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L'universalismo noachide

di Raniero Fontana (20-21 marzo 2009)

Il noachismo vuole essere un messaggio universale destinato all'umanità tout court, e perciò capace come tale di attraversare le credenze e le mille appartenenze, per raggiungere tutti gli uomini in quanto «figli di Noè». Sui figli di Noè cade la responsabilità dell'osservanza di un insieme di precetti fondamentali per la costituzione e il mantenimento di una società dal volto umano e civile. Il numero canonico dei precetti noachici è sette: uno positivo, che ordina di nominare giudici e di istituire tribunali, e sei negativi, che proibiscono l'idolatria, la blasfemia, i rapporti sessuali illeciti, l'omicidio, il furto, e infine lo smembramento di un animale vivo per cibarsene.1

La dottrina noachide è stata conservata, codificata e trasmessa dai maestri della tradizione religiosa di Israele.2

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Esistono gojim buoni e cattivi, timorati di Dio e pagani, eretici propri e altrui, seguaci di molte religioni. Si discute invece se noachidi e noachismo siano stati nella storia una realtà o una finzione.3 È comunque evidente come il tema perda subito il suo carattere virtuale, o di scuola, quando ci si chiede se e come il noachismo abbia avuto come sua possibile manifestazione storica la religione cristiana o la religione musulmana. Dopo tutto, entrambe le religioni si vogliono universali.

Scopo del presente studio è quello di verificare la consistenza noachide dell'universalismo cristiano e musulmano. Di vedere se e come queste due religioni rispondano o meno ai parametri di una tale dottrina.

1. Noachismo e cristianesimo

Il trattato rabbinico sull'idolatria (avodah zarah) proibisce agli ebrei di contribuire in modo alcuno alle celebrazioni idolatriche dei pagani. È in questo contesto che R. Ishmael interdice il commercio con quelli tre giorni prima e tre giorni dopo le loro feste:

Rabbi Ishmael ha detto: Tre giorni prima di quelle e tre giorni dopo di quelle è proibito. Ma i maestri dicono: Prima di quelle è proibito, dopo di quelle è permesso. (mAvodah Zarah 1, 2)

L'opinione di R. Ishmael è minoritaria. Essa si scontra con l'opinione dei suoi colleghi rabbini. Si tratta chiaramente di una posizione isolazionista. Le implicazioni del suo insegnamento verranno successivamente esplicitate in contesto cristiano da Shmuel, le cui parole sono riportate da un amorà babilonese della seconda generazione:

Rav Tachlifa bar Avdimi ha detto: Shmuel ha detto: Il primo giorno [della settimana], secondo le parole di R. Ishmael, è sempre proibito. (bAvodah Zarah 7b) 4

Se il primo giorno della settimana, cioè la domenica dei cristiani, è un giorno sempre proibito in quanto festivo e idolatrico, ne consegue che la proibizione di commerciare tre giorni prima e tre giorni dopo equivale a proibire il commercio con loro durante l'intera settimana, cioè sempre. I commentatori medioevali e moderni così hanno inteso la glossa di Shmuel alle parole di R. Ishmael.5 Da allora l'ebraismo si è sempre espresso criticamente in modo univoco e costante sul cristianesimo. Saadia Gaon lo ha trattato come eresia nel suo celebre Emunot ve-de'ot (Credenze e opinioni).6 Mentre, come è noto, sarà soprattutto l'autorevolissimo Maimonide ad applicare lo stigma indelebile dell'idolatria ai seguaci della religione cristiana:

I cristiani sono assolutamente idolatri e la domenica è il loro santo giorno. (Hilkhot Avodah Zarah 9, 3 -- versione non censurata) 7

Per quanto il cristianesimo venisse considerato una forma di idolatria dalle autorità rabbiniche medioevali, certi allentamenti sul piano normativo si resero necessari a motivo delle esigenze e dei bisogni legati a una mutata situazione economica e sociale. Si giustificò la vendita ai non-ebrei (nokhrim) di animali di grossa taglia per evitare perdite ai commercianti ebrei su un mercato divenuto comune.8 L'interdipendenza economica delle rispettive comunità rese infatti necessarie, spesso a posteriori, certe facilitazioni di carattere puntuale. In circostanze e tempi particolari vennero dunque (ri) negoziate le precedenti restrizioni talmudiche relative ai rapporti coi gentili. Per esempio, si arrivò in questo modo a permettere coi cristiani uno scambio commerciale già comunemente praticato anche nei loro giorni di festa, una volta però stabilito che gli interessi cristiani non fossero riconducibili all'idolatria, ma bensì all'ottenimento di benefici puramente materiali.9 Nonostante tali adattamenti, il giudizio sul cristianesimo e i cristiani restava tuttavia invariato. Dopo tutto, se il vino dei cristiani, proprio come quello dei musulmani, venne proibito agli ebrei come oggetto di consumo e non come oggetto commerciale,10 la conversione al cristianesimo mai però fu permessa agli ebrei, contrariamente alla conversione all'islam,11 anche a costo della loro vita (qiddush ha-shem). La gravità dell'idolatria è infatti tale che si dovrebbe dare la vita piuttosto che trasgredire la sua interdizione:

Se si dicesse a un uomo trasgredisci e che tu non sia ucciso, che trasgredisca e non sia ucciso, eccetto per l'idolatria, la fornicazione e l'omicidio. (bSanhedrin 74a)

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Finché il cristianesimo è considerato una forma di avodah zarah non può certo rappresentare una manifestazione storica del noachismo. L'idolatria è una delle interdizioni noachidi. Un tale stigma sembra sia stato però cancellato da R. Menachem HaMeiri. Il problema è che nessuno prima di lui né dopo di lui avrebbe sostenuto una tale tesi. Pure il fatto che la sua opera non sia entrata nel tradizionale curriculum studiorum delle generazioni passate è a volte impugnato come un argomento per limitarne l'autorevolezza.12

Sulla glossa di Shmuel precedentemente citata, egli afferma:

A proposito dell'affermazione: Un notzrì [cristiano] è sempre proibito, io spiego il termine notzrì come derivato dal nome Nevuchad-netzar. Esso si riferisce ai Babilonesi, come nel versetto: «Notzrim vengono da un paese lontano» (Ger 4, 16). È noto che il sole fosse l'idolo di Babilonia e fosse adorato da tutta la nazione di Nevuchadnetzar. Il primo giorno della settimana è il giorno del sole, e perciò fu chiamato il giorno del notzrì, poiché era dedicato a Nevuchadnetzar, essendo governato dal sole». (Menachem HaMeiri, Bet ha-bechirah, Avodah Zarah 6a)

Secondo Menachem HaMeiri, la proibizione non concerne i cristiani del suo tempo, il xiii secolo, ma quei notzrim dell'epoca ormai lontana di Nabucodonosor (Nevuchadnetzar); non dunque i suoi conterranei, cioè i cristiani della regione di Perpignan, ma gli abitanti dell'antica Babilonia. L'idolatria sarebbe cosa del remoto passato.13

A questo primo criterio che introduce la differenza tra le antiche nazioni idolatriche e quelle non idolatriche del suo tempo, ne segue un secondo. È anzi opinione diffusa tra gli studiosi che sia questo secondo criterio a caratterizzare al meglio la posizione di Menachem HaMeiri, il quale lo avrebbe prima enunciato e poi seguito in modo sistematico, rendendo così superflue le molteplici e contingenti giustificazioni degli altri posqim.

Il criterio è il seguente:

Coloro che siano di quei popoli definiti dai modi della religione (hagedurim be-darkhei ha-dat) e che servono Dio in qualunque modo, anche se la loro credenza è lontana dalla nostra credenza, non rientrano in questa regola [relativa agli idolatri], ma essi sono [da considerare] come Israele in tali cose, anche in rapporto a un oggetto perduto14 (Menachem HaMeiri, Bet ha-bechirah, Baba Qamma 113b)

Se dunque il cristianesimo non è avodah zarah, è perché i suoi seguaci sono ora «definiti dai modi della religione» (gedurim be-darkhei ha-dat). Tra i due criteri il nesso è causale. «Le nazioni che non sono idolatriche sono quelle che sono definite dai modi della religione».15 Lo storico Katz ha attribuito la specificità di Menachem HaMeiri a una precisa posizione filosofica che starebbe a monte, come un vero e proprio a priori, alle sue decisioni in materia di halakhah.16 Il suo non fu dunque un giudizio di mera opportunità o convenienza. La religione fu per lui un positivo fattore di civiltà.

Tuttavia, è lo stesso Katz a registrare le esitazioni di Menachem HaMeiri sul commercio di oggetti direttamente legati al culto cristiano.17 Esitazioni che Katz attribuisce al suo disagio psicologico nei confronti di un mondo religioso estraneo all'ebraismo e al quale quegli oggetti -- candele, pani e paramenti sacerdotali -propriamente appartengono.18 Esse sarebbero la conseguenza insomma di un vero e proprio dissidio tra una sensibilità rimasta tradizionale -- per la quale il cristianesimo è ciò che è sempre stato per gli ebrei: avodah zarah -- e l'innovazione razionale. Dunque, tra affettività e intelletto.

Tra memoria e storia.

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Il dossier sulla posizione di R. Menachem HaMeiri nei confronti delle religioni (rivelate) in generale, del cristianesimo e dei cristiani in particolare, è stato di recente riconsiderato. Egli più «non afferma che il cristianesimo del suo tempo non sia avodah zarah, ma che è avodah zarah ne'orà [una forma di idolatria illuminata]».19 La trasgressione dei cristiani all'interdizione noachide rimarrebbe dunque tale, pur non essendo comparabile con quella di una volta o con quanto ancora accade agli estremi confini della terra, poiché la religione cristiana è essa stessa inconfondibile con l'antico e primitivo culto, idolatrico e superstizioso, di divinità, astri e talismani.

