Salta il menù

La Vita assoluta. Michel Henry tra fenomenologia e cristianesimo

di Ivano Liberati (Roma, 26-28 maggio 2011)

1. Fenomenicità della vita come modalità manifestativa dell'invisibile

Nel 1996 viene pubblicata C'est moi la verité (Io sono la verità) testo che segna un passaggio importante all'interno della filosofia henryenne: il tema del cristianesimo costituisce l'oggetto di una trattazione diretta, dopo lavori dedicati a tematiche principalmente fenomenologiche, nelle quali compaiono riferimenti sporadici ma significativi al cristianesimo, si pensi al titolo originario dell'Essence1 che doveva intitolarsi L'essenza della rivelazione poi divenuto l'Essenza della manifestazione, in effetti il titolo anticipa molto sul tema cardine dell'intera speculazione e sull'interesse che si concretizzerà nella trattazione di temi quali la rivelazione del Cristo e la sua incarnazione. In ambito francese questo avvicinamento tra fenomenologia e teologia non ha mancato di suscitare perplessità e aperte polemiche, riferite a un gruppo di studiosi, Levinas, Henry, Marion solo per citarne alcuni ai quali si imputa la nota «svolta teologica» della fenomenologia francese. Senza entrare nel merito della disputa, il dato che emerge è l'attenzione costante e crescente in Francia per quei problemi fondativi, ultimi, che segnano un punto di partenza importante nell'articolazione del nostro discorso per un duplice ordine di motivi: è la fenomenologia, anche nella sola accezione metodologica, che fa da minimo comune denominatore tra questi pensieri, per certi versi opposti, e soprattutto è sempre più frequente che ricerche filosofiche si ritrovino a convergere in temi più squisitamente legati alla rivelazione religiosa. L'analisi proposta cercherà di operare alcuni rilievi proprio sul tema della manifestazione/rivelazione tentandone un'esplicitazione a partire dalla metodologia propria alla fenomenologia della vita proposta da Henry. Prima di tutto possiamo dire che nella sua filosofia non si assiste ad alcuna svolta di pensiero, la questione della rivelazione è sempre stata al centro degli interessi filosofici dell'autore che non intende avanzare pretese direttamente teologiche. La sua speculazione resta dall'inizio alla fine filosofica, ma di fatto si articola in una mirabile cooperatività tra fenomenologia e teologia e allo stesso tempo il frutto delle sue indagini offre materiali significativi sia per quanto attiene alla modalità manifestativa dei fenomeni che si scoprono in una possibile implicazione di significato con quei temi più spiccatamente teologici. A questo punto sono indispensabili alcune premesse volte a garantire una intelligibilità minima del sostrato ontologico, in un senso heiddegeriano, e fenomenologico in senso cartesiano dal quale prende avvio l'analisi henryenne nelle pagine iniziali dell'Essenza della Manifestazione. La proposta di Henry viene a caratterizzarsi come un'ontologia fondamentale, benché di segno diverso da quella heideggeriana2 in cui il soggetto esiste come rapporto, ovvero come apertura di un orizzonte trascendentale nel quale si struttura la relazione soggetto-oggetto. Occorre affermare che l'essere stesso è la verità, non come verità della trascendenza, ma in un altro modo, coessenziale all'Io, nel quale sia possibile cogliere fenomenologicamente il fondamento stesso della manifestazione-rivelazione, da non intendersi come un «principio metafisico». Se l'ontologia è possibile come fenomenologia, ora il problema è chiarire come l'essere diviene fenomeno, come può un ego dispiegarsi fenomenicamente. Quando Henry parla di ego non lo intende come «essenza» ma come «vita particolare, reale»,3 non come «una regione dell'essere» ma come l'essere stesso: il fenomeno non è ciò che pensa la coscienza, l'oggetto dell'apparire, il fenomeno è l'atto stesso dell'apparire, Husserl lo intese come riduzione trascendentale e riduzione eidetica, mentre per Henry si tratta di un unicum:

