di Daniele Fazio (Roma, 26-28 maggio 2011)
I presupposti e lo schema interpretativo tipico della Modernità sembrano non riuscire più a render conto della nostra epoca, tanto che non pochi intellettuali hanno fatto notare, in diverse modalità, che ci stiamo avviando verso una fase successiva, definita, anche per la mancanza di termine unitario e condiviso, con il suffisso «post». In genere si parla di post-modernità, ma anche in relazione agli elementi caratterizzanti delle tipologie sociali di «società post-secolare».1 Questo non significa che la Modernità, come orizzonte ideologico e culturale è scomparsa da un giorno all'altro, ma semplicemente che accanto alle caratteristiche prettamente moderne si notano atteggiamenti e tendenze culturali che mettono in crisi la stessa Modernità.
Dal punto di vista del fenomeno religioso, se il progetto moderno ha preso le mosse, almeno nei suoi elementi dominanti, dallo slogan etsi Deus non daretur, rivendicando così affrancamento ed emancipazione dalle autorità religiose e per questa via anche dall'autorità della religione, il post-secolare, realtà complessa, frammentaria ed in fieri, che difficilmente si può comprendere come pre-secolare, ovvero come un ritorno al pre-moderno tout court, sembra offrirci un «re-incanto» del mondo, sancendo così un ritorno dell'uomo alla religiosità di tipo tradizionale, ma soprattutto l'adesione a nuove forme di culto e a vere e proprie religioni cosiddette «fai da te». In genere il fenomeno religioso è caratterizzato in buona parte, diversamente dall'esperienza religiosa tradizionale, dal paradigma del believing without belonging, ovvero della credenza senza l'appartenenza. I sociologi della religione, abbandonando la teoria della secolarizzazione di stampo prettamente weberiano, che può essere sintetizzata nel detto «più modernità meno Dio», rivelano che la religione non dà alcun segno di declino e il XXI secolo più che esser caratterizzato dalla nietzschiana «morte di Dio» si presenta come il secolo del «ritorno di Dio».2
È, infatti, proprio Dio o il divino, l'oggetto di riferimento delle religioni. Tuttavia, Dio è termine che si declina al singolare, religione è termine che si declina al plurale. Se ci sono, allora, tante religioni, possiamo anche dire che ci sono tanti dei? Il pluralismo religioso è fatto millenario, di cui le religioni, anche quelle più antiche, si sono avvedute, non per altro che per la potenziale «diversità» di credo e di struttura religiosa dei popoli confinanti o visitati e conosciuti a causa delle migrazioni o per motivi commerciali, nonché per cause militari, quali guerre e dominazioni. Così avviene per Israele che compie il suo iter religioso passando dalla fede in un Dio «nazionale» alla concezione di Dio in termini universali, di cui il nome YHWH, «colui che è», può essere considerato un calzante esempio che individua unicità ed universalità della divinità. Sono le religioni allora a dare immagini diverse di Dio che in sé può essere considerato una realtà unica tanto da poter affermare che se le religioni sono tante, Dio in sè, quale oggetto delle religioni, è uno.
Nella storia delle culture mediterranee ci si è avviati verso una concezione monoteistica peraltro già rintracciabile nell'Antico Egitto con il Faraone Amenophis IV. A voler essere più precisi il riferimento ad un Dio unico, non è esclusivamente di natura religiosa, ma trova i suoi esempi più notevoli in ambito filosofico, non senza un tono polemico proprio nei confronti delle religioni politeistiche. A tal proposito, si può ricordare il pre-socratico Senofane di Colofone, Epicuro e anche Aristotele. Così come si può avere un Dio senza religioni, si può anche ritrovare, come nel caso del Buddismo antico, una religione senza Dio. Ancora in età moderna, nella loro critica radicale al cristianesimo, molti illuministi non sfociano nell'ateismo, ma si ricavano una prospettiva deista, più o meno caratterizzata dall'agnosticismo.
A discutere di queste tematiche, senza prescindere dal panorama culturale descritto, si può incontrare la riflessione del filosofo francese Rémi Brague. Studioso di storia della filosofia ed in particolare di filosofia araba e medievale, nonché di filosofia della religioni europee. Egli è docente alla Sorbona di Parigi e alla Ludwig-Maximilian Universität di Monaco di Baviera sulla cattedra di Romano Guardini. È stato allievo di Pierre Auberique e predilige il metodo decostruzionista sviscerando interessanti tematiche, anche sul versante della filosofia della religione senza nascondere una nostalgia per la metafisica e non senza guardare «alla teologia con una certa invidia, come a una disciplina altrettanto critica della sua».3 Nonostante la sua prospettiva metodologica decostruzionista non scade mai in un incocludente specialismo, ma ambisce sempre ad un respiro universale che non uniformi, ma che dia conto delle diversità presenti. Lo si può considerare quale «erede» del «modello romano» a cui ha consacrato un suo significativo studio4 sulla crisi e la possibile rinascita dell'ethos occidentale.
Brague, in un testo più recente, e da poco pubblicato in Italia, riflette anche sulle tre religioni che hanno segnato e ancora segnano la storia dell'Europa: l'Ebraismo, il Cristianesimo e l'Islam. In quest'ottica desidera innanzitutto sgombrare il campo, attraverso una critica radicale ed un opera di comparazione, dalle più comuni definizioni -- vere e proprie «parole-talismano» -- che vorrebbero in nome di un malinteso spirito del dialogo accomunare le tre religioni, secondo affermazioni erronee e rischiose. Per il filosofo della Sorbona le espressioni: «i tre monoteismi», le «tre religioni di Abramo» e le «tre religioni del Libro» «appaiono non soltanto false ma anche falsificatrici»5: «false nelle misura in cui ognuna di esse implica un errore molto grave sulla natura delle tre religioni, che si pretende così ricondurre ad un denominatore comune. Pericolose perché incoraggiano una pigrizia intellettuale che ci dispensa dall'analizzare più a fondo la realtà».6
Cercheremo, perciò, sulla scia di Brague, innanzitutto, di comprendere l'inesattezza di tali espressioni per ricavarne a partire dal confronto tra le tre religioni lo specifico cristiano e della sua concezione di Dio.
Come già accennato, il termine monoteismo più che di derivazione «religiosa» è riconducibile ad un orizzonte filosofico, elaborato nel tentativo di definire il divino con un principio unico; probabilmente fu un teologo platonico di Cambridge intorno al 1660 a usare questo concetto. Esso più che indicare riferimento ad esperienze religiose e devozionali dei credenti, presenta una concezione di Dio astratta e astraente rispetto alle rappresentazioni religiose. Se, poi, l'area euromediterranea è caratterizzata da religioni che hanno fatto riferimento ad un Dio solo7 è anche vero che non si può parlare in termini assoluti di «tre monoteismi» perché essi non sono i primi -- si pensi, ad esempio, al culto egiziano di Amenophis IV -- e non saranno neanche gli ultimi se guardiamo a fenomeni religiosi e culturali sviluppatisi o in via di sviluppo nelle regioni del Terzo Mondo, a partire certamente dal contatto con le credenze occidentali, ma riformatesi e costituitesi su posizioni originali e distinte dai culti tradizionali.
La questione più profonda che, comunque, si pone innanzi alla rivendicazione dell'unicità di Dio è «chiedersi in quale modo Dio è uno, qual è l'unità che collega il divino a se stesso. Essere uno può voler dire che Dio è unico».8 Ed è proprio in questo contesto che la concezione della divinità per le tre religioni si diversifica non di poco. Per l'Islam -- non senza una venatura critica nei confronti del Cristianesimo -- Dio è presentato come l'«Impenetrabile», cioè uno e unico per continuità con se medesimo. Il Dio d'Israele è uno per fedeltà, ovvero è sempre fedele a se stesso, e si presenta come «Io sono colui che sono» (Es 3, 14). Infine, il Dio dei cristiani è Trinitario, cioè il modo con cui i cristiani pensano l'unità di Dio è data dal suo essere Trinità. Su questa scia, più avanti inseriremo meglio le riflessioni offerte da Brague su tale tematica, per ora basta rilevare come le tre concezioni di Dio e della sua unità sono inconciliabili e irriducibili tra di loro. Se, infatti, da un lato i cristiani riconoscono il Dio d'Israele come il loro, finalmente rivelatosi in Cristo, gli ebrei hanno difficoltà a riconoscere l'idea della Trinità, difficoltà divenuta sempre più complessa nel momento in cui, alcune espressioni dell'ebraismo moderno attenuano i tratti cultuali e religiosi dell'Ebraismo, concependolo semplicemente come un «monoteismo etico».9 Ancora, l'Islam, a cui il Cristianesimo riconosce l'evidenza monoteistica, non è disposto a riconoscere il monoteismo né dell'Ebraismo, né del Cristianesimo; perciò, «chiamare «monoteiste» le religioni [cioè l'Ebraismo, il Cristianesimo e l'Islam] non permette [...] di capirle fino in fondo; bisogna anche chiedersi quale modello di unità del divino sia in gioco e quali siano le conseguenze dell'applicazione di tale modello».10
