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L'importanza della Trinità nel pensiero di Karl Barth e gli esiti cristologici

di Nicoletta Domma (Roma, 26-28 maggio 2011)

1. Premessa

Questo intervento intende essere una riflessione sulla Trinità attraverso l'articolazione che ce ne fornisce Karl Barth e si pone l'obiettivo di porre in luce il perché dell'importanza che la dottrina trinitaria venne ad acquisire nell'evoluzione del pensiero del teologo e di come sia una trattazione che conduce alla valorizzazione dell'elemento cristologico come veicolo alla partecipazione dell'uomo al regno di Dio. Una sintesi efficace di queste questioni ce la fornisce Italo Mancini quando afferma che la dogmatica di Barth rappresenta «la misurazione scientifica della predicazione attraverso la scrittura, in funzione del recupero della originaria rivelazione» e che quindi «il fondamento dogmatico del triplice modo di essere della parola di Dio (predicazione, scrittura, Offenbarung) » -- in base alle indicazioni dello stesso Barth -- è a sua volta rappresentato dalla dottrina trinitaria in cui Dio Padre, ora divenuto Signore, piuttosto che solo il Totalmente Altro, esprime l'essenza della rivelazione attraverso il Figlio e lo Spirito Santo.

Prima di giungere ad osservare più da vicino la dottrina trinitaria di Barth, ci sembra interessante percorrere le tappe dello spirito e dei toni che hanno animato l'opera del teologo dal Römerbrief fino alla Dogmatik nella quale è trattato il tema in questione, allo scopo di comprendere come l'importanza attribuita alla Trinità sia la conseguenza dell'evoluzione di un ampio e articolato processo di pensiero.

2. L'evoluzione metodologica dalla seconda edizione del Römerbrief alla Kirchliche Dogmatik: osservazioni di carattere teoretico

Il marchio "dialettico" del pensiero del teologo, determinante subito dopo il distacco dello stesso dalla teologia liberale di impianto schleiermacheriano, raggiunge il suo apice nella seconda edizione del Römerbrief (1922), in cui i toni di Barth si esplicitano soprattutto secondo le linee di un'etica della rinuncia e della negazione di sé da parte dell'uomo a favore del ruolo del Gesù storico che trascende e tocca la storia per il tramite di Cristo. Nella prima edizione della stessa opera lo spirito prevalente era quello della "protesta" nei confronti di un certo modo di fare teologia, ovvero nei confronti della matrice antropocentrica e autoreferenziale del pensiero di Schleiermacher e cioè le «imprese trascendentali della ragione teoretica o pratica proprie della teologia liberale e del neoprotestantesimo schleiermacheriano»,1 così come Italo Mancini pone sinteticamente in luce. Nella seconda edizione dell'opera, invece, la protesta si esaurisce e prende corpo la contrapposizione metodologica, ovvero la dialettica. Sono «l'infinita differenza qualitativa» kierkegaardiana e la tangenza divina le cifre distintive della più matura dialettica barthiana, in cui Dio si svela in Cristo, ma solo per rivelarsi nel paradosso della intaccabilità e impenetrabilità della sua esistenza storica. Il cristocentrismo di Barth assume qui il ruolo di veicolo per il riconoscimento da parte dell'uomo della matrice carnale e caduca della sua natura in contrapposizione a Cristo, per il cui tramite i contorni dell'immagine dell'uomo vengono evidenziati nella loro verità e manchevolezza al cospetto di Dio. «Il dualismo di Adamo e Cristo sussiste soltanto in quanto si sopprime. È integralmente il dualismo di un movimento». "L'originalità" della vicinanza tra uomo e Dio «si vela nella dualità di Adamo e Cristo, per svelarsi nella loro unità».

Sebbene della Kirchliche Dogmatik sia necessario porre in luce l'Aufhebung metodologica rispetto all'opera del 1922, le dinamiche del discorso trinitario possono ancora essere lette ed espresse secondo le linee cristocentriche del Römerbrief: l'elemento che permane costante è l'esegesi della figura di Cristo come medium portatore di significato originale e immarcescibile attraverso cui, in questo contesto, si modula il discorso sulla relazione tra le tre persone della Trinità.