La fenomenologia è ciò che ci dà l'accesso al fenomeno inteso nella sua realtà [...] . Ma la via d'accesso al fenomeno è il fenomeno stesso. La fenomenologia ci si propone come un mezzo, il mezzo di avvicinarci all'essenza concreta e vera, all'essenza della presenza, all'assoluto in quanto Parusia.4

Ma in che modo un fenomeno è via d'accesso a se stesso? Questo è l'interrogativo costantemente formulato e rimodulato nell'intera opera filosofica di Henry, compresi quei testi rivolti alla fenomenicità dispiegatesi nella rivelazione cristiana, al quale fanno riferimento i due poli argomentativi forti della sua riflessione: la vita, da intendersi come rivelazione immanente, radicalmente passiva che poggia su di una affettività trascendentale, che si contrappone a un «monismo ontologico» riferito costantemente a un formalismo dell'apparire che si caratterizza come una proiezione rappresentativa, quindi noematica, d'oggetto, nel quale l'esteriorità (ek-stasi) e la dis-affettività costituiscono la modalità d'indagine rivolta a una chiara e distinta percezione di oggetti in generale che possono giungere a fenomenizzazione solo ed esclusivamente nella messa a distanza, nella venuta in una luce rischiarante, che diventa il senso del rapporto tra soggetto e oggetto, ovvero l'esser-ci come soggetto ontologico che si costituisce nell'orizzonte di una visibilità mondana che ne garantisce la effettiva oggettività ed esistenza. La distanza che implica a sua volta una differenza, garantisce una «forma per la conoscenza», questo è un risultato non contestabile sul quale si edifica gran parte dei principi assiologico-formali della scienza moderna inauguratasi a partire dal metodo galileiano, che però a detta di Henry lasciano il loro fondamento del tutto non problematizzato, al fondo ci troviamo ad utilizzare una scienza che non è in grado di fondarsi in un senso definitivo e non si pone la questione della legittimità del proprio metodo in modo radiale. Si tratta di un presupposto gnoseologico e ontologico esplicitabile in questi termini: dove qualcosa appare, dove un'esperienza si compie, lì è rispettata la condizione di possibilità del fenomeno in senso stretto, la separazione (alienazione) della soggettività dalla realtà oggettiva manifesta. Il fenomeno viene posto ad una giusta distanza; da non intendersi come distanza esistenziale (nel senso heideggeriano). È questo porre a distanza, a determinare uno sdoppiamento dell'essere, che di-viene fenomeno solo nella posizionalità che deve assumere per essere sé, lontano da sé: il dualismo tra l'essere e la sua immagine, l'impressione intenzionale, costituisce in un senso ultimo la struttura interna della fenomenicità. Più in generale l'istituzione di tale distanza viene a determinare la coscienza tout court che si rap-presenta come un atto di separazione dall'essere, un porsi a distanza che si concretizza in una opposizione permanente e significante: «il sorgere stesso della coscienza appare contemporaneamente al dispiegarsi di una distanza».5 Una soggettività in generale si realizza nella scissione, come altro da sé per poi ritornare a sé (implicita una critica all'idealismo e a Hegel). Lo scenario che si configura è quello di un'opposizione di soggetto e oggetto, in cui il soggetto designa «l'evento ontologico che fa accedere l'ente alla condizione di oggetto, ossia di fenomeno per noi».6 Se la condizione ontologica del soggetto è quella di far avvenire l'oggetto, ne deriva che il soggetto non ha esistenza fuori da tale rapporto, è in se stesso tale rapporto. La