissimile e dal dissimile al simile non è né simile né dissimile, né si assimila né si dissimila, e quando passa dall'esser piccolo all'esser grande, all'esser uguale e viceversa, non è piccolo, non è grande, non è uguale e nemmeno aumenta in grandezza, diminuisce, si uguaglia. -- Non pare. -- Tutto questo si verificherà per l'uno, se l'uno è. -- Come no?29

In questo passo del Parmenide Platone ci mostra l'unione dell'Uno in sé e dell'Uno Essere, i quali, benché abbiano caratteri opposti, si uniscono nell'istante, cioè fuori del tempo (nell'eterno). Questa unione è perfetta poiché comporta un terzo Uno, come apprendiamo anche e più esplicitamente dal Timeo.

Ma non è possibile che due cose sole si compongano bene senza una terza: bisogna che in mezzo vi sia un legame che le congiunga entrambe. E il più bello dei legami è quello che faccia, per quant'è possibile, una cosa sola di sé e delle cose legate: ora la proporzione compie questo in modo bellissimo. Perché quando di tre numeri o masse o potenze quali si vogliano, il medio sta all'ultimo come il primo al medio, e d'altra parte ancora il medio sta al primo, come l'ultimo al medio, allora il medio divenendo primo e ultimo, e l'ultimo e il primo divenendo a lor volta medi ambedue, così di necessità accadrà che tutti siano gli stessi, e divenuti gli stessi fra loro, saranno tutti una cosa sola.30

Il terzo 'elemento', questo terzo Uno, presentato nel Parmenide, non potrà essere che il Bene, poiché esso 'unisce e abbraccia ciò che unisce', come sappiamo. Siamo dunque in presenza di un Assoluto dalla 'struttura' triadica, 'composto' com'è dall'Uno in sé, dall'Uno Essere, dall'Uno Bene. Riassumendo, diciamo che Platone nel dialogo dedicato al grande Eleate mostra che l'Essere parmenideo è, sì, "l'essere che è e non può non essere", e che esso è l'oggetto proprio dell'intelletto sul quale 'scorre' la ragione dianoetica, ma che anteriormente a esso vi è l'Uno in sé, che rende uno l'Essere. Queste due realtà assolute, ripetiamo, la prima infinita, la seconda infinita e finita, dunque con caratteri parzialmente opposti, sono uniti da un terzo Uno che 'le unisce e le abbraccia', e che è il Bene.

A questo punto, possiamo forse comprendere, prima ancora di prendere in considerazione la teoria della partecipazione, come l'identico dell'anima e gli elementi finiti dei corpi derivino per Platone dall'Uno Essere, mentre il diverso e l'elemento infinito derivino dall'Uno in sé, e come essi vengano uniti dal terzo Uno, o Uno Bene, che 'li unisce e li abbraccia'. Il principio assoluto, che secondo Platone dà origine alle anime e ai corpi, è per ciò un principio 'trino', come 'trina' è la loro struttura, la struttura delle due realtà generate.

Che poi Dio sia per Platone Uno in tre Persone, reali e distinte, può essere compreso solo che si leggano con attenzione i suoi scritti. Ma prima di tutto, dal punto di vista del suo parlarne indirettamente, è evidente che non si comprenderebbe la sua reticenza se si trattasse di un 'principio di tutte le cose' alla maniera dei presocratici, perché già erano state date diverse e profonde soluzioni al problema, che in qualche modo circolavano liberamente; anche se si fosse trattato di un Dio unico, generatore di dèi, uomini e cose.31 Questo non avrebbe comportato né scandalo né difficoltà; ma il sostenere che l'Uno assoluto è Uno proprio perché è Tre, ed è Tre perché soltanto Tre formano l'Uno assoluto, e inoltre, benché assieme formino un unico Dio, ciascuno è anche Dio a sé, questo è veramente di difficile comprensione per ogni uomo, non soltanto per gli ascoltatori di Platone.32

Come abbiamo visto, la teorizzazione dialettica da lui compiuta si trova nel Parmenide, mentre in altri dialoghi troviamo a riguardo approssimazioni o espressioni importanti o sforzi di chiarificazioni parziali. Nella Lettera II, ad esempio, Platone accenna a tre 're', alludendo alle tre Persone divine. Egli si esprime così: «Tutto sta intorno al re del tutto, e tutto è per esso; e tutte le cose belle sono da esso; le cose seconde stanno intorno al secondo; le terze al terzo. Or dunque l'anima umana tende a conoscere com'esse sono e guarda alle cose che le sono affini, ma di queste nessuna è bastevole. Per quanto riguarda il re e le cose che ho dette, nulla c'è di simile. Allora l'anima si domanda: "Di che specie sono? "»33

In un'altra lettera egli parla di un dio che è guida, di un dio che è causa, e di un dio che è padre di entrambi, esprimendosi con queste parole: « [...] giuratelo in nome del dio ch'è guida di tutte le cose presenti e future, e del padre signore della guida e della causa, che noi tutti conosceremo, se saremo davvero filosofi, per quanto è dato ad uomini beati».34 Questa precisazione è molto importante, se si tiene conto che per Platone la 'causa' dell'esistenza delle cose è di ordine intellegibile, è cioè l'essere, mentre la 'guida' è il Bene. Quanto al 'padre', che qui viene detto anche «signore», Platone gli riconosce una anteriorità assoluta, che è quella dell'Uno in sé. Ugualmente, il 'primo re' della Lettera II ha un rilievo maggiore rispetto al secondo e al terzo, e ad esso si attribuisce la bellezza delle «cose belle», così come nelle triadi ricorrenti nei dialoghi la 'bellezza' è sempre presentata al primo posto.35

Inoltre, mentre nel Sofista si afferma che l'Essere assoluto non può essere privo di 'moto, vita, anima e intelletto',36 nel Cratilo, fingendo una ricerca etimologica che di fatto è del tutto infondata, accenna alla derivazione di Zeus da Crono, e di Crono da Urano, intesi come 'vita' (Zeus) di una 'mente pura' (Crono) derivante da 'ciò che è alto' (Urano).37 Anche qui abbiamo 1. "ciò che è alto"; 2. la "mente pura"; 3. la "vita", come ciò che si muove tra le due realtà precedenti, e le 'abbraccia'.