Benché già Die christliche Dogmatik im Entwurf del 1927 presenti la modificazione principale dei toni del Römerbrief e nonostante la sua strutturazione ricalchi quella che sarà propria del primo volume della Kirchliche Dogmatik, solo con quest'ultima si assisterà alla formulazione definitiva dello spirito del pensiero di Barth. Ne sono testimonianza sia i toni, sia le collocazioni tematiche, nella cui economia è ravvisabile la peculiarità dello spirito barthiano giunta a convergenza con un'esigenza più scientificamente impostata della trattazione, la dogmatica, per l'appunto.

Nel secondo capitolo del primo volume della Dogmatik viene esplicitamente trattato il tema della Trinità e, nello stesso paragrafo in cui viene argomentata la motivazione della collocazione di tale argomento nel primo volume di una dogmatica, sono ravvisabili i tratti distintivi di questa diversa impostazione, i quali erano già stati ribaditi nell'introduzione di questo primo volume.

Perché, si domanda Barth, la questione della Trinità dovrebbe essere trattata all'inizio e non a valle di ogni attività di pensiero dogmatico? E la risposta è rappresentata dalla natura del fondamento trinitario, che è, per l'appunto, esso stesso dogmatico. È come se Barth ci stesse dicendo che per fare dogmatica è necessario innanzitutto cercarne l'origine fondante che, per il Cristianesimo, è rappresentata dalla dottrina della Trinità, radice di tutti dogmi, coagulazione dell'essenza del Cristianesimo, la rivelazione di Dio tramite Cristo per mezzo dello Spirito Santo e la loro unità nella differenza. Barth ricava dal primato del dogma della Trinità come essenza ineliminabile del Cristianesimo la necessità di assegnargli un ruolo predominante e determinante l'intero procedere di una dogmatica: sulla dottrina della Trinità e cioè con l'affermazione della triunità di Dio «si regge o cade l'intero della Cristianità, l'intero della rivelazione speciale. [...] In ogni confessione cristiana e in ogni dogmatica la questione più profonda è questa, come può Dio essere uno e assieme trino. [...] Nella dottrina della Trinità batte il cuore dell'intera rivelazione di Dio per la redenzione dell'umanità».2

Ad essere messa a tema, oltre alla trattazione specifica della dottrina della Trinità, è quindi il ruolo che quest'ultima deve ricoprire nei confronti dei temi trattati in una dogmatica che Barth esplicita in termini confessionali, intesi cioè come radicati nel solco dei dottori, dei padri della chiesa e di tutto ciò che costituisce autorità, concili compresi. L'esegesi stessa del testo biblico deve quindi fondarsi anche su ciò che è già stato detto. Ciononostante, Barth resta avvertito del fatto che, sebbene la chiesa testimoni la Parola, non è la Parola stessa; sebbene le Scritture proclamino la rivelazione di Dio tramite Cristo e per mezzo dello Spirito santo non rappresentano l'essenza stessa di ciò e di chi è rivelato se non per via solo indiretta: «la rivelazione di Dio possiede la sua realtà e verità interamente e sotto ogni rispetto -- sia onticamente che noeticamente -- in se stessa. [...] Un'accettazione della rivelazione in cui l'uomo ponesse la sua propria coscienza in veste di giudice potrebbe solo implicare la negazione della rivelazione».3

Sulla base dell'urgenza di stabilire e avvertire, prima ancora di trattare, potremmo affermare che persiste, anche se mutata nei toni e soprattutto negli accenti, la necessità avvertita da Barth di mantenere l'ombra della dialettica sul discorso attorno a Dio, soprattutto se in ballo c'è la trattazione del dogma fondante la Cristianità. Eppure di quella dialettica resta solo l'impalcatura e l'avvertimento e cioè la potenzialità del «paradosso». Il Ganz Andere fortemente enfatizzato nel Römerbrief, in cui l'uomo era coinvolto in nient'altro se non nell'audizione del No divino e nella rinuncia di una Voraussetzung spettante a Dio soltanto, viene mantenuto sullo sfondo del discorso trinitario, presentando però i segni più edulcorati della possibilità della riconciliazione, sebbene nella morsa del paradosso dogmatico. Quella della Trinità, cioè, è una trattazione che si smarca dalle pretese estreme della dialettica pur mantenendone il nocciolo duro: Dio, pur irrompendo nella storia del mondo, è di una differenza qualitativa infinita rispetto a quest'ultimo, eppure, con ciò, non si dissipa la possibilità di poter parlare di lui, così come sembrava violentemente concludere l'approccio del Römerbrief, in cui, oltre alla crisi, restava poco altro cui appellarsi. La totale alterità di Dio dell'Epistola non rappresenta più la sola cifra a disposizione dell'uomo. Come efficacemente pone in risalto Italo Mancini, «ora il movimento di Dio assume la qualifica dell'incarnazione ossia della unione e della distinzione in Cristo della natura umana e di quella divina, per cui di Dio si possono dire tutti i predicati della storia e dell'essere umano. [...] »; Dio ora viene inserito nel contesto trinitario dal quale si dipanano non solo i vari punti da cui «si alimentano le varie parti della dogmatica, ma soprattutto istituisce rapporti vari con l'uomo».4