La seconda questione riguarda il comune riferimento delle tre religioni ad Abramo. Anche questo motivo più che evocare uno scontato ecumenismo si presenta come uno dei pomi della discordia. Per la verità nei testi sacri ebraici, cristiani e musulmani vi sono riferimenti a personaggi comuni: Adamo, Noè, Mosè, Giona, Gesù, Maria (questi ultimi due solo per l'Islam e il Cristianesimo). Tuttavia, le loro rappresentazioni e il loro ruolo è evidentemente diverso e presenta differenze dogmatiche non facilmente colmabili. Anche nel caso di Abramo vale questa logica, al di là di una certa retorica di marca cristiana che lo presenta quale il «padre comune» per le tre religioni. È certo, dunque, che si parla di Abramo, ma se prescindiamo da una lettura superficiale dei testi e delle interpretazioni che si danno, sembra proprio non trattarsi dello stesso Abramo. Per gli ebrei, Abramo è il loro capostipite, l'iniziatore di una etnia, che se da un lato può inglobare Gesù e Paolo di Tarso in quanto semiti, dall'altro esclude indiscutibilmente Maometto fondatore dell'Islam e di stirpe araba. Inoltre, il fatto più conosciuto della storia di Abramo e grazie al quale viene riconosciuto a questi l'appellativo di vero credente e modello per ogni credente, ovvero la disponibilità in obbedienza al comando di Dio al sacrificio del figlio Isacco, viene dalle tre religioni recepita in modalità eterogenee. Nell'Ebraismo, infatti, si pone particolare attenzione al non-sacrificio di Isacco, o meglio alla legatura (aqédah), oltre che alla fede del Patriarca, per i cristiani questa storia, in senso allegorico, preannuncia e prefigura il sacrificio della croce di Cristo, per i musulmani, in ultimo, non è chiaro quale figlio di Abramo doveva esser sacrificato. Se anche, qui, il Cristianesimo è disposto a considerare le tre religioni «figlie» di un padre comune e quindi non desterebbe scandalo l'espressione «le tre religioni abramitiche», l'Islam rivendica la sua unicità rispetto alla discendenza abramitica, in quanto Abramo è il «vero musulmano» che non deviò mai dai comandi di Dio e ciò è affermato in ragione della concezione secondo cui gli uomini nascono di per sé musulmani, poi è l'educazione delle famiglie che li perverte. Abramo, perciò, nato musulmano, è un esempio per i fedeli dell'Islam, tanto che lo stesso Patriarca -- episodio questo presente solo nel Corano -- fonda una casa, un tempio, quale dimora di Dio e dei fedeli (cfr. Sura II, 12, 127). V'è da concludere, dunque, che «la figura di Abramo, che le tre religioni avrebbero in comune è solo una vaga astrazione. Un minimo comune denominatore che non coincide con alcuna delle figure concrete che esse venerano e in cui si riconoscono. Accettarlo significherebbe per ognuna di esse rinunciare a una dimensione della propria fede».11
E così giungiamo alla terza questione, ovvero la definizione delle tre religioni come le «tre religioni del libro». Anche in questo caso, l'espressione risulta non poco ingannevole, infatti, il riferimento ad un testo sacro per le tre religioni si attesta su posizioni qualitativamente differenti: «la religione d'Israele è una storia che porta ad un libro, il Cristianesimo è una storia raccontata in un libro, l'Islam è un libro che porta ad una storia».12
Se da un lato l'Islam, soprattutto per quanto riguarda la sua esposizione teologico-giuridica, fa riferimento ad Ebraismo e Cristianesimo quali religioni del libro, i cui seguaci a determinate condizioni sono tollerati -- attraverso l'istituto della dhimmitudine -- in una società islamica differentemente dalle religioni politeiste, dall'altro l'idea di rivelazione, su cui si gioca il riferimento al testo sacro nelle tre religioni stabilisce i diversi approcci al libro. Nell'Islam la rivelazione sta tutta nel Corano, cioè in quella serie di leggi e comandi perfetti e definitivi, che Dio ha calato direttamente dal cielo. Dio non si rivela, non entra nella storia umana, ma consegna un testo in cui sta tutta la sua rivelazione. Non così è per l'Ebraismo e il Cristianesimo. La rivelazione è sempre rivelazione di Dio stesso che si coinvolge in una storia con l'uomo, di cui il libro, pur essendo sacro e ispirato -- cioè composto dagli uomini che prestano la mano a Dio -- ne narra le vicende e ne definisce i rapporti. Se nel Testamento ebraico il centro è la Legge e la Torah che segnano l'Alleanza di un popolo con il suo Dio, non è meno importante nel mondo ebraico, soprattutto dopo la seconda distruzione del Tempio e la diaspora, il Talmud, che raccoglie gli insegnamenti, gli studi e le discussioni dei rabbini e delle scuole rabbiniche. Quest'ultimo, a dispetto, dell'Antico Testamento, non è condiviso dal Cristianesimo che ha a sua volta un ulteriore testo di riferimento in quello che chiama Nuovo Testamento, il quale fa stato di un avvenimento fondamentale della rivelazione, ovvero la venuta al mondo di Dio, in Gesù Cristo. La rivelazione cristiana sta tutta, infatti, nel Verbo che si è fatto carne, nozione fondamentale per comprendere un aspetto centrale della fede trinitaria. Il riferimento alla parola di Dio in ambito cristiano non può essere affatto capito nel suo nucleo fondamentale se non nell'ottica della «cristologia della parola», a cui i testi sacri neotestamentari,13 la patristica14 e quindi l'insegnamento cristiano15 si connettono.
In definitiva, con la radicalità che lo contraddistingue, Brague, si chiede se, effettivamente, ci troviamo davanti a tre religioni. Non può, infatti, sfuggire il legame d'origine e i medesimi riferimenti anche a numerosi libri sacri, seppur con notevoli differenze interpretative, tra Ebraismo e Cristianesimo. Gli stessi cristiani, d'altronde, si sono ben guardati nel corso dei secoli dalle spinte, quali, ad esempio, il marcionismo, che volevano recidere le radici giudaiche del cristianesimo, abolendo l'Antico Testamento. Tra l'altro Gesù stesso non è venuto per abolire ma per dare compimento (cfr. Mt 5, 17), e quindi «il Nuovo Testamento rappresenta il modo in cui i cristiani interpretano gli eventi della vita di Gesù alla luce di ciò che, secondo loro, è stato annunciato nell'Antico Testamento».16 Rémi Brague, allora, afferma: «più che tre religioni ne esistono due e mezza, possiamo dire che più che tre libri ne abbiamo due e mezzo, dal momento che la differenza tra l'Ebraismo e il Cristianesimo risiede, ovviamente, nella lettura assai diversa che le religioni fanno dell'Antico Testamento».17
Bonificato, perciò, il campo da un vocabolario quanto meno insufficiente per la reale comprensione dello specifico delle tre religioni e quindi di riflesso per la comprensione seria della specificità inerente la visione di Dio dei cristiani, Brague intende aiutarci nel tentativo di «descrivere l'immagine che una determinata religione, il Cristianesimo, si fa [di Dio] [...]. Mi occuperò, dunque, del Dio dei cristiani e non come a volte si sente dire del "Dio cristiano". Formulazione assurda, dal momento che Dio è l'oggetto delle religioni e non un loro seguace».18
Una costante nel corso dei secoli ha caratterizzato indefettibilmente, oltre le fratture confessionali, la fede cristiana, questa sta proprio nell'indiscusso riferimento alla natura unitaria di Dio nella triplice distinzione delle Persone: Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo. A conforto di questa tesi può essere ricordata la pluralità dei Simboli della fede, che dai primi secoli fino ai nostri giorni, hanno illustrato il Credo cristiano. Da questa continuità dottrinale ne desumiamo anche che credo, ovvero Simbolo della fede, non scaccia credo, e quindi se la professione di fede niceno-costantinopolitana, anche per il suo uso liturgico, soprattutto nel rito romano, è quella più diffusa e più conosciuta, anche gli altri Simboli della fede cristiana in tutti i tempi sono stati unicamente ed esclusivamente fondati su Dio-Trinità. I primi, anteriori a quello niceno-costantinopolitano, sono databili a partire dal 160-170 d.C., e tra i tanti il Simbolo pseudo-atanasiano, databile tra il 430 e il 500 d.C. con solennità e chiarezza così recita:
Fidem autem catholicam haec est, ut unum Deum in Trinitate et Trinitate in unitate veneremur, neque confundentes personas, neque substantia separantes: alia est enim Persona Patris, alia [persona] Filii, alia [persona] Spiritus Sancti; sed Patri set Filii et Spiritus Sancti una est divinitas, aequalis gloria, coeterna maiestas.19
Se però, i termini sono abbastanza precisi, inappellabili e definitori, l'adeguata spiegazione di essi nel corso dei secoli è sempre stata una questione molto delicata. Già, infatti, i termini «natura» e «persona», sono mutuati, e in certa parte anche transignificati da parte cristiana, da un lessico culturale greco-romano che si saldò sin dall'emergere del cristianesimo con esso a favore della sua espressione dottrinale e culturale. E se fides et recta ratio, armonicamente in dialogo, designavano un orizzonte culturale nei secoli della cristianità che non aveva grossi problemi nell'accettazione dei precedenti termini concettuali, la graduale sfiducia nella ragione e quindi l'eclissi della filosofia dell'essere, a partire dal Tardo Medioevo, hanno incrinato anche la presentazione classica di Dio come Trinità, tanto che pure in ambito cattolico vi è stato in tempi recenti il tentativo di elaborare l'idea di Dio staccandola, attraverso la critica all'ontoteologia occidentale, dalla prospettiva dell'essere.20
La riflessione di Brague, a tal proposito, è molto attenta e non si astrae minimamente dal contesto culturale presente, anzi tenta proprio di argomentare a partire dal panorama moderno in cui il richiamo sacrale e la presa autoritativa della parola sacra sono deboli se non addirittura nulli. Il mondo moderno, infatti, si caratterizza come il tempo del silenzio degli dei o del silenzio di Dio. Perciò, siamo innanzi ad un clima in cui il rapporto dell'uomo con la trascendenza è entrato in crisi. Da diverse parti si è sottolineato con originali definizioni le caratteristiche di quella che lato sensu, viene detta «secolarizzazione», che segna distanza e autonomia dell'uomo rispetto all'istanza trascendente: «ci sono innumerevoli definizioni: si parla di «secolarizzazione»; oppure di «disincanto del mondo [...], seguendo Max Weber, le cui parole sono state in seguito riprese e ampliate; o ancora si parla di «eclissi di Dio», secondo il titolo di un'opera di Martin Buber; infine di «sdivinizzazione» o di «fuga di dei» [...] con Heidegger, sino all'idea della "morte di Dio" con Nietzsche».21