Abbiamo già ricordato che per Platone il Bene è il Primo Amico 'che rende amiche tutte le cose', e 'le unisce al proprio fine e le abbraccia': aggiungiamo ora che nel Filebo, non riuscendo Socrate a determinarlo con un unico termine, lo presenta mediante tre: «Se dunque noi non possiamo cogliere ed esaurire il bene in una sola nota caratteristica, comprendendolo sotto tre di queste, bellezza, proporzione e verità, affermiamo che a tutto ciò come ad una sola unità possiamo con massima correttezza attribuire la causa di ciò che avviene nella mescolanza e che quest'ultima per virtù di tale unità, che noi conosciamo come bene, risulta quello che è».38 Anche in questo passo troviamo tre realtà: la bellezza, la verità, la proporzione.

È noto poi che Platone molto spesso accenna a tre idee, presentate come il vertice assoluto di tutta la realtà. Queste idee, pur con qualche variante, sono quelle di 'bellezza', verità' ('giustizia' o 'essere'), 'bene'. Per ognuna di esse occorrerebbe fare un discorso particolare, poiché, essendo i principi da cui derivano all'anima il diverso, l'identico e il misto, sono anche le mete di tre sentieri che si dipartono dall'anima e che tendono a condurla ad un'unità non indifferenziata, ma distinta e tuttavia indissolubile. Si tratta di un fine che si può conseguire perfettamente soltanto nell'altra vita, quando l'anima che ne sarà stata degna, contemplerà il 'mare sterminato della Bellezza in sé' e l'Intellegibilità nella sua interezza, in una vita immortale 'fissata' dal Bene.39

Le tre idee di Bello, Vero, Bene, non sono né identiche tra loro né espressione l'una dell'altra. Il Bello è padre del Bene, insinua Socrate scherzando nell'Ippia maggiore, ma essi non sono la stessa cosa; e ciò vale anche nei confronti del Vero.40 Occorre ad ogni modo saper cogliere le allusioni platoniche, soprattutto quando riguardano un tema tanto difficile. Nel Sofista, ad esempio, sono presentati i pensatori che sostengono esservi tre principi di tutte le cose, o due o un solo principio. Il protagonista del dialogo discute le tesi dei monisti e dei dualisti, ma tralascia quella dei trialisti. Egli li aveva presentati con queste parole: «Ciascuno di questi mi pare ci racconti una favola, quasi fossimo bambini; uno dice che l'essere in quanto tale è tre cose e talvolta alcune di queste combattono fra loro in qualche modo, talaltra divengono amiche e fanno nozze, generano figli ed altro che sia ai figli di nutrimento».41

Se noi osserviamo attentamente la frase, scopriamo che egli parla di una triade della quale due elementi sono in contrasto tra loro (hanno caratteri opposti, come appunto l'Uno in sé e l'Uno Essere), ma sono anche uniti (nell'Uno Bene); generano figli (anime) 'ed altro che sia loro di nutrimento' (i corpi).

Nel Timeo inoltre troviamo un vocativo, pronunciato dal Demiurgo alle altre divinità, che suona così: «O dèi, figli di dèi, io sono il vostro artefice e padre».42 Ora, dichiarando di essere il loro artefice e padre, il Demiurgo attribuisce a sé il plurale del genitivo che si trova nell'espressione «figli di dèi»: essi sono tutti figli del Demiurgo stesso, il quale, si dice sempre nello stesso dialogo, genera l'anima formandola di identico, diverso e misto, come abbiamo visto, e il Cosmo ugualmente costituito di tre elementi.43 L'espressione, ad ogni modo, sembra alludere alla 'struttura' triadica del Demiurgo: egli è uno (Dio), ma anche (tre) 'dèi'.

Ma torniamo ai tre termini ricordati: Bellezza, Essere (Intellegibilità o Verità), Bene. Come abbiamo detto, essi sono le mete di tre sentieri che l'anima deve percorrere se vuole giungere alla felicità eterna. La Bellezza si presenta come una forza che attrae l'anima mediante quei 'deliri divini' che l'attirano 'fuori di sé', cioè al di sopra di sé, rendendola 'alata',44 perché ciò che è bello mostra nella propria 'unità' la possibilità di un'unione di sé con l'individuo che la contempla. Così è per la visione di un corpo bello, al quale ci si vorrebbe unire per generare; così è per la visione dei livelli superiori: dell'anima, delle sue virtù, della conoscenza, della Bellezza in se stessa.45 Si tratta di un'attrazione che la Bellezza esercita sull'anima ai diversi livelli della 'scala della bellezza',46 perché l'anima si accorga di quanto la Bellezza desideri la propria unione con lei.

Giunto a questo vertice, l'anima contempla il 'vasto mare della Bellezza'; e il desiderio di generazione, che era presente già nel primo gradino, diviene desiderio di generare dentro di sé il Bene per un possesso eterno. È la generazione della propria immortalità mediante l'unione di quella parte dell'anima che è il diverso con la Bellezza in se stessa (Uno in sé), da cui il diverso deriva. In altri termini, il diverso, trovato il proprio fondamento, vi si lega in una contemplazione del 'padre' ('della causa e della guida') che è senza termine. Analogo è il rapporto tra identico e Intellegibile, tra misto e Bene.

Queste mete si raggiungono soltanto nella subordinazione al Bene, poiché non si deve «perseguire [...] una visione del bello con uno scopo diverso da quello del bene».47 Ora, ci si subordina al Bene tramite il Vero, raggiunto in due modi diversi: o seguendo la razionalità nella coerenza dei suoi passaggi dialettici, e cioè con la conoscenza; o mediante la semplice opinione rispondente al vero, cioè la giusta opinione. La prima possibilità è la più difficile da attuare, ma è anche la più perfetta ('la via regale'); la seconda è quella seguita dalle persone giuste. In ogni caso, il punto di riferimento è il Vero, l'Essere Intellegibile, fondamento dell'identico dell'anima. Esso è l'oggetto proprio dell'intelletto, al quale questo tende, poiché è l'Intero Vero che dà interezza alla conoscenza, ma soprattutto dà essere all'anima, poiché l'Intellegibile è Essere.

Conseguita la Verità, nella sua totalità essenziale o nella sua parzialità relazionale rispetto alle cose, l'azione che si informa ad essa realizza un bene oggettivo, ma anche del soggetto, che si avvicina sempre più al Bene, e sempre più si assimila ad esso.