Esse, le antiche nazioni, che non erano definite dai modi delle religioni (gedurot be-darkhei ha-datot), erano devote e perseveranti nel servizio degli dèi e delle stelle e dei talismani. Tutto ciò e quello che ne consegue sono i principi dell'avodah zarah, come abbiamo spiegato. (Menachem HaMeiri, Bet ha-bachirah, Avodah Zarah 26a)

In questo senso la religione cristiana appare in sè stessa come una forma indebolita di idolatria.20 Si è inoltre osservato come già la stessa formula impiegata da questo maestro provenzale -- gedurim be-nimusei ha-datot; gedurim be-darkhei ha-datot we-nimusehen -- metta in risalto, della religione (dat), l'importanza che hanno per lui le leggi e i costumi (nimusim). Sottolineate non sono dunque le credenze e le dottrine, quanto piuttosto le azioni (ma'asim) e le virtù (middot), sia morali sia umane, del credente.

E già si è chiarito che tali cose sono state dette di quegli stessi tempi in cui le nazioni erano idolatriche, sudicie nelle loro azioni (ma'asehem) e degradate nelle loro virtù (middotehem), come è in parte detto: Non farete come ha fatto il paese d'Egitto, ove avete abitato, e come ha fatto il paese di Canaan (Lv 18, 3). Ma le restanti nazioni che sono definite dai modi delle religioni e che sono indenni da quelle sozzure, e che anzi le puniscono, è indubitabile che tali cose non abbiano posto a loro riguardo, come abbiamo spiegato. (?)

Si è perciò detto che Menachem HaMeiri faccia in questo modo dipendere la novità della sua posizione «dal mutamento che i gojim hanno attraversato sul piano del miglioramento delle virtù (middot), e non delle loro concezioni o del loro culto religioso».21 L'argomento è interessante proprio perché attribuisce a questo maestro un discorso che vuole distinguere sotto il profilo del discernimento filosofico tra il piano morale e il piano religioso. Se una volta, come il Talmud lo testimonia, idolatria e immoralità erano tutt'uno, ora era invece possibile scinderle tra loro. La novità introdotta da Menachem HaMeiri sarebbe dunque soprattutto questa, di avere sciolto il nodo che stringeva tra loro idolatria e comportamento morale e sessuale reprensibile.22 Di avere colto in questo modo il progresso morale e civile espresso dalla civiltà cristiana del suo tempo, così da non confonderla con l'antica civiltà pagana.

Menachem HaMeiri equipara i popoli evoluti alla categoria biblica dello «straniero residente» (ger toshav), cioè di colui che assume (formalmente) l'osservanza dei sette precetti dei figli di Noè.23 Cambia infatti il rapporto con coloro che osservano i precetti noachici, come cambia con coloro che sono definiti dai modi della religione. È per questo che l'omicidio di un noachide da parte di un figlio di Israele è punito, contrariamente a quanto si afferma nella Tosefta.24 Un noachide non è un goj, come non lo è un cristiano o un musulmano. Ma un cristiano resta tuttavia un idolatra, per quanto illuminato.

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Eppure, spesso citata e assai influente è l'idea che il cristianesimo non contraddica le leggi noachidi, idea che sembra dovuta al commento di Rabbenu Tam al passaggio talmudico seguente:

Il padre di Shmuel ha detto: È proibito all'uomo la partnerships con il non-ebreo, forse dovrà pronunciare un giuramento, e lo pronuncerà sulla sua avodah zarah, mentre la Torah dice: Non si senta sulla tua bocca (Es 23, 13). (bSanhedrin 63b)

Si suppone che un ebreo non solo non debba lui stesso non pronunciare il nome di altri dèi, ma che non induca neppure l'altro, il non-ebreo, a pronunciarlo. Per questo motivo si deve evitare ogni forma di associazione negli affari, affinché un ebreo non venga a trovarsi in una situazione di crisi che richieda il giuramento del suo partner non-ebreo. A commento di questo passaggio, Rabbenu Tam osserva:

È possibile ricevere da quello il giuramento prima che ci rimetta [...] In ogni modo, in questo tempo tutti giurano sui loro santi senza trovarli divini. E anche se con quelli essi menzionano il nome celeste pur intendendo altra cosa -- in ogni modo non è questo nome avodah zarah. La loro mente è infatti rivolta al Creatore. E anche se associano (shittuf) il nome celeste a un'altra cosa non abbiamo trovato che sia proibito causare una tale associazione agli altri. E non si applica: Davanti al cieco (Lv 19, 14), poiché questo non è stato proibito ai figli di Noè. (ad loc., tosafot: asur la adam she-ja'aseh shutafut)

