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La fenomenologia della religione di Bernhard Welte

di Sandro Gorgone (20-21 marzo 2009)

1. Tra tradizione teologica e modernità filosofica

Se vi è una tesi di Bernhard Welte che più di altre possiede per noi oggi, che viviamo il tempo del cosiddetto «ritorno delle religioni», una dirompente attualità, è quella, sostenuta con vigore e perseveranza già a partire dal secondo dopoguerra contro le ideologie dominanti, per cui il «problema della religione» non può essere confinato nella sfera privata e psicologica e messo al bando dall'ambito della razionalità e della condivisione del senso. Il fenomeno religioso, con le sue molteplici dimensioni culturali, sociali e politiche, costituisce, infatti, un fenomeno fondamentale dell'esistenza umana, a cui ogni riflessione, che voglia cogliere il compimento essenziale del suo essere al mondo e del suo essere con gli altri, deve necessariamente fare riferimento.

Come filosofo della religione Bernhard Welte ha esercitato e continua ad esercitare un'influenza rilevante nella riflessione sui limiti e sullo statuto del sapere teologico e sui rapporti tra la fede cristiana e le scienze moderne.1 Il compito principale che egli si propose, fu, infatti, proprio quello di trasmettere e tradurre il sapere tramandato e il nucleo della fede cristiana all'interno dell'orizzonte culturale della post-modernità di cui riuscì a cogliere con acume i tratti essenziali e le laceranti contraddizioni. Ma tradurre la fede cristiana nella nostra post-modernità significava tradurla nella vita dell'uomo contemporaneo, nei suoi linguaggi, nelle sue modalità espressive, nelle sue esigenze e nei suoi desideri e per far ciò era necessario prendere sul serio e comprendere le domande, i bisogni, le situazioni e le urgenze della contemporaneità cui quelle antiche scritture e l'intera tradizione cristiana sono chiamate a dare una risposta.

È questo un compito quanto mai problematico, dal momento che già la lingua in cui sono formulate le più antiche e fondamentali testimonianze della fede cristiana, in cui sono redatti i libri dell'Antico e del Nuovo Testamento e gli atti dei concili della prima cristianità, su cui si fonda il nucleo della dottrina della Chiesa, appartengono ad un mondo che è completamente diverso da quello del XX e del XXI secolo; non solo perché non parliamo più ebraico, aramaico o greco antico ma soprattutto perché non condividiamo più quell'orizzonte di pensieri e di rappresentazioni mentali e culturali per cui, ad esempio, Gesù poteva dare per scontato che i suoi riferimenti alle Scritture risultassero immediatamente comprensibili. Come è allora possibile accedere alla figura di Gesù Cristo, se le condizioni storiche in cui tale figura è comparsa sono del tutto venute meno e ciò che allora era ritenuto ovvio viene posto radicalmente in questione; in un tempo in cui la stessa metafisica classica, che ha prestato servizio alle Chiese cristiane interpretando e rendendo razionalmente giustificabili (e a volte perfino logicamente necessari) i contenuti della fede, sembra essere entrata in una crisi ormai irreversibile e alcuni parlano già dell'inizio di un'epoca post-metafisica?2

Bernhard Welte nasce a Meßkirch nel 1906, in un mondo integralmente cattolico che, nonostante l'incipiente dibattito sulla critica della religione, mantiene stabilmente il suo saldo orientamento spirituale: un mondo, che come scrisse il suo più celebre concittadino, Martin Heidegger, aveva le sue coordinate fondamentali nel campanile della chiesa di S. Martino e nel sentiero di campagna [Feldweg] ;3 in esso il radicamento degli uomini in una terra e il loro rapporto con un determinato paesaggio culturale e naturale, con il cielo che sovrastando protegge e fornisce punti di riferimenti incrollabili, esprime moniti e reca auspici, portava con sé già i tratti di una tangibile sacralità. La formazione scolastica ed universitaria a Costanza e poi a Friburgo e la successiva carriera accademica lo portano, tuttavia, a confrontarsi in maniera sempre più radicale con il mondo secolarizzato e le tendenze moderniste della cultura tedesca. Come professore della Facoltà di Teologia, si ritrova spesso a rivolgersi anche a studenti che provengono da tutte le altre facoltà ed è dunque costretto, soprattutto negli anni della seconda guerra mondiale e del primo dopoguerra, a prendere posizione nei confronti degli interrogativi, delle incertezze e dei profondi disagi legati alla drammatica attualità ma anche più in generale causati delle crisi tipiche della modernità; interrogativi ed incertezze cui le risposte tradizionali della fede non riescono più a corrispondere. Tutto ciò segnerà profondamente non solo il suo pensiero ed il suo atteggiamento teoretico ma anche il suo stesso percorso esistenziale.

Come molti altri teologi formatisi negli anni venti, Welte avverte con indubitabile chiarezza che la filosofia neoscolastica, su cui si basavano allora i curricula di formazione teologica insieme con lo studio e l'interpretazione delle fonti cristiane, non riusciva ad esprimere, con la sua lingua astratta e formale, il nucleo vitale della fede, in quanto prescindeva dalla storia e dall'esistenza dell'uomo, dai suoi dilemmi e dalle sue più intime esigenze. Mentre Heidegger, con cui Welte si confronterà a lungo proprio sulla possibilità di superare l'interpretazione onto-teologica della questione del divino tipica della filosofia scolastica e della metafisica tradizionale,4 romperà definitivamente con il sistema del cattolicesimo, l'intento di Welte resterà sempre, piuttosto, quello di modificare dall'interno tale sistema fino a destrutturarlo, aprendo nuove vie al pensiero teologico. In questo senso egli può essere considerato un importante precursore della teologia contemporanea che è ormai abituata a confrontarsi senza timore o sospetto con il pensiero e la cultura moderna e post-moderna.

Al pari di Karl Rahner, Hans Urs von Balthasar e i teologi francesi della cosiddetta Nouvelle Theologie, Welte ha svolto un ruolo rilevante, ancora oggi percepibile all'interno della riflessione teologica, nel processo di trasformazione di alcuni paradigmi fondamentali del pensiero teologico realizzatosi soprattutto grazie alle radicali sollecitazioni provenienti dal pensiero heideggeriano dell'esistenza; di tale trasformazione epocale egli ebbe piena consapevolezza: «Allora c'era un intero gruppo di giovani filosofi cattolici, soprattutto negli anni trenta e quaranta, che misero in movimento il tomismo cattolico tradizionale e ne trasformarono l'interpretazione. Erano mossi soprattutto dall'incomparabile energia di pensiero di Heidegger ed ebbero quindi la capacità di scoprire aspetti del tutto nuovi dei vecchi pensieri. Tra di essi vanno annoverati Max Müller, il giovane Karl Rahner, Gustav Siewerth, Johann Baptist Lotz ed anche i miei propri tentativi di quel tempo. Fu come la primavera di un pensiero rigoroso ed indipendente nell'ambito della tradizione cattolica, stimolata dai pensieri di Heidegger».5

Si trattava di un rinnovamento che si richiamava alle origini della fede cristiana, alla riscoperta delle fonti bibliche e ai grandi testimoni della chiesa primitiva, ma che, allo stesso tempo, tentava di superare la crisi provocata dall'antimodernismo e ricercava un sereno confronto con la modernità necessario per accedere al mondo vitale dell'uomo contemporaneo. Tale rinnovamento di cui Welte e la sua generazione sentirono l'inderogabile esigenza, rimane a tutt'oggi un compito decisivo per la teologia chiamata a confrontarsi con tempi in cui al venir meno di saldi punti di riferimento culturale e spirituale si contrappone da un lato un ingenuo ed acritico ritorno alla tradizione spesso violentemente contrapposto alla decadenza del presente in modo puramente moralistico, e dall'altro un rassegnato abbandonarsi alla desacralizzazione del nostro mondo secolarizzato in grado tutt'al più di esercitare forme di 'credenza'moralmente efficaci e comunitariamente utili basate sull'indebolimento e la proliferazione ermeneutica delle categorie metafisiche tradizionali.6

Se è vero, infatti, che nel mondo della post-modernità in cui viviamo, il fenomeno religioso, smentendo le previsioni delle ideologie moderniste, assume un ruolo sociale, culturale e politico sempre più determinante, è vero anche che l'esperienza del trascendente e del divino non basta a dare senso ed orientare unitariamente l'esistenza umana e ciò si manifesta soprattutto nel venir meno dell'esperienza, un tempo comune e quotidiana, del sacro, delle gerarchie e delle configurazioni di senso che da essa scaturivano.7 L'uomo contemporaneo è intrinsecamente portato ad essere ateo dal momento che ha perso ogni possibilità di accesso al sacro; tutto ciò che potrebbe essere percepito come sacro viene, infatti, ridotto a combinazione di spiegazioni scientifiche, a fatto storico o a situazione psicologia.

E ciò, secondo Welte, che in questo segue la diagnosi epocale di Heidegger, deriva dall'appropriazione dei contenuti essenziali della fede da parte della metafisica occidentale: attraverso il primato metodologico e teoretico del soggetto moderno, Dio viene progressivamente ridotto ad un'istanza etica e conoscitivo di cui il pensiero moderno più maturo può definitivamente fare a meno. L'ateismo filosofico e poi scientifico discende, dunque, dalla stessa costituzione filosofico-metafisica della teologia medievale, la quale, pur di fondare razionalmente le verità di fede, rinuncia progressivamente alla loro presa esistenziale.

Tale connubio tipicamente occidentale di filosofia e teologia da Heidegger sinteticamente definito onto-teo-logia,8 che assicura e rappresenta il Dio della tradizione come l'ente sommo causa sui e fondamento di tutto il reale, nel momento in cui lo insedia al centro del sistema metafisico, paradossalmente lo allontana infinitamente dall'uomo, il quale di fronte a questo Dio non può, come scrive Heidegger, «né rivolgere preghiere, né offrire sacrifici. Davanti alla causa sui l'uomo non può né cadere in ginocchio pieno di reverenza, né può davanti a questo dio produrre musica e danzare».9 Come pensare, allora, Dio al di fuori dell'onto-teo-logia, come pensarlo ancora come un Dio divino [göttlicher Gott]? Questa è la questione fondamentale che Welte, a differenza di Heidegger, che pure l'aveva posta nei termini più radicali, si è impegnato a sviluppare, senza, tuttavia contrapporsi frontalmente alla tradizione metafisico-teologica occidentale, ma cercando piuttosto di decostruirla dall'interno, formulando una critica radicale degli assunti costitutivi del pensiero moderno, a partire dallo statuto della ragione e dalla comprensione tipicamente moderna dei concetti di verità e conoscenza.

Nel perseguire tale proposito Welte si è avvalso non solo degli stimoli provenienti dalla critica heideggeriana della metafisica occidentale e dell'ateismo filosofico di Nietzsche, che ad avviso di Welte fu, nonostante la sua potente carica di invettiva contro Dio, un grande e segretamente appassionato cercatore del divino,10 ma anche della filosofia dell'esistenza di Jaspers e della fenomenologia di Husserl; in quest'ultima ritrovò un efficace strumento con cui trasporre i problemi teologici sul piano dell'esistenza umana ed analizzare il compimento effettivo dell'esistenza cristiana. Welte non si rifiutò, inoltre, di dialogare anche con filosofi apparentemente molto lontani dalle sue più intime convinzioni, quali Bloch, con la cui filosofia dell'utopia e della speranza egli si confronta criticamente soprattutto in alcune pagine del suo testo sulla morte,11 negando che il superamento dell'alienazione dell'uomo nei confronti della società e della natura possa costituire un'autentica risposta alla potenza anti-utopica per eccellenza della morte.

Welte entrò anche in dialogo con i filosofi della Scuola di Francoforte come Adorno e Horkheimer, ed il loro tentativo di ridurre la religione ad un fenomeno puramente sociale, nonché con i rappresentanti del positivismo e del razionalismo critico quali Popper e Albert, di cui mise in discussione il concetto troppo unilaterale di ragione.

2. L'esperienza del nulla

Il tema che forse più di ogni altro testimonia del confronto di Welte con il pensiero della modernità e, nello stesso tempo, con la situazione esistenziale tipica dell'uomo contemporaneo, è certamente quello del nulla, cui Welte dedica uno dei suoi scritti più significativi e suggestivi, La luce del nulla.12 Tale questione fondamentale attraversa in modo decisivo anche la sua opera teoreticamente più sistematica ed esaustiva, Dal nulla al mistero assoluto13 in cui vengono delineate le linee fondamentali della sua filosofia della religione.

Welte, infatti, non rifiuta né tenta di superare o di rimuovere la sconvolgente sollecitazione del nichilismo, opponendosi ad esso come ad un nemico da sconfiggere con le più affinate armi della dialettica filosofica o, come è il caso di una certa teologia della morte di dio, si sottomette ad esso limitandosi a ricoprire il ruolo di esecutore testamentario di una tradizione ormai priva di ogni forza vitale.