Diverso e identico (cioè immaginazione e intelletto) 48 per ciò, nell'unione e contemplazione dell'Uno in sé e dell'Uno Essere, ne hanno una fruizione che 'muove' l'Uno Bene alla unione dei due Uno nell'anima, dandole quella perfezione beatificante di cui essa è capace. La Divinità si insedia in tal modo nell'anima perché l'anima è 'strutturata' per contenerla; e la Bellezza, la Verità e il Bene risplendono in essa per quanto è stata in grado di sollevarsi a 'ciò che è puro'.49 Ciò che Dio opera nell'eternità dentro di Sé ad intra, opera in ciascun'anima ad extra, nel tempo, prima generando le anime, poi in ciascuna di esse determinando quella beatitudine di cui non è geloso, poiché Egli 'non era invidioso'.50 L'unione che si attua nella generazione dell'anima è un'unione iniziale che tende alla propria perfezione attraverso il gioco di nessi e legami tra identico, diverso e misto, in modo che, tramite il misto, i due estremi si rapportino tra loro, si rispecchino a vicenda e si compenetrino, nell'arricchimento dell'esperienza dell'esistenza.

Nel misto la credenza e la ragione discorsiva permettono di fissare nell'individuo l'opinione retta e la conoscenza scientifica; ma sono l'immaginazione e l'intelletto le facoltà dialettiche che permettono che si formino in lui da una parte le idee e dall'altra le sensazioni: le idee, sempre identiche; le sensazioni, sempre diverse. Si crea così nell'anima un dinamismo che per sua natura dovrebbe far salire la persona dal piano delle sensazioni a quello delle opinioni vere, da questo a quello della conoscenza, per giungere alla fine al piano dell'intellezione dell'arché, del Principio, dell'Assoluto.

* * *

Dalla concezione platonica del Bene noi traiamo elementi di riflessione sulla Trinità divina della fede cristiana, poiché riusciamo a meglio comprendere le relazioni tra le tre Persone. Esse, in quanto Persone, sono dei soggetti i cui oggetti possiamo determinare così: l'oggetto proprio del Padre è l'Intellegibilità del Figlio e l'Amore ('Amicizia') dello Spirito Santo; l'oggetto proprio del Figlio è la Bellezza del Padre e l'Amore dello Spirito Santo; l'oggetto proprio dello Spirito Santo è la Bellezza del Padre e l'Intellegibilità del Figlio. In questo modo, in ciascuna Persona circola la vita di tutte, e ciascuna è Dio perché è una Trinità e un'Unità: quello che è di una Persona è delle altre, e ciascuna è triplicemente ricca. Così, pur essendo ciascuna Persona distinta dalle altre, non è inferiore né superiore alle altre: ciascuna, contemplando e fruendo delle altre, le fa proprie.51 Ciascuna Persona ha 'davanti' a sé le altre due, e contemporaneamente le ha in sé come 'Oggetti' interiori, in modo che ogni Persona risulta in sé completa.

D'altra parte, la loro distinzione comporta una 'superiorità' di ciascuna sulle altre, che non è assoluta e tuttavia è reale: del Padre, come principio generante, del Figlio, come Essere, dello Spirito Santo, come unione. L'unità di Dio è garantita proprio da questa distinzione delle Persone, la quale poi è tale fuori di una successione temporale, poiché in nessun tempo sarebbe possibile che 'prima' il Padre generasse il Figlio, e poi lo Spirito Santo, spirando da Essi, li unisse. La loro distinzione è eterna, ed eterna è l'unità di Dio.52

Platone, con uno straordinario uso della dialettica, nelle prime ipotesi del Parmenide, quelle relative all'uno, ha cercato di cogliere e sondare le ricchezze dell'uno in sé e dell'uno che è, e ha mostrato come essi siano uniti da un terzo uno, così che «divenuti gli stessi fra loro, siano tutti una cosa sola».

Prima ancora che sorgesse il Cristianesimo, il quale proclamerà che Dio è Uno e Trino in tre Persone, la Provvidenza divina aveva permesso che la ragione umana giungesse a cogliere questo mistero affinché il Verbo nascesse in una 'pienezza dei tempi' dalla quale non restasse esclusa quella pienezza dell'umanità in cui si sarebbe incarnato, umanità che doveva sviluppare la propria razionalità in modo da mostrare come il mistero trinitario non sarebbe stato senza fondamento razionale.

Che la filosofia medio-platonica e neo-platonica abbia contribuito alla elaborazione dogmatica del mistero della Trinità è indiscutibile; ma è altrettanto indiscutibile che nessuna corrente filosofica antica, medievale e moderna ha compreso il pensiero platonico tanto da contribuire realmente alla sua formulazione e meno ancora alla sua proclamazione; così che si può affermare che l'annuncio trinitario fatto da Gesù di Nazareth («Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo», Mt 28 19) è del tutto indipendente dalla scoperta fatta dal pensiero greco, come è indipendente dal suo successivo sviluppo. Gli equivoci interpretativi in cui è caduta l'esegesi platonica lungo i secoli ne sono la prova.

2. La teoria platonica della partecipazione e l'Incarnazione del Verbo

Nei dialoghi platonici pare ci sia una oscillazione di pensiero relativa al rapporto tra 'cose' e 'idee': Platone parla di imitazione delle idee da parte delle 'cose', di partecipazione delle 'cose' alle idee, con una indifferenza che lascia disorientati i lettori e gli studiosi. In realtà, egli dà continui motivi di riflessione, diversi in ogni occasione; e quando alla fine decide di dar luogo ad una esposizione di quella che si può chiamare la 'teoria della partecipazione', egli nel Parmenide la presenta sotto l'apparenza di una critica ad essa; e come critica è sempre stata interpretata.53

È nel Parmenide infatti che Platone espone per bocca del filosofo di Elea il completo schema di questa teoria, come pure l'analisi dialettica sui quattro piani di realtà che in parte abbiamo visto: di Dio, degli dèi, dell'anima, dei corpi. Rimandando per quanto riguarda l'insieme dei problemi che suscita questo dialogo al commentario da me scritto,54 schematizzo la teoria come segue:

  1. l'intellegibile (idea o forma separata) può essere partecipato in due soli modi: o per l'intero o per la parte;55
  2. l'intellegibile può presentarsi nelle 'cose' in modo che ciascuna risulti o un 'pensiero pensante' o un 'pensiero pensato' ('non pensante');56
  3. l'intellegibile può presentarsi nelle 'cose' o come una 'nota caratteristica' (presenza) o come una sua 'copia' (imitazione).57

Come si vede, si tratta sempre di coppie di possibilità, che vanno mantenute distinte secondo i due diversi tipi di rapporti fondamentali: partecipazione per l'intero e partecipazione per la parte. Occorre però capire preliminarmente che la doppia forma di partecipazione non riguarda il rapporto di una qualsiasi 'cosa' ad un'idea, presa nella sua interezza o in una sua parte, come comunemente si interpreta, ma sempre all'Intellegibile sommo, partecipato appunto secondo queste due possibilità, poiché una qualsiasi particolare idea è sempre una parte dell'intero Intellegibile.