Ai figli di Noè non sarebbe interdetto di associare al nome di Dio il nome di un altro, in occasione di un giuramento. Rabbenu Tam giustifica in questo modo la pratica del suo tempo, in cui la proibizione talmudica era ignorata e gli ebrei conducevano gli affari in comune coi cristiani. Un eventuale giuramento non implicava alcun rischio: associare al nome di Dio il nome di Gesù non era loro interdetto. Ma i commentatori successivi estrapolarono l'intenzione di Rabbenu Tam e ne estesero la portata assai oltre il suo contesto legale, tecnico e formale, al punto da ritenere infine compatibili tra loro noachismo e cristianesimo.25 Essi fraintesero Rabbenu Tam, come se questi avesse sostenuto «che una credenza nella trinità e nell'incarnazione, da parte di un noachide, non fosse idolatria, risultando in una nuova halakhah secondo la quale il cristianesimo sarebbe idolatria per gli ebrei mentre non sarebbe tale per i cristiani».26 La controversia sulle reali intenzioni di Rabbenu Tam e sulla comprensione dell'idea di shittuf impegnerà maestri importanti della tradizione ebraica: R. Nissim di Gerona (Ran), R. Moshè Isserles (Rema), R. Ezekiel Landau, R. Yaakov Emden, R. Elia Benamozegh, sono alcuni tra i tanti. La compatibilità o meno tra noachismo e cristianesimo interessa a questo punto la stessa dottrina e non più la morale. In ogni caso, l'idea che un cristiano non commetta offesa contro le leggi noachidi con la sua fede nella trinità e nell'incarnazione rappresenta il limite oltre il quale nessun ebreo vuole andare. Poiché nessuno tra i maestri dell'halakhah è pronto a spingersi tanto lontano da affermare che il cristianesimo si possa considerare un puro monoteismo: a belief in a triune God. «Al massimo, i maestri dell'halakhah sono pronti a riconoscere il cristianesimo come una fede non-idolatrica per i gentili».27 Ma la cosa in realtà non cambia nella sostanza anche una volta lasciata la scuola talmudica per l'accademia:

L'outsider vede le tre persone nella divinità come sufficientemente indipendenti per trasformare la storia in una narrativa idolatrica, mentre l'insider, anche se li vede come tre persone, tuttavia guarda a loro come a tre drammatici ruoli interpretati da un attore solo.28

Dunque, il cristianesimo come religione proibita agli ebrei e permessa ai gojim. Una politica che ha tutta l'aria di una concessione fatta ai cristiani e sulla quale aleggia pure il sospetto di trarre origine da una passata incomprensione. Del resto, l'alternativa è di chi lo considera ancora oggi avodah zarah. Per ebrei e gentili. Idolatria, tout court.

2. Noachismo e islam

L'attualizzazione operata da Maimonide nel suo Commento alla Mishnah estende ai cristiani suoi contemporanei le proibizioni relative ai pagani di un tempo:

Tutti loro [i cristiani] sono idolatri e le loro feste sono proibite... E il primo giorno della settimana è incluso nelle feste dei gojim... Si deve sapere che ogni città tra le città della nazione cristiana avente una bima, una casa di preghiera che è una casa di idolatria senza dubbio alcuno, in tale città è proibito passare intenzionalmente e a fortiori abitarci... (Maimonide su mAvodah Zarah 1, 3-4)

Secondo Blidstein, l'assenza di ogni riferimento ai musulmani e alle loro città nell'attualizzazione operata da Maimonide non si spiegherebbe con un'esigenza di rispetto per il dato cronologico. La letteratura rabbinica ignora infatti la religione musulmana che le è posteriore. In realtà, l'assenza di un esplicito riferimento alla religione musulmana nel commento maimonideo sarebbe intenzionale e conforme alla sua diversa valutazione delle due religioni: il cristianesimo è idolatria; l'islam non è idolatria.29 Maimonide si esprime chiaramente in questo senso e il suo giudizio autorevole si caratterizza per l'ampiezza della visione che suppone sui rapporti tra ebrei e credenti di altre religioni. Egli equipara lo statuto del vino del ger toshav a quello degli ismaeliti considerati come «idolatri che non servono l'idolatria».30 Ma è soprattutto nella sua risposta a Obadiah, musulmano convertitosi all'ebraismo, che Maimonide si esprime in modo articolato sull'islam:

Gli ismaeliti non sono affatto idolatri e [l'idolatria] già è stata recisa dalle loro labbra e dal loro cuore, ed essi attribuiscono a Dio l'unità come conviene, unità su cui non esiste dubbio, e non perché essi mentono su di noi e ci vilipendiano, e dicono che noi andiamo dicendo che Dio abbia un figlio, noi mentiremo su di loro e diremo che essi sono idolatri [...] E se qualcuno dice che la casa che essi onorano è casa dell'idolatria, e che l'idolatria è al suo interno, quella che i loro padri hanno venerato, in questo che c'è? Quelli che oggi si prosternano a quella hanno il loro cuore rivolto verso il cielo [...] Così è oggi per gli ismaeliti tutti, bambini e donne: l'idolatria è stata recisa dalle loro labbra. Il loro errore e la loro follia sono in altre cose che è impossibile mettere per iscritto a causa dei rinnegati e degli apostati di Israele, ma sull'unità del Nome altissimo non hanno errore alcuno. (Responsum 448)