Convinto che il messaggio cristiano non possa che interpretarsi sempre a partire da un determinato orizzonte storico ed esistenziale, Welte assume integralmente la sfida del nichilismo facendone il compito fondamentale della meditazione teologica contemporanea; ed è per questo che al centro del suo pensiero si ritrova quasi sempre l'esperienza esistenziale, prima ancora che filosofica o teologica, del nulla, la cui portata egli considera determinante per qualunque analisi non solo della modernità ma anche della stessa costituzione finita dell'esistenza, tanto da potere credere che avrebbe di buon grado sottoscritto l'affermazione di Jünger contenuta nel dialogo sul nichilismo con Heidegger, secondo cui «chi non ha sperimentato su di sé l'enorme potenza del nulla e non ne ha subito la tentazione conosce ben poco la nostra epoca».14

Nello sviluppare la sua «fenomenologia del nulla», Welte si richiama soprattutto alla tradizione della teologia negativa (Gregorio di Nissa, Dionigi l'Areopagita, Meister Eckhart e Teresa di Lisieux) ma anche alle formulazioni moderne del nichilismo di Nietzsche e Heidegger. Ed è proprio a partire dalla concezione heideggeriana del nulla e dal suo tentativo di scoprire, attraverso l'articolazione non-metafisica della questione dell'essere, il volto non-nichilistico del nulla,15 che Welte può accedere ad una nuova esperienza del nulla, inteso non più come mera negazione e annichilimento dell'esistente ma come salvaguardia, custodia e «mistero assoluto». È in questa svolta, in questo decisiva conversione dello sguardo del pensiero, che il nulla può rivelarsi come «scrigno dell'essere»,16 lasciando emergere dal suo abisso tesori nascosti e così manifestare la sua promessa di Altro. Nel solenne silenzio del nulla che si impone a noi, come ci ha mostrato Heidegger nei momenti di più profonda angoscia, o al cospetto della morte, ma anche nell'esperienza di una inconcepibile felicità,17 vengono meno le condizioni stesse di possibilità di ogni esperienza e si infrangono le dimensioni valoriali e gli orizzonti di senso consueti. L'inquietudine e la spaesatezza tipiche del mondo moderno e soprattutto della nostra post-modernità discendono direttamente dalla segreta centralità di tale esperienza destrutturante che, dunque, deve essere posta al centro di qualunque proposta 'teologica'.

La sua forza dirompente ed inquietante vanifica ogni capacità di organizzazione concettuale e induce Welte, sulla scorta della teologia negativa e della tradizione mistica, a cogliere nell'evento del nulla i tratti del manifestarsi del mistero divino stesso, attraverso una interpretazione radicalmente chenotica della rivelazione biblica: il nulla, in quanto ni-ente, non-ente, ossia come ciò che rigetta ogni determinazione positiva d'essere, richiama il mistero di Dio che al pari del nulla si sottrae radicalmente ad ogni concettualizzazione e rappresentazione umana eccedendo ogni categoria conoscitiva ed ontologica, nella misura in cui si abbassa e -- etimologicamente -- si ri-duce alla concretezza della vita effettiva.18 Attraverso l'esperienza del nulla è, anzi, possibile liberare il pensiero dagli idoli conoscitivi e morali tipici del sapere metafisico tradizionale e dalle pretese fondanti dell'onto-teologia, ed aprirsi nell'autenticità e nell'interezza della propria esistenza all'incontro con il Dio divino.

A nessuna necessità logica, tuttavia, è possibile appellarsi nel descrivere il passaggio decisivo, chiave di volta di molte trattazioni weltiane, che conduce dal mistero assoluto che si cela nel nulla e nel buio dell'angoscia e della morte, alla pienezza di senso e di vita che, invece, custodisce il mistero di Dio nella fede. In questo ambito, come in ogni ambito essenziale del pensiero, niente può essere dimostrato rigorosamente né fondato razionalmente in maniera incontrovertibile; a partire dall'analisi fenomenologica dell'esperienza della fede cristiana; Welte, tuttavia, cerca di dispiegare le molteplici articolazioni ed assonanze del misterioso sottrarsi e preservarsi dell'essere nel nulla e dell'impenetrabile enigma della trascendenza divina, che riluce soprattutto nelle jaspersiane Grenzsituationen, per come essa è stata sperimentata nella tradizione cristiana.19

Decisiva, tuttavia, rimane, nelle argomentazioni di Welte l'affermazione di un «postulato etico» fondamentale che nessuna esperienza può scalfire e di fronte a cui il nulla dismette il suo carattere apparentemente soltanto negativo e distruttivo.20 Anche se assume forme sempre diverse, storicamente e culturalmente determinate, questa pretesa di senso è ineliminabile nell'uomo, tanto che lo stesso Nietzsche ha pensato la reazione al nichilismo come una nuova affermazione di senso. Pur non potendo offrire argomenti cogenti a favore di questo postulato, proprio in quanto esso prende forma nell'ambito etico in cui regna la libertà e non la cogenza della ragione teoretica, Welte così testimonia la centralità dell'istanza di senso: «Lo sguardo vissuto rivolto al senso nella sua complessità e il legittimo postulato di senso vivono sul fondo e alla radice dell'esistenza umana. Vivono come un grido in sordina, discreto ma sempre appellante alla libertà: Credi che la vita ha un senso! Chi si apre veramente a questo grido, conoscerà la sua verità. Essa gli si mostra».21

Tale postulato etico che, infine, garantisce l'effettività del senso fondamentale dell'esistenza umana e che si manifesta in maniera incontrovertibile nel primato quasi ontologico del bene, nell'impegno per la libertà e per la giustizia e nell'invincibilità cristiana dell'amore, costituisce senz'altro un momento quanto mai problematico della meditazione weltiana sul nulla e sulla morte, la cui fenomenologia peraltro raggiunge risultati di straordinaria e suggestiva profondità esistenziale e psicologica.

Ci troviamo forse qui in presenza di un estremo travestimento dello spirito hegeliano che, nonostante tutte le contraddizioni e le negatività del Moderno, conduce comunque alla fine ad una conciliazione suprema al punto da ricomprendere il nulla e la morte nella totalità compiuta dell'essere? O non si tratta piuttosto di una riproposizione sapientemente articolata della certezza di fede cristiana della finale redenzione e trasfigurazione apocalittica del mondo e di ogni esistente, rispetto a cui l'esperienza del nulla e della morte costituisce al più soltanto una prova estrema?

Nessuna di queste due ipotesi, tuttavia, rende giustizia all'intensità e alla serietà con cui Welte si è confrontato con l'esperienza fondamentale del nulla. Lo sprofondare nel vuoto e nel disperato silenzio del nulla della morte è irrevocabile e corrisponde pienamente a quell'assoluta chenosi del divino che ha luogo nel momento inconsolabile della crocifissione di Gesù. Nella sua morte, così come in quella di ogni uomo, la speranza nella risurrezione e nella finale ricomposizione del senso e della vita resta del tutto assente: ogni continuità di senso, così come ogni percorso di vita viene irreversibilmente spezzato dall'ultimo grido. Resta soltanto l'angoscia, il buio, la disperazione e l'angustia di una sospensione opaca e senza confini.

È soltanto a chi ha il coraggio di pervenire lucidamente e senza ansie di salvezza ad una simile (in) condizione umana, in cui il fragile splendore dell'umano è ridotta a nulla, a chi non fugge di fronte all'ultimo rintocco della campana della vita, che diviene udibile anche il primo squillo dell'annuncio dell'Apocalisse. Soltanto allora potranno risuonare in una luce non più franta le parole del salmo con cui Welte amava pregare e nella preghiera meditante esprimere non già una richiesta di conforto ma soltanto una speranza non fondabile su nulla ma che nulla può smentire: «perché ero nell'angustia, e Tu mi hai messo al largo» (Sal. 4, 2). In questo modo egli esprimeva la tonalità emotiva fondamentale della sua vita e del suo pensiero: nell'oscurità del nulla e nella lontananza di Dio percepire, d'un tratto, la grazia del donarsi della vicinanza di Dio e lo schiudersi della vastità luminosa del sacro.

È questa esperienza di liberazione insita, anche solo come esigenza segreta ma insopprimibile, nel compimento stesso dell'esistenza umana che, a ben guardare, soggiace all'affermazione del postulato etico fondamentle, attraverso cui Welte sembra invertire solo dialetticamente il senso della considerazione del nulla. Ed è questa stessa esperienza di liberazione che va individuata anche al fondo del concetto di derivazione kierkegaardiana di Ernstfall22 attorno a cui si snodano le riflessioni weltiane sulla morte e sulla speranza.

23. Il morire e la speranza23

La morte è l'evento più serio che possa accadere all'uomo in quanto lo rende serio sottraendolo ad ogni mera sperimentazione e prova non impegnativa nei confronti del proprio cammino di vita, delle relazioni con gli altri e del rapporto stesso con Dio, e lo pone di fronte alla necessità di decidersi in maniera definitiva. Ma la positività della gravità della morte non è da ricercare, tuttavia, nel moralistico imperativo di un'austera e quasi lugubre determinazione eroica della propria esistenza, quasi che il gioco e la molteplice varietà dei fenomeni della vita fossero da annoverarsi necessariamente tra le tentazioni di un'esistenza dissoluta. La gravità della morte, come già lo heideggeriano essere-per-la-morte, libera piuttosto l'uomo dalla volubile dispersione dell'esistenza inautentica che lo destina ad una sicura disperazione, e lo consegna, invece, alla più propria possibilità d'esistere ovvero alla sua più intima vocazione.

Si tratta, dunque, di una liberazione dalla cattiva infinità del dovere freneticamente fare esperienza di ogni cosa e di tentare disordinatamente e febbrilmente i più svariati percorsi di autorealizzazione, si collochino essi nell'ambito del lavoro, dei rapporti umani, dei beni materiali o culturali. Nulla di tutto ciò conserva la sua funzione strumentale di fronte alla morte, quasi che al suo cospetto l'imperativo categorico kantiano del divieto di strumentalizzazione della persona umana (e potremmo aggiungere di ogni cosa umana e naturale) si realizzi perfettamente ed immediatamente. La tanto celebrata ragione strumentale moderna ed il riflesso utilitaristico che essa ha diffuso sull'autocomprensione dell'esistenza moderna svaniscono miseramente sulla soglia della morte: tutto è fine di fronte alla morte, tutto è compiuto; in ciò consiste la sua severa ed illuminante serietà.

Dopo aver analizzato fin dalle sue più antiche formulazioni mitiche la lotta tipicamente umana contro la morte e l'anelito all'eterna giovinezza e all'immortalità, Welte si sofferma sullo sforzo, più o meno consapevole, di rimozione della morte. Tale tentativo, paradigmaticamente espresso dalla celebre affermazione epicurea, poi variamente declinata, della extraterritorialità della morte rispetto alla vita, trova la sua più potente espressione nella nostra epoca, dove, da un lato assistiamo ad una spettacolarizzazione della morte, sia essa quella violenta degli incidenti stradali, delle scene di guerra o degli atti terroristici piuttosto che quella esposta alla pubblica 'consumazione'attraverso i media, e dall'altro, invece, essa si ritrae dall'esperienza di vita dei singoli e delle comunità, confinata nelle sterili camere di ospedale o dentro le mura invalicabili delle anonime e deserte città di cemento dei morti, a cui progressivamente si riducono tutti i nostri cimiteri, tanto che spesso le nuove generazioni non incontrano più la morte ed essa non entra più a far parte della storia personale e familiare, salvo poi fare irruzione occasionalmente in maniera dirompente e distruggere ogni fragile equilibrio psicologico edonisticamente fondato.

Come ha scritto Heidegger riflettendo sulla effettiva portata del nichilismo moderno inaugurato dal celebre annuncio dell'uomo folle nietzscheano della 'morte di Dio', il nostro tempo «è povero non soltanto perché dio è morto, ma anche perché i mortali sono a mala pena in grado di conoscere il loro esser-mortali. Essi non sono ancora padroni della propria essenza. La morte si ritrae nell'enigmatico».24

Che il mistero della morte resti velato -- ed è a questo che tende ogni tentativo tecnico, filosofico o religioso di rimozione o facile consolazione dell'esperienza della morte -- significa che ci resta preclusa la stessa essenza dell'uomo e la sua più propria dignità. La morte, infatti, porta con sé il suggello della definitività ed unicità di ogni nostro atto di vita, così che al suo cospetto l'intero nostro percorso esistenziale riceve la serietà e la dignità sacra dell'unico; la luce che così si riflette sulla nostra esistenza porta già con sé un bagliore di eternità. Ciò che all'interno dei contorni vaghi delle nostro «tempo prorogato fino a nuova revoca»25 appare soltanto effimero, casuale e provvisorio, avanza segretamente nella veste di luce dell'eterno, come ha mirabilmente intuito il poeta Borges:

Chi abbraccia una donna è Adamo. La donna è Eva.
Tutto accade per la prima volta.
I tranquilli animali si avvicinano perché io dica il loro nome.
Ho sognato Cartagine e le legioni che desolarono Cartagine.
Ho visto nel deserto la giovane Sfinge appena scolpita.
Non c'è nulla di antico sotto il sole.
Tutto accade per la prima volta, ma in modo eterno.26

Questo misterioso bagliore di eternità, di cui è intriso il silenzio che la morte diffonde attorno a sé, attraversa le ultime vibranti pagine del testo di Welte. Egli prende dapprima in considerazione le risposte rituali con cui le diverse culture hanno reagito all'evento della morte cercando di metter in forma il morire stesso, attraverso pratiche, culti, cerimonie e consuetudini27 che in forma più o meno secolarizzata si sono trasmesse fino ai nostri giorni, perdendo nella maggior parte dei casi il loro contenuto propriamente religioso o culturale, ma mantenendo pur tuttavia la loro valenza rituale.