La spola, ad esempio, perde la propria funzione al di fuori dell'intero telaio in cui la svolge, e così ugualmente non è nulla l'idea di spola fuori dell'idea di telaio, né l'idea telaio fuori dell'idea di tessitura, né quella di tessitura fuori dell'idea di azione con arte.58 Esiste dunque un'Idea comprensiva di tutte le possibili idee: l'Intellegibile divino o Uno Essere. In questo modo, appare chiaro che la partecipazione per l'intero Intellegibile deve dar luogo ad un tipo di ente diverso da quello che deriva dalla partecipazione per la parte.

Nel primo caso, l'Intellegibile determina un ente che, per la 'nota caratteristica' che riceve, si presenta come un intero capace di 'riflettere' in sé le parti, cioè come 'pensiero pensante' idee particolari; mentre nel secondo, determina un ente che 'imita' una sua parte soltanto, e che appare come 'pensiero pensato', cioè non in grado di 'riflettere', ma di essere riflesso da un 'pensiero pensante'. I due diversi enti risultano per queste ragioni rispettivamente le anime umane, enti 'interi', e i corpi, enti 'parziali'.

Nella partecipazione per l'intero, la 'nota caratteristica' è l'identico (identico dell'intero Intellegibile) di cui è composta l'anima, il quale consente a questa una riflessione che rispecchia le parti dell'Intellegibile imitate dai corpi. Di contro, la partecipazione per la parte dà luogo ad un ente che 'imita' l'Intellegibile in un determinato numero di rapporti interni, che, presentandosi come qualità sensibili, vengono riflessi nell'anima come idee. In altri termini, la partecipazione per l'intero Intellegibile dà luogo ad un altro intero (l'identico) che ha in sé il doppio aspetto della soggettività e dell'oggettività razionale, mentre quella per la parte dà luogo ad una parte (elementi finiti del Cosmo) che ha in sé il solo aspetto oggettivo.

Lo schema è il seguente:

  1. partecipazione per l'intero
    1. nota caratteristica = identico
    2. pensiero pensante = anima
  2. partecipazione per la parte
    1. imitazione = qualità sensibili
    2. pensiero non pensante = corpo

Il rapporto tra intero e parti non è un rapporto statico, già compiuto, ma dinamico e progressivo: l'anima non nasce con una conoscenza innata ('mito' della reminiscenza), ma l'acquisisce mediante quell'identico che è la duplicazione dell'Intellegibile, poiché è un intero inizialmente privo di parti. 59 Le idee, poche o tante che l'anima si forma tramite i sensi, sono perciò sempre parti di quell'intero che è l'identico, sia che esse non vengano connesse in un tutto organico attraverso l'uso della ragione, ma restino semplici 'opinioni vere', senza determinarsi come 'conoscenza', sia che, al contrario, vengano connesse in un tutto organico attraverso l'uso della dialettica o della logica.

Ma noi sappiamo che l'anima umana è composta, oltre che di identico (intelletto), anche di diverso (immaginazione) e di misto (ragione discorsiva e credenza); e sappiamo pure che diverso, identico e misto derivano rispettivamente dall'Uno in sé, dall'Uno Essere (Intellegibile) e dall'Uno Bene. La teoria della partecipazione mette per ciò in rilievo come l'anima esista per la partecipazione all'intero Intellegibile, cioè all'Uno Essere, il quale 'si divide' da se stesso, secondo l'espressione platonica.60 L'identico di un'anima è qualcosa come un 'duplicato' del Logos divino, anche se inizialmente è di una povertà totale (di 'parti' intellegibili), quanto al contrario il Logos è la ricchezza infinita di intellegibilità.

D'altra parte, l'individualità propria di ciascun'anima è data dal suo ricevere l'unità dall'Uno assoluto che la rende una e unica rispetto alle altre; e l'individualità di ciascuno, a parte il corpo, è data da quel diverso che si concretizza come immaginazione, e nell'immaginazione è 'presente' l'Uno in sé, il quale, dice Platone, è presente in ogni 'suddivisione dell'Uno Essere'.61 L'immaginazione, facoltà di ricevere le immagini dei sensi, è la via d'ingresso di tutti quegli intellegibili (idee) imitati dai corpi, che costituiscono le parti dell'intero che è l'identico. Il misto (credenza e ragione discorsiva), è il legame stabilito dall'Uno Bene tra diverso e identico, cioè tra le immagini sensibili e gli intellegibili, promuovendo quella crescita di conoscenza e di coscienza che è il bene dell'anima.

Diverso, identico, misto, mentre costituiscono stabilmente l'anima, la rendono anche dinamica, viva; viva di una vita legata da una parte alle immagini dei sensi (qualità dei corpi) e dall'altra alle idee dell'intelletto. Platone, parlando del misto come essenza dell'anima, vale a dire 'legame' tra i due elementi estremi, sostiene che l'anima è immortale, non per se stessa, in quanto legame, ma per volere di chi ha legato identico e diverso. Nel Timeo così si esprime il Demiurgo parlando agli dèi da lui generati: «O dèi, figli di dèi, io sono il vostro artefice e padre, e le cose generate per mezzo mio non sono dissolubili, se io nol voglio. Tutto che è legato è dissolubile, ma il voler dissolvere quello che è ben congiunto e che sta bene è da malvagio. E però neppur voi, poiché siete stati generati, siete immortali, né interamente indissolubili, ma non sarete disciolti, né vi coglierà la sorte del morire, perché la mia volontà è per voi legame anche maggiore e più forte di quelli, da cui foste legati nascendo. »62 Ora, se neppure gli dèi sono 'indissolubili', a maggior ragione non lo sono le anime degli uomini. Dèi e uomini sono perciò immortali, ma non eterni, perché l'eternità è propria di chi esiste di per sé, e non è né generato né creato.