Allo scopo di sottolineare questo cambiamento, facciamo un breve excursus di alcune interpretazioni riguardanti la specificità del procedere argomentativo della seconda edizione dell'Epistola per tentare di estenderne gli esiti, più in generale, al passaggio fra l'opera del '22 e la Dogmatica.

Come alcuni interpreti hanno posto in luce, il procedere del pensiero di Barth nel Römerbrief presenterebbe innanzitutto una prima formulazione, che potremmo chiamare "gerarchica", per poi passare alla trattazione vera e propria dell'oggetto in questione. Com'è noto, il Römerbrief scopriva il fianco all'accusa di vuotezza formale, sia dal punto di vista etico -- poiché all'uomo veniva riservato il mero compito della negazione di sé e della permanenza nello stato di crisi in cui la consapevolezza della sua limitatezza lo poneva -- ; sia dal punto di vista conoscitivo -- la categorica e irrintracciabile alterità di Dio, il suo essere per il mondo solo dal punto di vista delle tracce divine che in esso potrebbero essere scovate, le quali sono inafferrabili e impalpabili dalla logica dell'intelletto umano -- ; prospettando uno scenario disorientante per il fare e il conoscere dell'uomo, le cui forme ed espressioni restavano macchiate in maniera indelebile dalla cifra della caducità e del peccato, potenzialmente incapaci, senza la verticalità dell'elezione, di redimersi autonomamente. Gli interpreti più severi si esprimono addirittura affermando che quella di Barth è una prospettiva che significa la morte di ogni morale, la morte del fare e del conoscere dell'uomo, al quale non resta nemmeno una parentesi entro cui esprimere la virtù della propria autonomia: le critiche alla dialettica di Barth, specie dal punto di vista etico, rappresentano, potremmo dire, quelle mosse al Kant della ragion pratica, sebbene di segno opposto. Altri studiosi, però, tentano di mitigare gli esiti interpretativi di una impostazione di questo tipo, nonostante nell'impianto barthiano permangano un'innegabile rigidità e severità dialettica che, se non altro, appaiono piuttosto ingombranti e problematiche: la visione piena della positività dell'uomo in Dio non può avvenire nel presente, poiché «non vi è alcuna azione che non si conformi in sé alla figura di questo mondo [...], ogni azione come tale è soltanto [...] similitudine e testimonianza dell'azione di Dio e poiché l'azione è di Dio essa può accadere soltanto [...] nell'eternità e non mai nel tempo».5 L'uomo si presenta quindi come rimando -- e solo indirettamente -- a Dio e nulla più, assorbito e fagocitato dalla difficoltà degli ossimori che gli si presentano in ogni suo tentativo di affermazione e in cui quello della resa sembra l'unico sentiero a disposizione.

La sintesi di queste interpretazioni vuole comunque sottolineare come solo attraverso una sorta di ristabilimento di ruoli -- il cui momento viene ravvisato in una prima "fase" dialettica del Römerbrief -- sia successivamente possibile affermare, con una positività più ricca e sostanziale, la condizione umana -- questo passaggio, ad avviso di questi interpreti, sarebbe ravvisabile in una seconda "fase" dialettica del Römerbrief. La questione potrebbe sinteticamente essere espressa affermando che è tanto vero che l'uomo debba esistere con una dignità sua propria, quanto è vero che prima di poterlo fare deve scansare ogni tentazione di elevarsi sopra Dio. Ristabilire i ruoli è il preambolo alla possibilità di poter assegnare all'uomo una positività esistenziale e questa necessità preliminare nasce soprattutto dallo spirito con cui Barth si appresta a stabilire i contorni della fase più matura della sua dialettica: smarcarsi dalla possibilità di ricadere nell'errore di stampo liberale e schleiermacheriano di ridurre la vicenda religiosa, insieme al suo oggetto, ad un epifenomeno della coscienza.