La potenza della morte si manifesta proprio nel perdurare di quel profondo timore riverenziale, di quella sorta di sacro 'rispetto', da cui hanno origine i rituali solenni che vengono tuttora praticati, se pure spesso in modo puramente meccanico, nella nostra società tecnicizzata e razionalmente emancipata. Il fatto che quando in determinate circostanze, come in situazioni di guerra o nei casi di stragi o genocidi, tali rituali e tale rispetto per la morte e per i morti non sono osservati, venga percepito unanimemente come una tra le più profonde violazioni della dignità della persona umana, costituisce la più evidente conferma della sacralità che dalla morte si irradia sull'esistenza dell'uomo, dischiudendo la dimensione dell'eterno: «La morte come il sigillo della finitezza lascia pensare all'infinitezza come ad una potenza vivente e sacra».28

La morte si rivela essere, dunque, la «situazione limite» [Grenzsituation] per eccellenza, come la definì in maniera penetrante Karl Jaspers, in cui l'uomo, che ha il coraggio di prenderla sul serio, può giungere al cospetto del totalmente Altro, della trascendenza e del mistero di Dio. Diviene, allora, facilmente comprensibile anche il fatto che in tutte le culture il misterioso cenno della morte abbia assunto un carattere espressamente religioso ed in sé lo mantenga, almeno nel senso di un'apertura al sacro, anche nella nostra società ampiamente secolarizzata.

L'unica autentica alternativa nei confronti della potenza annichilente della morte viene, da ultimo, come si anticipava, individuata da Welte, nella riproposizione del postulato etico e nel ricorso alla fede e alla speranza cristiana nell'annuncio evangelico. Come egli ha cura di sottolineare, non si tratta, tuttavia, di un passaggio obbligato, nel senso che la serietà della morte provoca con il suo cenno misterioso l'esistenza umana alla responsabilità, alla dignità e all'apertura alla trascendenza indipendentemente da questo ulteriore passo che segna già l'ingresso nella fede.

L'esperienza umana e le promesse di Gesù e dell'intera tradizione neotestamentaria, consentono, però, a chi condivide la fede e la speranza cristiane, di percepire la morte come una realtà ma non più come un limite. Gesù, amico e testimone fidato, che con il suo morire ha sostenuto senza conforti ultraterreni il «caso serio» [Ernstfall] della morte in tutta la sua gravità e durezza, è anche colui che ha aperto, con la sua risurrezione, la via che conduce attraverso l'oscura soglia della morte incontro al mistero della vita divina e del Regno, dove la morte non sarà cancellata o rimossa, ma trasfigurata nella gloria della vita eterna, come testimoniano i versetti dell'Apocalisse di Giovanni.

Nelle ultime pagine del suo breve testo sul morire e sulla speranza Welte si sofferma a descrivere con metafore ed allegorie tratte dalla Scrittura, questo inconcepibile realizzarsi della promessa evangelica. Ciò che in questa suggestiva espressione di fede e di speranza cristiane, tuttavia, ci tocca maggiormente, non è l'intento molte volte ricorrente al cospetto della morte e spesso fuori luogo fin quasi a diventare irrispettoso della sofferenza e della disperazione umane, di offrire un'immediata consolazione che taciti ogni lamento ed estingua la sofferenza. Nonostante le più dolci e commoventi promesse e le indescrivibili meraviglie della nuova «primavera di Dio», anche questa nuova vita eterna sarà pur sempre una vita umana, in cui si conserverà la dignità e la fragilità costitutiva dell'uomo insieme alla sua nuova disponibilità a trasfondersi negli altri ed in Dio; in essa la stessa ombra del nulla e della morte non sarà del tutto bandita ma ricompresa in una nuova luce.

4. Il «dio divino» e la filosofia

L'itinerario che finora ci ha proposto Welte verso una esperienza del divino che muova dall'attraversamento del nulla, deve però confrontarsi con due fondamentali obiezioni: la prima è quella classica dell'ateismo che ha attraversato l'intero corso del pensiero occidentale ma che si è manifestata pienamente solo nel pensiero moderno ed in primo luogo in Nietzsche. La seconda è stata sviluppata soprattutto dalla tradizione della teologia positiva ed in ambito filosofico è stata energicamente espressa da Heidegger; essa riguarda l'impossibilità di identificare il mistero assoluto del nulla con il Dio divino, il Dio, cioè, delle religioni rivelate.

Nel suo decisivo confronto con Nietzsche,29 che in modo estremo ha affermato, al culmine della modernità, la necessità di spezzare qualunque legame dell'uomo con la trascendenza, Welte ritrova al fondo del suo impetuoso ateismo, che pure esprime una possibilità essenziale dell'umano, un profondo anelito verso il divino. Se, infatti, ciò a cui tende l'esistenza umana in quanto volontà di potenza è l'essere come pienezza unitaria ed eterna di vita, il «dire di sì» a questa pienezza assoluta dell'esistenza è da Nietzsche stesso definito divino: «Laddove l'essere viene esperito veramente come eterna ed inesauribile profondità e pienezza di vita, e come divino-accresciuto essere-uno, [...] qui l'immagine di Dio viene vissuta come ideale e modello dell'uomo».30 In quanto tende alla divina armonia ed innocenza dell'essere come eterno divenire, l'uomo nietzscheano proteso verso il sacro compimento dell'oltreuomo, è -- biblicamente -- «immagine di Dio», e proprio a causa del divino che è in lui, egli saluta con gioia la «morte del Dio», intesa come morte della morale, dei dualismi ontologici e della repressione della vita. L'ateismo diviene così lo scontro del Dio nell'uomo con il Dio sopra l'uomo.

Con il suo grido Nietzsche dà voce a ciò che intere generazioni, pur senza riuscire ad esprimere, hanno nutrito in sé, ovvero a quella estrema solitudine esistenziale dell'uomo senza Dio [gottlos] che non riesce più a trovare un'immagine esterna per ciò che di sacro e divino continua a percepire dentro di sé. In questo senso Welte considera Nietzsche il più grande testimone spirituale dell'epoca moderna. L'annuncio tragico della «morte di Dio» è un avvenimento sacro in quanto indica verso il sottrarsi del divino, anzi, ancora più radicalmente verso la sua estromissione, ad opera dell'uomo moderno, da ogni ambito dell'esistenza umana, ma allo stesso tempo addita il risplendere della notte di Dio in cui si cela la possibilità del suo avvenire.

L'esperienza dell'ateismo, intesa in senso esistenziale, se nettamente distinta dalle ideologie materialistiche che hanno dominato la scena politica in gran parte d'Europa nel secolo scorso e dalla sempre crescente indifferenza religiosa in cui tradizioni diverse vengono contaminate e svuotate delle loro peculiarità essenziali, è un'esperienza religiosa fondamentale. Un acuto interprete del cristianesimo contemporaneo ha potuto, in questo senso, affermare che «una parte di ciò che viene definito ateismo costituisce un momento importante del cammino di fede in quanto passaggio dalle illusioni religiose alla maturità spirituale».31

Per quanto concerne la seconda obiezione, è lo stesso Welte ad ammettere che sussiste una sorta di «differenza fenomenologica» tra il risultato delle riflessioni sul mistero del nulla e il Dio divino. Ciò cui giungiamo indagando il fenomeno del nulla rischia di essere troppo simile al Dio che la filosofia caratterizza come causa sui, ovvero principio non causato di tutti gli enti.

Già nel suo primo saggio sulla questione del divino in Heidegger,32 Welte, riprendendo le analisi heideggeriane della storia del pensiero occidentale, riconosce come Dio, nell'epoca moderna, divenga l'ente sommo, assicurato nella sua esistenza dai procedimenti dimostrativi del pensiero rappresentativo [vorstellendes] ed in cui tutti gli altri essenti trovano il loro fondamento ontologico. Questo Dio diviene sempre di più un prodotto del pensiero della soggettività moderna; quest'ultima acquista sempre maggiore potere sulla realtà e, alla fine, leva la sua mano anche contro Dio. Così Welte, seguendo Heidegger, interpreta l'annuncio nietzscheano della morte di Dio come un'estrema conseguenza del compimento della storia dell'essere.

L'epoca moderna, che, secondo l'impostazione heideggeriana si identifica con l'epoca del compimento tecnico-scientifico della metafisica, è caratterizzata da ciò che i versi di Hölderlin chiamano l'assenza di Dio [Fehl Gottes], proprio perché ha perso ogni altra possibilità di accostarsi al mistero di Dio che non sia quella del pensiero rappresentativo ed assicurante. Il ruolo decisivo di Heidegger, secondo Welte, consiste proprio nell'aver mostrato, alla maniera della teologia negativa, ciò che il «dio divino» non è. Ma che ciò significhi tutt'altro che indifferenza nei confronti della questione del divino è provato dall'interesse che Heidegger, attraverso la poesia di Hölderlin, manifesta per il sacro, ovvero per quella regione, a partire dalla quale si può tornare a fare esperienza del divino.33 Ma anche la dimensione del sacro rimane preclusa all'uomo moderno se non prima si illumina la verità dell'essere,34 ossia la «luce del nulla» in quanto mistero del venire al senso e alla presenza degli essenti. Ciò che il poeta chiama il sacro e che il pensatore interpreta come apertura (Lichtung) dell'essere non è altro che l'apparire del mistero del nulla in cui si mostra la traccia del divino, se pur il dio resta nascosto.

Nel mistero del nulla, nella dimensione del sacro, nominata dai versi di Hölderlin come la dimensione dell'intoccabile [Unantastbarkeit] e della vastità [Weite], «abita» [wohnt] il dio. Così, Welte commenta questo passo decisivo per l'interpretazione della questione del divino in Heidegger: «Nella notte del nulla, nel notturno e pertanto anche sereno dell'essere si custodisce e si nasconde il Dio. Egli si nasconde, perché non appare. Egli si custodisce, poiché (nella notte) attende e manda avanti il sacro come sua traccia. Egli si custodisce e si nasconde, aspettando in essa di apparire nel suo tempo».35 La notte del nulla sarebbe, allora, il modo in cui l'«altissimo» [der Hohe] -- parola con cui Hölderlin nomina ciò che Heidegger intende per «dio divino» -- manifesta la sua presenza come sottrazione ed il mistero del sacro indicherebbe, dunque, l'apparire del «cenno» del divino che si sottrae,36 così come l'estrema concrezione umana del nulla, la morte, viene pensata come mistero assoluto in cui si custodisce l'essere.

Chi sa vivere fino in fondo la propria mortalità, ovvero il proprio essere integralmente circondato dalla notte del nulla, chi ha il coraggio di esporsi meditando al suo abisso e, a partire da questa esperienza abitare il mondo in modo nuovo, costui, nella quiete della meditazione, potrà percepire i cenni segreti del divino. Questi cenni provengono dal nulla e con voce atona toccano il cuore dei mortali per indicare, al di là della totalità degli essenti, di nuovo verso il nulla, verso l'infigurabile e l'inattingibile.

In conclusione del suo confronto con il pensiero di Heidegger, Welte cita una frase che Heidegger pronunciò in occasione delle celebrazioni per il suo ottantesimo compleanno: «Non è forse il nostro abitare il soggiorno nel venir meno [Vorenthalten] dell'altissimo?». L'uomo moderno avrebbe il suo luogo nella sottrazione di Dio, in modo tale che l'intera sua esistenza, il suo rapporto con il mondo, il suo agire, conoscere e pensare ne sarebbero essenzialmente determinati. Secondo Welte l'intero Denkweg heideggeriano sarebbe il tentativo di meditare intorno a quest'unica domanda e di preparare lo spazio per un'esperienza post-metafisica del divino.37

Corrispondentemente si può affermare che l'intera opera weltiana sia il tentativo di delineare una teologia post-metafisica.38 Come per Heidegger la metafisica che si compie nella scienza e nella tecnica moderne costituisce l'epoca finale della storia dell'essere a cui egli cerca di contrapporre, attraverso una meditazione del grande inizio greco, un altro inizio post-metafisico del pensiero, così per Welte il compito della teologia contemporanea è quello di superare l'impostazione metafisica che ha dominato la teologia moderna, attraverso un ritorno alle origini non ancora metafisiche del Cristianesimo. Ciò non significa una ripresa meramente storiografica e nostalgica di dottrine e culti antichi, ma una nuova traduzione dell'antico messaggio evangelico nel contesto storico dell'uomo contemporaneo e del suo orizzonte esperienziale, dal momento che ogni possibile teologia si svolge sempre nel mezzo di una comprensione storicamente determinata dell'essere, la quale comprensione dell'essere, come ha mostrato Heidegger, deriva dal modo in cui l'essere epocalmente si concede all'uomo.

Così come Heidegger si propone di superare [verwinden] la metafisica, nel senso di andare al di là del suo compimento, Welte mira ad un superamento [Verwindung] della cristologia tradizionale. Ciò non significa rigettare le formule dogmatiche enunciate nei grandi concili della tarda antichità e che tuttora stanno a fondamento della dottrina della Chiesa, bensì riconoscere la relatività storica degli strumenti di pensiero con cui l'originario contenuto biblico vi ha trovato espressione.39

La formula con cui il Concilio di Nicea nel IV secolo proclamò che Gesù Cristo è della stessa sostanza (homoousia) del Padre, rappresenta, in modo paradigmatico, una svolta epocale non solo per la cristologia ma per l'intera storia del cristianesimo che, da allora in poi, entra nell'orizzonte della metafisica: «A Nicea finì per predominare nella teologia la comprensione dell'essere della metafisica occidentale mentre la comprensione dell'essere predominante nella Bibbia era di natura più originaria, premetafisica, e più che altro sembra si possa spiegare in base al concetto di avvenimento [Ereignis]».40

Nei testi del Nuovo Testamento, infatti, il messaggio e la rivelazione di Gesù vengono espressi soprattutto come evento della vicinanza del regno di Dio: non si dice ciò che è, ma ciò che avviene, così come di Gesù non si spiega mai -- né mai viene domandato -- quale sia la sua essenza o sostanza (termini, questi, propri della filosofia greca e del tutto estranei all'orizzonte concettuale biblico), ma piuttosto chi egli sia e che cosa significhino la sua venuta, crocifissione e resurrezione per il destino dell'uomo. Nella Bibbia si narra una storia e non si tratta mai di rispondere alla domanda metafisica fondamentale «che cos'è?». L'evento, infatti, a differenza della definizione, tipica del pensiero metafisico -- e da Nicea in poi anche di quello teologico -- ha il potere di interpellare direttamente il credente, di coinvolgerlo e toccarlo nel suo intimo.