Riflettendo in un orizzonte ancora segnato dal paradigma moderno, il primo nodo che sembra opportuno sciogliere è quello legato alla conoscenza. La Modernità è percorsa in maniera profonda dagli studi che riguardano la gnoseologia. Davanti alla domanda «come l'uomo può conoscere?» se ne staglia un'altra «cosa l'uomo può conoscere?» e questo non può non essere riconosciuto come il motivo principale delle Critiche kantiane, tanto radicali da istituire un «tribunale» per giudicare le stesse capacità conoscitive della ragione, una ragione che scruta e sonda con radicalità se stessa. Questa decreta l'impossibilità della Metafisica come scienza e quindi l'impercorribilità delle vie razionali per la conoscenza dell'esistenza di Dio. Ma, già la Modernità ai suoi albori, con Francesco Bacone, aveva declinato in modo particolare il tema della conoscenza legandolo al tema del potere e del dominio della natura. Conoscere, infatti, significa da un lato apprendere le dinamiche e la struttura di un oggetto e dall'altro significa saperlo utilizzare, sottometterlo, avere un potere su di esso. Ecco perché sapere è potere. Tuttavia, se questo può avere un senso nell'orizzonte puramente scientifico, ovvero per ciò che riguarda le scienze cosiddette naturali, in campo antropologico tale visione, mostra subito le sue faglie e i suoi pericoli, di cui le ideologie moderne e i sistemi totalitari ne hanno tragicamente espresso la concretezza. Conoscere una persona, infatti, non può mai significare poterla manipolare. Quindi, «conoscere una persona nella maggior parte dei casi significa saperla identificare e al di là del nome saper come trattarla»,22 laddove naturalmente «trattare» non significa manipolare, perché non ci troviamo in presenza di uno strumento o di una cosa. In questo contesto possiamo porci la domanda sulla natura di Dio e sulle modalità per poterlo conoscere. Se Dio infatti è una cosa, come sembra essere per buona parte della filosofia, la sua conoscenza sarà spiegabile nei suoi attributi e potrà essere facilmente colta nell'ordine della funzione. Se è persona, invece, occorrerà intraprendere un altro percorso. Optando per la seconda soluzione, in quanto la nostra trattazione riguarda il Dio dei cristiani, che sovente viene presentato dal Cristianesimo come Persona -- che non significa, ovviamente, essere umano -- a partire dalla presentazione come «soggetto» che Dio fa di se stesso, rispondendo alla richiesta di Mosè: «Io sono [sarò] colui che sono [sarò]» (Es 3, 14), è possibile legare questa acquisizione ad una esperienza umana che con Brague così possiamo sintetizzare:
quando chiediamo a qualcuno: «Chi sei?», la maggior parte delle volte intendiamo dire: «Come ti chiami?», «Che lavoro fai?», «Per quale motivo sei qui?». Ma quando la domanda è autentica e corrisponde al desiderio di conoscere la persona in quanto tale, l'unica possibile risposta è «Vedrai». Una risposta del resto che può essere data solo in un'esperienza di amore o di amicizia. Infatti, l'amore consiste proprio nel lasciare aperto lo spazio in cui l'altro potrà dire, o fare, ciò che lui o lei è, o meglio ciò, che lui o lei sarà.23
C'è, dunque, sufficientemente chiaro che una conoscenza personale non superficiale può essere declinata solamente in una esperienza d'amore, data più che dall'occhio dell'intelletto, dall'occhio del cuore. Ciò non significa, affatto, rinchiudere Dio nel campo dei sentimenti e quindi far coincidere la sua natura con un senso o far risucchiare la sua conoscenza nelle dinamiche del sentimentalismo, ma significa che conosce Dio, o può conoscere Dio, solo chi si mette nell'ottica, nella disposizione interiore, di conoscerlo, comprendendo la sua natura. Infatti, nelle dinamiche della conoscenza non siamo noi a dettare le regole al soggetto da conoscere, ma viceversa, solo infatti, se seguiamo le sue coordinate principali possiamo apprenderne qualcosa. Dunque, la dinamica di conoscere Dio è quella di amarlo. Non è, dunque, spesso Dio che non si fa conoscere, ma l'approccio di certi uomini che conduce all'oblio di Dio: ««tentare» Dio, significa seguire una sorta di metodo sperimentale, obbligarlo a manifestarsi imponendogli le condizioni, senza chiedersi se siano adeguate. «Cercare» Dio, invece, significa andare a trovarlo là dov'è. Ossia convertirsi nel senso originario, platonico, di volgersi nella giusta direzione».24 Le modalità di conoscenza di Dio sono quelle della fede, che implica una fiducia in qualcuno che si riconosce come bene, la fede resta sempre una conoscenza imperfetta, ma presuppone una conoscenza perfetta da parte di chi è creduto, di Dio, nei confronti di chi crede, il fedele. Dio vuole il bene delle cose create, quindi il nostro bene, e chiede che lo si ami attraverso l'unione della nostra volontà alla sua. «Se Dio è il Bene e vuole il nostro bene, ossia la nostra santificazione, di quale tipo di conoscenza di Dio abbiamo bisogno per raggiungere questa santificazione? Di quella che ci viene dalla fede, di un unione con Lui nella volontà».25 Appellandosi alla volontà, l'atto di fede non può che essere di per sé all'insegna della libertà, la fede nasce e può svilupparsi solo in uno spazio di vera libertà, solo in questo ambito essa può essere validamente giocata: «se Dio è libertà, può essere incontrato solo dalla libertà».26
Con questa impostazione «gnoseologica» e, quindi oserei dire, aiutati dalla ragione ma ancora di più illuminati da una prospettiva di fede, che si staglia come luce per la nostra ragione, nella dinamica del credo ut intelligam, Brague, vuole analizzare alcuni attributi, sicuramente centrali, delle modalità con cui questo Dio si presenta. Ciò viene esplicato, a partire dall'analisi socio-culturale del nostro tempo caratterizzata dal «ritorno del politeismo». Lungi dall'apparire questa una costatazione bizzarra, il Nostro, con il termine «ritorno al politeismo» inquadra un determinato processo, dapprima prevalentemente estetico poi di carattere morale che, gradualmente dal Rinascimento ai nostri giorni, esprime un orientamento secondo cui il politeismo, al di là dei suoi elementi religiosi, è più tollerante della fede in un solo Dio, in quanto questa implicherebbe una netta distinzione tra il bene e il male. L'uomo di oggi non s'inchina, davanti a divinità romane o tribali, ma in definitiva davanti a se stesso. Il progetto religioso, o pseudo religioso, moderno «suppone che non vi sia niente di più alto dell'uomo e che l'uomo debba rendere conto solo a se stesso».27 La polemica, allora, nei confronti del monoteismo, più che rivestirsi di un habitus teologico e religioso, risulta eminentemente politica in quanto il ricorso al politeismo «è uno slogan per la rivendicazione dei particolarismi».28
Tralasciando, momentaneamente le questioni di ordine morale e politico implicate nell'attuale dibattito che vede contrapporsi questa nuova forma di politeismo al Cristianesimo che, a prescindere dalla precedente chiarificazione del termine monoteismo, ci presenta il dogma di un Dio uno, giungiamo a riflettere in quale modo il Dio dei cristiani è uno. L'unità di Dio dai cristiani è esplicitata nei termini della Trinità, ovvero, lungi dal pensare che il monoteismo Trinitario sia un monoteismo elastico, rispetto alla rigidità del monoteismo islamico ed ebraico, magari inventato dai Padri della Chiesa, quale formula compromissoria tra il monoteismo monolitico ebraico e la cultura politeista greco-romana, esso ci indica la modalità dell'essere uno di Dio e così risponde alla domanda su come Dio possa essere uno: «la fede nella Trinità, come è noto, non ha nulla a che vedere con la fede in tre dei. Questa eresia è stata formalmente condannata con il nome di triteismo».29 Qui, allora diviene interessante non tanto sapere «se Dio sia uno, dato acquisito e quasi scontato, ma sapere in quale modo lo sia».30 Su questa scia, sembra utile riflettere sull'esperienza dell'unione nella sfera umana, tema che come si può ben intuire richiama, l'esperienza dell'amore. Difficilmente, infatti, si può pensare all'amore tra due uomini sottraendosi dalla esemplificazione più immediata, ma anche più profonda, che è quella della esperienza amorosa. Seguendo la fenomenologia dell'amore negli uomini ci si accorge di elementi irriducibili che si stagliano nella loro distinzione: da un lato l'identità della persona, dall'altro la spinta all'unione, la brama di fondersi con l'amato. I due momenti, a prescindere dall'ardente desiderio dei partner e dalla loro buona volontà, non potranno mai essere amalgamati, per quanto i «due saranno una carne sola», questo per l'uomo non potrà mai significare fondersi realmente ed inscindibilmente con la persona amata, annullando la propria singolarità e la propria identità. L'identità sembra proprio che prevalga sull'unione, se l'amore non viene giocato proprio nel rispetto e nell'adorazione della distanza tra se stessi e ciò che si ama. L'amore per l'uomo prevede un rispetto irriducibile per l'alterità dell'amato, l'uomo non può far altro che accettare, più o meno, il mistero rappresentato dall'altro. Ciò che unisce gli amanti è il lato più personale e libero, ma l'offerta di tutto noi stessi all'amato resta sempre segnata dalla nostra natura e per quanto l'esperienza dell'amore sia la più alta che l'umanità possa accarezzare, essa rimane sempre carente sia per quanto riguarda l'alterità, sia per quanto riguarda l'unione: «per quel che riguarda la prima, infatti, non può unicamente prendere atto di una differenza già data a livello biologico, sociale o culturale; per quanto riguarda la seconda, l'unione rischia di trasformarsi in una fusione che assimila l'amato alla nostra natura».31 Questo accade perché nell'uomo, l'amore è solo una capacità, certamente egli la possiede e si erge come fatto che contraddistingue le caratteristiche proprie della sua identità, ma non coincide con essa, con la sua natura. Noi possediamo l'amore, ma non siamo l'amore e Brague conferma: «la relazione che ci lega all'altro, non è la stessa cosa della nostra natura. In altri termini, l'amore è qualcosa che proviamo, che viviamo, che possediamo, o come altro si voglia dire. Ma non è mai, di per sé, ciò che siamo».32
Solo in questa prospettiva, può inserirsi ed essere compreso il surplus tipicamente cristiano. Diversamente dall'uomo, infatti, «Dio è amore» (1 Gv 4, 16). Ecco perché ogni tentativo di rappresentare la realtà trinitaria a partire dal modello umano alla fine è stato limitato e fallimentare. «Dio è amore» vuol dire che nella sua esperienza dell'amore è privo di limitazione perché la sua identità e la sua capacità di amare coincidono. In Lui essere e amore sono la stessa realtà e ciò non può che portare luce nella comprensione del suo Essere Trinitario: «tutto ciò che è detto delle tre persone o delle tre ipostasi professate dalle Chiese cristiane nella sostanza divina deriva dalla logica della carità».33
Alla luce, dunque, della caritas -- espressione del superamento cristiano del concetto di amore antico -- eros, philia -- si comprende il concetto di relazione che ci permette di approssimare intellettualmente l'essere di Dio. Nella Trinità, infatti, l'essere Padre non equivale ad essere Figlio e allo stesso tempo, però, non si può pensare ad un figlio senza un padre, né tanto meno la paternità di un padre sarebbe veramente tale senza un figlio. Questa relazione se da un lato distingue dall'altro nella logica del dono -- che esprime l'amore -- in cui viene a ritrovarsi unisce intimamente le persone. Dio sta in questa relazione o meglio ancora possiamo dire che è relazione d'amore, tanto che le persone sono costituite da questa relazione: «la relazione stessa è ciò che Dio è».34