A questo punto dobbiamo però ricordare che Platone, accanto e sopra le anime umane, pone l'Anima del mondo, anch'essa composta di identico, diverso e misto: è di essa che Dio si serve per creare il mondo corporeo. L'Anima del mondo, con un'azione che implica un rapporto tra l'identico (intelletto) e il diverso (immaginazione), genera nella propria immaginazione le immagini (copie) in divenire di quei 'modelli' intellegibili che possiede nel proprio identico.63

Tutta la realtà sensibile è dunque una 'proiezione' nell'immaginazione dell'Anima del mondo degli intellegibili che essa possiede nel proprio intelletto; e tale realtà sensibile, attraverso gli organi di senso del corpo, viene riflessa nell'immaginazione dell'anima umana, e da questa facoltà rapportata all'intelletto che ne riconosce il fondamento intellegibile: l'idea. Da qui deriva la possibilità della ragione di costruire le scienze, poiché la «natura tutta è imparentata con se stessa».64

L'anima umana, chiusa nel 'carcere' del proprio corpo65 e all'interno della 'caverna' dell'immaginazione dell'Anima del mondo, mentre aspira alla propria unità, riceve sensazioni dall'esterno, si forma opinioni, giunge a conoscenze, chiamata com'è a salire a quell'apice che è l'intellezione del principio da cui deriva. Chi giunge a questo vertice conosce il Bene in sé, il Vero in sé, il Bello in sé e quanto da essi deriva. Egli viene a trovarsi fuori della 'caverna'. Questa condizione è a tal punto fuori del comune modo di pensare che Platone aggiunge queste considerazioni: chi volesse tornarvi per sciogliere i prigionieri che vi si trovano legati, per condurli fuori da essa, nella libertà e nella luminosità dell'Intellegibile, «Non sarebbe egli allora oggetto di riso? [...] E chi prendesse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non lo ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo? »66

È questo il tema del 'giusto impunemente schiaffeggiato' che Platone tratta nel Gorgia, dopo la drammatica esperienza siracusana presso il tiranno Dionigi il Vecchio.67 È il tema morale e politico per eccellenza: il filosofo, colui che ha conoscenza del Bene ed è in grado di insegnarla, è anche l'unico capace di reggere lo Stato, se si vuole che i mali abbiano fine.68 Ma contro costui si levano tutti per toglierlo di mezzo, poiché gli uomini per le loro passioni 'lottano tra di loro con zoccoli e corna di ferro', e non vogliono essere frenati e disciplinati.69

Eppure, tutta la scrittura di Platone e tutto il suo insegnamento accademico sono volti a orientare gli individui verso la giustizia e le altre virtù per vivere secondo la 'misura' di Dio;70 ed egli ne sente il peso schiacciante, tanto che nell'ultima sua grande opera si esprime così:

Ma c'è una cosa invece che ha molta importanza e cui è difficile persuadere, una cosa che potrebbe soprattutto essere un'opera della divinità, se mai fosse possibile che venissero da parte sua le dovute prescrizioni, mentre ora per questa cosa invece può darsi ci sia bisogno di un uomo audace il quale onorando soprattutto la libertà di parola dica ciò che gli appare miglior partito per lo stato e i cittadini, ordini e stabilisca ciò che è conveniente per le anime corrotte e conseguente a tutta la nostra costituzione, enunciando cose opposte alle più grandi passioni, senza aver l'aiuto di nessuno, da solo seguendo solo il suo discorso.71

Per bocca di Platone, in questo brano è trascritta l'invocazione dell'uomo, posto tra il bene, a cui aspira, e il male, in cui si trova:72 è l'invocazione razionale di un intervento divino che si concretizzi in una persona che, 'sola con la sua sola parola', abbia la capacità di salvare l'uomo dai mali che lo opprimono. A questa invocazione il Cristianesimo risponde che «il Verbo si fece carne, e abitò presso noi. » Questa espressione non avrebbe scandalizzato Platone: egli avrebbe trovato naturale l'accordo tra la parola della mente e quella rivelata, poiché la prima risponde alla possibilità della struttura stessa dell'Essere. Il Verbo, il Figlio di Dio, è l'Essere Intellegibile, causa dell'esistere delle cose esistenti: «tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste».73 Egli è l'Essere dell'essere delle cose. È quell'Intellegibile di cui le anime partecipano per l'intero; perciò, incarnandosi, «Egli venne tra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto».74 «In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta».75 Se Platone cercava di far salire la razionalità umana fino al Logos divino, al Verbo increato, il Verbo incarnato discendeva sino agli uomini; eppure entrambe le vie di salvezza vengono rifiutate per l'attaccamento degli individui alle 'tenebre' della caverna di questo mondo.

Ma si può spiegare platonicamente l'Incarnazione del Verbo divino? Per tentarlo, dobbiamo tornare a ciò che abbiamo già detto sui tre Uno.

L'Uno che è, diviso da se stesso dall'Uno in sé, e unito dall'Uno Bene allo stesso Uno in sé, nuovamente, ma esternamente, determina, come abbiamo visto, l'anima. Nella generazione di un'anima si attua ad extra ciò che Dio attua in se stesso ad intra: nella generazione delle anime questa unione si ripete indefinite volte perché accade nel tempo, mentre nell'intimità divina essa avviene un'unica volta perché avviene nell'eterno. Ripetiamo così: l'Uno in sé (il Padre) divide l'Uno Essere (il Verbo) dalle infinite ricchezze intellegibili che l'Uno Essere ha, e così spogliato di tutta la sua ricchezza, viene unito estrinsecamente dall'Uno Bene (lo Spirito Santo) all'Uno in sé, come se fosse una qualsiasi anima umana. In questo caso però l'anima non è un duplicato dell'Uno Essere, ma è l'Uno Essere stesso; l'identico di questa Anima è perciò divino, mentre il diverso e il misto sono quelli dell'anima umana. In questo modo, Gesù di Nazareth è vero Dio e vero uomo, poiché l'Anima stessa è divina e umana: divina nella facoltà superiore; umana in quelle inferiori. Il Verbo stesso, la Parola Intellegibile del Padre, si 'presta' ad un'azione ad extra, Egli diviene un'anima umana incarnata in un corpo, e inizia a vivere nel tempo: è l'eternità nel tempo; e il tempo particolare che l'accoglie diviene 'pienezza dei tempi'. Egli si spoglia della sua gloria infinita per farsi povero, e impara, attraverso il percorso del 'giusto impunemente schiaffeggiato' e dell'uomo crocifisso, la sapienza dell'uomo, in modo da poter dire alla fine: «E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse».76

Il Verbo divino, l'Essere Intellegibile, si è fatto identico: la Parola del Padre si è fatta intelletto di un'anima; e il Padre (l'Uno assoluto) ha dato la sua particolare individualità (il diverso), mentre lo Spirito Santo (l'Uno Bene) ha unito identico e diverso nel misto a formare un'Anima, unica e irripetibile; così che le due nature, quella divina e quella umana, sono unite a formare un'unica Persona, perché Persona è il Verbo increato, e Persona è ora il Verbo incarnato, garantita dal Padre e dallo Spirito Santo, sospesa tra il Padre e lo Spirito Santo: Gesù di Nazareth.