La verità della fede non può essere identificata con alcuna delle definizioni che la filosofia ha dato della verità: non è né adequatio intellectus et rei, né correttezza della predicazione, né conformità dell'a priori trascendentale con il dato empirico. Essa, piuttosto, ha il carattere dell'evento [Ereignis] .41 Questa figura divenuta centrale in ambito filosofico grazie soprattutto a Rosenzweig e all'ultimo Heidegger e a Barth, Bultmann, Ebeling e Fuchs nella teologia protestante, caratterizza la verità della fede più che altro in senso negativo; la verità dell'evento non è un oggetto atemporale né una qualunque forma di validità ontologica, essa semplicemente ha luogo, accade, a-viene all'uomo dalla sua origine divina e lo tocca in ciò che gli è più proprio.42 La verità della fede ha così poco a che fare con la verità in senso filosofico-metafisico che essa può essere identificata con la stessa persona di Gesù il quale esplicitamente si dichiara non solo testimone della verità (Gv 18, 37) ma anche l'evento stesso in cui la verità consiste (Gv 14, 6 e 5, 6). La verità della fede, dunque, ha un carattere eminentemente temporale ma anche una validità universale: accade in un tempo, ma una volta per tutte, nel senso che, pur parlando dalla sua unicità storica, essa ha il potere di manifestarsi in ogni epoca e di interpellare ogni uomo. Inoltre tale verità, a differenza della verità della filosofia o della scienza, possiede la forza di modificare profondamente l'uomo che nella fede l'accoglie.

Questa concezione della verità, che la pone su un piano non più teoretico ma propriamente esperienziale, assume, dunque, dei tratti analoghi all'esperienza del nulla da cui abbiamo preso le mosse e ci riconduce, adesso, alla seconda via lungo la quale Welte s'inoltra nella considerazione propriamente teologica della «notte di Dio».

5. La «luce oscura»: il dialogo con Meister Eckhart

Nella storia del Cristianesimo vi è una grande tradizione, la cosiddetta teologia negativa, all'interno della quale Dio appare e viene esperito come il nulla ed in cui vengono meno tutti i concetti e le immagini che il linguaggio teologico e metafisico occidentale ha formulato per pensare Dio e il divino.

Già nel quarto secolo, Gregorio di Nissa descrive l'incontro di Mosé sul monte Sinai come l'esperienza di un vedere che sprofonda nell'oscurità del mistero inconcepibile di Dio: ciò che viene visto è propriamente un «non-vedere», cioè l'infigurabile tenebra del nulla.43 Qualcosa di ancora più ardito si ritrova presso lo Pseudo Dionigi l'Areopagita che visse a cavallo tra il quinto e il sesto secolo ma esercitò un notevole influsso su tutta la teologia medievale. Nei suoi scritti Dio viene caratterizzato come anonymia, cui non conviene alcun nome e predicazione: egli, non essendo essente in quanto al di là di tutti gli essenti, finisce necessariamente per identificarsi con il nulla.

Ma il più grande testimone medievale della «notte di Dio» in cui si inabissa ogni concettualità metafisica è senz'altro il mistico Meister Eckhart. Nelle sue opere Dio viene esperito, al di là dei sommi concetti di bene, giustizia, misericordia, onnipotenza, come deserto e desolazione, come puro nulla.

Eckhart non rappresenta un momento isolato ed estremo nella storia della teologia cristiana, intesa in senso lato come meditazione sul Dio dei profeti e di Gesù; egli, piuttosto, si pone come crocevia al centro di una millenaria tradizione che ha origine nei testi apocalittici e, passando per la filosofia neoplatonica, arriva al pensiero medievale e alla filosofia moderna fino alla filosofia dell'esistenza e al nichilismo del XIX e XX secolo. Al centro di questa tradizione che ha attraversato se pure in modo minoritario e sotterraneo l'intero corso della filosofia occidentale, vi è l'idea che la verità sia in rapporto con il nulla piuttosto che con l'essere, che, anzi, la verità sia rivelazione del nulla. Già l'Apocalisse si presenta come rivelazione del nulla, del nulla in cui Dio precipita la sua creazione e la sua stessa opera redentrice, consegnandosi alle furie della distruzione e dell'autodistruzione. Ma anche il nulla come sfondo a partir dal quale soltanto la salvezza (salvezza di un «resto» strappato all'annientamento) è possibile.44 Soltanto attraverso l'esperienza dl nulla, della sofferenza e dell'espiazione diviene possibile la redenzione dell'uomo e dell'intera realtà.

Eckhart riprende e sviluppa quest'idea temeraria attraverso la mediazione dell'ontologia plotiniana in cui il nulla si pone come l'abissale dimensione dell'Uno che sta al di là dell'essere. Riprendendo Agostino che commenta la conversione di san Paolo, così egli si esprime: «Quando san Paolo vide il nulla, allora vide Dio».45 La visione incontra quel punto cieco da cui ogni vedere scaturisce: chi riesce a vedere il nulla, vede Dio; questo per Eckhart significa vedere nel nulla null'altro che Dio, ma anche vedere il nulla in ogni cosa e quindi Dio in ogni cosa. Là dove la realtà sprofonda nel nulla, il nulla s'illumina nella sua luce divina. Dio si manifesta nel nulla, nel deserto, nello svuotamento e non soltanto, secondo un topos classico della tradizione mistico-ascetica, lungo la via che li attraversa. Eckhart si spinge addirittura ad affermare che Dio stesso viene generato dal nulla in quanto differenza assoluta da ogni predicazione positiva dell'essere; realtà superessenziale che si colloca al di là della vita, della luce e dell'essere, il Dio di Eckhart rivela e accoglie in sé il nulla di tutte le cose, la loro contingenza, precarietà e creaturalità per cui esse «vivono di nulla».

È evidente, dunque, che Welte sia attirato dalla «luce oscura» [das dunkle Licht] della divinità che emana dal pensiero eckhartiano. Nelle opere eckhartiane, egli vede, inoltre, la massima testimonianza di quella possibilità, che in senso heideggeriano potremmo definire non-metafisica, insita nella più grande tradizione di pensiero metafisica del Medioevo, ossia nella filosofia tomistica. Già in Tommaso, infatti, Welte scorge questa possibilità secondo cui Dio, in quanto eccede il sistema predicativo ed ontologico delle categorie aristoteliche, non può essere oggetto del pensiero concettuale; ma esiste, per Tommaso, un'altra forma di pensiero che è, invece, in grado di «toccare» [berühren] Dio: «Concepire Dio è impossibile per ogni spirito creato, ma toccare [berühren] Dio con lo spirito -- comunque ciò possa avvenire -- è la più grande delle benedizioni».46 È in questo «tocco» del pensiero che la più grande negatività dell'inconcepibile si trasforma nella sublime positività del mistero divino.

In Tommaso si assiste, dunque, alla lotta tra la potenza della concettualità metafisica, che otterrà il predominio nella scolastica successiva, e l'impossibilità di concepire il mistero di Dio; soltanto Meister Eckhart, anch'egli domenicano come Tommaso, riprende e sviluppa fino alle sue conseguenze estreme questo fallimento della metafisica nei confronti della domanda su Dio. Egli riprende quella modalità del pensare come «toccare» spirituale, che in Tommaso era rimasto solo accennata, e la sviluppa nella figura della Abgeschiedenheit;47 si lascia -- e ci lascia -- sprofondare consapevolmente nel nulla, nel deserto di Dio dove tutte le immagini e le determinazioni tradizionali del pensiero vengono meno. In questo senso Welte può addirittura definire Eckhart il più grande di tutti i tomisti: «Egli ha ripreso il pensiero più grande e più celato di Tommaso intorno alla domanda su Dio e lo ha sviluppato fino ad una conseguenza che può quasi far paura e che lo stesso Tommaso certamente non vide».48 Ma tale sviluppo 'eterodosso'del tomismo è senz'altro quello che più interessa a Welte in quanto egli lo considera il più attuale nel contesto moderno, caratterizzato dall'assenza o morte di Dio e dal processo ormai planetario e totale di secolarizzazione; ad esso ci si può richiamare per ripensare Dio alla «luce del nulla».

Soltanto nello stato della Abgeschiedenheit l'uomo può ricevere Dio nel suo spirito, soltanto se si libera di ogni immagine e figura delle cose del mondo che, pure, ineriscono essenzialmente all'esistenza umana. Non si tratta, infatti, di rifiutare asceticamente ogni contatto con il mondo, ma di instaurare un rapporto con le cose mondane privo di «qualità» [Eigenschaft]; nel linguaggio eckhartiano rapportarsi alle cose con «qualità» vuol dire appropriarsi di esse attraverso la nostra attività, considerarle nostra sicura proprietà [Eigentum], disporre di esse per raggiungere i nostri scopi. Qui, nota Welte, si può rilevare un'interessante vicinanza con ciò che Heidegger chiama il pensiero rappresentativo e assicurante.49 Avere un rapporto «senza qualità» con le cose del mondo, significa, invece, riuscire ad operare un radicale cambiamento [Umstellung] di prospettiva esistenziale che consenta di accedere, appunto, alla Abgeschiedenheit. Questa si manifesta in primo luogo in forma negativa: nel celebre sermone sul testo evangelico «beati i poveri di spirito», la povertà spirituale, attraverso cui Eckhart pensa la Abgeschiedenheit, viene interpretata come il non volere, il non sapere e il non avere nulla, laddove, volere, sapere ed avere sono, infatti, i modi fondamentali dell'essere-nel-mondo con «qualità». Eckhart si spinge addirittura ad affermare che l'uomo deve divenire uguale al nulla; ciò è da intendere nel senso di una radicale trasfigurazione della sua esistenza mondana che può realizzarsi soltanto attraverso il momento negativo del «passaggio al nulla».

Questa de-qualificazione dell'esistenza non costituisce un mero processo edificante di ascesi dal mondo sensibile e dalle sue tentazioni, ma ha il senso, soprattutto, di una liberazione che permette all'uomo di aprirsi ad un'esperienza più originaria ed autentica del mondo e di Dio. Così scrive Welte: «Quando io sono pura quiete, sono anche pura apertura, pura vastità [Weite] . In quanto pura vastità sono anche pura ricettività [Empfänglichkeit]».50 Soltanto nella quiete e nella trasparenza interiore conquistate attraverso l'esperienza del nulla, l'uomo può accedere ad un nuovo rapporto con le cose: nel lasciar essere della pura ricettività si dispiega e si dona l'originaria vastità del mondo. Non volere, non sapere e non avere nulla significa, allora, volere, sapere ed avere la libera vastità del mondo a partire dal nulla.

Nell'analizzare l'Abgeschiedenheit, Welte pone l'accento da un lato sulla sua vicinanza con l'epoché fenomenologica e la Gelassenheit heideggeriana,51 dall'altro sull'orizzonte speculativo da cui essa sorge pur differenziandosene notevolmente. Lo sfondo ontologico di questo pensiero, che in sé reca possibilità oltre-metafisiche, è costituito dal pensiero dello stesso fondatore della metafisica occidentale, ovvero dalla filosofia di Aristotele mediata dai grandi commentatori medievali, primo fra tutti Tommaso. Secondo lo Stagirita, infatti, solo in quanto pura apertura e ricettività, in quanto in sé stesso vuoto e separato dalle cose e dalle loro immagini, l'intelletto umano può cogliere le forme del mondo, così come l'occhio è in grado di percepire i colori solo nella misura in cui esso non è colorato, ovvero è un nulla di colori.52 La potenza -- in senso aristotelico -- dell'anima consiste nel riuscire a farsi nulla rispetto alle «qualità» sensibili e potere, grazie a ciò, percepirle; nella Abgeschiedenheit questo processo viene portato all'estremo e nel nulla d'essente l'anima vede l'oscura luce di Dio.

L'originalità eckhartiana consiste nell'aver declinato questa tradizione fondamentalmente gnoseologica in senso esistenziale e religioso, per cui l'apertura indefinita dell'intellectus separatus di matrice aristotelica diviene la trasparenza stessa dell'esistenza umana che, se pure sempre offuscata e limitata dalle affezioni mondane, mantiene nel suo intimo la possibilità di accogliere e riflettere la luce del mistero divino.