In Dio non vi è accettazione dell'altro, ma posizione dell'altro: il Padre pone il Figlio, lo suscita e non lo subisce; «quando il Padre genera il Figlio ed entrambi effondono (in termini tecnici «spirano» lo spirito»35 si esprime così e si realizza l'amore eterno di cui e in cui Dio vive. La distinzione delle Persone divine proprio perché suscitata, permette che tutte e tre partecipino della stessa sostanza, la sostanza divina; l'amore unifica in maniera perfetta:
in Dio l'amore non collega termini esterni tra loro. Unisce Dio a se stesso, costituendo la sua unità. Così ciò che in noi è separato, in Dio coincide: l'unione più elevata è anche la più forte. L'unità è amore, un amore che non è nient'altro che il fatto di porre l'alterità. Perciò l'amore fa si che il Padre e il Figlio siano uno, non perché impedisca al Figlio di essere altro, ma perché gli dona l'essere altro, e perché il Padre è questo dono.36
Sintetizzando, dunque, la dottrina trinitaria, possiamo dire che il Padre non ha un principio, mentre il principio del Figlio è il Padre e il principio dello Spirito Santo sono insieme il Padre e il Figlio uniti in un solo principio. Il Padre è il principio, ma ciò non significa indipendenza dalle altre persone dato il legame inscindibile con il Figlio che lo costituisce Padre e di cui già si è detto. Perciò,
se si vuole, quel che nel Cristianesimo, corrisponde a ciò che altrove potrebbe chiamarsi monoteismo, è il dogma trinitario. Quest'ultimo non è un rimedio apportato in un secondo momento, un po'd'acqua nel vino dell'unità divina. E nemmeno un indebolimento dell'idea monoteista. Ne, è piuttosto, il dispiegamento. Permette di professare il fatto che Dio è uno professando la modalità in cui lo è. La Trinità è la modalità stessa in cui Dio è uno. Questa modalità è la carità [...]. Ed è proprio perché quest'unità è un'unità di carità perché essa è trinitaria: la vita interiore della Trinità, che unisce e distingue nello stesso tempo, in Dio non ha altra legge che se stessa, è il libero gioco di questa legge che fa di Dio la Trinità. Per i cristiani «Dio è uno» è un modo di affermare che «Dio è amore». Così come del resto, tutti i nomi attribuiti a Dio sono solo modi diversi di forgiare l'oro della carità.37
Si può comprendere, ancor meglio ora, perché conoscere Dio significa amarlo. Se Dio infatti è amore, il criterio per poterlo conoscere sta proprio nella dinamica dell'amore che Brague espone in questi termini:
professare l'unità di Dio significa anche essere uniti a lui, attraverso un'unità analoga alla sua. Dio è liberamente unito a se stesso. Essere uniti a Dio significa unire la propria libertà a quella di Dio. E due libertà non possono unirsi come fanno gli oggetti materiali, attraverso un fusione o un'agglomerazione. L'unione più elevata è l'unione di due volontà, che non è mescolanza, ma accordo, un unione che non distrugge l'identità dei suoi termini, ma che, al contrario, l'accresce.38
Entrare con Brague nelle dinamiche della conoscenza di questo Amore, senza voler violare il mistero di Dio, né tantomeno esercitare vane curiosità sulla sua natura, significa accedere a due momenti essenziali della dinamica trinitaria: la paternità di Dio (in cui si fa riferimento ad un discorso sulla Prima Persona della SS. Trinità, appunto il Padre) e la Parola definitiva di Dio (ovvero il Verbo incarnato, il Figlio, la Seconda Persona della SS. Trinità).
La paternità implica sempre una generazione, questo è abbastanza comprensibile all'esperienza umana, tuttavia, la paternità di Dio è esercitata non semplicemente in virtù di una generazione che implicherebbe attività sessuale -- del tutto assente in Dio -- ma in virtù del suo essere Creatore. L'essere padre in Dio è stabilire l'«economia» tra Lui e ciò che non è Lui. Se, da un lato è chiaro che il Dio d'Israele, quindi il Dio dei cristiani non ha mai avuto una rispettiva dea come avveniva nelle religioni limitrofe ad Israele o come era prassi per il culto politeistico greco e romano con Zeus che viene accompagnato da Hera, dall'altro è anche vero che creando l'uomo a sua immagine e somiglianza (Gn 1, 26), Dio lo ha creato sessuato ovvero maschio e femmina (Gn 1, 27). Ciò vuol dire che in qualche maniera v'è in Dio un qualcosa che possa rassomigliare alla nostra sessualità. L'immagine che la Sacra Scrittura ci fornisce, tranne qualche raro caso, è quella di un Dio più padre che madre e quindi con frequenti caratteristiche maschili, tanto che diviene spontaneo chiederci in cosa possa consistere la «mascolinità» di Dio. Vi è una indiscussa letteratura sacra che definisce Dio come lo «Sposo di Israele» e la stessa interpretazione delle passioni degli amanti descritta dal Cantico dei Cantici viene data sul metro del rapporto tra Dio e il suo popolo, tanto che proprio tale convinzione permette ad un testo di letteratura amorosa di entrare nel canone sacro prima nel mondo israelitico e poi nell'orizzonte ecclesiale cristiano in cui tale motivo ha avuto la sua fortuna fino a sviluppare la tematica del cosiddetto «matrimonio mistico» tra l'anima e Dio. Vi sono ancora notevoli rimandi nei libri profetici al rapporto sponsale tra Dio e il suo popolo (ad es. Osea, Ezechiele) e soprattutto la stessa vicenda dell'elezione del popolo ebraico attraverso l'Alleanza, definisce in un certo senso questo sposalizio, attraverso la stipula di un vero e proprio patto. È bene a questo punto sottolineare che «la sessualità [...] non ci dice qualcosa sulla natura di Dio ma sulla relazione tra l'uomo e Dio. Qual è il fondamento ultimo di tale relazione? La relazione tra Dio e il popolo d'Israele è l'alleanza».39
Mascolinità in Dio, dunque, non significa virilità, ovvero potenza sessuale atta a fecondare. In questo senso, anzi, il Dio d'Israele non è affatto un Dio virile e gioca la sua paternità in funzione antivirile. È, proprio, la vicenda originaria della creazione che ci consegna questa dimensione, infatti, Dio di sua iniziativa, ex nihilo e senza aver bisogno di alcuno, decide liberamente di creare l'universo, non feconda a tal fine nessuno, ma è Padre perché dà origine e quindi spingendoci oltre possiamo affermare che Dio è Padre, ma non è maschio, e non è neanche madre perché crea ciò che non gli è consustanziale. Per la dimensione umana, infatti, «il padre riconosce il figlio con un atto di libertà che non è costretto a compiere. La madre, invece, sa che il figlio è suo perché è stato in lei, non può non riconoscerlo come suo. E reciprocamente il figlio ha un rapporto di libertà con il padre che non può instaurare, invece, con la madre».40 Il legame con la madre, sin dal grembo materno e proprio perché dal grembo materno deriva, è veramente solido e profondo. Con un linguaggio, ovviamente segnato dai limiti dell'uomo, si può dire allora che Dio crea con libertà e crea esseri liberi di riconoscerlo financo come Padre. Il fatto che si dice che Dio è più padre che madre, ma equivale allora a pensare che Dio sia più maschio che femmina. Seguendo questo ordine di riflessioni, successivamente potranno essere espresse delle considerazioni circa il ruolo sociale dell'uomo e della donna, evitando una indebita sovrapposizione tra piano teologico ed ordine politico, nella consapevolezza, però, che molte espressioni sociali e politiche possono dipendere da posizioni teologiche, anche per chi nega l'esistenza di un Essere Trascendente.
Intanto, possiamo giungere al secondo ordine di riflessioni che riguarda la comunicazione di Dio con la sua creazione ed in particolare con l'uomo, che partecipando del suo logos è il soggetto della comunicazione divina. Dio comunica con la sua creazione, attraverso la sua Parola, attraverso di essa, addirittura crea. La Parola di Dio è potente, edifica, a monte della stessa si trova il Logos creatore. La rivelazione obbedisce ad un movimento che vede Dio, dapprima, comunicare in maniera sia ordinaria che straordinaria la sua volontà, le sue leggi, i suoi decreti e i suoi comandi all'uomo, man mano che si giunge al compimento della rivelazione la parola, poi, cede il posto al silenzio. Dio, a rivelazione compiuta -- Cristo sulla croce esclama: «tutto è compiuto» (Gv 19, 30) -- ha detto all'uomo tutto ciò che doveva dire, quindi ora tace. V'è come un ritrarsi di Dio -- di cui in altri termini fa stato anche una certa tradizione rabbinica, nonché alcuni filosofi ebrei del '900 -- per lasciare spazio all'uomo. Nell'Antico Testamento, l'uomo chiede a Dio di parlare e tale richiesta è a sua volta l'obbedienza dell'uomo ad una comando che Dio stesso gli ha ingiunto. Nel Nuovo Testamento non è più così: «La Nuova Alleanza, ha qualcosa di più sobrio, o di più grigio dell'Antica. Invece, si potrebbe quasi essere tentati di constatare che tra l'Antica Alleanza e gli elementi migliori di un certo paganesimo -- ossia le relazioni libere, sullo stesso livello, oserei dire «rilassate», tra il divino e l'umano -- non c'è tutta quella distanza che s'immagina».41 Ci è facile anche dire che la pienezza della rivelazione si manifesta anche attraverso l'inizio del «disincanto» dal sacro. Nel suo Figlio, infatti, Dio ci ha detto interamente la sua Parola e non ha altro da rivelarci. Questa sua Parola coincide con una Persona e quindi di per sé è irrevocabile e irripetibile, tanto che se Dio per assurdo tornasse a parlare non potrebbe non dire la stessa Parola. Questa Parola nell'orizzonte cristiano è totale, infatti, in Cristo si trova il tutto, più di quanto si desideri o s'immagini o si possa sperare. La vita di Cristo -- come quella di tutti i viventi -- è irreversibile tanto che il mistico spagnolo Giovanni della Croce, guida in questo ambito delle riflessioni del filosofo francese, ritiene una bestemmia chiedere a Dio di tornare a parlare, di tornare a rivelarci qualcosa, in quanto questo significherebbe, data la definitiva e completa rivelazione in Cristo, costringere Dio a ripetere l'evento dell'incarnazione, della passione, della morte e della resurrezione del Figlio.