Senza volere né potere in questa sede entrare nel merito della discussione sull'etica di Barth, questo preambolo è funzionale a considerare la dottrina della Trinità mediante l'analisi dello spessore che il teologo le assegna nel primo volume della Dogmatica e attraverso il rintracciamento da una parte della permanenza dell'impostazione propria del Roemerbrief e, dall'altra, della cifra del mutamento e dell'evoluzione di quello stesso impianto che consente la creazione di uno scenario simile, ma tuttavia non privo di innegabili cambiamenti strutturali rispetto all'opera del 1922 e, soprattutto, la comprensione del recupero della dottrina trinitaria nella peculiarità barthiana.

Come già anticipato in precedenza e come lo stesso Italo Mancini sottolinea, la trattazione specifica della dottrina trinitaria è anticipata dalla messa in evidenza del ruolo preminente e fondante che spetta al suo oggetto nell'impianto generale di una dogmatica rispetto all'autorità proveniente dalle fonti storiche, come a ribadire la gerarchia tipica del Römerbrief di soggetto e oggetto, condicio sine qua non per un corretto approccio nei confronti di un discorso su Dio. L'osservazione dei due tempi del procedere del pensiero barthiano nel Römerbrief potrebbe quindi essere estesa all'analisi che più in generale viene fatta nei confronti dell'evoluzione e dei passaggi dell'intero del pensiero di Barth. La Dogmatica, rispetto al Römerbrief, in cui la categoricità dell'alterità di Dio sembra estromettere totalmente la possibilità di una comunicazione diretta con il mondo, utilizza un metodo diverso che, nel suo culmine, vede Cristo come il garante del fatto che l'uomo ha a che fare con Dio e nelle sue azioni può determinarsi non solo irrecuperabilmente come peccatore, ma come partner di Dio, perché, come sottolinea lo stesso Balthasar, «il Figlio diventa uomo in mezzo alle sue stesse creature» e quindi «la creazione possiede per principio una relazione essenziale a lui [...], in quanto Cristo è la misura di tutte le cose» e «nessuna opposizione tra Dio e il mondo può mai raggiungere la profondità di questa compatibilità».6 Sia nella interpretazione di Italo Mancini che in quella di Balthasar ciò che sembra evidente è che se nel Römerbrief il versante "positivo" della dialettica nell'affermazione dell'uomo è maggiormente mediato da quello negativo, ordinatore e demolitore, nella Dogmatica, l'elemento positivo del rapporto fra Dio e il mondo sembra già mediato e, dunque, più immediatamente visibile e questo passaggio trova la sua espressione più forte nel ruolo che riveste la Trinità nella Dogmatica definitiva.

Entriamo più nel dettaglio dell'argomentazione barthiana per comprendere in che modo questo spirito nuovo si manifesta all'interno della relazione trinitaria.

È opportuno anticipare che Barth, sebbene in questa sede sia disposto ad affermare in maniera più positiva e diretta che l'eterno entri nel tempo e nella storia -- e a tal proposito sarà intento di questo saggio porre in evidenza lo spessore e l'importanza che riveste la cristologia -- , resta comunque un punto di forte frizione il come la storia tocchi l'eterno: «Barth introduce la rivelazione nel tempo e nella storia, ma rifiuta ancora di introdurre il tempo nella rivelazione»;7 «la storicità dentro la rivelazione non gli pare che salvaguardi sufficientemente la trascendenza della realtà di Dio».8