trascendenza del mondo fa tutt'uno con la sua soggettività, il soggetto non è più niente in sé, ma risulta unicamente come «l'apertura del campo trascendentale». Questa diviene l'essenza della manifestazione in regime di monismo ontologico, qualcosa che risiede in ogni caso nell'esteriorità come tale, esteriorità che diventa necessaria affinché una manifestazione in generale sia possibile e implichi una netta discriminazione di ogni possibile fenomenicità legata a una sfera di pura interiorità come quella che per Henry rappresenta in un senso generale il fenomeno patico della vita che opera e compie la propria manifestazione seguendo presupposti fenomenologici del tutto irriducibili alla visibilità dell'ente, ad una visibilità che si getta in un dehors che si cristallizza come condizione di possibilità trascendentale di ogni fenomeno e suo modo proprio di manifestazione. Per Henry la Vita assoluta, che si traduce con la divinità cristiana, il Padre, non rientra in una siffatta fenomenicità e non può in nessun modo essere descritta da un pensiero che si pensa ponendosi costitutivamente come immagine di una realtà che non ha mai un'aderenza completa a sé, non inerisce mai un soggetto che è prima di tutto dato a sé nel potere assolutamente originario di un «essere affetti» da qualcosa che ne determina la possibilità di ricevere qualsiasi impressione; il soggetto diventa una realtà di primo grado e in quest'affettività trascendentale si può situare un rapporto strettissimo con la vita che è da intendersi come «un provare se stesso»: l'essenza stessa della vita è questa immediatezza auto-affettiva da cui la soggettività riceva in ogni istante se stessa come vita «donata a sé». È a partire da queste analisi che da un lato si arriva a comprendere un aspetto paradossale della fenomenicità, che implica come propria possibilità manifestativa questa duplicità che si articola nella coppia invisibile/visibile: alla Vita assoluta appartiene costitutivamente una capacità manifestativa che si esplica nella assoluta aderenza a sé, in una fenomenicità invisibile che non solo ci rende intelligibile il senso di una radicalizzazione della riduzione inaugurata da Descartes nel videor e ripresa da Husserl in una prospettiva intenzionale come «coscienza di», ma ci impone effettivamente di problematizzare il senso e la legittimità di una «fondazione» in generale che diventa pre-condizione inespressa e non problematizzata per una effettiva fondazione della fenomenologia e della conoscenza in generale che Henry situa in un ambito del tutto divergente dalle dinamiche speculative su cui si edifica l'esperienza scientifica di fatti così come descrive superbamente Husserl. È nell'immanenza radicale e invisibile della vita che è in grado di auto-fondarsi il punto focale su cui dirigersi in un movimento di ritorno, questa possibilità offerta dalla Vita assoluta si configura come unica condizione di possibilità trascendentale per ogni intelligibilità mondana, per ogni pretesa oggettività-esteriorità che pone la propria possibilità nel rapportarsi a sé nel medium di una scarto da sé. È a partire da questi aspetti che ora è possibile intraprendere una ulteriore analisi che ci permetta di comprendere il senso fenomenologico che Henry attribuisce ad alcuni aspetti fondanti il cristianesimo, per esplicitarne delle potenzialità che potrebbero rendere meno delittuosa la convergenza intercettata dalla fenomenologia della vita, con la fenomenicità legata all'incorporazione del Cristo, tema d'indagine proprio della teologia.