In Cristo allora, và cercato tutto ciò che Dio ci ha dato e vuole dare all'uomo. Questa totalità va calata, perciò, nella singolarità della vita, sussunta da ogni persona: «se il dato rivelato è una persona umana, il problema non si pone più; non c'è bisogno che, nel messaggio, qualcosa riveli che si tratta dell'ultimo e che non ce ne saranno altri: se il messaggio non è altro che colui che lo emette, la fine del messaggio coincide con il momento della morte del locutore».42 Pertanto, il Cristianesimo «non può concepire che venga qualcun altro al di là di Cristo. La storia è chiusa, o già tracciata: ciò che può ancora accadere è unicamente, nell'ultimo giorno, il ritorno in gloria di colui che è già venuto, una volta per tutte. «Colui che deve venire» (Mt 11, 3) è colui che è venuto».43 Dunque, Cristo è l'unica Parola di Dio, non ne ha un'altra, Egli è il Verbo incarnato, la Seconda Persona della SS. Trinità, già, come accennato, presente sin dal principio, e come recita il Simbolo niceno-costantinopolitano, per quem omnia facta sunt, per mezzo del quale tutte le cose furono create: «la parola allora, non è qualcosa di puramente verbale; è nello stesso tempo un atto e una parola. E anche quello che dirà Cristo: più che come una descrizione di quello che è, dovrà essere inteso come un'azione, non dovrà essere interpretato come un insegnamento, ma come un chiarimento dei gesti o dell'insieme di un'attitudine e di una vita».44 Il verbo e la carne fanno tutt'uno e dal momento che il Verbo si è fatto carne, saranno gli atti, ciò che egli farà, a parlare più che la parola stessa: di Cristo, i suoi contemporanei dissero: «ha fatto bene ogni cosa» (Mt 7, 31). La parabola del Verbo incarnato si chiude con il silenzio del consummatum est:
l'ultima parola del Verbo è quella di un Verbo impotente, ridotto al silenzio. La potenza della parola, qui, è il silenzio del Verbo spogliato di ogni potenza. Ma qui tutto si rovescia: quello che dovrebbe essere lo scacco di un locutore messo a tacere non è più tale se il locatore fa tutt'uno con ciò che ha da dire, se egli è la parola che qualcun altro pronuncia. Non è la parola a parlare, ma il soggetto parlante, il locutore. Così, se un uomo è il Verbo, la parola per eccellenza, dovrà allora tacere. Più precisamente, nel suo caso l'elemento più «rivelatore» (termine da intendere nel suo duplice senso), o l'elemento più «parlante», non sarà quello che dirà, ma quello che farà.45
Tale verità ha un ruolo fondamentale nella presentazione del dogma Trinitario. Il fatto che Dio rivelando il Figlio poi taccia, non significa minimamente che Dio si è ritirato dal mondo in favore del Figlio, se il Figlio, infatti, non fosse consustanziale al Padre ciò sarebbe vero e quindi vera sarebbe anche l'idea secondo cui Dio starebbe ai margini della storia non coinvolgendosi con essa, ora il Dogma Trinitario ci vuole dire proprio l'opposto. Dio, nel Figlio consustanziale a Lui, è pienamente presente nelle pieghe della storia. Egli entra con tutto se stesso nella storia. Spiega Brague:
Il dogma in questione non è in primo luogo una teoria più o meno arbitraria sulle ipostasi che compongono la sostanza divina. Esso è, anzitutto, uno strumento che permette di pensare l'impegno personale di Dio nella storia della salvezza, l'avventura di Dio con gli uomini. Lo si potrebbe riassumere in un parola: Dio non si sottrae. Il dogma trinitario tenta l'articolazione dell'identità e della differenza tra Dio e la sua incarnazione, tra il Padre e la sua incarnazione, tra il Padre e il Figlio.46
Con il Figlio, allora, Dio entra nella storia e il Figlio, allo stesso tempo, grazie al Padre divenendo uomo salvaguarda la sua divinità. Dio non è uomo dall'eternità, ma diventa uomo nel tempo, la storia di Cristo, se così non fosse, non avrebbe alcuna attinenza con Dio. Ma dal momento che nella Trinità vi è distinzione nell'unione e unione della distinzione delle tre ipostasi, in questo orizzonte l'incarnazione diventa possibile, senza sminuire la divinità né menomare l'umanità del Verbo.
È bene chiedersi a questo punto il ruolo e il compito della Terza Persona della SS. Trinità. Per la verità, Brague, non riflette poi tanto sulla terza ipostasi in quanto ritiene che questa abbia un ruolo discreto. Ed obbedendo a questa idea accenna allo Spirito Santo come il più nascosto tra i Tre. Oggettivamente il suo ruolo è quello di agire nel silenzio, nella discrezione, di nascosto, nell'intimità, non aggiunge cose nuove a ciò che Cristo ha fatto e detto, ma agisce nell'ottica di ricordare tutto ciò che è stato detto: «più che essere dato, è colui che dà. Non è un oggetto rivelato, ma un soggetto rivelante. Non ci sono, dunque, due economie, un'economia del verbo cui farebbe seguito un'economia dello Spirito».47 Sembra proprio che il tempo dello Spirito Santo e la sua azione sia intimamente legata al tempo del silenzio Dio e dell'azione dell'uomo.
«Ogni grande questione politica dipende da una fondamentale questione teologica»,48 ogni proposizione di fede per la vita del credente, non resta una determinazione astratta, ma si traduce in conseguenze pratiche che si riverberano sulle impostazioni che si danno alle relazioni con gli altri, con le cose e con se stessi. Ci sembra dunque lecito poterci chiedere se e come il dogma trinitario in qualche maniera abbia inciso o possa incidere nella designazione di un orizzonte politico, etico ed antropologico particolare, offrendosi anche all'interesse di chi non è credente, quale una visione integrale, ed una proposta, davanti alla quale non si possa rimanere indifferenti, in quanto richiamo ad una radicale impostazione del vivere.
Alla luce di quanto detto precedentemente sulla Trinità e seguendo il sentiero su cui Rémi Brague ci conduce, il primo punto che possiamo trattare ci richiama un orizzonte strettamente politico. Abbiamo appreso dall'economia trinitaria che il Padre non agisce come un monarca, è vero che è il principio e come tale pone il Figlio, ma questa iniziativa prevede ab origine, la circolarità di un Figlio che possa riconoscerlo come Padre. L'Arianesimo, che proprio sul dogma Trinitario presentava le sue maggiori divergenze con l'ortodossia cristiana, considerò Dio Padre, unico principio, un Dio supremo, che sovrastava le altre due ipostasi, quale appunto un monarca assoluto. Cristo veniva considerato una sorta di divinità «adottiva» e comunque minore. Tale dottrina giocò in ambito politico da instrumentum per una certa impostazione del potere imperiale. Per molto tempo, infatti, questa visione teologica, che contrappose Oriente ed Occidente, diede «legittimità» teologica a quello che venne definito «cesaropapismo» e che caratterizzò la politica imperiale di Bisanzio. Il problema allora, fu, non senza ferite storiche, risolto dalla sconfitta sul piano teologico, grazie anche al Vescovo Atanasio, dell'eresia ariana.
Non è compito di questo studio ricostruire la difficile querelle teologica di quegli anni intorno alla Trinità, che tra l'altro rafforzò e raffinò, per converso, la stessa dottrina cristiana sul tema, tuttavia, pur restando fuori dalla questione non ci si può non accorgere che l'errore preliminare dell'Arianesimo consistette nel non considerare affatto la distinzione che Cristo nella sua predicazione aveva operato tra la sfera spirituale e la sfera temporale. Se, infatti, da un lato motivi teologici possono ispirare la vita degli uomini e soprattutto dei credenti, dall'altro questa ispirazione non significa sovrapposizione tra l'ordine escatologico spirituale e perfetto e l'ordine politico temporale e transeunte. Il Cristianesimo, aveva, diversamente dalle tendenze religiose antiche, distinto la politica dalla religione, dunque ogni tentativo che si muove in senso inverso sicuramente si sviluppa da una prospettiva di alterazione dell'insegnamento di Cristo. Brague ci ricorda, «come il Cristianesimo abbia rifiutato con decisione la reciproca contaminazione del politico e del religioso e come con il dogma della Trinità, abbia elaborato una concezione di Dio che lo contraddistingue e senza cui non potrebbe essere quello che è».49
Fu chiaro, dunque, allora, ma nel corso dei secoli, davanti alle tentazioni di commistioni fu sempre ribadito, come ad esempio nel XX secolo dal teologo Erik Peterson davanti alle ideologie che spesso apportavano giustificazioni spacciate per teologia politica, che il dogma Trinitario non può essere utilizzato in analogia con i generi di unità presenti nel creato e di conseguenza non può essere ad esempio spacciato per giustificazione teologica degli assetti politici. Un altro teologo, Jürgen Moltmann, in anni successivi, con radicalità ha fatto notare come quella che è stata definita «la riduzione trinitaria moderna», che pensa al dogma Trinitario a partire dalla rappresentazione dell'individuo propria della Modernità, è erronea. Pensare, infatti, alle Persone della Trinità quali tre punti di vista differenti, o meglio come un unico oggetto con tre modi di «essere» differenti ci conduce più che alla genuinità del dogma cristiano a quell'eresia che fu chiamata «modalismo» e che può essere considerata come l'estremo opposto al triteismo. Ciò a conferma, ricorda sempre il Nostro filosofo, che il «modello cristiano del Dio unico [...] trascende tutti i modelli creati di unicità».50
Il problema, allora, di una contrapposizione tra un monoteismo e un politeismo, tipica del nostro tempo, risulta così già superata sin dall'inizio, se per «politeismo» i nostri contemporanei, come suddetto, non designano un mondo divino, bensì una ricaduta, un riflesso politico di un pantheon divino, in cui non credono, in quanto non v'è e non vi può essere, da parte cristiana, almeno per quanto riguarda il dogma Trinitario una ricaduta politica tout court: «il politeismo è lo slogan per la rivendicazione dei particolarismi, mentre il monoteismo lo è per la protesta morale dell'individuo. Le due cose sono speculari l'una all'altra e il problema è la loro reciproca articolazione, mentre spesso le si trova al servizio di una religiosità sospetta».51
Se in campo politico, il tema della monarchia o di una concezione del potere totalitaria non può avere nel dogma della Trinità, una sponda teologica che possa conferire legittimazione, nel campo antropologico ed interpersonale, la paternità di Dio ci fa riconsiderare il rapporto tra i generi e la stessa funzione della paternità, a volte appiattita sulla virilità. Ciò che Brague, in questo contesto vuole dimostrare è che la paternità umana ha necessità di essere depurata dalla virilità. Questo si concretizza nel fatto che il maschio non potrà mai assumere una posizione di predominio sulla donna. E qui si concentra anche tutta la visione del potere, che di certo trova i suoi spontanei collegamenti anche per quanto concerne l'ordine politico. Se, infatti, a prendere l'iniziativa della creazione è stato Dio che ha così espresso la sua paternità, il potere che Lui ha impiegato dal trarre dal nulla tutte le cose non è stato trasformato in comando, ma si pone come servizio: «l'iniziativa paterna non è dello stesso tipo di quella che caratterizza la virilità: l'iniziativa del Dio Creatore che costituisce un popolo non è dello stesso ordine di quella, se esiste, del maschio nel rapporto sessuale, nella costituzione della famiglia o nell'educazione dei figli».52 In altri termini, possiamo dire allora che tale iniziativa si esplicita esclusivamente come servizio -- «non sono venuto per essere servito ma per servire» (Lc 22, 26) -- e perciò:
la virilità non ha alcun privilegio sulla femminilità, né in sé, né come analogo di Dio. Invece, la paternità ha un privilegio sulla maternità, ma solo nel senso che rispetto a quest'ultima, viene ritenuta più adeguata ad esprimere il rapporto tra il Creatore e la sua opera, e non invece nel caso in cui si tratti di paragonare delle attività umane. Nel Cristianesimo, il solo compito del maschio «virile» [...] è di imitare il più possibile il modello della paternità (carnale o spirituale), conformandosi meglio all'immagine di Dio, secondo la quale tutti, uomini e donne, siamo stati creati.53
Superando le ricadute sull'ordine socio-politico ed antropologico, che presentano delle difficoltà di fondo che stanno nella impossibilità di comprimere l'ordine teologico su quello politico, pensando magari a torto questo come una espansione dell'orizzonte escatologico, vi sono ancora altri interessanti nodi suscitati da Brague nella sua presentazione del Dio dei cristiani.