Maimonide non era cieco nei confronti degli errori e della follia dell'islam. Questo non doveva però mettere in ombra il monoteismo che professava. A chi avesse obiettato che sul piano del culto il monoteismo islamico fosse tutt'altro che cristallino, albergando elementi pagani che erano un retaggio inconfutabile della civiltà pre-islamica -- concentrati specialmente in quel che accadeva alla Mecca, intorno alla Ka'aba -- Maimonide opponeva a sua difesa l'intenzione pura del cuore e della mente dei credenti e dei pellegrini musulmani. È questa sua attitudine equilibrata e obiettiva, dovuta a una mancanza di odio e di rancore nei confronti di una realtà che personalmente egli conobbe anche in veste violenta e aggressiva, che il rabbino Kapah ha così celebrato: «lodare ciò che è lodevole, deprecare ciò che è deprecabile».31

Maimonide non fu il primo tra i maestri della tradizione ebraica a esprimersi sull'islam come religione monoteista, per quanto specialmente nei primi tempi proprio l'ignoranza su una tale novità religiosa portasse a volte alcuni di loro a esprimersi in senso contrario.32 Sicuramente, dopo Maimonide il consenso sulla natura monoteista dell'islam sarà praticamente acquisito, a cominciare dal figlio R. Abraham Maimuni, secondo il quale «i musulmani sono monoteisti che aborriscono l'idolatria».33

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È nella Lettera allo Yemen che Maimonide polemizza apertamente con l'islam fanatico e aggressivo:

E voi, miei correligionari, sappiate che Dio (Allah) ci ha gettato in [mezzo a] questa nazione a causa dei nostri numerosi peccati, cioè la nazione ismaelita, la quale ci ha grandemente perseguitato e ha legiferato a nostro danno e ci ha odiato, come l'altissimo ci ha testimoniato: E i nostri nemici giudicheranno (Dt 32, 31). Mai una nazione si è mostrata più ostile di questa contro Israele, e mai ci fu chi esagerò a sottometterci, a umiliarci e a odiarci fortemente come quelli [...] Già ci siamo esercitati, grandi e piccoli, a patire della nostra sottomissione, come ha detto Isaia: Ho dato la mia schiena ai flagellatori, la mia guancia a quelli che mi strappavano la barba (Is 50, 6).

Di fatto, Maimonide non si è limitato in questo scritto a denunciare il fanatismo musulmano. Egli respinge anche con coraggio la rivendicazione dell'islam di essere superiore all'ebraismo e con essa la consueta accusa rivolta agli ebrei di avere falsificato le Scritture. Di più, neppure il profeta è stato risparmiato.34 Eppure, si osserva da più parti che persino in questo scritto così estremamente critico, la sua battaglia non sarebbe stata condotta contro l'islam come tale. «Anche in questo lavoro altamente polemico [...] egli non critica l'islam per se. Questo contrasta con il suo trattamento del cristianesimo. Sebbene Gesù, diversamente da Muhammad, mai avesse inteso fondare una nuova religione, il cristianesimo è tuttavia da considerare per Maimonide una forma di idolatria. Senza dubbio egli vede la sua dottrina della Trinità come un basilare compromesso del monoteismo richiesto a tutti, tanto ai gentili quanto agli ebrei. Questo non è il caso con l'Islam».35 A costituire l'islam e a metterlo su un gradino più alto del cristianesimo sarebbe in questo senso la sua posture filosofica dalla quale propriamente dipende lo stesso monoteismo.36 Ma a questo punto prende corpo la possibilità di una vera e propria dissonanza nella percezione dell'islam da parte di Maimonide. «È assolutamente possibile che la halakhah maimonidea veda in loro [musulmani] dei credenti monoteisti, ma al contempo che Maimonide li valuti come membri di una religione ostile, violenta e priva di freni morali, una religione stabilita da una figura manchevole, meritevole di ogni biasimo morale, edificata con contenuti superficiali e senza un valore reale».37 La prospettiva è interessante: infatti, non sarebbe ora la dottrina a essere problematica ma piuttosto la condotta dei seguaci di Muhammad e l'osservanza delle leggi morali fondamentali. Il che porrebbe di colpo la religione musulmana in difetto rispetto alla morale noachide.38

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Per gli ebrei, la circoncisione è un atto che possiede un preciso significato religioso nel contesto dell'alleanza stabilita tra Dio e Israele. La circoncisione dei non-ebrei è di conseguenza richiesta solo in un cammino mirato alla loro conversione. Neppure per motivi medici potrebbe essere eseguita su di loro, seguendo il principio codificato che proibisce di salvare la vita a un idolatra.39 Ora, è proprio in questo contesto che Maimonide introduce una nota originale e sorprendente:

È permesso a Israele circoncidere un goj, se il goj vuole recidere e asportare il prepuzio, poiché [per] ogni precetto (mitzwah) che il goj compie, viene data a lui una ricompensa [...] solo se lo compie confessando la profezia di Mosè nostro maestro, attraverso il quale è Dio altissimo che lo comanda, e crede in questo [...] E ogni qualvolta venga a noi [un goj], che sia circonciso per amore della circoncisione (le-shem milah), anche quando rimanga nella sua gentilità. (Maimonide, responsum 148)

Maimonide sostiene la possibilità per un goj di essere circonciso, ma non in vista della circoncisione, bensì per ricevere la ricompensa prevista per l'osservanza di un precetto a cui non è affatto obbligato. La circoncisione non compare infatti nella lista dei precetti noachici. Neppure Maimonide la introduce tra quelli. Ma ne permette l'osservanza a quei gentili che si vogliono interessati a compiere il maggior numero possibile di precetti mosaici. Se Novak ha ragione, Maimonide ha mostrato ogni volta che ha potuto la sua preferenza per una concezione che non limita il goj alla stretta osservanza della legge noachide, ma lo proietta oltre lo statuto noachide, come ebreo potenziale.40

L'insufficienza del quadro noachide appare con chiarezza nel caso della pratica della circoncisione in rapporto all'islam. Una tale pratica non è circoscritta agli ebrei soltanto. La circoncisione praticata dagli stessi arabi in epoca pre-islamica è ben nota al Talmud.41 Nel Talmud si discute per questo motivo sulla necessità della «circoncisione simbolica» per chi fosse già stato circonciso prima ancora della sua conversione all'ebraismo.42 Maimonide sembra ora riconoscere alla pratica della circoncisione presso gli ismaeliti un valore religioso che la vincola alla stessa Torah di Israele e ai suoi insegnamenti.43

Egli scrive:

I nostri maestri hanno detto che i figli di Qetura, i quali sono la discendenza di Abramo venuta dopo Ismaele e Isacco, sono obbligati alla circoncisione. E poiché i figli di Ismaele si sono oggi mescolati tra i figli di Qetura, tutti loro sono obbligati a essere circoncisi l'ottavo giorno. (Maimonide, Hilkhot Melakhim 10, 8)

Qetura, sposa di Abramo succeduta a Sara, mise al mondo sei figli (Gn 25, 1-2). Quando ai figli di Qetura si mescolarono i figli di Ismaele anche a questi ultimi si estese l'obbligo della circoncisione. Proprio questa sua obbligatorietà le assegna ora un carattere e un significato indubbiamente religiosi. Ma in questo modo l'islam eccede per Maimonide il quadro degli obblighi noachici portandone la lista da sette a otto.44

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Non avere accolto la Torah di Israele così com'è, nella sua forma, come invece hanno fatto i cristiani, ha delle conseguenze importanti sul piano della valutazione ebraica dell'islam. Secondo la stessa categorizzazione maimonidea, diventa infatti impossibile collocare un musulmano tra i «pii delle nazioni del mondo»:

Chiunque accolga i sette precetti e sia scrupoloso nella loro osservanza, questi è uno dei pii delle nazioni del mondo (chassidè ummot ha-'olam) e ha parte al mondo che viene. E questo quando li accolga e li osservi in quanto il Santo benedetto Egli sia li ha comandati nella Torah (ba-Torah), e tramite Mosè nostro maestro ci ha fatto sapere che i figli di Noè sono stati precedentemente obbligati a quelli. (Maimonide, Hilkhot Melakhim 8, 11)

Un autore moderno ha così commentato questo celebre e controverso passaggio: «A un figlio di Noè non basta accogliere i sette precetti e nemmeno basta per lui osservarli; a lui piuttosto di accoglierli perché sono stati comandati dall'Onnipotente. Ma se esaminiamo ancora meglio Maimonide, apprendiamo che anche questo non è sufficiente: non gli basta infatti accoglierli perché li ha comandati l'Eterno e non perché convinto che siano necessari e convenienti secondo l'intelletto umano; a lui invece di accoglierli e osservarli perché essi sono parte della Torah di Mosè».45 Per un musulmano, non sono certo normativi la Torah e Mosè, bensì il Corano e Muhammad. Nell'ebraismo non sono affatto mancati tra i maestri coloro che hanno anzi sottolineato e ribadito una vera e propria incompatibilità tra il consenso alla missione profetica di Muhammad, da una parte, e la validità della Torah mosaica, dall'altra.

Non può essere dunque l'islam a perfezionare uno statuto noachide che trova invece il suo massimo compimento nel riconoscimento del significato universale del Sinai.46 Di più. Secondo i parametri indicati dallo stesso Maimonide, l'islam è, e resta, una via interdetta ai gentili. «Non solo è impossibile per un musulmano essere un pio gentile, ma è persino proibito per un gentile seguire i dettami dell'islam. Egli [Maimonide] inequivocabilmente accetta il punto di vista talmudico per il quale ogni sistema religioso non ebraico è illecito e la sola alternativa per i gentili sono la conversione oppure l'osservanza delle sette leggi di Noè, la quale, per definizione, esclude ogni altro sistema religioso».47 Proprio quest'ultima ci sembra essere l'obiezione definitiva e vincente contro una pretesa ri-significazione noachide della religione musulmana. Maimonide ha compiutamente codificato un principiolimite che l'islam ha largamente trasceso.