Se vogliamo, la questione "gerarchica"si ripete di nuovo, ma agganciandosi stavolta all'elemento ecclesiale. L'evoluzione che conduce da una dogmatica "solo" cristiana (Christliche Dogmatik im Entwurf) ad una Dogmatica ecclesiale significa la consapevolezza di non poter fare teologia prescindendo dalla autorità scritturale ed ermeneutica antecedente al tempo presente in cui si fa dogmatica e però la Christliche Dogmatik non rappresenta certo una parentesi o una "introduzione" senza peso: forse, potremmo dire, quella cristiana è una dogmatica che porta ancora i segni del movimento di protesta che conduce allo stabilimento dei ruoli, ovvero, in altre parole, al rifiuto severo di possibili derive antropocentriche alla Feuerbach o alla Schleiermacher: si erge forte la consapevolezza, di cui vediamo il primo reale e maturo innesto nella seconda edizione del Römerbrief, che la religione e il Cristianesimo non possono fondare né stabilire l'essenza della rivelazione e che, al contrario, l'aspirazione -- potremmo dire di carattere assieme illuminista e romantico -- di rintracciare "l'essenza del cristianesimo" non può procedere nella direzione che va dal Cristianesimo come manifestazione storica al suo messaggio, come se quest'ultimo potesse essere stabilito e scovato attraverso l'umana autorità, la quale «va presa sul serio» solo «nella misura in cui è servizio della divina parola».9 La Parola di Dio, invece, resta l'oggetto da conoscere in quanto oggetto già dato e sperimentato innanzitutto per via di fede; è essa stessa il soggetto che raccorda lo spirito e l'essenza del Cristianesimo dettandogli le coordinate; è la rivelazione di Dio tramite Cristo a dover essere l'oggetto posto a tema di una dogmatica. Ed è precisamente in questo che, come abbiamo osservato in precedenza, Barth ritiene quello trinitario il dogma che meglio garantisce ed esprime l'originalità dell'oggetto del Cristianesimo. È una prospettiva che, come già detto in altri termini, pone categoricamente la priorità dell'oggetto conosciuto sul soggetto conoscente: ovvero, con le parole di Italo Mancini, «oggetto della dogmatica non è né la religione cristiana, né la conoscenza religiosa in genere, [...] la dogmatica deve occuparsi di una realtà totalmente diversa dalla vicenda religiosa del soggetto, deve ancorarsi all'oggetto cherigmatico, deve mettere a tema con rigorosa epochè la Parola di Dio».10 E tuttavia, afferma Barth, dato per certo e comprese l'importanza e la necessità di una tale condizione preliminare al fare teologia, una dogmatica non può essere senza la connotazione ecclesiale che domanda il dipanarsi del suo procedere: «la dogmatica non è una scienza libera. Essa è legata alla sfera della chiesa, in cui soltanto diventa una scienza possibile e acquista pieno significato».11 Come abbiamo già accennato, questo stesso discorso preliminare, proprio soprattutto della Christliche Dogmatik, viene ripreso nell'introduzione del I volume della Dogmatica definitiva, in cui a ribadire forte il concetto c'è la collocazione trinitaria posta in prima battuta. Il valore della Trinità è un valore che in Barth si ancora fortemente alla fede come condizione della direzione in cui l'andamento del fare e del pensare umano deve essere concepito: movimento il cui procedere va da Dio all'uomo. Non a caso, infatti, la Dottrina della parola di Dio, che dà il titolo al primo volume della Dogmatica definitiva, presenta i suoi tre fondamenti principali nel contesto della dottrina trinitaria, in cui è la parola di Dio la protagonista che si svela nella umanità di Cristo e che rappresenta l'unico veicolo disponibile sia alla conoscenza che l'uomo raggiunge di Dio, che alla possibilità fattuale della sua redenzione. 3 cdomande. È il credo ut intelligam anselmiano cui Barth assegna la priorità di un corollario e attraverso la cui sottolineatura si smarca dalle scorie di quella precomprensione filosofica che tanto ha caratterizzato l'impostazione dell'Epistola, ma di cui ci occuperemo più avanti.

In questo senso, potremmo affermare che l'inconciliabilità di fondo di uomo e Dio, fissata irreversibilmente dalle linee portanti del Römerbrief, permane come assioma fondamentale e necessario e, tuttavia, ora assume i toni più espliciti della possibilità di una comunicazione meno indiretta fra i due piani divino e umano. La coagulazione di questa possibilità sarà rappresentata dall'importanza della cristologia del cui evento fondamentale la dottrina trinitaria costituisce la fissazione più importante.