2. Vita assoluta e carne impressionale. Il dogma trinitario riletto a partire dalla fenomenologia materiale

Henry legge il cristianesimo libero da preoccupazioni di ordine dogmatico e dottrinale, il suo è un gesto che vuole accostarsi al senso della rivelazione cristiana come se fosse la prima volta, e ciò è possibile operando quella riduzione radicalizzata, che segna già un punto di cesura con la fenomenologia tradizionale, al fine di mettere tra parentesi la tradizione e ritornare «alle cose stesse», a quella verità di cui si fa portatore il messaggio cristiano nell'affermazione che il Cristo pronuncia su di sé: «Io sono la via, la verità, la vita».7 In questa affermazione si condensano alcuni interrogativi essenziali per la fenomenologia della vita che si avvicina alla riflessione teologica: cogliere fenomenologicamente «ciò che il cristianesimo considera la verità»;8 che si integra con questa esigenza di «sfuggire al concetto di verità dominante nel pensiero moderno»9 a cui fa seguito in generale l'esplicitazione di ciò che chiameremo cristianesimo. Si tratta di comprendere la radice fenomenologica dell'apparire del Cristo nella sua condizione di Figlio, che determina in senso generale un orizzonte di possibilità proprio del cristianesimo: la verità che gli è propria può rendere testimonianza di se stessa, è in grado di un'auto-rivelazione, ciò che primariamente focalizza l'analisi henryenne è la rivelazione originaria di Dio, punto di convergenza tra l'istanza teologica e il problema fondativo della fenomenologia. In effetti a partire dall'analisi del Prologo di Giovanni, Henry tenta di far affiorare la specificità della verità cristiana e più in generale la fenomenicità propria implicita nella rivelazione cristiana: Dio si rivela come Vita e nella Vita, ciò fa sì che il Dio della vita sia un Dio vivente. In questo passaggio si coglie il nesso che stringe i termini di verità e vita nella definizione che il Cristo dà di sé, la ragione per cui il concetto di vita costituisce la chiave di volta della filosofia del cristianesimo:

Che il contenuto della Vita, che essa prova, sia la Vita stessa, rimanda a una condizione più fondamentale [...]; ossia a un modo di rivelazione la cui fenomenicità specifica è la carne di un pathos, una materia affettiva pura, da cui si trova radicalmente esclusa ogni scissione.10

Non si tratta di un vitalismo irrazionale, la vita intesa e rintracciata nel cristianesimo è sempre ipseizzata in un'individualità; esiste sempre un nesso inscindibile che lega la vita all'individualità, a un soggetto che avviene prima di tutto come «me», poi come «ego» e infine come un «io posso», ovvero il me dato all'accusativo diventa un ego in grado di esercitare quel potere che gli viene conferito nell'assoluta passività della generazione trascendentale della Vita assoluta. In questo senso la vita è considerata come auto-rivelazione, questo il grande significato che Henry attribuisce al Prologo che spiega anche il rapporto tra il Figlio e il Padre: si tratta di una auto-generazione così viene interpretato il mistero dell'origine eterna del Figlio dal Padre: il Figlio è l'Archi-Figlio il primogenito dato nel processo di auto-generazione della Vita assoluta che si compie in questa Archi-nascita nel Padre del Figlio che è a sua volta principio della vita incarnata degli esseri viventi: un'unica vita invisibile stringe il Padre, il Figlio e gli uomini che in lui hanno la vita. Occorre specificare da un lato il carattere unico della vita che si origina nel Primo vivente, ciò nonostante sussiste una diversità tra Figlio unigenito del Padre e figlio nel Figlio, ovvero la condizione del vivente: all'unicità della vita corrisponde una duplicità auto-affettiva, ossia modi differenti per la vita di affettarsi ed effettuarsi, il discrimine essenziale ci riconduce all'immanenza nella sua condizione di assoluta passività: l'uomo non si auto-genera ma è generato nella vita, la condizione di figlio dell'uomo è da un punto di vista fenomenologico una generazione di secondo grado, tuttavia l'originalità radicale del cristianesimo è di aver colto l'Individuo nella verità della Vita, mentre il pensiero tende a schiacciare l'individuo sulla verità del mondo. Sentire se stessa è la forma prima di ogni fenomenicità, si tratta di una nascita della fenomenicità, ma anche della sua rivelazione: la rivelazione si rivela come páthos e nella sua carne effettiva. Si tratta di una identità del provante e del provato che rappresenta l'essenza originaria dell'ipseità. La venuta a sé della vita viene intesa da Henry come un godimento di sé e il páthos di questo godimento definisce la fenomenicità della venuta a sé, il modo fenomenologico concreto secondo cui il processo di auto-generazione della vita diventa quello della sua auto-generazione. L'ipseità appartiene all'auto-generazione della vita come ciò in cui si compie l'auto-generazione quale auto-rivelazione; l'ipseità originaria ed essenziale appartiene quindi all'auto-rivelazione della vita come ciò che la rende possibile. Si tratta di uno stesso processo, l'auto-generazione della vita e l'auto-rivelazione, la vita gettandosi in sé gode di sé e l'ipseità da essa generata è anch'essa effettivamente una, quindi singola; si tratta di un Sé singolo che stringe se stesso, che tocca se stesso al punto, come sottolinea Henry, che l'abbraccio in cui il Sé stringe se stesso non è diverso dall'abbraccio in cui la vita si afferra e si impadronisce di sé. Il Padre che per Henry è da intendersi come il movimento non preceduto da nulla con il quale la Vita si getta in sé per provare se stessa, genera eternamente il Figlio, da intendersi come il Primo vivente. Il Figlio è vecchio quanto il Padre e come lui sta all'inizio. È la ragione per cui Henry chiama il Figlio l'Archi-Figlio, generato nel processo stesso in cui il Padre genera se stesso, il suo Logos è da intendersi come sostanza fenomenologica di questa vita stessa. Questi aspetti sono tra i più delicati da affrontare sia teoreticamente che dal punto di vista fenomenologico, infatti nel momento in cui parliamo di un processo di auto-rivelazione della Vita che genera in esso il Primo Vivente in quanto Archi-Figlio, ci si pone il problema della nascita o meglio dell'Archi-nascita. Per Henry non si tratta di una nascita che si verifica all'interno di una vita pre-esistente ma di un elemento con-costitutivo del sorgere della vita, un elemento associato al processo auto-generativo.11 L'Archi-nascita designa una nascita contemporanea al sorgere della vita stessa, si tratta si un processo di auto-generazione della Vita assoluta che viene qualificata da Henry come «trascendentale». Si noti che tale concetto di Archi-nascita trascendentale si adatta solo all'Archi-Figlio e si applica solo a lui. Questa considerazione ci fa capire il significato attribuito al concetto di nascita che si risolve nell'esplicitazione del rapporto tra ontologia e fenomenologia: l'essere rinvia sempre