Non si tratta, dunque, di due nature unite in un qualche modo estrinseco, ma a tal punto da formare un'Anima, che è umana perché generata dal Padre ad extra, ed è divina perché il suo fondamento non è un identico dell'Intellegibile, ma l'Intellegibile stesso.77

Il Padre ha dunque nuovamente generato il Figlio, attraverso un 'fuori' che è dato dalla esteriorità corporea rispetto allo spirito. Questa 'esteriorità corporea' è il seno di Maria, la cui anima deve per ciò essere caratterizzata dalla presenza reale ('unione ipostatica', è stato detto da Giovanni Paolo II) del Padre (dell'Uno in sé) nel diverso.78

Nella Trinità divina, il Verbo incarnato si è vuotato di tutta la propria ricchezza, di tutta la propria gloria; e la Trinità è rimasta sospesa all'esito della storia del Verbo fatto carne: la storia di Gesù di Nazareth. In questo modo, nell'Incarnazione tutta la Trinità viene coinvolta nel tempo e nella carne: se il Verbo si è fatto carne, se cioè ha assunto l'umanità di un'anima legata ad un corpo, quest'Anima è essa ora che unisce il Padre e lo Spirito Santo. Da quel momento, quest'Anima, umana e divina, ha 'trasformato' il Verbo, e sta tra la Persona del Padre e la Persona dello Spirito Santo, 'arricchita' della nostra povertà umana. Questa unione fa sì che la stessa Trinità divina assuma la temporalità nell'eterno, senza che questo venga meno e perda il valore di fondamento del tempo, come fa sì che si possa affermare che lo Spirito 'gema con gemiti inenarrabili', e che il Padre non sia insensibile al grido dell'uomo, poiché non lo è stato al grido del 'Figlio dell'uomo'.79

Copyright © 2011 Rocco Li Volsi

Rocco Li Volsi. «Prefigurazioni e realtà della Trinità divina e della incarnazione del Verbo nel pensiero platonico». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [**70 B].

Note

  1. Ecco due passi che mostrano la difficoltà in cui veniva a trovarsi Platone davanti all'opportunità di parlare del Bene. «Sù, benedetti amici, lasciamo stare per il momento che cosa sia mai il bene in sé: mi sembra una cosa troppo alta perché possiamo raggiungere ora, con lo slancio presente, il concetto che ne ho io.» Resp. VI 506 d-e. «Ora dunque ecco quello che noi ci proponiamo di fare: intorno al principio di tutte le cose o ai princìpi o comunque si pensi di questo, non si deve parlare per ora, e non per nessun'altra ragione, ma perché è difficile manifestare con questo metodo di discussione il nostro pensiero. Non crediate dunque che io abbia a parlarvene, e neppure io potrei persuadermi che farei bene ad assumere tale còmpito.» Tim. 48 c. Tutte le citazioni sono tratte da Platone, Opere complete, Laterza, Bari 1971. Testo

  2. Phaed. 97 b-99 d. Testo

  3. La dialettica era stata seguita quasi spontaneamente dai presocratici, e in modo particolare utilizzata da Zenone. Proprio Parmenide, il maestro di Zenone, nel dialogo platonico intitolato al grande Eleate, mostra i limiti della dialettica zenoniana, mentre chiarisce come deve essere integrata (Parm. 135 e-136 c), e ne dà un esempio nella seconda parte del dialogo, applicandola all''uno'. Testo

  4. Parm. 136 e. Testo

  5. «[...] e ciò che è il bene, che è ciò che lega ogni cosa al suo fine, non pensano affatto né che veramente colleghi cosa veruna né che la contenga.» Phaed. 99 c. Testo

  6. «È dunque necessario che o noi ci stanchiamo ad andare avanti in questo modo o giungiamo ad un principio primo che non si riporterà ad un altro amico, ma giungerà a ciò che è l'amico primo, a causa del quale diciamo che tutte le altre cose sono amiche tra loro. -- Per forza. -- Questo è appunto ciò che volevo dire: badiamo che non ci traggano in inganno tutte quelle cose che diciamo essere amiche a causa di questo primo amico; esse sono sue immagini, mentre è lui soltanto, il primo, che in realtà è amico. [...] Per tutte quelle cose che ci sono amiche in modo relativo, evidentemente noi usiamo un termine improprio: in realtà mi sembra che sia vero amico ciò a cui fanno capo tutte le cosiddette cose amiche. [...] Dunque, ciò che è il vero amico, lo è in senso assoluto. [...] Ma questo amico si identifica col bene? -- A me sembra di sì. --» Lys. 219 c-220 b. Testo

  7. «Ma è difficile trovare il fattore e padre di quest'universo, e trovatolo, è impossibile indicarlo a tutti.» Tim. 28 c. Testo

  8. Parm. 133 b. Testo

  9. Il mio interesse per gli scritti platonici risale a oltre quaranta anni fa, ma solo terminati gli impegni d'insegnamento mi sono veramente dedicato a mettere per iscritto i risultati dei miei studi. Mi permetto per questo di elencare i miei saggi su Platone apparsi in riviste di filosofia, tralasciando altri che potrebbero venir pubblicati nel tempo: 1. Commentario al Parmenide di Platone (1997) [Edito in proprio 1997]; 2. Il sentiero della verità e dell'essere nel pensiero di Platone (1999) [Giornale di Metafisica 2000/1]; 3. Sulla cronologia dei dialoghi di Platone (2000) [Giornale di Metafisica 2001]; 4. L'assoluto e le differenze (2000) [Filosofia e teologia 2001]; 5. Il Sofista di Platone (2001) [Giornale di Metafisica 2002]; 6. Eternità e tempo in Platone (2002) [Sapienza 2003]; 7. La dottrina platonica del linguaggio (2002) [Sapienza 2004]; 8. La religiosità di Platone (2003) [Sapienza 2005]; 9. Il Filebo di Platone (2005) [Filosofia 2005]; 10. La concezione platonica dell'intero e della materia (2005) [Sapienza 2006]; 11. Il carme magico di Zalmosside (2003) [Dialegesthai 2006]; 12. La paideia platonica nel Teeteto (2004) [Sapienza 2007]; 13. Il Menone platonico e il 'mito della reminiscenza' (2006) [Dialegesthai 2007]; 14. I miti platonici della storia e del destino umano (2007) [Dialegesthai 2007]; 15. Il doppio fondo dell'Eutidemo platonico (2001) [Sapienza 2008]. Testo