3. La dottrina trinitaria e la permanenza di elementi dialettici: osservazioni di carattere storico

La "seconda" animazione propria della modulazione argomentativa della dottrina trinitaria può essere osservata alla luce delle necessità avvertite da Barth nell'attribuire predominanza alla "prima" anima, quella dialettica. Il Ganz Andere del Römerbrief, sebbene abbia fissato la supremazia del regno di Dio su quello dell'uomo, ha escluso il versante umano da una reale possibilità di redenzione e, inoltre, poiché l'assioma fondamentale attorno a cui ruota tutta la seconda edizione dell'opera è costituito dalla kierkegaardiana "inifinita differenza qualitativa fra il tempo e l'eternità", il rischio di essere tacciato di esistenzialismo era un rischio che Barth non voleva correre più, in tanto in quanto la rotta del neoprotestantesimo ortodosso di quei tempi tendeva verso quella direzione. Il rischio era aggravato anche e soprattutto dal fatto che è lo stesso Barth ad affermare quanta influenza ebbero su di lui determinati impianti filosofici. Le questioni erano due: come preservare la sovranità di Dio affermata con tanta fatica e spirito di protesta contro le possibili derive liberali nella prima e nella seconda edizione dell'Epistola, contro cioè l'ingiuria fatta alla trascendenza di Dio -- in cui l'esperienza religiosa trovava il suo terreno più fertile nei fenomeni di sentimento e coscienza -- , senza contemporaneamente ricadere a sua volta in forme di esistenzialismo; come recuperare, senza smentire il guadagno del Römerbrief, il versante umano e dunque la possibilità di una sua redenzione.

Per quel che riguarda la prima questione, si può osservare come gli anni successivi al 1922 siano per Barth gli anni di Münster e Bonn, in cui è avvertita più fortemente l'esigenza di smarcare la sua attività di teologo da quella di profeta e, soprattutto, sono gli anni in cui Barth avverte con maggiore sensibilità i rischi insiti nella attuale tendenza antropologizzante della teologia, il rischio cioè che il riferimento privilegiato alla nozione di esistenza avrebbe significato «introdurre con essa entro le mura di cinta della teologia delle idee di filosofia e di psicologia. Secondo Barth, Bultmann cadde a causa di questo cavallo di Troia».12 Ed è così che Barth riscopre i classici del pensiero teologico, Anselmo, Tommaso, Agostino e insieme l'esigenza di epurare la teologia da residui filosofici, necessità fornitagli anche dall'occasione di dover tenere un corso di dogmatica. È così che Barth si rivolge alla dogmatica di Heppe, riscoprendo l'importanza della Chiesa e del suo patrimonio teologico da tenere in considerazione, seppur con tutte le cautele di cui accennavamo sopra. Attraverso la ripresa di questi autori e di queste esigenze, Barth guadagnò l'antipatia del neoprotestantesimo a lui contemporaneo e la simpatia cattolica, ma, assieme a ciò, anche la possibilità di depurare il suo fare teologia dalle forme "impure" della filosofia che pretendevano di fondare importanza e dignità dell'oggetto da conoscere su quelle del soggetto conoscente: ed è così che «nella Kirchliche Dogmatik egli dà l'addio definitivo ad ogni forma di esistenzialismo filosofico in rapporto alla teologia» e comprende definitivamente l'esigenza di «proteggere, contro la nuova moda, gli elementi oggettivi della teologia: Trinità, predestinazione e cristologia».13

Per quel che riguarda la seconda questione, ovvero quella di "riabilitare" il versante umano pur senza smarrire il guadagno ottenuto dal Römerbrief, il punto è rappresentato soprattutto dal fatto che ora la Parola di Dio non è più pensata in relazione all'uomo, quanto piuttosto nel suo valore indipendente che, attraverso la relazione trinitaria tra Padre e Figlio e per mezzo dello Spirito Santo ristabilisce l'uomo nella sua possibile redenzione. Il Padre e il Figlio consentono l'oggettività del cherigma e la dottrina dello Spirito Santo «rende invece possibile la rivelazione dal punto di vista soggettivo»,14 poiché «l'uomo che ascolta viene incluso nella nozione di parola di Dio, così come Dio parla».15

4. Cristologia e analogia fidei

Potremmo dunque sinteticamente affermare che con la dottrina trinitaria assistiamo alla convergenza di tre elementi fondamentali: il presupposto della fede come condizione affinché la gerarchia Dio-uomo si mantenga (con la conseguente analogia fidei); il rifiuto dell'indipendenza delle forme di autorità che prescindono dalla "originalità" dell'oggetto del Cristianesimo (con la conseguente necessità di sottolineare la cogenza primaria dello svelamento di Dio attraverso il suo essere trino); il ruolo centrale del Cristo storico la cui divinità incarnata, nel suo dogma, sottolinea la "condanna" dell'uomo e assieme ne rende possibile la redenzione, stavolta in forma realmente apprensibile attraverso la messa in evidenza del ruolo dello Spirito Santo (con la conseguente centralità della cristologia).