Sulla scia del mistico spagnolo Giovanni della Croce, il filosofo francese ci ha detto che Dio ci ha rivelato tutto e questa Parola definitiva e ultima sta proprio in una Persona, il suo Unigenito: Gesù Cristo. Dopo aver donato la totalità della rivelazione, Dio tace; oltretutto chiedergli di parlare ancora vorrebbe dire costringerlo a ripetere l'evento della venuta del Figlio. Dunque, Dio non solo ci ha detto tutto, ma ciò che ci lascia sconcertati è che non ha nient'altro da dirci. S'impone, allora, la domanda: cosa fare davanti ad un Dio silente? I moderni davanti al silenzio di Dio hanno risposto con un determinato atteggiamento, che è consistito nel «ritrarsi [...] in un silenzio altero».54 Tuttavia, il silenzio di Dio, pieno della sua presenza, non vuole suscitare superbo silenzio, bensì le parole umane. Il fatto che tutto è stato detto da Dio non può ridurre l'uomo al silenzio, anzi tutto il contrario, il silenzio di Dio rappresenta lo spazio di libertà e allo stesso tempo di responsabilità dell'uomo. Il Dio silente attende la risposta dell'uomo. Per il Cristianesimo anche se tutto è stato detto, ovvero anche se tutto è stato donato, non tutto di ciò che è stato donato è manifesto. Il dono che Dio ci ha fatto è Dio stesso, ma egli si dona nascondendosi; una felice intuizione di Pascal ci parla del Deus absconditus, che si rivela celandosi. In questa dinamica della manifestazione continua di Dio come dono, non può mai esser detta la parola fine se non nel termine ultimo della storia, momento in cui con tutta evidenza il dono-Dio sarà a tutti manifesto.
Dopo il Figlio, viene inviato dal Padre e dal Figlio stesso lo Spirito Santo, il quale ha proprio la missione di suscitare la risposta dell'uomo. Quindi con una frase un po'banale gli uomini possono dire ora: «a noi la parola!», per indicare che proprio questo è il tempo dell'uomo, il tempo della risposta dell'uomo. Lo Spirito «intercede» per noi (cfr. Rm 8, 26) e suscita «gemiti inesprimibili», abilitandoci interiormente a chiamare Dio, Abbà. Tutto il resto -- spiega Brague -- «è il discorso che noi in quanto uomini, dobbiamo costruire con le nostre vite. Colui che dice tutto, che fa vedere tutte le sue carte, dà a colui che gli sta dinnanzi piena libertà di risposta»55 e spingendoci oltre si può ancora dire che Dio ha sempre detto un'unica cosa, «nell'Antico Testamento quest'unica cosa è il suo nome (Es 3, 14). Il Nuovo Testamento spiega questo nome attraverso la parola agape «carità» (1 Gv 4, 8). L'uomo ha il compito di dire tutto il resto. E la salvezza consiste nel fatto di poterne essere capace».56 Il silenzio di Dio, in questi termini, permette e fonda la stessa libertà dell'uomo, l'agire umano è veramente libero di poter rispondere o meno all'atto di fede, in quanto l'uomo, sapendo tutto, non è più sospeso nell'attesa di una parola che deve venire e quindi «ritorcere il silenzio di Cristo contro la libertà umana è la perversione più radicale che si possa concepire, poiché lo scopo di questo silenzio è proprio quello di lasciare la parola all'uomo e di permettergli di rispondere in piena coscienza di causa a ciò che gli viene offerto».57
In definitiva possiamo dire che la logica con cui Dio agisce è quella della sussidiarietà, parola che tra l'altro dà origine e fonda il corrispettivo principio che è uno dei tre pilastri della Dottrina Sociale della Chiesa. Ciò significa che Dio lascia libero l'uomo in tutto ciò che ritiene questi possa fare da sé, la stessa cosa avviene in relazione alla creazione, e si riserva di agire solo in funzione d'ausilio, sussidiaria appunto. Brague intuisce che «una regola come quella di cui il principio di sussidiarietà costituisce l'applicazione a un determinato dominio non è, in fondo, nulla di meno di quella che governa i rapporti di Dio nei confronti della creazione. È questa la dottrina della Provvidenza in Tommaso d'Aquino: Dio dà a ogni creatura tutto ciò di cui essa ha bisogno per raggiungere il proprio bene, ma lascia che scelga da sé le vie e i modi che le permetteranno di raggiungerlo».58
Non solo il Dio dei cristiani ora è silente, ma in più «non chiede nulla», questo è un altro nodo interessante della presentazione che Brague fa dell'immagine che i cristiani hanno di Dio. Per comprendere meglio questa affermazione occorre che, innanzitutto, si possa superare l'idea che appiattisce la religione sulla morale. La morale risponde alla domanda: «che devo fare?» E designa delle norme in relazione a se stessi, agli altri e alle cose, richiama ad un certo costume o comportamento. Tali norme derivano in gran parte dalla cultura. La religione cristiana, invece, non fornisce norme, cioè un codice civile di comportamento, né una morale. Le ingiunzioni del Dio dei cristiani sono molto generali e semplici: pratica la giustizia, ama la bontà, cammina sul sentiero di Dio. Questo ovviamente, non significa che ogni comportamento sia lecito, vada bene e non incontri la riprovazione di Dio, ma i termini di questo retto comportamento, le regole morali sono in noi e li possiamo rintracciare con la nostra ragione, con l'aiuto degli altri e grazie al contesto culturale in cui ci troviamo a vivere. Esemplifica molto bene Brague, in un passo notevolmente lungo ma che vale la pena ascoltare, a chiarificazione di questo punto:
il Cristianesimo è rimasto fedele a questo principio: in noi c'è quello che ci serve per conoscere le regole da seguire. Ma è un principio che va analizzato. Non bisogna intenderlo, infatti, nel senso che noi abbiamo sempre una coscienza esplicita di ciò che bisogna fare. La nostra coscienza morale passa attraverso la vita sociale, senza la quale non potremmo acquisire il linguaggio. Entrambi veicolano infinte abitudini diventate evidenze. Possiamo dimenticarle o decidere di dimenticarle in malafede; la nostra coscienza può essere oscurata per ragioni che derivano dal nostro passato collettivo o individuale, dal nostro ambiente, passato o presente... insomma, per mille ragioni. Oppure, possiamo anche trovarci dinnanzi a situazioni oggettivamente complesse o inattese (per esempio situazioni rese possibili dai progressi tecnologici), rispetto alle quali è difficile cogliere quale sia il bene. Rimane comunque il punto essenziale: noi abbiamo gli strumenti individuali e collettivi che ci permettono di sapere cosa dobbiamo fare.59
E tuttavia questo non risolve un paradosso di fondo di cui ogni uomo fa esperienza, ovvero ciò che San Paolo così esprime: «io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. [...] Io so infatti che in me, nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti, io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7, 15. 18-19). Allora, dirà, Brague, «il vero problema è capire perché, pur sapendo quello che dovremmo fare, sapendolo fin troppo bene, non lo facciamo».60 Appare allora, che esiste qualcosa che eccede la stessa esperienza umana, e quindi la sua capacità di controllo e gestione, e di cui l'uomo, allo stesso tempo, ne ha viscerale bisogno per poter vivere bene a partire dalle vicende più elementari del suo quotidiano e a cui la religione può rispondere indicando la salvezza operata da Dio, la liberazione da questo stato di impasse. La risposta concreta si dispiega in due direzioni: verso il passato presentandosi come misericordia, cioè come possibilità di esser perdonati e consapevolezza di esser già perdonati e verso il futuro quale surplus, incentivo, aiuto nel continuare a fare il bene, ovvero ciò che nell'ambito teologico cristiano si suole chiamare grazia. Per Brague, «la rivelazione cristiana non è la rivelazione di una legge, ma la rivelazione di una misericordia e di una grazia».61
Nell'ambito del bene, a cui è abilitato da Dio, l'uomo trova lo spazio della riuscita della sua libertà, agendo senza necessità che qualcuno gli indichi il modo concreto e «precettistico» di comportamento nelle varie vicende quotidiane. In questa ottica, si può leggere anche il famoso «ama e fai ciò che vuoi» agostiniano. Se il Bene è l'orizzonte in cui l'uomo può agire, un Dio «che non chiede nulla», allora, non può esser compreso come un Dio che favorisce il libertinaggio, ma diventa appello alla responsabilità dell'uomo perché ogni suo comportamento viene collocato in ultimo davanti alla scelta della vita o della morte. Ecco perché s'impone la necessità di norme morali e ancor di più di una vita morale, che «comporta una continua attenzione verso le circostanze dell'azione, uno sforzo per affinare la propria responsabilità etica, un contatto permanente con coloro che, nostri contemporanei o appartenenti al passato, amici o autori amati, possono aiutarci con la loro esperienza in tale campo».62
Da questo panorama nasce un'altra questione non meno interessante, che sta nell'interrogarci circa il rapporto, il legame che un Dio «che non chiede nulla» può avere con le sue creature ed in particolare con l'uomo, sua immagine e somiglianza. Potrebbe sembrare, a primo acchito, quella descritta una prospettiva agnostica, cioè quella di un Dio che se c'è non s'interessa dei destini dell'uomo, restando magari ozioso nell'alto dei cieli. In questi termini, sorgerebbero anche non poche difficoltà a pensare Dio come Persona e risulterebbe impossibile la stessa idea di incarnazione, cadrebbe altresì tutto l'impianto del nostro discorso perché difficilmente l'essere di Dio potrebbe essere condotto all'amore. La cifra della rivelazione cristiana, tuttavia, insiste, sulla rappresentazione di Dio come amore, amore che si declina nei confronti del creato attraverso la cura e la sollecitudine che Dio stesso ha per le creature direttamente e indirettamente. Occorre, allora, vedere concretamente come Dio si cura delle cose create.