Al di là dei concetti metafisici fondamentali di Verità, Bene ed Unità con cui la filosofia medievale concepisce Dio, Eckhart ne inscrive l'esperienza nelle due ricorrenti figure della solitudine [Einöde] e del deserto [Wüste]: esse -- potremmo dire con un linguaggio certo non eckhartiano -- designano due ambiti fenomenologici in cui viene meno ogni determinazione, ogni concetto, persino ogni nome; in esse regna il nulla, ma un nulla che ci viene incontro come pura e sconfinata «vastità». Il nulla, dunque, appare come deserto solo dal punto di vista della metafisica, poiché in esso ogni figura, ogni verità, ogni concetto, ogni volere ed infine ogni essente si inabissa; eppure questo deserto, anche se non più concepibile, è, pur tuttavia, oggetto di esperienza, da parte dell'uomo che è pervenuto all'Abgeschiedenheit; questa esperienza della pura vastità e della terribile [ungeheure] quiete del nulla è forse l'esperienza decisiva per ogni esistenza umana.

Ed è proprio in questa estrema esperienza che, mentre tutti i nomi di Dio svaniscono, nel vuoto di ogni parola ed immagine, perfino della stessa parola rivelata, ci ritroviamo al cospetto del Suo mistero.53 Così come Dio perde tutti i suoi attributi e si identifica col nulla, anche l'uomo perde tutti i suoi punti di riferimento e tutte le sue «qualità»; in questo processo di decantazione estrema in cui svaniscono tutte le determinazioni metafisiche del mondo e dell'uomo, viene meno la stessa opposizione soggettività-oggettività che avrebbe dominato l'intero pensiero moderno: «Con l'oggettività del pensiero rappresentativo scompare anche la soggettività, ed appare qualcosa di totalmente nuovo, al di là o al di qua di oggettività e soggettività e della loro opposizione».54

Nella «luce oscura» che promana dall'abisso della notte divina scompaiono tutte le opposizioni, e persino l'individualità unica ed irripetibile del nostro esserci lascia spazio, pur senza dileguare, ad una superiore unità: nel fondo della noche oscura, che è poi la nostra notte, la notte dell'Occidente nell'epoca dell'eclissi di Dio, lo sguardo dell'uomo sul nulla e l'apparire della luce oscura del mistero di Dio divengono tutt'uno nella vastità che tutto avvolge ed in cui, come dice Meister Eckhart, la più pura felicità ci può avvenire, la felicità della più grande liberazione: «perché ero nell'angustia, e Tu mi hai messo al largo».

6. Essenza e non-essenza della religione

Insieme con la meditazione sull'esperienza del nulla e della morte, in cui è senz'altro decisivo il confronto con Nietzsche, Jaspers, Heidegger e con la tradizione mistica e della teologia negativa, un altro contributo originale e di stimolante attualità dell'articolata ed ampia fenomenologia della religione e delle religioni di Welte, è, poi, la riflessione sulla distinzione tra essenza e non-essenza della religione e, strettamente connesso a ciò, il rapporto tra religione ed ideologia.55

I luoghi, le pratiche, i riti e le istituzioni religiose, così come ogni affermazione teologica o dogmatica, che generalmente vengono considerati il nucleo di ogni religione, non sono 'religione'per il loro immediato contenuto oggettivo suscettibile di essere compreso in maniera razionale e sistematica, ma solo nella misura in cui sono in grado di accogliere e rappresentare in un contesto storico-culturale determinato le autentiche pratiche religiose, ossia la fede, il culto, la preghiera nella loro immediata effettività e concretezza. Quando le rappresentazioni, le dottrine, le istituzioni, i riti e tutte le forme di organizzazione della religione non assolvono a tale compito di «accoglienza» dell'uomo religioso e delle manifestazioni della sua fede, esse non possono più dirsi 'religione'in senso essenziale.

È importante, a questo punto, notare che la distinzione di Welte tra essenza e non essenza della religione non assume mai una forma meramente morale o moralistico ed è questo il motivo per cui egli preferisce ai due termini eigentlich [autentico] e uneigentlich [inautentico], (con cui lo Heidegger di Essere e tempo, aveva caratterizzato le due modalità esistenziali dell'essere-nel-mondo del Dasein, con il rischio, mai del tutto scongiurato, di un'interpretazione morale di queste due categorie ontologiche) la coppia di termini wirklich [reale, effettivo] e scheinbar [apparente, illusorio] . Il rapporto tra essenza e non-essenza non attiene, infatti, all'ambito delle decisioni, della coscienza e della retta volontà umana, ma del fenomeno stesso della religione. Unwesen nomina, infatti, qui il risvolto negativo dell'essenza che però fa essenzialmente parte di essa.

Le forme religiose, dunque, non sono necessariamente espressione né della essenza né della non-essenza o malaessenza della religione, ovvero non sono sempre in contatto con l'essenza effettiva dell'uomo religioso ma nemmeno ne costituiscono un necessario tradimento. Esse sono, dunque, intrinsecamente ambigue.

Possiamo parlare -- scrive Welte -- di sfere di mediazione o media, in cui si incarna la vita effettiva della religione e possiamo di conseguenza distinguere la religione in se stessa dalla sua vita nelle sue sfere di mediazione. La religione nel suo significato originario si rappresenta, si realizza e si comprende nella lingua, nei riti, nelle istituzioni e così via; attraverso ciò essa dispiega la sua esistenza tra gli uomini, anche se proprio in ciò essa può nascondere la sua effettività a causa dell'ambiguità delle sfere di mediazione.56

Tale ambiguità è però necessariamente intrinseca al fenomeno religioso dal momento che «la stessa religione sollecita una mediazione e la esige. Essa vuole e deve costituirsi nella presenza concreta, altrimenti non accede alla pienezza della realtà umana effettiva. Ma proprio a causa di ciò essa deve inoltrarsi in una sfera di ambiguità».57

È proprio in queste sfere di mediazione che si origina la distinzione tra essenza e non-essenza della religione, così che si potranno definire religioni essenziali quelle in cui il rapporto tra essenza e sfere di mediazione è in se stesso essenziale e religioni non-essenziali quelle in cui a causa della debolezza dell'effettività delle forme religiose, tale rapporto si appanna e diviene contingente e le sfere di mediazione diventano autonome; in tale emancipazione sorgono forme ingannevoli e degeneri di religione.

In questa prospettiva diviene decisiva la considerazione della fede intesa genericamente come la realizzazione effettiva del rapporto tra l'uomo e Dio. Tale realizzazione si esprime, secondo Welte, nel fatto che l'uomo, in tutta la sua interezza, si abbandoni interamente a Dio e al Suo mistero. Ciò richiede, dunque, non soltanto una completa dedizione a Dio che, se assolutizzata condurrebbe ad un dileguarsi mistico dell'uomo nel divino, ma anche un processo di intimo raccoglimento dell'uomo in se stesso che metta in gioco la totalità [das Ganze] del suo essere, le pienezze e le mancanze insite in ogni aspetto dell'esistere ed insieme le tensioni inconciliabili e segrete di cui palpita la nostra 'carne'. Di questa vita raccolta dell'umano fanno parte tutte le possibili situazioni della sua esistenza, le speranze e le delusioni, la gioia e la sofferenza, ma soprattutto fa parte il dischiudersi del suo cuore segreto, la sua intima rivelazione.

Nella serietà [Ernst] di un tale raccogliersi e rivlearsi, che potrebbe confondersi con l'emancipazione definitiva e tipicamente moderna dell'io che possedendo se stesso si innalza a misura assoluta della totalità del reale, l'uomo scopre che può giungere ad 'aversi'interamente soltanto nel momento in cui si abbandona e si dona completamente alla sfuggente e sacra realtà del divino. L'effettività della fede consiste proprio in questo abissale ed incondizionato mettere in gioco la totalità della propria esistenza. Soltanto nella dedizione illimitata ed incondizionata di se stessi si può credere.

Tale gravità della fede, grazie alla sua estrema acutezza di discernimento, esercita una fondamentale funzione di chiarificazione e di orientamento nell'ambito della mediazione religiosa; essa impedisce il proliferare di pensieri astratti e rappresentazioni solo parziali e promuove, invece, una forma più povera, sobria ed effettiva di religiosità in cui l'uomo possa realizzare nell'orizzonte molteplice della sua provvisorietà e caducità mondane, la sua intima vocazione di unità ed essenzialità. Le pratiche integrali di fede che mirano in primo luogo alla verità raccolta dell'umano sono alla base delle grandi religioni che hanno segnato fin dalle sue origini la storia dell'umanità.

L'estrema difficoltà di questo intimo raccogliersi e donarsi dell'uomo, ovvero la difficoltà di assumere su di sé la gravità della fede, costituisce la causa 'esistenziale'della generazione della religione. La religione che perde la sua essenza, ossia la sua effettività di fede, tuttavia non scompare del tutto, ma produce una tendenza fortemente conservatrice in cui la fede viene rigidamente espressa e il rapporto con la rivelazione storica diviene sempre più sclerotizzato.

Quando la fede perde le sue più vitali radici, le forme di mediazione destinate ad accoglierne le manifestazioni divengono facile preda di interessi mondani che servono i processi di potenziamento autoreferenziale e disunente della soggettività 'armata'dell'uomo. Tali interessi destrutturanti, dunque, costituiscono forze degenerative, ossia de-essenzializzanti, della religione in quanto si contrappongono all'atto originario di fede che implica, come abbiamo visto, l'impegno dell'uomo nell'interezza delle sue manifestazioni e, allo stesso tempo, il suo farsi integralmente dono. Sorge così una forma decaduta di religione la cui non-essenza resta del tutto invisibile a se stessa in quanto a predominare è lo splendore idolatrico e autorassicurantesi delle rappresentazioni religiose svincolatesi ormai da ogni fondamento di fede e quindi divenute astratte ed incapaci di svolgere la loro originaria funzione di mediazione.

Quando le sfere di mediazione della religione nella loro incontrollata e degenere proliferazione si isolano e si astrattizzano, dando origine a pratiche cultuali perfettamente normate ed a sistemi concettuali pietrificati e ripiegati su se stessi, esposti costantemente al rischio di settarismo, che, se pure possono ispirare condotte 'devote'di vita e sentimenti religiosi, la religione si distacca, in realtà, sempre più dall'effettività del sacro e dal suo concreto orizzonte di senso, perdendo, dunque, ogni possibilità di accogliere l'integralità e l'essenza dell'esistenza umana.

Mentre la serietà della fede mostra la forza quieta dell'effettività del reale, le forme non-essenziali di religione esibiscono una forza tendenzialmente violenta e squilibrata, da cui si origina il fanatismo, che necessariamente deve imporre i suoi sistemi d'ordine rigidamente codificata e meramente funzionali in una molteplicità asfissiante di precetti e norme, per dissimulare la mancanza o la deficienza di effettività su cui esso è sospeso. La sua violenza non è altro che una sorta di impotente e disarticolata resistenza contro la sommessa potenza della vera fede.

Nella proliferazione ed assolutizzazione delle forme di mediazione si radica anche la possibilità di degenerazioni ideologiche della religione. Nel testo dal titolo Ideologie und Religion del 1980,58 Welte analizza il rischio intrinseco ad ogni religione di assumere dei tratti ideologici. In ogni religione, infatti, può accadere che la forma esteriore della fede, ossia pratiche, rituali e simboli, si moltiplichino sotto l'influsso più o meno palese di un interesse che non è essenzialmente religioso, ma che vuole assumere sembianze religiose per poter affermarsi. L'assolutizzazione dei mezzi religiosi corrisponde al tratto alienante caratteristico di ogni ideologia intesa come interpretazione totalizzante dell'esserci umano che però si nutre di interessi inadeguati all'integralità dell'esistenza. Tali interessi, costantemente rimossi nella prassi ideologicamente orientata, si appropriano subdolamente delle forme di mediazione e di espressione della religione, della lingua e delle rappresentazioni religiose, lasciando invece da parte la sua essenza, ossia la serietà e l'effettività della fede.

Con l'aiuto di ciò che nella religione si presta ad essere oggetto e soggetto di organizzazione e di mobilitazione morale, sociale e politica, questi interessi consolidano la loro potenza operativa e strumentalizzano le pratiche religiose. Che ciò possa accadere, tuttavia, non è da attribuirsi, secondo Welte, alla forza dell'ideologia ma alla debolezza dell'uomo che di essa diviene preda, il quale non riesce a sostenere l'insicurezza e la gravità della propria fede in quella che lo Heidegger dei primi anni venti (certamente presente in queste riflessioni weltiane) chiamava l'effettività della vita e si rifugia nell'irrigidimento e nella rassicurazione apparente dell'ideologia ovvero delle Weltanschauung dominanti.

L'essenza di ogni ideologizzazione della religione -- in cui si radica il fanatismo -- è, dunque, la volontà di autoassicurazione dell'uomo che vuole disporre di ogni possibile mezzo per soddisfare la propria esigenza di potenza e che cerca disperatamente di rimuovere tale sua 'diabolica'esigenza travestendola delle forme austere della religione, la quale, allora, diviene strumento ideologico funzionale all'affermazione della «volontà di potenza» dell'uomo e sua estrema legittimazione.

Tale volontà di potenza, come Welte ha mostrato nel suo confronto con Nietzsche,59 tende invano al raggiungimento di un assoluto di potenza e di felicità nell'affermazione autoreferenziale ed incondizionata della volontà, così che anche l'oltreuomo non può che rimanere prigioniero del disperato tentativo di pervenire all'assoluto attraverso l'infinita sperimentazione di possibilità e mezzi finiti; un processo del tutto assimilabile al tentativo di compimento 'assoluto'della metafisica occidentale espresso nella capitale affermazione nietzscheana «attribuire al divenire i caratteri dell'essere: è questa la suprema volontà di potenza» che, secondo l'analisi heideggeriana, costituirebbe l'emblema stesso del nichilismo.