  10. Questa 'reticenza' sta alla base della pedagogia e della didattica adottate da Platone nel suo insegnamento accademico, ed ha come fine lo sforzo personale di assimilazione della verità da parte di coloro che seguivano le sue lezioni. Il dialogo scritto, che, come sappiamo, veniva letto al ristretto pubblico accademico, era occasione di dibattito interno alla Scuola, ma certamente non poteva sostituire la parola orale del Filosofo, il quale nel Fedro distingue il valore e il carattere della parola orale dal valore e dal carattere della parola scritta. La 'discrezione' poi con cui si dovevano trattare certi problemi è ben sottolineata in un passo del Parmenide, quando Zenone sostiene: «È Parmenide, proprio lui, che dobbiamo pregare, o Socrate; badiamo che non è facile quello che egli propone: non ti rendi conto di quanto lavoro richiede? Ora, se fossimo in numero maggiore, non sarebbe giusto pregarlo, perché non conviene trattare queste cose davanti a molti, per molte ragioni e specie per chi ha l'età che lui ha; il volgo infatti ignora che al di fuori di questa strada che passa per ogni dove, di questo trascorrere di cosa in cosa, è impossibile fare in modo che la nostra mente incontri la verità.» Parm. 136 d-e. Testo

  11. Crat. 424 a. Testo

  12. Polit. 273 d. Testo

  13. Tim. 30 a. Testo

  14. Phil. 16 d. Testo

  15. Tim. 35 b. Testo

  16. Phil. 16 d. Testo

  17. Leg. X 894 a. Testo

  18. Ricordiamo che per Platone l'uomo è 'anima', di cui il corpo è lo strumento. V. Alc. I 129 c ss. La strumentalità del corpo umano si determina nella rispondenza tra gli organi di senso e le rispettive facoltà dell'anima: i primi, ovviamente, corporei; le seconde, puramente spirituali. V. Teeteto, 156 a, ss. Testo

  19. Tim. 35 a. Testo

  20. Theaet. 185 c-d. Per tutta questa parte, così schematizzata, v. Rocco Li Volsi, Il sentiero platonico della verità e dell'Essere, in Giornale di Metafisica Nuova Serie, XXII (2000) n. 3; XXIII (2001) n. 1. Testo

  21. Il Cosmo, tuttavia, nel suo insieme riceve un identico 'intero', scisso in infinite parti. Anima e Universo (l'insieme dei corpi) sono due interi che si fronteggiano; o meglio: l'anima è l'intero del quale gli intellegibili dei corpi sono le parti. Ma né l'anima né l'Universo hanno fondamento in se stessi, pur connessi tra loro come sono attraverso gli elementi che li costituiscono (diverso, identico, misto; elemento infinito, elementi finiti, qualità sensibili). Testo

  22. Parm. 142 b-143 a. Testo

  23. V. la seconda ipotesi del Parmenide (142 a ss). Per questo duplice aspetto l''uno che è' viene chiamato 'diade'. Parm. 143 d. Testo

  24. «E allora per nessun modo l'uno è. -- A quanto pare. -- Non è tale quindi da essere uno; se fosse uno infatti sarebbe e parteciperebbe all'essere, ma a quanto pare l'uno né è uno né è assolutamente, se bisogna proprio credere a questo discorso.» Parm. 142 e. L'Uno assoluto non 'è', nel senso che non esiste come Essere, e cioè Intellegibilità, in quanto l'Essere è una 'dualità', una "diade", aspetti che non competono all'Uno in se stesso. Testo

  25. Parm. 139 c. Testo

  26. V. la prima ipotesi del Parmenide (137 c ss). Testo

  27. L'uno che è della seconda ipotesi del Parmenide. Testo

  28. Ogni cosa infatti nasce sempre come 'un' intero, come viene affermato in Soph. 245 a ss. Testo

  29. Parm. 155 e-157 b. Testo

  30. Tim. 31 b-32 a. Testo

  31. Se la scrittura del poema di Eraclito e la segretezza della Scuola pitagorica costituiscono i precedenti immediati della reticenza che Platone mostra costantemente quando presenta un problema di rilievo, ciò non riguarda ancora la difficoltà relativa alla presentazione del 'principio' da lui teorizzato. Infatti, se tutta la scrittura dell'Ateniese ha un carattere formativo, volto cioè alla presentazione di elementi sui quali l'ascoltatore dell'Accademia doveva compiere un personale sforzo di acquisizione, il discorso su una Divinità assoluta, che sommasse in sé l'ápeiron di Anassimandro, l'uno di Pitagora, l'essere di Parmenide, l'intelletto di Anassagora, e si presentasse Una e nello stesso tempo Trina, non era più soltanto un discorso paideico: era un discorso di estrema difficoltà da fare e da ascoltare. Testo

  32. Riportiamo un aneddoto tratto dalla Vita di Platone di Diogene Laerzio: «Pur essendo tale, anche Platone fu tuttavia schernito dai comici. Teopompo almeno nell'Autochares dice così: Uno è nulla; due a mala pena uno: lo afferma Platone.» Diog. Laert. Vite dei filosofi, Laterza, 1975, p. 109. Testo

  33. Epist. II 312 d-313 a. Occorre fare attenzione al fatto che Platone afferma del primo re che "tutte le cose belle sono da esso", e noi vedremo tra poco che la bellezza caratterizza proprio l'Uno in sé. Senza questa precisazione i tre 're' potrebbero essere considerati rispettivamente Dio, l'Anima del Mondo e l'anima umana. In realtà, l'intera espressione allude ad una specie di circolarità così descrivibile: 1. attorno al primo re stanno il diverso dell'Anima del Mondo, il diverso dell'anima umana e l'elemento infinito dei corpi; 2. attorno al secondo re stanno l'identico dell'Anima del Mondo, l'identico dell'anima umana e gli elementi finiti dei corpi; 3. attorno al terzo re stanno il misto dell'Anima del Mondo, il misto dell'anima umana e le qualità sensibili dei corpi. Testo

  34. Epist. VI 323 d. Testo

  35. Ricorre spesso la triade di bellezza, verità, bene, o quella di bellezza, giustizia, bene. Ma ce ne sono altre. Testo