Il testo è il seguente:

Il principio è: non si permette loro di creare una nuova religione (lechaddesh dat) e di farsi dei precetti di loro propria iniziativa, ma o si converte e accoglie tutti i precetti o si mantiene nella sua Torah senza aggiungere né diminuire. (Maimonide, Hilkhot MelaKhim 10, 9)

La Torah interdice la creazione di una nuova religione. L'alternativa per un gentile non può che essere la conversione all'ebraismo o l'osservanza noachide.48 Prima ancora di decidere se il culto musulmano o la credenza cristiana siano idolatrici o meno, oppure se i comportamenti degli uni e degli altri siano immorali o morali, a condannare tali esperienze religiose è insomma il fatto stesso che si siano strutturate entrambe come religioni.

Copyright © 2009 Raniero Fontana

Raniero Fontana. «L'universalismo noachide». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno, Parma 20-21 marzo 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [43 KB].

Note

  1. Cf. tAvodah Zarah 8,4-6. Testo

  2. Cf. bSanhedrin 56ass. Testo

  3. Sull'esperienza noachide moderna, si veda R. Fontana, Figli e figlie di Noè. Ebraismo e universalismo, Assisi 2009. Testo

  4. La versione qui riportata è dovuta alla censura che ha sostituito «il primo giorno della settimana» (jom alef) a «cristiano» (notzrì). Testo

  5. Fa eccezione un commento recente che vorrebbe intendere la glossa di Shmuel come una reductio ad absurdum, cioè un argomento usato per provare l'assurdità a cui condurrebbe l'opinione di Ishmael. Cf. Christine E. Hayes, Between Babylonian and Palestinian Talmuds. Accounting for Halakhic Difference in Selected Sugyot from Tractate Avodah zarah, New York - Oxford 1997, pp. 136-137. Testo

  6. II,5. Testo

  7. Si veda anche il suo commento a mAvodah Zarah 1,3. Testo

  8. Cf. bAvodah Zarah 15a (tosafot: emur) Sul tasso di interesse applicato ai gentili, si veda bBaba Metzia 70b (tosafot: tashikh la sagi de-la hakhi). Testo

  9. Cf. bAvodah Zarah 2a (tosafot: asur). Testo

  10. Da Rashi, produttore egli stesso di vino, a Isserles. Per il primo, si veda: I. Elfenbein (ed.), Teshuvot Rashi, New York 1942, 171.173.175; per il secondo, si veda: Yoreh De'ah 123,1. Testo

  11. Cf. Maimonide, Iggeret ha-Shemad. Testo

  12. Cf. R. Fontana, "Noachismo. Un'indagine preliminare", in Cahiers Ratisbonne 3 (1997), pp. 80-116, in part. pp. 109-111. Testo

  13. O di regioni altrettanto remote e periferiche ove i residui dell'idolatria si possono ancora annidare. Cf. Menachem HaMeiri, Bet ha-bechirah, Avozah Zarah 2a; 6b; 20; 57a. Testo

  14. La letteratura talmudica non obbligava alla restituzione a un gentile di un oggetto perduto. Cf. bBaba Qamma 113b; bSanhedrin 76b. Testo

  15. M. Halbertal, Between Torah and Wisdom. Rabbi Menachem ha-Meiri and the Maimonidean Halakhists in Provence, Jerusalem 2000, p. 97 [ebr.]. Testo

  16. Cf. J. Katz, "Sovlanut datit be-shitato shel Rabbi Menachem HaMeiri ba-halakhah e ba-filosofiah", in Tzion 18 (1952/53), pp. 15-30 [ebr.]. Testo

  17. Cf. Menachem HaMeiri, Bet ha-bechirah, Avodah Zarah 14b e 51b. Testo

  18. Cf. J. Katz, op. cit., pp. 22-23. Dello stesso Katz si veda su R. Menachem HaMeiri l'ormai classico Exclusiveness and Tolerance. Jewish-Gentile Relations in Medieval and Modern Times, New York 1962, in part. pp. 114-128. Testo

  19. M. Abraham, "Ha-im iesh avodah zarah ne'orà - al ha-yachas la-gojim ve-al shinuim ba-halakhah", in Aqdamot 19 (2007), p. 76 [ebr.]. Testo