Per quel che riguarda l'analogia fidei, potremmo dire che la preminenza che Barth assegna a quest'ultima ricalca il suo parlare dei soggetti della Trinità nei termini di modo dell'essere piuttosto che in quelli di persona. Analizziamo più nel dettaglio la possibilità di questa continuità. Nel paragrafo in cui è trattata la triunità di Dio, Barth afferma che «il Dio che rivela se stesso, in accordo con le Scritture, è Uno in tre differenti modi dell'essere, consistenti nella loro mutua relazione: Padre, Figlio e Spirito Santo. È così che Egli è il Signore, il Tu che incontra l'Io dell'uomo e unisce Se stesso a questo Io come l'indissolubile Soggetto e con ciò e per mezzo di ciò rivela Se stesso a lui come il suo Dio. [...] ».16 Barth reputa l'utilizzo del termine persona potenzialmente ambiguo e conseguenza solo di ciò che Anselmo definisce indigentia nominis proprie convenientis.17 Non esiste un modo adeguato di esprimere quella che Barth chiama la ripetizione (Errinnerung) di Dio nelle sue manifestazioni in cui risiede tutta la peculiarità e la cogenza del teologumeno, della rivelazione che, se deve essere presa sul serio «come la presenza di Dio» e come cuore dell'intera Cristianità e dell'intero possibile valore dell'uomo «allora, in nessun modo, Cristo e lo Spirito possono essere ipostasi subordinate».18 I nomi del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo rappresentano la triplice ripetizione di Dio, la quale non prevede un'alterazione della sua unità e anzi «Egli è l'unico Dio solo in questa ripetizione [...], Egli è l'unico Dio in ciascuna ripetizione».19 Barth, analizzando la storia del termine persona20 applicato alla dottrina trinitaria si rende conto della quasi impossibilità di impiegare un termine differente, poiché in gioco c'è niente più e niente meno che la necessità di esprimere il fatto che il Dio che si manifesta in suo Figlio «è un Dio-persona, non è un Dio impersonale, non uno spirito assoluto, ma una persona. Questo è precisamente il modo in cui Egli ci incontra nella sua Rivelazione».21 E tuttavia, è proprio dalla analisi del termine persona che Barth ravvisa i rischi insiti nell'utilizzo di tale termine, i rischi cioè propri del triteismo, del sabellianismo, del naturalismo e del panteismo. Ed è riscoprendo le locuzioni degli antichi, tra cui Tommaso e poi, più avanti, Calvino, che preferisce comunque impiegare l'espressione "modi dell'essere", non per introdurre un termine nuovo o sostitutivo, ma, semplicemente, per porre «al centro un concetto ausiliario che è stato usato fin dagli inizi e con grande enfasi nell'analisi del concetto di persona. [...] L'affermazione che Dio è Uno in tre modi dell'essere [...] significa, tuttavia, che l'unico Dio, l'unico Signore» è «l'unico Dio personale».22 La preferenza di Barth per utilizzo di questo termine marca l'esigenza di preservare l'unicità di Dio e, soprattutto, di garantirla nel mistero, oggetto di fede, della sua triplice manifestazione che, per l'appunto, viene espressa con il sostantivo "ripetizione". Non potremmo allora dire che in ballo c'è, in ultimo, anche la possibilità stessa che nell'evento della Rivelazione si consumi in maniera autentica il paradossale incontro dell'uomo con Dio per mezzo della umanità di Cristo? Come distinguere questo incontro da qualunque altro incontro? Non è forse nel mistero della incarnazione in cui Dio pur umanizzandosi resta Dio e per mezzo dello Spirito Santo si manifesta come soggetto della riconciliazione e partecipazione dell'uomo al rapporto con Dio?