La religione che ha perso la sua essenza e che, quindi, rischia di divenire ideologia e fanatismo, si serve della rappresentazione religiosa dell'assolutezza e trascendenza di Dio per rimuovere questo ineluttabile fallimento della potenza umana. In tale processo di rimozione si cela, secondo Welte, la forma più pericolosa di ideologizzazione della religione in cui la fede in Dio diviene solo un mascheramento ingannevole della fede dell'uomo in se stesso che aspira disperatamente all'assoluto all'interno della sua autistica autoreferenzialità da cui è bandita ogni esperienza effettiva del sacro e della trascendenza.

7. La filosofia nella teologia e la teologia nell'Università

Lo strumento con cui individuare e combattere il pericolo di ideologizzazione della religione è fornito, secondo Welte, dalla riflessione filosofica e dal ruolo critico ed esplicativo che essa da sempre ha svolto nei confronti della fede; non già, però, delle filosofie teoreticistiche e razionalistiche ma di quelle in grado di pensare l'integralità dell'esistenza umana e della fede, dal momento che soltanto un uomo che si comprende nell'intera ampiezza del suo essere umano può pervenire ad una fede responsabile e soltanto nel pensiero una tale fede può trovare giustificazione e compimento, secondo il classico programma anselmiano fides quaerens intellectum.

Qui, tuttavia, il pensiero è da intendersi, nella prospettiva weltiana, non più classicamente come ricerca del sapere o modernamente come pratica scientifica, ma, secondo la lezione kantiana, come il domandare intorno ai confini del sapere e, in consonanza con tutto il Denkweg heideggeriano, come interrogazione sul senso e sui confini dell'essere-nel-mondo a partire da una precomprensione dell'essere stesso sempre storicamente ed esistenzialmente determinata. Tale sapere non costituisce alcuna conoscenza oggettiva, in quanto in esso il limite, si rivela essere non già un essente ma un'esperienza, come nelle jaspersiane Grenzsituationen, che colpisce e trasforma l'uomo fino a sconvolgerlo e ad aprirlo alla trascendenza. Il limite si mostra come ni-ente al pensiero che vuole com-prendere e dispiega la sua funzione propriamente simbolica -- nell'accezione pareysoniana sopra ricordata -- in quanto indica l'inconcepibile ulteriorità dell'Essere che nella fede assume la forma della rivelazione. Soltanto quando l'uomo con il suo interrogare si spinge fino ai confini del proprio essere-nel-mondo, la risposta offerta dalla fede biblica può venire percepita in tutta la sua portata e ad essa si può corrispondere nell'attuazione [Vollzug] effettiva della fede.

Nelle Grenzsituation il pensiero si trova, infatti, a confrontarsi con un'alterità che lo sfida e, al contempo, è il pensiero stesso che sfida tale alterità a fornirgli una risposta; solo in questa costante relazione reciproca tra l'uomo nella sua integrità di interrogante e l'appello della trascendenza, la fede può restare vitale e al riparo da ogni ideologia. Allo stesso modo la teologia resta legata alla sua essenza più vitale fin tanto che si rivolge a questa relazione ed accetta l'incessante sfida che il pensiero rappresenta per la fede e la fede per il pensiero.

Con questa formulazione della teologia Welte può rispondere alla domanda decisiva che chiede quale sia il ruolo della filosofia nella teologia; in base ad essa si definisce, come suggerisce Welte, nell'ambito dell'universitas studiorum anche il ruolo che la teologia ha occupato nella storia e può legittimamente aspirare ad occupare anche nel nostro tempo.

In epoca medievale la risposta a tale domanda, che ha costituito il fondamento su cui è nata l'università europea, è stata quella definita da Anselmo di Canterbury con il programma credo ut intelligam, che mirava all'inserimento sistematico delle modalità di pensiero ereditate dalla filosofia greca -- in particolare aristotelica -- nella teologia intesa come scienza della fede con lo scopo di costruire una solida struttura razionale capace di giustificare e legittimare il positum della rivelazione cristiana. Tale inserimento funzionale della filosofia nella teologia nella forma anselmiana ed il conseguente sviluppo della teologia come scienza teoretica divenne, tuttavia, il primo decisivo passo che avrebbe avviato il sapere verso l'emancipazione della filosofia e delle scienze naturali fino alla creazione delle università europee sullo scorcio del Medioevo.

Dopo la crisi del XVIII sec., la teologia torna ad assumere un ruolo centrale nell'orizzonte del sapere grazie all'esperienza filosofica dei pensatori dell'idealismo tedesco che con il loro rivoluzionario approccio speculativo ripropongono una teologia filosofica che, in senso rinnovato, si pone al centro della rinascita degli studi accademici.

Negli anni cinquanta del secolo scorso, infine, in cui culmina l'impegno accademico di Welte che tra il 1954 e il 1955 è rettore dell'Università di Friburgo, la crescente specializzazione e la crisi dei fondamenti metodologici delle scienze, determinano una nuova situazione di inquietudine dell'università in cui è richiesta una rinnovata meditazione intorno ai fondamenti e alle prospettive del sapere. Ancora una volta, secondo Welte, che come docente della facoltà di teologia predilige rivolgersi spesso in lezioni interdisciplinari agli studenti di tutte le facoltà, la teologia, è chiamata ad instaurare un nuovo rapporto con il pensiero filosofico, e ad ispirare un rinnovamento generale del sapere, facendo risuonare quell'appello all'integralità dell'umano da cui prese origine nel Medioevo il progetto dell'universitas studiorum.60

L'oggetto della teologia cristiana è certamente la rivelazione di Dio espressa nel vecchio e nel nuovo testamento fino alla testimonianza della fede in Gesù nella tradizione delle comunità cristiane ovvero nella chiesa. Ma che cosa ha a che fare la filosofia con la rivelazione di Gesù, dal momento che, come scrive Paolo, proprio il Dio di Gesù avrebbe mostrato tutta la stoltezza della «sapienza del mondo» (1 Cor 1, 20)? Tuttavia, argomenta Welte, la rivelazione ha sempre bisogno di incontrare qualcuno per potersi dispiegare come rivelazione e questo qualcuno, che è poi l'uomo nella sua apertura alla trascendenza esperita nelle situazioni limite, diviene, parte essenziale di quell'accadere che riunisce in unità Colui che rivela, ciò che viene rivelato e colui che accoglie la rivelazione. La ragione ermeneutica dell'uomo diviene, così, il necessario spazio di manifestazione della rivelazione, l'ambito esistenziale in cui il suo appello viene accolto. Questa unità vivente tra rivelazione divina e percezione-accoglienza umana., in cui consiste l'essenza unitaria della rivelazione, costituisce l'unico orizzonte in cui il pensiero filosofico può incontrare la teologia.

Welte può affermare, quindi, che «anche di fronte alla rivelazione, e soprattutto di fronte ad essa, l'uomo è uomo e non soltanto un nastro da registrare. [...] Dio non può rivelarsi all'uomo se questi si annulla [...] . Così, anche se questa può suonare come un'affermazione teologicamente dura, qui vale l'affermazione che Dio ha bisogno dell'uomo».61 Il diritto della filosofia nei confronti della teologia si radica in questa essenziale capacitas Dei dell'uomo; il suo luogo si situa non già all'esterno della teologia, come un'istanza critica o di legittimazione del tutto esteriore, ma all'interno dello stesso ascolto credente rivolta a quell'annuncio della rivelazione che pur non è stato prodotto dalla filosofia.

Da ciò risulta che lo statuto della filosofia nella la teologia è necessariamente ambiguo: essa è al contempo padrona ed ancella, deve sempre esercitare la sua funzione critica nei confronti delle forme tramandate della fede e, nella sobrietà del suo lucido domandare, ricercare, a partire dalla comprensione dell'essere di volta in volta data, le modalità più adeguate di pensiero per la fede, che la riportino, al di là di ogni sclerotizzazione della tradizione, alla vitalità ed effettività dell'attuazione originaria. Ma essa dovrà pur sempre sottomettersi e servire, come ancilla theologiae, l'evento inappropriabile e sempre rinnovantesi del risuonare dell'annuncio e del suo insediarsi ogni volta unico nello spazio ermeneutico del comprendere umano.

Questo è il senso e il ruolo molteplice che il pensiero filosofico è chiamato a svolgere all'interno della teologia, nella costanze accortezza di non cedere alla tentazione sempre in agguato di sommergere e ricoprire l'irriducibile evento della rivelazione con la propria volontà di potenza conoscitiva autocentrata che, allora sì, la renderebbe, secondo le parole paoline, follia e stoltezza.

La contesa mai componibile tra filosofia e teologia è una delle forme che, poi, assume la lotta incessante tra lo spirito dell'uomo e Dio,62 esemplarmente messa in scena dalla lotta di Giacobbe con Dio:

Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici figli e passò il guado dello Iabbok. Li prese, fece loro passare il torrente e fece passare anche tutti i suoi averi. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all'articolazione del femore e l'articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l'aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!». Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». Giacobbe allora gli chiese: «Dimmi il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel «Perché -- disse -- ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva» (Gn 32, 23-31).

La fatica del confronto con la trascendenza ed i tentativi tormentati di comprendere, o soltanto accogliere, l'irrompere del suo appello che inevitabilmente ferisce le forze, le aspettative e le possibilità conoscitive ed esistenziali dell'uomo, si conclude con il rifiuto da parte di Dio di pronunciare il Suo nome, ossia di rivelarsi in modo pieno ed accessibile, ma, alla fine viene concessa la benedizione e viene sancita una trasformazione radicale, esemplificata dal nuovo nome attribuito a Giacobbe. Il conflitto con tutta la sua asprezza e drammaticità, non deve, cioè, piegarsi ad una sterile obbedienza che resterebbe ottusa e quindi non degna dell'uomo; l'uomo non deve rinunciare alla sua capacità di pensiero nemmeno di fronte alla trascendenza, ma deve lasciarsi ferire e vincere, perché solo questa estrema sconfitta dell'uomo desto ed in piedi, «faccia a faccia» con Dio, costituisce, in realtà una segreta vittoria per cui si è degni della benedizione e delle promesse divine.

La lotta con la trascendenza, la fatica del confronto spirituale e da ultimo filosofico con l'appello della rivelazione all'interno della teologia costituisce, infatti, uno dei luoghi in cui si manifesta, se pure in modo drammatico, l'essenza dell'umano.

In questo senso la teologia, nel cui orizzonte si svolge questo confronto, mantiene il diritto ad occupare un posto di rilievo all'interno dell'universits umana e quindi dell'universitas studiorum esercitando costantemente un ruolo di richiamo all'integrità ed essenzialità dell'umano e, al contempo, lasciando risuonare, all'interno dei diversi contesti ermeneutici, l'appello che deriva dalle rivelazioni storiche e dalle tradizioni religiose e, così, testimoniando senza requie la «potenza del confine» e dissotterrando in ogni uomo la disponibilità alla trascendenza.

8. Per una teologia a venire

Una simile concezione della teologia e del ruolo determinante che in essa svolge l'apertura accogliente e comprendente dell'uomo, diviene centrale il tema dell'incarnazione; il divino, infatti, si manifesta nella misura in cui si incarna nell'umanità, nelle sue domande, nei suoi tormenti, nei suoi desideri, nel suo gioire, ma anche nel suo errare e pentirsi e corrispondentemente l'umano si presenta tale in quanto capace del divino nella sua costitutiva apertura ed accoglienza della trascendenza.

Una teologia dell'incarnazione significa, però anche una teologia della fiducia: dal momento che Dio nell'incarnazione ha avuto il coraggio divino di fidarsi dell'uomo e confidare in lui, l'uomo può avere il coraggio di fidarsi di Dio. Avere coraggio non è, in questa prospettiva, una particolare dote di carattere dell'uomo e non ha niente a che fare con la sua volontà, ma invece è da intendersi come un dono che aprendolo alla speranza lo consegna alla piena maturità e libertà della sua autonomia umana. Appartiene al coraggio la fiducia che l'uomo possa avere accesso ad un'apertura indeterminabile nei suoi confini e nelle sue possibilità, che il suo destino sia quello della vastità [Weite] e non dell'angustia e dell'angoscia. Ma per scorgere tale vastità è necessaria una grande e feconda preparazione del pensiero e, soprattutto, è necessario l'apporto di pensatori e poeti «profetici», che, cioè, sappiano testimoniare nelle parole e nella vita l'appello della vastità.

Questo atteggiamento profetico è ciò che costituisce, al cuore di ogni teologia viva, il fondamento della possibilità del credere, e al contempo un contributo decisivo alla rivelazione dell'umanità stessa dell'uomo. Bernhard Welte ricercò e trovò una giustificazione al suo pensiero all'interno dell'Università e fuori di essa nel fatto che il suo insegnamento veniva percepito, prima di ogni prestazione scientifica, come un contributo alla chiarificazione ed all'esaltazione (quasi alla venerazione) dell'umanità dell'uomo. Egli intese la teologia non, secondo la celebre immagine delle Tesi di filosofia della storia di Benjamin, come un nano che siede sotto il tavolo e segretamente dirige i giochi che su di esso avvengono, ma come quell'interlocutrice che, nell'accadere della storia deve condividere la solidarietà del domandare intorno all'essenza dell'uomo con tutti coloro che sono disposti ad interrogarsi.