a un apparire che in realtà lo fonda, l'ontologia rinvia a una fenomenologia, il «venire all'essere» si traduce in un venire alla fenomenicità che nella nostra accezione tradizionale significa: venire al mondo. Nel cristianesimo questo rapporto entra in crisi nel senso che la nascita non è una venuta al mondo, o meglio, quest'ultima non può indicare una nascita, anzi, la venuta al mondo impedisce in partenza ogni possibile nascita sul piano ontologico. Mentre tutto ciò che si mostra nel mondo è estraneo al vivere la vita, questo attiene invece all'ambito fenomenologico. L'affermazione di Henry è importante anche se apparentemente non se ne colgono tutte le implicazioni fenomenologiche: «nascere non è venire al mondo, nascere è venire alla vita».12 Tuttavia se il cristianesimo ci consente la condizione di possibilità per l'instaurarsi di una relazione trascendentale, nell'Incarnazione si esplica l'effettività fenomenologica della rivelazione: è qui che si incontrano e si stringono in un abbraccio patico la Vita assoluta, la relazione del Figlio al Padre, degli uomini al Figlio e degli uomini tra loro in una comunità invisibile che si caratterizza come comunità inter-patica, in una relazione affettiva trascendentale. Per quanto attiene all'uomo è nella carne la sua verità, la sua essenza più propria che descrive la relazione intima tra l'uomo carnale e il Logos. Quindi in un senso generale il cristianesimo al suo fondo ci permette di indagare la relazione auto-affettiva come fenomenicità divina: quando Giovanni afferma che «Dio è amore» ci conduce verso un senso della fede che non appartiene più all'ambito della coscienza, ma al puro pathos. È attraverso l'analisi del fenomeno dell'amore che emerge una possibilità per la fenomenologia della vita di rendere ragione della struttura antinomica della vita che determina sin dall'inizio una duplicità dell'apparire che il cristianesimo interpreta verità della vita, immanente e invisibile, che differisce dal fenomeno mondano e all'idea di corpo a cui si lega la tradizione greca. È proprio sulla natura fenomenologica e la sua specificità che Henry focalizza la sua attenzione: se la fenomenologia è in grado di fornirci gli strumenti di indagine necessari per arrivare sulla soglia di un fenomeno invisibile attraverso una radicalizzazione della riduzione husserliana, è possibile giungere a descrivere e fondare un fenomeno d'essenza e non più un mero fatto che si manifesta nella luce del mondo. A questo si aggiunge una distinzione molto importante e altrettanto problematica in cui rientrano alcuni termini storici della filosofia occidentale e del pensiero cristiano quali: la salvezza, la credenza e la verità. La salvezza consiste nel «credere» in ciò che il Cristo dice di sé, non si tratta di ammetterlo o di verificarlo come una proposizione di verità, non si tratta di verificare logicamente nella verità del pensiero e quindi del mondo il grado di possibile rispondenza tra l'enunciato e l'enunciante. La verità che intende Henry è una verità della Vita, ad essa con-sustanziale, nella sua carne fenomenologica: non si tratta di un'unità pensata attraverso l'intelletto, ma di una verità della Vita che si impone da sé come l'effettuazione fenomenologica della Vita assoluta; si passa da concetti generati attraverso un processo astrattivo a delle determinazioni fenomenologiche fondamentali della vita e alle relazioni che ad essa ineriscono. È evidente che un discorso del genere implica alcune idee che contraddicono il senso e le credenze comuni, sfidano le strutture fenomenologiche così come il mondo ce le rende in sé, per esempio il modo in cui si manifesta la temporalità del mondo e nel mondo, la sua irreversibilità che contrasta con le specificazioni fenomenologiche attribuite da Henry al Cristo, il quale sembra non essere toccato né dalla modalità manifestativa del mondo né tantomeno dalla temporalità estatica. Il mondo come orizzonte manifestativo si è lentamente strutturato come categoria storica che si costituisce sulla scorta della scienza galileiana, che apre in generale una visione geometrica del mondo che porta alle estreme conseguenze l'oblio della vita, la negazione di Dio, ma soprattutto la negazione dell'uomo, di cui ha parlato in toni critici Foucault, e che Henry interpreta come i segni compiuti di una nuova barbarie, questa volta però supportata da una razionalità che ha ridotto l'affettività e la sfera emotiva in generale a dato cognitivo o peggio ancora biologico. Tutto ciò conduce il mondo moderno alla sua disintegrazione post-moderna che mostra, seguendo le analisi di Henry, una realtà dominata dalla finzione, dalla perfetta simulazione in cui la menzogna diventa puntuale e sistematica. In termini decisamente forti il filosofo parla di un «tempo della follia», in cui ci troviamo dominati da un'apparenza di realtà in cui a mancare totalmente è proprio la vita.