Una prima immagine può essere desunta dal mondo vegetale, come del resto già la cultura semitica l'aveva pensata. Dio, infatti, pianta una vite. Alla pianta una volta posta in un terreno fertile non si chiede nulla, si attende semplicemente che possa crescere e dare frutto. Nel racconto della creazione Dio pone l'umanità nel giardino dell'Eden, per il resto si attende amicizia e amore dall'uomo, si attende addirittura di «apprendere» dall'uomo stesso il nome delle cose, di capire il senso che l'uomo vuole dare al creato. Dio accetta così di avere un partner nell'uomo che ha il diritto «di dire la sua». Seguendo la riflessione di Brague, il Nuovo Testamento ci appare come la proposta di un progetto di salvezza che se accolto, permetterà all'uomo di diventare, in Cristo Figlio, «figlio adottivo di Dio» (cfr, Ef 1, 3-5). Dio resta, perciò, in attesa, rispettando la libertà umana, rischiando addirittura una risposta negativa. «Per il Cristianesimo l'universalizzazione è movimento storico. Ma questo movimento risponde ad un piano divino. La realizzazione di questo piano è affidata alla libertà umana, la quale riceve da Dio solo quello di cui ha bisogno per essere veramente tale».63
Il filosofo francese individua in quattro momenti le modalità di risposta positiva all'attesa di Dio: il mangiare, la fede, l'umiltà e il sacrifico.
Sappiamo che nel linguaggio comune, ma anche in quello biblico, una delle parole che designa la soddisfazione che produce l'esperienza del bene si rifà ad uno dei cinque sensi: il gusto. Più volte, e soprattutto nel Libro dei Salmi, ricorre l'espressione: «gustate e vedete quanto è buono il Signore» (Sal 33, 9). Il Cristianesimo fa coincidere il Bene supremo con Dio, Egli si spinge ancora oltre offrendosi come nostro cibo, Gesù -- davanti ad un pubblico che resta sconcertato e scandalizzato -- dice: «chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna» (Gv 6, 54). Brague commenta: «un Dio che si lascia mangiare è un Dio che non chiede nulla in cambio, nemmeno che lo si ami, a meno di non amarlo nel senso in cui si «ama» un piatto che piace, cosa che si può sapere solo mangiandolo».64 Il gusto di questo cibo lo si può cogliere alla condizione che lo si gusti e per gustarlo e riconoscerlo come bene non vi è altra condizione che quella di assaggiarlo. Un cibo, di per sé non è veramente tale se non nella sua funzione di cibare, così come una medicina non può avere effetto e produrre la guarigione se non viene assunta. Provocati da Brague e spingendoci oltre le sue riflessioni, proviamo ad immaginarci il dipinto di Andrej Rublev, che rappresenta la Trinità: vediamo i Tre seduti attorno ad un tavolo. Ciò potrebbe far pensare ad una conversazione dei Tre ed in questo senso avremo anche un orientamento escatologico, San Paolo, infatti, annuncia: «la nostra conversazione è nei cieli» (Fil 3, 20), ma il tavolo ancor prima che luogo di conversazione è il luogo ove viene imbandito il banchetto, ovvero il luogo dove si mangia, anche quest'altra immagine quindi non sarebbe meno escatologica, infatti, chi mangia la carne e beve il sangue di Cristo, avrà la vita eterna, ovvero sarà invitato a «mangiare» al banchetto dei Tre, con loro e di loro. In quest'ottica, ci può soccorrere anche l'interpretazione cristiana -- a cui peraltro sembra ispirarsi il quadro di Rublev -- dell'accoglienza alle Querce di Mamre di tre sconosciuti (il Dio Trinitario) da parte di Abramo, che si premura di offrire focacce, vitello tenero, latte acido e fresco. In quella occasione Abramo e Sara sua moglie, ricevettero l'annuncio della nascita di un figlio, nonostante la loro età avanzata (Cfr. Gn 18, 1-15).
La seconda modalità di risposta all'attesa di Dio è la fede. Credere è connettersi con Dio: «la fede è l'accesso a Dio, così come la visione è l'accesso ai colori, l'immaginazione alle immagini, la ragione a ciò che è calcolabile. Dio è tale che può essere raggiunto solo nella fede. Credere significa riconoscersi bisognosi e, grazie a ciò, ricevere ciò di cui si ha bisogno».65 La fede non è un'opera umana, ma è suscitata e donata da Dio stesso. Dio che crede nell'uomo si attende che questo accolga questo dono. Il solo soggetto adeguato della fede è la libertà. La fede viene donata, non come una qualità, un accessorio, ma quale possibilità, se accettata, che mette l'uomo nella condizione di comunicare con Dio, di accedere a Lui.
La terza modalità è data dall'umiltà -- diametralmente opposta all'orgoglio, inteso in senso cristiano come oblio delle proprie radici e della propria origine, e medicina dello stesso -- ci richiama alla nostra origine, ad essere attaccati alle nostre radici vitali, al nostro essere dipendenti, pena il nostro inaridimento e l'inedia spirituale. L'umiltà, perciò non è pusillanimità, di cui vi è una esemplificazione nella parabola evangelica dei talenti nell'atteggiamento del servo che non fa fruttare i beni affidatigli dal padrone. Il bene dell'uomo è stare presso Dio, vicino Dio. Il frutto di questa vicinanza è la «divinizzazione» dell'uomo stesso, anche in quest'ottica l'incarnazione trova un senso profondo.
La quarta ed ultima modalità, illustrata da Brague, sta nel sacrificio. Dio non chiede nulla dona tutto, a sacrificarsi, dunque, non è l'uomo ma Dio stesso. Ecco perché non si può morire per Dio, ma semmai si può morire con Dio. Il rapporto dell'uomo con Dio, non passa attraverso l'immolazione di vittime, ma attraverso un «culto spirituale» (logike latreia) che risiede interamente nella ragione, in un rationabile obsequium, e nella libertà dell'uomo. Il fine ultimo di Dio nei confronti dell'uomo e il motivo per il quale si è incarnato è la vita dell'uomo stesso. Il Cristianesimo allora, più che dare un senso alla vita, cerca di disvelare il senso di questa vita, al di là delle necrofilie del nostro tempo. La vita ha un senso come resurrezione, e perciò, «il senso della vita non è altro che la vita stessa: è la vita eterna».66 Il Catechismo della Chiesa Cattolica collega la fede trinitaria e la vita eterna, quando afferma: «il Credo cristiano -- professione della nostra fede in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, e nella sua azione creatrice, salvifica e santificante -- culmina nella proclamazione della risurrezione dei morti alla fine dei tempi, e nella vita eterna».67 Dio ci vuol fare questo dono.