La teologia è chiamata, secondo Welte, a praticare quella che Heidegger, in conclusione della sua conferenza sulla questione della tecnica aveva chiamato la «pietà del pensiero»,63 ossia a quell'interrogare rispettoso e schietto che si rivolge a ciò che tuttavia sfugge ad ogni tentativo di presa del pensiero. Il contegno 'pietoso'del pensiero assume nell'opera di Welte, come ha fatto notare Klaus Hemmerl, amico ed estimatore di Welte,64 due dimensioni: da un lato il pensiero scopre di essere muto, impotente e senza punti di riferimento di fronte all'alterità che lo provoca incessantemente all'interrogazione, sperimentando quella che Meister Eckhart chiamava la vastità desertica di Dio; dall'altro il pensiero deve attraversare un processo di trasfigurazione interna che lo porti ad accogliere e mostrare con attenzione fenomenologica lo spessore esistenziale della vita effettiva, nelle sue esperienza fondamentali quali la morte, la solitudine, la colpa e la felicità.

Questa nuova teologia si fonda, dunque, su un pensiero incarnato e rivolto al limite della nostra finitezza e delle nostre possibilità, e che, anzi, proprio nella carne fa esperienza della soglia in cui si manifesta l'alterità, di quel luogo di confine che Welte nomina anche come differenza del sacro [Heilsdifferenz] .65 Una teologia che non soltanto serva ad esplicare il fenomeno della fede ma che lasci risuonare l'appello all'incessante interrogazione in cui soltanto può compiersi l'attuazione esistenziale dei credenti. Naturalmente Welte ha mai incitato ad un mero interrogare puro che sia chiuso a qualunque risposta. Nel rinnovato porre la domanda di senso e nel percorrere la differenza 'sacra'della trascendenza e del trascendere, Welte ha sempre confidato nella risposta silenziosa che ci viene dalla testimonianza e dall'annuncio di Gesù. In lui egli ha trovato parole di conforto e di speranza che possano orientare e dare risposte, se pure sempre storicamente ed esistenzialmente determinate, all'esigenza di senso e di 'vastità'da cui è mosso ogni interrogare essenziale. Questo conforto, che dipende sempre dall'esperienza e dall'accoglienza di un dono, non resta, tuttavia una risposta 'privata'e valida solo per i credenti, ma può costituire una parola credibile per tutti gli uomini, in quanto 'tocca'la sua stessa umanità. L'elaborazione concettuale di questa credibilità ha impegnato Welte in tutta la sua ricerca ed in tutti i suoi sforzi di insegnamento e di mediazione.

In un suo breve e profetico scritto pensato negli ultimi anni della seconda guerra mondiale e diffuso clandestinamente negli ambienti del comando militare tedesco più consapevoli della catastrofe che stava dilaniando l'Europa ed il mondo, Ernst Jünger, prospettando un'ipotesi di riconciliazione tra i futuri vincitori e vinti che, per essere in grado di garantire una pace duratura, dovesse fondarsi non soltanto sul diritto e sulla giustizia ma anche su una nuova alleanza spirituale, indica come condizione dell'instaurarsi di una simile pace, il sorgere di una «nuova teologia» che per molti versi ha caratteri simili alla teologia prospettata Welte.

Una «Nuova Teologia come scienza prima, come conoscenza delle ragioni più profonde e dell'ordine supremo in base al quale è costituito il mondo»,66 ma che abbia anche il coraggio di inoltrarsi là dove la conoscenza deve cedere il passo alla rivelazione. Tale teologia dovrà svolgere anche un ruolo eminentemente etico, richiedendo la «conversione» dell'uomo a ciò che infinitamente lo eccede, dal momento che «chi confida solo sull'uomo e sulla saggezza umana non è in grado di parlare come giudice, né di insegnare come maestro, né di curare come medico. Ciò porta su strade che conducono dove regnano i carnefici».67 Soltanto quando l'uomo avrà fede in qualcosa di più sublime della ragione umana potrà sfidare la potenza nientificante del nichilismo e vincere il deserto trasfigurandolo in vastità d'incontro con la trascendenza.

Una tale fede può germogliare dapprima soltanto nel cuore del singolo, nel suo silenzioso colloquio con il divino e da lì poi espandersi e prendere le forme di una religione essenziale che possa diventare appello universale di conversione e di speranza. Il 18 luglio del 1943, negli anni che, come scriverà in'altra sua annotazione, assomigliano al gorgo del Maelstrom che sembra risucchiare tutto nell'abisso, Jünger si sofferma ancora sull'alto compito della teologia che, in questo senso, deve sempre valere come la «regina delle scienze». In questa formulazione eminentemente etica e spirituale della teologia, si sarebbe senz'altro ritrovato anche Welte:

Io devo convincermi di Dio prima di credere il lui. [...] Prima che io, con tutta la persona e senza limitazione alcuna, mi avventuri verso altre rive attraverso le correnti del tempo, devo essere preceduto da ponti basati su una forte e raffinata spiritualità, da una laboriosa attività di pionieri. Più bella, certo, sarebbe la grazia, pure essa non corrisponderebbe né alla posizione né allo stato in cui mi trovo. Anche questo ha il suo significato: sento che proprio mediante il mio lavoro, mediante i miei archi, ognuno dei quali rafforza nelle sue basi, rendendolo praticabile, il contrappeso del dubbio, sento che proprio mediante questo lavoro posso guidare più d'uno alla riva.68

Copyright © 2009 Sandro Gorgone

Sandro Gorgone. «La fenomenologia della religione di Bernhard Welte». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno, Parma 20-21 marzo 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [116 KB].

Note

  1. Per una accurata introduzione al pensiero di Welte rimandiamo alla monografia di O. Tolone, Bernahrd Welte. Filosofia della religione per non-credenti, Morcelliana, Brescia 2006. Attraverso una penetrante analisi degli snodi concettuali più rilevanti delle opere di Welte, questo studio offre anche una stimolante ed originale riflessione sui temi weltiani dell'eclissi contemporanea del sacro, del dialogo tra fede e ragione, della costituzione fondamentale dell'uomo, delle degenerazioni patologiche della religione e dell'ateismo. Testo

  2. Welte si impegnò, sulla scorta dei tentativi heideggeriani di superamento della metafisica, a recuperare i contenuti originari della fede neo-tetamentaria, convinto che il compito della teologia contemporanea fosse quello di superare l'impostazione metafisica che ha dominato la teologia moderna, attraverso un ritorno alle origini non ancora metafisiche del Cristianesimo, mediante la riformulazione di una cristologia libera dalle ipoteche del processo di ellenizzazione avvenuto già con i Padri della Chiesa ed i primi concili: cfr. soprattutto B. Welte, Thomas von Aquin und Heideggers Gedanke von der Seinsgeschichte e Die Krise der dogmatischen Christusaussagen in Zeit und Geheimnis. Philosophische Abhandlungen zur Sache Gottes in der Zeit der Welt, Herder, Freiburg 1975; Id., Die Lehrformel von Nikaia und die abendländische Metaphysik in A.A.V.V., Zur Frühgeschichte der Christologie: ihre biblischen Anfänge und die Lehrformel von Nikaia, a cura di B. Welte, Herder, Freiburg 1970 (tr. it. di R. Favero, La dottrina di Nicea e la metafisica occidentale, in Storia della cristologia primitiva. Gli inizi biblici e la dottrina di Nicea, Paideia, Brescia 1986); Id., Über den Sinn, die Notwendigkeit und die Grenzen einer Enthellenisierung des Christentums, in Zwischen Zeit und Ewigkeit. Abhandlungen und Versuche, Herder, Freiburg 1982. Testo

  3. Cfr. M. Heidegger, Il sentiero di campagna, il melangolo, Genova 2002. Testo

  4. Sul confronto con Heidegger cfr. B. Welte, Die Gottesfrage im Denken Martin Heideggers, in Auf der Spur des Ewigen. Philosophische Abhandlungen über verschiedene Gegenstände der Religion und der Theologie, Herder, Freiburg 1965; Id., Gott im Denken Heideggers, in Zeit und Geheimnis, cit. Di notevole interesse è, inoltre, il carteggio intercorso tra i due pensatori di Meßkirch: M. Heidegger - B. Welte, Briefe und Begegnung, a cura di A. Denker e H. Zaborowski, Klett-Cotta, Stuttgart 2003. Testo

  5. B. Welte, Denken und Sein. Gedanken zu Martin Heideggers Werk und Wirkung, in M. Heidegger - B. Welte, Briefe und Begegnungen, cit., p. 145. Testo

  6. È questa la prospettiva in cui negli ultimi anni si sono mosse le riflessioni sul religioso del cosiddetto «pensiero debole» di Vattimo: cfr. G. Vattimo, Credere di credere, Garzanti, Milano 1996. Testo

  7. Una parte fondamentale dell'opera di Welte è dedicata allo studio del sacro e al suo venire meno nella nostra epoca: cfr. B. Welte, Heilsverständnis. Philosophische Unterscheidung einiger Voraussetzungen zum Verständnis des Christentums, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1966. Testo

  8. Cfr. M. Heidegger, La costituzione onto-teo-logica della metafisica, tr. it. di U.M. Ugazio, in Identità e differenza, «aut aut», 187-188, 1982. Testo

  9. Ivi, p. 35. Testo

  10. Cfr. B. Welte, L'ateismo di Nietzsche e il cristianesimo, tr. it. di F. Stelzer, Queriniana, Brescia 1994 e Id., Nietzsches Idee vom Übermenschen und seine Zweideutigkeit, in Zwischen Zeit und Ewigkeit, cit. Sul tema dell'ateismo cfr. B. Welte, Der Atheismus: Rätsel - Schmerz - Ärgernis, IBK, Freiburg 1983 e Die philosophische Gotteserkenntnis und die Möglichkeit des Atheismus, in Zeit und Geheimnis, cit. Testo

  11. Cfr. B. Welte, Morire. La prova decisiva della speranza, tr. it. di S. Gorgone, Queriniana, Brescia 2008. Testo

  12. B. Welte, La luce del nulla. Sulla possibilità di una nuova esperienza religiosa, tr. it. di G. Penzo e U. Penzo Kirsch, Queriniana, Brescia 1983. Mi sono soffermato sull'interpretazione weltiana della questione del nulla e del divino, a partire soprattutto dalla teologia negativa e dal confronto con Heidegger in S. Gorgone, La notte di Dio. Bernhard Welte e l'esperienza religiosa nel mondo moderno, «Filosofia e teologia», 3, pp. 611-632. Testo

  13. B. Welte, Dal nulla al mistero assoluto. Trattato di filosofia della religione, tr. it. di A. Rizzi, Marietti, Casale Moferrato 1985. Testo

  14. E. Jünger, Oltre la linea, tr. it. di A. La Rocca e F. Volpi, Adelphi, Milano 1989, p. 104. Testo

  15. La questione del nichilismo è centrale nel pensiero di Heidegger soprattutto in relazione al suo serrato confronto con Nietzsche: cfr. soprattutto M. Heidegger, Che cos'è metafisica?, in Segnavia, tr. it. di Franco Volpi, Adelphi, Milano 1987 e Nietzsche, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994. L'intento di Heidegger è, comunque, sempre quello di mostrare la trasparenza non nichilistica del nulla, di scorgere, cioè, oltre l'apparenza puramente negativa ed annichilente del nulla, il risplendere stesso della pienezza dell'essere, tanto da arrivare ad affermare che «il niente come altro dall'ente è il velo dell'essere [der Schleier des Seins]» (M. Heidegger, Procscritto a «Che cos'è metafisica», in Segnavia, cit., p. 266) e l'uomo assolve il suo compito esistenziale quando si scopre come il «luogotenente del niente» [der Platzhalter des Nichts]. Testo

  16. Traiamo questa espressione dalla celebre affermazione heideggeriana secondo cui «la morte è lo scrigno del nulla. Ossia di ciò che sotto tutti i rispetti, non è mai qualcosa di semplicemente essente, e che tuttavia è, e addirittura si dispiega con il segreto dell'essere stesso. [...] In quanto scrigno del nulla la morte è il riparo dell'essere». (M. Heidegger, La cosa, in Saggi e discorsi, tr. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 119). Testo

  17. M. Heidegger, Che cos'è metafisica?, cit. Testo

  18. Secondo Pareyson la connessione essenziale tra concretezza e trascendenza del dio 'divino' viene espressa unicamente nella rappresentazione mitico-simbolica, a differenza del concetto filosofico che, tentando di definire ed oggettivare, non riesce a cogliere l'inesauribilità ermeneutica del mistero divino: «Il carattere decisamente sensibile del simbolo e il carattere inesorabilmente trascendente della divinità, lungi dal respingersi a vicenda, si attraggono al punto di reclamarsi l'un l'altro in modo esclusivo, realizzando una vera e propria inseparabilità di fisicità e trascendenza. Solo il linguaggio sensibile può essere sede del trascendente, perché solo in esso quest'ultimo può manifestarsi al tempo stesso nella sua irresistibile presenza e nella sua irriducibile ulteriorità» (L. Pareyson, L'esperienza religiosa e la filosofia, in Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1995, p. 105). Lo stesso Heidegger aveva scorto nell'esperienza religiosa delle comunità cristiane primitive le categorie ontologiche con cui poter ripensare la concretezza della vita effettiva: cfr. M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, tr. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2003. Testo