Naturalmente si impongono alcune considerazioni esplicative: in che modo è possibile parlare di un fenomeno senza che questo sia in relazione a una temporalità, a un flusso temporale in cui non vengono rispettati gli aspetti costitutivi, elaborati già da Kant e approfonditi da Husserl, che ci consentono di poter afferrare nel passato, vivere nel presente e anticipare nel futuro i nostri vissuti di coscienza? Mettere in discussione così radicalmente la struttura della temporalità che assolve una funzione costitutiva essenziale all'interno della prospettiva fenomenologica è cosa non da poco, e forse per certi versi non del tutto giustificata sul piano fenomenologico in alcune parti della proposta henryenne. Tuttavia da questa «filosofia del cristianesimo» elaborata e ripensata prima attraverso riduzione e poi attraverso una prospettiva fenomenologica, emergono delle acquisizioni importanti per la ricostruzione di un senso filosofico dell'esistenza, declinato sul dato originario e auto-fondativo della vita. Ci limitiamo a delineare tre aspetti significativi:

  1. la soggettività a cui conduce la fenomenologia della vita è qualcosa che non viene ridotto alla realtà fisica dell'uomo, non si tratta di indagare la vita presentata come prodotto biologico. Queste categorie usate per descriverci sono del tutto disarticolate dal modo di manifestazione proprio della vita che abita i viventi; l'umanità in generale ci rimanda a un Sé trascendentale vivente, a una ipseità affettiva e immediata, unica condizione di libertà trascendentale.
  2. L'affermare che l'uomo nasce dalla Vita fenomenologica segna una cesura radicale e un'eterogeneità sostanziale tra il «mondo della vita» dei viventi e il mondo inteso nella sua accezione più ampia che implica anche il suo tempo, il suo spazio e la sua causalità che vi opera: si perde, anzi si rinuncia alla fenomenicità del mondo e alla sua specifica modalità di apparire. Nell'espressione Figlio di Dio si nasconde, secondo Henry, la verità abissale che l'essenza dell'uomo non è un'imprecisata humanitas, ma l'essenza della vita divina, ovvero Dio ha dato la condizione di vivente all'uomo, la possibilità di provare se stesso nell'immanenza radicale della prova di sé; si tratta in modo netto per Henry di una generazione e non di una creazione, se per creazione si intende la creazione di un primo fuori in cui si scopre il regno del visibile. Si apre su queste basi una nuova richiesta antropologica esplicita e chiara: rinunciare all'idea di uomo nel senso abituale del termine in grado di slegare l'uomo dalla sua determinazione mondana, riferita costantemente alla fenomenicità dell'ente.
  3. La riscoperta della propria carne impressionale apre a una profonda ricomprensione della potenza data al vivente e della tonalità attraverso la quale il me diventa un io posso. Ciò significa che ogni potere è dato nella Vita in una auto-donazione che presenta un tratto particolare. Nell'idea di dono in generale, come lo si intende di solito, c'è chi dona, il dono e colui che riceve il dono: sin dall'inizio ci muoviamo nell'ambito di un'esteriorità dei tre termini e tra i tre termini. Un aspetto tipico e caratterizzante questa modalità donativa è la fluttuabilità: il donante dona, il dono entra in possesso del ricevente che può a sua volta alienare lo stesso, anche attraverso un medesimo atto donativo. Il dono fatto al vivente dalla vita, della sua vita, del suo Sé e della sua carne, di tutti i poteri che costituiscono l'io posso, non è qualcosa da cui ci si possa separare, alienare, dissociare. È un'impossibilità di principio che caratterizza originarimante il vivente, si tratta di un'impotenza radicale, di una passività costitutiva: il dono della vita si edifica all'interno della Vita e sussiste solo in essa. Il vivente non può scindersi da sé, dalla sua sofferenza o dalla sua gioia, questa impotenza abissale è ciò che permette ogni fondazione possibile di potere, è quel non-potere che il vivente patisce e incarna nella sua stessa venuta alla sua vita nella Vita assoluta.

3. Problemi e prospettive di una fenomenologia non-intenzionale

In conclusione possiamo dire che la fenomenologia materiale supera il legame con la fatticità per passare a un piano ontologico-trascendentale, ma nel fare ciò pone almeno tre differenti ordini di problemi.

Il primo riguarda la struttura ontologica del reale che fin dai primi passi supera il legame con la fatticità per passare a un piano ontologico-trascendentale, slegato dalla realtà. Ciò significa che la storia effettiva dell'uomo di cui si cerca l'essenza non ha alcun rapporto con questa essenza e le è ultimamente accidentale.

Il secondo aspetto inerisce all'indeterminatezza in cui resta la passività, anche nelle analisi cristologiche, essendo da subito passività ontologica e non storica. Il contenuto di questa passività è qualcosa di originariamente dato a sé, in una dimensione del tutto trascendentale o addirittura iper-trascendentale. Questo darsi tuttavia non ha i contenuti reali della vita di un ego, di una individualità in generale, che non è propriamente data a priori, ma che si costituisce nello svolgersi molteplice di attività e passività, intenzionalità e ricettività. Eliminando dall'ontologia il plesso dell'attività umana, la sua libertà, Henry evita il rischio della «riduzione oggettivante», ampiamente criticata, che se non supportata da una passività che ne garantisca il realismo, rischia di restare vittima di uno sdoppiamento difficilmente ricomponibile tra l'esteriorità di un mondo e l'immanenza radicale della Vita. Nella fenomenologia henryenne all'io ciò che si dà è dato «in carne ed ossa» ma avendo escluso dal luogo dell'essenza ogni determinazione effettiva, si rischia di non comprendere cosa si dia: l'immediato e immanente darsi dell'assoluto all'io non ha legami forti con ciò che effettivamente gli si manifesta, un darsi di qualche cosa che ha la forma di un affetto su cui il soggetto non può dire nulla. Per cercare di andare oltre questa impostazione, si potrebbe dire che nel luogo dell'originario non può non integrarsi la libertà dell'io singolare, la quale riconosce la passività che la fonda, conferendole realismo e la rilancia in un atto che ne dice la singolarità e la determinatezza. Verrebbe così ad operarsi una mediazione in cui il luogo della verità non è né esclusivamente intenzionalità, poiché mancherebbe del realismo, né esclusivamente passività, poiché resterebbe indeterminata.