Il Dio dei cristiani, allora, è Colui che vivifica, e quindi Colui che vive, il Vivente, e come tale può conferire la vita vera all'uomo. Egli è colui che, solo, può liberare la vita dell'uomo da tutto ciò che la ferisce e la conduce a morte. Queste esperienze negative, in cui il male viene ad esprimersi nell'esistenza dell'uomo, il Cristianesimo le chiama «peccato». Dio si presenta come Colui che perdona il peccato e il Credo niceno-constantinoplitano porta tra i suoi articoli la fede nella «remissione dei peccati». Per svelare questa aspetto straordinario della Trinità, occorre scandagliare i due suddetti termini, liberandoli innanzitutto, da una interpretazione a volte superficiale e fuorviante. Per prima cosa serve comprendere cosa s'intende per peccato e quale peccato Dio rimette. Un primo passo in questa direzione ci porta a differenziare il peccato dal piacere. Infatti, non tutti i peccati producono piacere e non tutti i peccati possono essere rubricati sotto la voce «sessualità». Questa idea proveniente da una certa tendenza canzonatoria illuministica riduce la concezione del peccato al solo vizio della lussuria, ma il raggio del peccato è molto più ampio e a ben vedere non tutti i peccati producono piacere, alcuni producono dispiacere (ad esempio l'invidia e l'accidia) altri hanno provocato addirittura una diminuzione dello stesso piacere, il peccato di Adamo, infatti, infliggendo una «ferita» nella natura umana, ha ferito anche le possibilità di piacere dell'uomo stesso. Un secondo punto consiste nello spiegare in quale misura il peccato «offende Dio» e cosa significa propriamente che il peccato «offende Dio». Offesa in questa espressione non può significare dolo, né in senso fisico, né in senso morale, nei confronti di Dio. Riceve un danno, invece, dal peccato il peccatore stesso. Offendere Dio con il peccato, perciò, significa, che Dio viene offeso perché noi agiamo contro il nostro stesso bene. Egli, infatti, -- e dobbiamo sforzarci di uscire da certo prometeismo moderno (Feuerbach, Marx, Nietzsche...) -- non ci è concorrente nel bene, perché è il Bene e quindi non deve lottare con l'uomo per poterlo possedere. Peccare, allora, si concepisce come separazione da Dio, dal Bene e quindi l'effetto dell'allontanamento dal bene è un torto che l'uomo si autoinfligge. Il peccato stabilisce una divisione tra Dio e la creatura. Come poter risanare la ferita? Il senso del peccato nell'ottica cristiana è legato inscindibilmente al perdono, o meglio all'altro termine suddetto, alla remissione: remissione e peccato vanno irrimediabilmente insieme. I cristiani non credono nel peccato, bensì nella remissione dei peccati. Il perdono, dunque, può riguardare solo una persona, nella situazione in cui ha commesso qualcosa di riprovevole, non entra nei meandri della legge civile che prevede amnistie o grazie, non può esser conferito dalla legge morale che pur con il peccato viene trasgredita. Essa, semmai, indica una norma e non sancisce né punizioni, né perdono. Esso -- il perdono -- quale torto nei confronti di una persona può essere richiesto ma non può esser autoconferito. In quest'ultimo caso possiamo notare analogia con il perdono di Dio, è pur vero però che la remissione dei peccati che può venire solo da Dio supera di gran lunga l'esperienza umana del perdono. Esso da un lato è una liberazione e dall'altro una riabilitazione per non peccare più, si nutre della misericordia e della grazia. Nell'assoluzione (Ego te absolvo...) vi sono implicati entrambi i sensi: lo sciogliere dall'intimo legame con il peccato e la reimmissione nella libertà dei figli di Dio. Il peccato, perciò, è una realtà dell'interiorità; quando questo è sussunto da una persona Dio è nella possibilità di rimetterlo. Secondo Brague, l'unico senso del peccato è proprio quello di essere perdonato: «il perdono può raggiungere il male solo se il male, che è il non-personale per eccellenza o, meglio, l'antipersonale, assume un volto personale. E solo io posso darglielo, riconoscendolo in quanto mio. Per questo il peccato viene perdonato solo se confessato».68
La remissione dei peccati è l'azione di Dio che sgrava l'uomo dal peso delle sue ferite spirituali, restituendo il soggetto a sé stesso, alla sua libertà. E credo che possiamo considerare quest'azione di Dio, come realmente sussidiaria, dal momento che l'uomo non si può dar da sé la remissione dei peccati. Il peccato serve, allora, per ricevere il perdono e quindi lo stesso termine «remissione dei peccati», può esser considerato una tautologia. Il perdono di Dio, oltretutto non si dà al futuro, ma ci previene: «Dio non ci perdonerà, nel futuro, nemmeno se siamo molto saggi. Ci ha già perdonato, una volta per tutte, sulla Croce».69 In questo senso, ancora una volta Dio non ci chiede nulla, neanche di amarlo, per essere perdonati perché è grazie al suo perdono che siamo messi in condizione di amarlo.
Altresì, il Dio dei cristiani, il Dio Trinitario, il cui essere è l'amore «è lo spazio all'interno del quale posso incontrare che cosa (e, nel caso, sempre chi) amare, ossia il prossimo. «Amare il prossimo per amore di Dio», non significa amare il prossimo mirando, per suo tramite, a un altro oggetto d'amore, che sarebbe Dio. Significa, invece, amare il prossimo perché Dio lo ama e rende me stesso capace di amarlo».70
All'uomo resta il compito, in piena libertà, della risposta davanti alla sfida di accettare tale perdono e di voler rispondere al progetto divino di salvezza, rassicurandosi primariamente di volere veramente il Bene.
Copyright © 2011 Daniele Fazio
Daniele Fazio. «Il Dio Trinitario: proposta e sfida all'uomo di oggi. La riflessione di Rémi Brague». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [**90 B].
Cfr. AA.VV., Verso una società post-secolare?, a cura di S. Belardinelli, L. Allodi, L. Gattamorta, Rubettino, Soveria Mannelli 2009. Testo
Cfr. R. Stark, M. Introvigne, Dio è tornato. Indagine sulla rivincita delle religioni in Occidente, Piemme, Casale Monferrato 2003. Testo
R. Brague, Il Dio dei cristiani. L'unico Dio?, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009, p. IX. Testo
Cfr. R. Brague, Il futuro dell'Occidente. Nel modello romano la salvezza dell'Europa, Bompiani, Milano 2005. Testo
R. Brague, La religione e gli dei, in AA. VV. Dio oggi. Con Lui o senza Lui cambia tutto, a cura del Comitato per il progetto culturale, Cantagalli, Siena 2010, p. 159. Testo
R. Brague, Il Dio dei cristiani, op. cit., pp. 1-2. Testo
Cfr. R. Arnaldez, Un solo Dio, in F. Braudel, Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni. Bompiani, Milano 2008. Testo
R. Brague, Il Dio dei cristiani, op. cit., p. 5. Testo
L'espressione viene attribuita al rabbino tedesco Leo Baeck. Oltre questa origine però, basterebbe guardare alle figure e ai momenti più significativi della filosofia ebraica del Novecento per avvedersi della carica fortemente etica delle riflessioni filosofiche. Testo
R.Brague, Il Dio dei cristiani, op. cit., p. 8. Testo
Ivi, p. 13. Testo
Ivi, p. 16. Testo
«il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi»(Gv 1, 14a); «Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai Padri per mezzo dei profeti, ultimamente in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo» (Eb 1,1-2). Testo
«Ricordatevi che uno solo è il discorso di Dio che si sviluppa in tutta la Sacra Scrittura ed uno solo è il Verbo che risuona sulla bocca di tutti gli scrittori santi» Agostino D'Ippona, Enarrationes in Psalmos, 103, IV, 1: PL 37, 1378; Testo
«Questa è la conoscenza di Gesù Cristo, da cui danno origine, come da una fonte la sicurezza e l'intelligenza di tutta la Scrittura. Perciò è impossibile che uno possa addentrasi a conoscerla, se prima non abbia la fede infusa in Cristo che è lucerna e porta anche fondamento di tutta la Scrittura» Bonaventura da Bagnoregio, Breviloquium in Opera Omnia, V, Quaracchi, Grottaferrata 1891, pp. 201-202; «Adesso la parola non è solo udibile, non solo possiede una voce, ora la parola ha un volto che, dunque, possiamo vedere: Gesù di Nazareth» Benedetto Xvi, Verbum Domini, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, p. 30. Testo
R.Brague, Il Dio dei cristiani, op. cit., p. 22. Questo è un motivo che ritorna spesso nell'insegnamento cristiano: «Il Nuovo Testamento è nascosto nell'Antico e l'Antico è manifesto nel Nuovo» Agostino D'Ippona, Questiones in Heptateuchum, 2, 73: PL 34, 623; «l'Antico Testamento è profezia del Nuovo Testamento; e il miglior commento dell'Antico Testamento è il Nuovo Testamento» Gregorio Magno, Homeliae in Ezechielem, I, VI, 15: PL 76, 863 B. «I cristiani quindi leggono l'Antico Testamento, alla luce di Cristo morto e risorto. Se la lettura tipologica rivela l'inesauribile contenuto dell'Antico Testamento in relazione al Nuovo, non deve tuttavia, indurre a dimenticare che esso stesso conserva il valore suo proprio di Rivelazione che lo stesso Nostro Signore ha affermato» Benedetto Xvi, Verbum Domini, op. cit. p. 88. Testo
R.Brague, Il Dio dei cristiani, op. cit., p. 22. Testo
Ivi, p. IX. Testo
«La fede cattolica è che veneriamo un solo Dio nella Trinità, e la Trinità nell'unità, non confondendo le persone, né separando la sostanza: altra è, infatti, la persona del Padre, altra la persona del Figlio, altra la persona dello Spirito Santo; ma unica è la divinità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, eguale la gloria coeterna la maestà». H. Denzinger, Enchiridion Symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, Edizioni Dehoniane, Bologna 2003, pp. 44-45. Testo
Cfr. J. L. Marion, Dio senza essere. Jaca Book, Milano 1984. Testo
R. Brague, Il Dio dei cristiani, op. cit., p. 79. Testo
Ivi, p. 30. Testo
Ivi, p. 31. Testo
Ivi, p. 35. Testo
Ivi, p. 40. Testo
Ivi, p. 41. Testo
R. Brague, La religione e gli dei, op. cit., p. 163. Testo
R.Brague, Il Dio dei cristiani, op. cit., p. 47. Testo
Ivi, p. 52. Testo
Ivi, p. 55. Testo
Ivi, p. 60. Testo
Ivi, p. 61. Testo
Ibidem Testo
Ivi, p. 62. Testo
Ivi, p. 63. Testo
Ibidem. Testo
Ivi, p. 64. Testo
Ivi, pp. 65-66. Testo
Ivi, p. 71. Testo
Ivi, p. 73. Testo
Ivi, p. 82. Testo
Ivi, p. 94. Testo
Ivi, pp. 94-95. Testo
Ivi, p. 96. Testo
Ivi, p. 97-98. Testo
Ivi, p. 99. Testo
Ivi, p. 100. Testo
J. Donoso Cortés, Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo, a cura di G. Allegra, Il Cerchio, Rimini 2007, p. 47. Testo
R. Brague, Il Dio dei cristiani, op. cit., p. 47. Testo
Ivi, p. 50. Testo
Ivi, p. 47. Testo
Ivi, p. 75. Testo
Ivi, p. 76. Testo
Ivi, p. 87. Testo
Ivi, pp. 103-104. Testo
Ivi, p. 104. Testo
Ivi, p. 107. Testo
Ivi, pp. 108-109. Testo
Ivi, pp. 114-115. Testo
Ivi, p. 115. Testo
Ibidem. Testo
Ivi, p. 116. Testo
Ivi, p. 121. Testo
Ivi, p. 123. Testo
Ivi, p. 124. Testo
Ivi, p. 137. Testo
Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992, p. 263. Testo
R. Brague, Il Dio dei cristiani, op. cit., p. 145. Testo
Ivi, p. 147. Testo
Ivi, p. 148. Testo
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