  19. Cfr. B. Welte, Dal nulla al mistero assoluto, cit., §§ 5-9. Testo

  20. Su tale postulato si basa la motivazione stessa di ogni nostra azione, come ha opportunamente notato Oreste Tolone: «Tutte le singole azioni si inseriscono nell'orizzonte di un presupposto di senso universale, che chiamiamo postulato etico. L'uomo vive come se la vita avesse senso, perché vuole che la vita abbia senso. Senza questa premessa finirebbe per cadere il motivo di ogni agire e combattere, verrebbe meno la voglia di lottare, di assecondare quei determinanti interni che invece continuano ad avere presa su di noi» (O. Tolone, Bernhard Welte, cit., p. 63). Testo

  21. B. Welte, Religionsphilosophie, cit., p. 103 (tr. it., p. 55). Testo

  22. Cfr. B. Welte, Morire, cit. Il termine Ernstfall che compare nel titolo di entrambe le edizioni del testo e che riveste un ruolo centrale nello svolgimento di molte riflessioni di Welte, nomina letteralmente il caso [Fall] serio [ernst] della speranza, nel duplice senso che la morte, da un lato costringe l'uomo a prendersi sul serio, abbandonando ogni mera sperimentazione non impegnativa, dall'altro costituisce il banco di prova più serio e decisivo cui deve sottoporsi la speranza cristiana ed ogni autentica speranza che intenda accompagnare credibilmente l'esistenza umana. Testo

  23. Le considerazioni che seguono riprendono le riflessione contenute nel testo recentemente tradotto in lingua italiana: B. Welte, Morire, cit. Testo

  24. M. Heidegger, Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 252. Testo

  25. Si tratta di una espressione di Ingeborg Bachmann che Welte utilizza nel testo per definire la nostra esistenza: cfr. B. Welte, Morire, cit., p. 40. Testo

  26. J.L. Borges, La dicha, in Tutte le opere, vol. II, a cura di D. Porzio, Mondadori, Milano 1985, p. 1183. Testo

  27. Per una dettagliata analisi antropologica delle pratiche rituali e sociali legati alla morte e al morire cfr. il testo classico di P. Arìes, Storia della morte in Occidente, BUR, Torino 1998. Testo

  28. B. Welte, Morire, cit., p. 51. Testo

  29. Nietzsche è uno degli autori moderni più importanti per le riflessioni weltiane; cfr. soprattutto: B. Welte, Nietzsches Atheismus und das Christentum, Wiss. Buchgesellschaft, Darmstadt 1958 (tr. it. di F. Stelzer, L'ateismo di Nietzsche e il cristianesimo, Queriniana, Brescia 1994) e Nietzsches Idee vom Übermenschen und seine Zweideutigkeit, in Zwischen Zeit und Ewigkeit, cit. Sul tema dell'ateismo cfr. B. Welte, Der Atheismus: Rätsel - Schmerz - Ärgernis, IBK, Freiburg 1983 e Die philosophische Gotteserkenntnis und die Möglichkeit des Atheismus, in Zeit und Geheimnis, cit. Testo

  30. B. Welte, Nietzsches Atheismus und das Christentum, cit., p. 35 (tr. it., p. 36). Testo

  31. T. Halík, Atheismus als eine Art religiöser Erfahrung, in AA.VV., Visionen in einer Welt ohne Religion, a cura di H.-O. Mühleisen, Verlag der Katholische Akademie Freiburg, Freiburg 2002, p. 20. L'esperienza dell'ateismo sarebbe, inoltre, l'equivalente esistenziale e moderno della sconfitta di Dio sulla croce; così Halík conclude il suo saggio: «Quando noi percorriamo il cammino della fede e vogliamo diventare seguaci di Gesù di Nazareth, dobbiamo essere pronti in un tratto del cammino a bere il calice amaro che anche egli ha bevuto. Sant'Ignazio di Loyola, uno dei pellegrini di questo cammino, ci ha lasciato una frase misteriosa: «Perdere Dio a causa di Dio, non è una perdita ma un grande guadagno»» (ivi, p. 25). Testo

  32. B. Welte, Die Gottesfrage im Denken Martin Heideggers, in Auf der Spur des Ewigen. Philosophische Abhandlungen über verschiedene Gegenstände der Religion und der Theologie, Herder, Freiburg 1965 (tr. it. parziale di G. Borsella, Sulla traccia dell'eterno, Jaca Book, Milano 1972). Testo

  33. Ivi, pp. 274-275. Sul tema del sacro nel mondo moderno cfr. B. Welte, Das Heilige in der Welt und das christliche Heil, in Auf der Spur des Ewigen, cit. Testo

  34. Cfr. M. Heidegger, Lettera sull'«umanismo» in Segnavia, cit., p. 303. Testo

  35. B. Welte, Gott im Denken Heideggers, in Zeit und Geheimnis, cit., p. 276 (tr. it. di P. De Vitiis, Dio nel pensiero di Heidegger, »Archivio di filosofia«, LV, 1987, 1-3, p. 461). Welte si rifà spesso al seguente passo heideggeriano: «La mancanza di Dio e dei divini è assenza. Ma assenza non è semplicemente un nulla, bensì è la presenza, di cui appunto ci si deve innanzi tutto appropriare, della nascosta presenza del già-stato e che così raccolto, dispiega la sua essenza, del divino com'era nella grecità, nei profeti del giudaismo, nella predicazione di Gesù. Questo non più è in se stesso un non ancora dell'avvento nascosto della sua inesauribile essenza» (M. Heidegger, La cosa in Saggi e discorsi, tr. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 123). Testo

  36. Welte sottolinea, nella stessa pagina, che questo attendere del dio non rimanda ad un essente presente in qualche modo «dietro», ovvero al di là della notte del nulla, in modo tale che l'esperienza del nulla risulta inevitabile per ogni tentativo di pensare Dio nella modernità. Testo

  37. Cfr. B. Welte, Gott im Denken Heideggers, cit., p. 279 (tr. it., p. 464). Testo

  38. Cfr. soprattutto B. Welte, Thomas von Aquin und Heideggers Gedanke von der Seinsgeschichte e Die Krise der dogmatischen Christusaussagen in Zeit und Geheimnis, cit.; Id., Die Lehrformel von Nikaia und die abendländische Metaphysik in A.A.V.V., Zur Frühgeschichte der Christologie: ihre biblischen Anfänge und die Lehrformel von Nikaia, a cura di B. Welte, Herder, Freiburg 1970 (tr. it. di R. Favero, La dottrina di Nicea e la metafisica occidentale, in Storia della cristologia primitiva. Gli inizi biblici e la dottrina di Nicea, Paideia, Brescia 1986); Id., Über den Sinn, die Notwendigkeit und die Grenzen einer Enthellenisierung des Christentums, in Zwischen Zeit und Ewigkeit. Abhandlungen und Versuche, Herder, Freiburg 1982. Testo

  39. Cfr. B. Welte, Die Krise der dogmatischen Christusaussagen, cit., p. 316. Testo

  40. B. Welte, Die Lehrformel von Nikaia und die abendländische Metaphysik, cit., p. (tr. it., cit., p. 133). Testo

  41. Cfr. B. Welte, Über den Sinn von Wahrheit im Bereich des Glaubens, in Zeit und Geheimnis, cit., p. 286. È significativo come Welte ritrovi nell'Ereignis l'elemento più originario del linguaggio della fede, corrispondentemente al tentativo di Heidegger di pensare l'essere in senso post-metafisico a partire proprio dall'Ereignis. All'Ereignis è dedicata l'opera pubblicata postuma nel 1989, Beiträge der Philosophie (Vom Ereignis) (a cura di F.-W. Von Herrmann, Klostermann, Frankfurt a.M. 1989) ed altri inediti risalenti agli anni Trenta e Quaranta. Sulla questione dell'Ereignis nel pensiero di Heidegger in connessione con la concezione della temporalità propria del cristianesimo primitivo, mi permetto di rimandare al mio Il tempo che viene. Martin Heidegger: dal kairós all'Ereignis, Guida, Napoli 2005. Testo

  42. Cfr. B. Welte, Über den Sinn von Wahrheit im Bereich des Glaubens, in Zeit und Geheimnis, cit. Qui Welte, come già Heidegger, fa risuonare nel termine tedesco Ereignis il verbo eignen che significa appropriare. Testo

  43. Cfr. Gregorio di Nissa, L'ascesa di Mosé, a cura di C. Brigatti, Ed. Paoline, Roma 1967. Testo

  44. Cfr. S. Givone, Storia del nulla, Laterza, Roma-Bari 2001. Testo

  45. M. Eckhart, Die deutschen und lateinischen Werke, Stuttgart - Berlin 1936, vol. III, pp. 189-190. Testo

  46. Summa Teologica, I, 3, Introduzione. Testo

  47. Si tratta del termine eckhartiano fondamentale che nessuna traduzione italiana riesce a rendere compiutamente. Comunemente esso significa solitudine, isolamento, ma qui indica piuttosto la «separazione» da ogni predicazione e determinazione positive. Testo

  48. B. Welte, Bemerkungen zum Gottesbegriff des Thomas v. A., in Zeit und Geheimnis, cit., p. 227. In Tommaso Welte scorge, dunque, un seme del possibile superamento dell'impostazione metafisica della teologia; seme che doveva però rimanere inerte fino al suo breve ma grandioso germogliare nel pensiero di Eckhart, che tuttavia, frainteso e combattuto dalla Chiesa del tempo, non riuscì a dare vita ad una duratura ed influente tradizione filosofica: cfr. B. Welte, Thomas v.A. und Heideggers Gedanke von der Seinsgeschichte, in Zeit und Geheimnis, cit. A questo proposito è interessante notare come, invece, Heidegger tenda a sottolineare la rottura operata da Eckhart nei confronti del tomismo; così egli scrive a Welte commentando il saggio sopra citato: «Lo «sfondo» [Hintergrund] del pensiero di Tommaso è davvero un consapevole retropensiero [Hintergedanke]? Al contrario in Meister Eckhart ne segue davvero un nuovo passo. [...] Mi sembra che ciò che Lei ascrive a Tommaso d'Aquino, appartenga esclusivamente a Meister Eckhart» (M. Heidegger - B. Welte, Briefe und Begegnungen, cit., p. 29-30). Testo

  49. B. Welte, Meister Eckhart. Gedanken zu seinen Gedanken, Herder, Freiburg 1992, p. 34. Testo

  50. Ivi, p. 36. L'immagine della Weite, che indica la vastità nel senso dell'ampiezza e della libertà che si conquista dopo un'esperienza d'angustia, viene ripresa più volte da Welte che spesso cita il verso del salmo IV: «perché ero nell'angustia e Tu mi hai messo al largo». Secondo Hemmerle la Weite caratterizza il modo in cui nell'opera di Welte pensiero e fede si incontrano e si interpellano a vicenda: cfr. K. Hemmerle, Weite des Denkens im Glauben - Weite des Glaubens im Denken, in AA.VV., Mut zum Denken, Mut zum Glauben. Bernhard Welte und seine Bedeutung für eine künftige Theologie, Freiburg 1994. Testo

  51. B. Welte, Meister Eckhart, cit., pp. 38-39. Testo

  52. Aristotele, De anima, II A 71. Per quanto riguarda l'influsso della tradizione aristotelica su Eckhart cfr. B. Welte, Meister Eckhart als Aristoteliker, in Auf der Spur des Ewigen, cit. Testo

  53. Nella prospettiva di un superamento della metafisica occidentale Welte sottolinea la vicinanza, pur nella radicale diversità, del pensiero della Abgeschiedenheit eckhartiana con la tradizione del buddismo zen: cfr. B. Welte, Meister Eckhart, cit., pp. 105-110. Testo

  54. Ivi, p. 90. Testo

  55. Cfr. B. Welte, Wesen und Unwesen der Religion, Knecht, Frankfurt a.M. 1952. Testo

  56. Ivi, pp. 9-10. Testo

  57. Ivi, p. 10. Testo

  58. B. Welte, Ideologie und Religion, in B. Welte, Gesammelte Schriften, III,2, Herder, Freiburg 2008. Testo

  59. B. Welte, L'ateismo di Nietzsche e il cristianesimo, cit. Testo

  60. In questa prospettiva Welte si confronta criticamente con la teologia dialettica e soprattutto con Karl Barth e Karl Rahner: cfr. B. Welte, Die Philosophie in der Theologie, cit., pp. 142-143. Testo

  61. Ivi, pp. 148-149. Testo

  62. A questo proposito cfr. il ciclo di lezioni rivolto a studenti e uditori di tutte le facoltà del semestre estivo 1956 dal titolo Freiheit des Geistes und christlicher Galube in cui la contesa tra la jaspersiana fede filosofica e la fede cristiana viene analizzata a partire dalla prospettiva della libertà in cui secondo Rom 8, 21 tutte le creature saranno ricomprese nella gloria dei figli di Dio. Cfr. B. Welte, Freiheit des Geistes und christlicher Galube, a cura di A. Kunst, Universitätsbibliothek, Freiburg 2004. Testo

  63. Cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica in Saggi e discorsi, cit., p. 27. Testo

  64. Cfr. K. Hemmerle, Weite des Denkens im Glauben - Weite des Glaubens im Denken, in AA.VV., Mut zum Denken, Mut zum Glauben, cit., p. 232. Testo

  65. Cfr. B. Welte, Heilsverständnis, cit. Testo

  66. E. Jünger, La pace, tr. it. di A. Apa, Guanda, Parma 1993, p. 59. Testo

  67. Ivi, p. 60. Testo

  68. E. Jünger, Irradiazioni, tr. it. di H. Furst, Guanda, Parma 1995, p. 294. Testo

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