Il terzo aspetto si collega al secondo e riguarda la struttura stessa dell'auto-affezione. Se la vita ha una struttura originaria paragonabile a quella di un'affezione, ci si pone il problema di un «eterno» presente vivente. Henry più volte sottolinea «l'eterna venuta in sé della vita». Ora se si analizza questo movimento compiuto dalla vita si nota una contraddizione: l'eterno non è qualcosa che implichi un movimento, perché è già presente a sé. Questo significa che la vita assume una connotazione diversa dall'eternità, che troverebbe una corrispondenza più adeguata in un «qualcosa che continuamente si ripete» inglobando in sé la specificità di un evento. Questa incapacità di permanere in sé, di durare in sé, rimanda a un bisogno di ricominciare e quindi la struttura dell'auto-affezione risulterebbe costituirsi a sua volta in una forma di temporalità. Quindi la vita si ritroverebbe gravata delle problematicità connesse a un flusso temporale ek-statico proprio come rilevato da Henry nelle sue analisi sul flusso temporale dei vissuti teorizzato da Husserl. La soggettività non è più garantita da un'auto-affezione eterna, ma resta un'auto-affezione eternamente rinnovata in cui è presente comunque il rischio che prima o poi l'auto-affezione stessa decada o svanisca. La questione che si pone è: che tipo di esperienza è questa prova «in sé e per sé» della vita? E se la vita è questa esperienza auto-rivelativa ed è in grado di auto-manifestarsi originariamente in ciascun essere vivente, è per noi possibile sperimentarci così come fa la vita, è possibile provarci come viventi allo stesso modo in cui la vita fa prova di sé?

Queste le possibilità ancora aperte su cui è possibile interrogarsi a partire da una fenomenologia non intenzionale da intendersi, come ammette lo stesso Henry, come una «fenomenologia a venire» rivolta ad analisi ulteriori su una vasta gamma di fenomeni affettivi, primo fra tutti quello dell'amore.

Copyright © 2011 Ivano Liberati

Ivano Liberati. «La Vita assoluta. Michel Henry tra fenomenologia e cristianesimo». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [**35 B].

Note

  1. Cfr. M. Henry, L'essence de la manifestation, Puf, Paris 1963. D'ora in poi l'opera verrà citata nel testo e nei riferimenti in nota con la sigla EM. Testo

  2. Nell'ontologia fenomenologica di Sein und Zeit il soggetto esiste in funzione dell'apertura dell'orizzonte entro cui l'essere può rivelarsi; dunque si tratta sempre per Henry di un vedere, il momento noetico prevale sull'ontologia dell'affettività, della Befindlichkeit. Testo

  3. Cit., M. Herny, EM, p. 29. Il termine Parousia designa in Henry l'originario nel suo modo proprio di manifestarsi, senza necessità di mediazione. Per Henry l'assoluto non è essenzialmente risultato ma origine, contrariamente a quanto pensava Hegel. Testo

  4. Cit., M. Henry, EM, pp. 68-69. Testo

  5. Cfr., M. Henry, EM, p. 95. Testo

  6. Cit., M. Henry, EM, p. 106. Testo

  7. Cit., Gv, 14, 6. Testo

  8. Cit., M. Henry, Io sono la verità, Queriniana, Brescia 2007, p. 19. Da ora l'opera verrà abbreviata nel testo e nei riferimenti in nota con la sigla IV. Testo

  9. Ibid. p. 19. Testo

  10. Ivi, p. 51. Testo

  11. Cfr. IV, p. 80. Testo

  12. Ivi, p. 82. Testo

Copyright © Elaborare l'esperienza di Dio 2011 | teologia@mondodomani.org