  20. Cf. Ib., pp. 81-83. Testo

  21. Ib., p. 76. Testo

  22. Cf. Ivi. Testo

  23. Cf. Menachem Ha-Meiri, Bet ha-bechirah, Baba Qamma 26a; 37b; Sanhedrin 57a. Testo

  24. Cf. Tosefta, Avodah Zarah 8,5. Testo

  25. Cf. L. Jacobs, "Attitudes towards Christianity", in Ze'ev W. Falk (ed.), Gevuroth HaRomah. Jewish Studies offered at the eightieth birthday of Rabbi Moses Cyrus Weiler, Jerusalem 1987, pp. xvii-xxxi. Testo

  26. Ib., p. xxiii. Testo

  27. Ib., p. xxiv. Testo

  28. M. Halbertal - A. Margalit, Idolatry, Cambridge (Massachusetts) London (England), 1992, p. 80. Testo

  29. Cf. J. Blidstein, "Ma'amad ha-islam ba-halakhah ha-maimonit", in M. Mautner - A. Sagi - R. Sha (eds.), Multiculturalism in a Democratic and Jewish State, Tel Aviv 1998, pp. 465-476, in part. pp. 466-468 [ebr.]. Testo

  30. Cf. Maimonide, Hilkhot Ma'akhalot Asurot 11,7; e inoltre si veda il suo responsum 269. Testo

  31. J. Kapah, "Ha-islam we-ha-iachas la-muslemim be-mishnat ha-Rambam", in Mahanaim 1 (1992), p. 21 [ebr.]. Testo

  32. Cf. Marc B. Shapiro, "Islam and the Halakhah", in Judaism 42/3 (1993), pp. 332-343. E inoltre: A. Hacohen, "Dat ha-islam we-ma'amineah - hebetim hilkhatiim we-mishpatiim", in Mahanaim 1 (1992), pp. 34-51 [ebr.]. Testo

  33. Cit. in Gerson D. Cohen, "The Soteriology of R. Abraham Maimuni", in Proceedings of the American Academy of Jewish Research 35 (1967), p. 85 nota 26. Testo

  34. Maometto è più volte detto folle. Testo

  35. Cf. D. Novak, "The Treatment of Islam and Muslims in the Legal Writings of Maimonides", in William H. Brinner - Stephen D. Ricks (eds.), Studies in Islamic and Judaic Traditions, Atlanta 1986, p. 235. Testo

  36. Cf. Ib., pp. 244-246. Il monoteismo dipenderebbe dai mezzi filosofici e non dalla rivelazione storica e dalle sue fonti letterarie. Queste non ne sono la conditio sine qua non. Per Novak, proprio questo potrebbe spiegare il perché Maimonide abbia considerato idolatri i cristiani nonostante abbiano accolto il testo biblico senza modificarne la forma, e non i musulmani che lo hanno invece stravolto e reso pressoché irriconoscibile. I primi sono idolatri, i secondi sono ladri. Si veda il responsum 149 di Maimonide. Testo

  37. J. Blidstein, op. cit., p. 466. Testo

  38. Sul piano dell'attualità, l'insubordinazione violenta dei palestinesi e il loro aperto rigetto della sovranità dello Stato di Israele sono fattori in grado di modificare drammaticamente il loro statuto giuridico dal punto di vista della Torah. In tempo di Intifada, per esempio, non sono mancati i rabbini che hanno invocato la revoca dello statuto halakhico che autorizza gli arabi palestinesi a restare nel paese, cioè lo statuto di gerim toshavim. Testo

  39. Avodah zarah è un'offesa così grave che non si deve salvare la vita di un idolatra, tanto più quando questo comporti la dissacrazione del sabato, e nei giorni feriali «lo si cala in un pozzo e non lo si fa risalire». Testo

  40. Cf. Novak, op. cit., pp. 237-238 e p. 242. Testo

  41. Cf. bShabbat 135a. Testo

  42. Ivi. Testo

  43. Tanto più che il Corano non la prescrive. Cf. D. S. Margaliouth, "Circumcision", in J. Hastings (ed.), Encyclopedia of Religion and Ethics, vol. 3, New York 1951, pp. 677-679. Testo

  44. La circoncisione mai figura nelle liste esplicative dei precetti canonici dovute a Rav Shmuel ben Chofni, Menachem Azaria di Fano, come pure ad autori recenti. Cf. R. Fontana, "I precetti di Noè", in Bibbia e Oriente 2/212 (2002), pp. 65-87. Testo

  45. A. Kirschenbaum, "'Ha-berit' im Benè Noach mul ha-berit ba-Sinai", in Dinè Israel 6 (1975), p. 47 [ebr.]. Testo

  46. Cf. R. Fontana, Sinaitica. Ebrei e gentili tra teologia e storia, Firenze 2006, in part. pp. 43-80. Testo

  47. Marc B. Shapiro, op. cit., p. 336. Ha ragione Shapiro quando accenna al fatto che Novak avrebbe trascurato la portata di questa interdizione di innovare in materia di religione nella sua valutazione del pensiero di Maimonide in rapporto all'islam. Testo

  48. Ricordiamo che è permesso a un noachide osservare altri precetti oltre ai sette ai quali è tenuto, solo se lo vuole e non perché obbligato. Testo

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