  36. Soph. 248 e. Testo

  37. Crat. 396 b. Poco prima, a proposito di Zeus, Socrate aveva affermato che «è come una vera e propria proposizione il nome di Dioév; e, separatala in due parti, alcuni ci serviamo di una parte, altri dell'altra; ed infatti alcuni dicono Zh%na, altri Diéa. Se però le due parti le congiungiamo insieme, allora mostrano la natura del dio, che è appunto, come diciamo, quello che il nome deve esser in grado di fare.» Crat. 396 a. 'Congiunte insieme', esse diventano un'unità soltanto nella determinazione di un 'terzo' che 'le unisce e le abbraccia'. Testo

  38. Phil. 64 e-65 a. Testo

  39. V. soprattutto il discorso di Diotìma nel Convivio, e il secondo discorso di Socrate nel Fedro. Testo

  40. Hipp. ma. 296 b-297 c. Testo

  41. Soph. 242 c-d. Testo

  42. Tim. 41 a. Testo

  43. Tim. 32 a ss. Testo

  44. V. Ione. Testo

  45. V. il discorso di Diotìma nel Convivio. Testo

  46. Symp. 210 e-211 b. Testo

  47. Resp. V 452 e. Testo

  48. Le facoltà dell'anima umana, rispetto ai suoi elementi, sono i seguenti: diverso = immaginazione; misto = credenza e ragione discorsiva; identico = intelletto. Resp. VI 509 d-511 e. Il processo conoscitivo va dall'immaginazione all'intelletto. Testo

  49. «Perché non è lecito a cosa impura toccare cosa pura.» Phaed. 67 a-b. Testo

  50. «Diciamo dunque per qual cagione l'artefice fece la generazione e quest'universo. Egli era buono, e in un buono nessuna invidia nasce mai per nessuna cosa. Immune dunque da questa, volle che tutte le cose divenissero simili a lui quanto potevano.» Tim. 29 d-e. Testo

  51. «Io e il Padre siamo una cosa sola.» Giov. 10 30; «[...] il Padre è in me e io nel Padre.» Giov. 10 38; «Chi ha visto me ha visto il Padre.» Giov. 14 9; «Tutto quello che il Padre possiede è mio». Giov. 16 15. Testo

  52. Platone aveva indicato nell'istante l'unione dell'Uno in sé e dell'Uno Essere. Testo

  53. La letteratura sul Parmenide è sterminata. Testo

  54. R. Li Volsi, Commentario al Parmenide di Platone, Treviso, 1997. Testo

  55. Parm. 131 a. Testo

  56. Parm. 132 c. Testo

  57. Parm. 132 a; 132 d. Testo

  58. Per l'idea di spola, v. Crat. 389 a ss; per le idee di azione con arte, v. Soph. 219 a ss. Testo

  59. L'anima infatti non è l'uno che è della prima ipotesi del Parmenide, ma l'uno che non è delle ipotesi cinque e sei (160 b-164 b): è un uno che deve diventare uno, e che non è mai veramente 'uno'; è un intero che non è mai veramente 'intero', ma deve conquistare la propria interezza attraverso l'acquisizione delle parti. Testo

  60. Parm. 131 c. Testo

  61. Parm. 144 e. Testo

  62. Tim. 41 a-b. Testo

  63. Si tratta di quell'Esemplare a cui guarda il Demiurgo nel mito del Timeo (27 d- 28 b; 30 c-d). Naturalmente non ha nessuna importanza che esista realmente quest'Anima o essa sia uno 'schema' di cui Dio si serve per creare il mondo. Testo

  64. Men. 81 c. Nel Menone Socrate, parlando della conoscenza come 'reminiscenza', così si esprime: «Poiché, d'altra parte, la natura tutta è imparentata con se stessa e l'anima ha tutto appreso, nulla impedisce che l'anima, ricordando (ricordo che gli uomini chiamano apprendimento) una sola cosa, trovi da sé tutte le altre, quando uno sia coraggioso e infaticabile nella ricerca.» Men. 81 c-d. E più avanti, mostrando che, parlando di conoscenza come reminiscenza, lo faceva in termini mitici, chiarisce così la cosa: «Ma proprio in questo, compagno Menone, consiste l'anamnesi, quella reminiscenza su cui sopra ci siamo accordati. Se collegate, esse [le opinioni vere] dapprima divengono scienze e, quindi, cognizioni stabili.» Men. 98 a. E se, inoltre, questo 'collegamento' giunge, tramite la dialettica, sino al fondamento dell'intelletto (al suo oggetto), si ha la conoscenza del Principio logico e ontologico: l'arché. Testo

  65. Phaed. 62 b. Testo

  66. Resp. VII 517 a. Testo

  67. Gorg. 486 c. Testo

  68. Resp. 473 d-e. Testo

  69. Resp. IX 586 b. Testo

  70. «Il dio è per noi la massima misura di tutte le cose, molto più di quanto lo possa essere un uomo, come invece dicono ora.» Leg. IV 716 c. Testo

  71. Leg. VIII 835 c. Testo

  72. Lys. 217 a ss. Testo

  73. Giov. 1 3. Testo

  74. Giov. 1 11. Testo

  75. Giov. 1 4-5. Si ripete ad un livello ben più alto quello che era accaduto a Platone e soprattutto a Socrate: è sempre 'il giusto impunemente schiaffeggiato' la figura del perseguitato dalla folla ignorante. Diceva Socrate nel carcere all'amico Critone che lo invitava a fuggire: "Riguardo poi a quelle considerazioni che tu fai e sullo spender denari e su quello che dirà la gente e sul modo di allevare i figlioli, bada che più veramente, o Critone, codesti non siano i soliti modi di ragionare del volgo, di quei tali, dico, che con facilità mandano a morte e con la stessa facilità risusciterebbero in vita se ne fossero capaci, e sempre senza nessuna ragione al mondo." Crit. 48 c. 'Sempre senza nessuna ragione'. Testo

  76. Giov. 17 5. Testo

  77. Così, l'unicità della Persona, nella duplicità delle nature, è data da un'Anima che può essere di per sé anche l'Anima del Cosmo di cui parla Platone, poiché, nella concezione platonica, essa media l'opera di Dio, benché non convenga spingere troppo il confronto. Testo

  78. È da tener presente che per Platone il diverso, che deriva dall'Uno in sé, caratterizza più la donna, mentre l'identico, che deriva dall'Uno Essere, caratterizza più l'uomo. Testo

  79. La gloria più alta della natura umana è quella di aver generato, per volere di Dio, un 'proprio' figlio che ha natura divina, generato dal Padre attraverso il volere e il corpo della vergine Maria. O, forse con maggior precisione, il Padre e Maria hanno generato, ciascuno per la propria parte, le due nature dell'unica Persona di Gesù. Testo

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