Vorremmo quindi tentare di interpretare il senso della concezione di Barth come la permanenza dell'utilità dell'elemento dialettico proprio del Römerbrief, concezione che esprime il paradosso del mistero della triunità di Dio in Cristo dinnanzi al quale l'uomo può solo compiere un atto di fede e porsi nella condizione del riconoscimento dell'incontro-scontro con la sua natura e però, al contempo, la prospettiva riconciliante aperta dalla dottrina trinitaria nella quale l'elemento cristologico, a differenza dell'opera del '22, si apre come reale possibilità riconciliativa e comunicativa dell'uomo con Dio per mezzo dell'opera di "soggettivizzazione" dello Spirito Santo. Nella dottrina trinitaria è preservato, quindi, tanto l'elemento di fondazione e "originalità" dell'elemento della rivelazione, quanto la così dischiusa, potremmo definire, opportunità cristologica che nel Römerbrief era ancora solo connotata come tragico incontro che nella mortificazione dell'uomo faceva intravedere l'ombra del Sì divino, ma senza divenire concretamente palpabile. Attraverso «la confessione dello stesso Dio come Trinità»23 è possibile osservare la concretizzazione di quella seconda questione cui accennavamo sopra nei termini di secondo possibile versante emergente dalla considerazione della Trinità nella peculiarità barthiana. Potremmo rafforzare questa tesi con un'espressione dello stesso Barth, il quale, domandandosi qual è l'oggetto di una Dogmatica, a quali domande la sua analisi corrisponde, ovvero qual è il senso dell'affermazione "Dio rivela se stesso tramite se stesso", snocciola la questione nella sintesi di tre domande: «Chi è che rivela se stesso? » -- con la conseguente necessità di garantire la supremazia di Dio come superiore all'uomo e a cui perciò il ruolo della contrapposizione dialettica resta funzionale, sebbene in termini differenti -- ; «Cosa fa? » -- con la conseguenza di porre in luce la peculiarità della rivelazione nel mistero dell'umanità di Gesù Cristo -- ; «Quali sono gli effetti che si creano a partire da ciò? » -- ed è qui che interviene il discorso sull'uomo e sulla sua possibile redenzione nella partnership di Dio per mezzo di Suo Figlio e per opera dello Spirito Santo.

In quest'ultima possibilità risiede la peculiarità della mitigazione del carattere di alterità di Dio a favore della dialettica di velamento e svelamento della dottrina trinitaria: il Ganz Andere del Römerbrief viene sostituito dal concetto di Deus Absconditus della Christliche Dogmatik e solo «alla luce del Dio-Trinità ci fa comprendere che il Dio che si fa conoscere "nel modo più certo e più intimo come Trinità" è "quell'unico, eterno, infinito, incommensurabile, incomprensibile, onnipotente o invisibile" [...] per cui la fede nella rivelazione di Dio, "senza cessare di essere il terrore mortale di fronte al suo mistero", lo confesserà come "colui che porta un nome e che di conseguenza è una persona e per noi il Dio pienamente conosciuto"».24

È alla luce di questo movimento che possiamo comprendere la centralità della cristologia che è inferibile dalla dottrina trinitaria. Quest'ultima, coagulando e ristabilendo la centralità e la cogenza del nocciolo duro del Cristianesimo, inteso nella peculiarità del suo mistero e assieme come occasione umana alla comunicazione con Dio, rimanda al senso della cristologia e alla conseguente necessità di concepire il rapporto fra Dio e l'uomo sulla base dell'analogia fidei piuttosto che su quella dell'analogia entis. La rivelazione di Cristo si presenta come il nucleo da preservare e come il cuore pulsante del mistero della Trinità; in Cristo «ogni uomo viene onorato o attaccato, e il suo assassinio fa indubbiamente del peccato anche un fratricidio. [...] Cristo è l'eterna Parola di Dio, da cui tutte le creature sono state create. [...] Barth ha dimostrato, come nessun altro prima di lui, che è senz'altro possibile ripensare coerentemente tutta quanta la teologia a partire dal punto centrale del mistero del Cristo».25 Avendo poi Barth agganciato la sua cristologia alla nozione di elezione e alla comprensione della natura del peccato (poiché è nell'incontro con Cristo che emerge tutta la peccaminosità della natura umana), nasce l'ovvia conseguenza di considerare l'analogia fidei come veicolo alla partecipazione alla partnership di Dio. Attraverso Cristo e per suo tramite è stabilita una volta per tutte sia la superiorità di Dio, sia la natura peccaminosa dell'uomo. In questo modo, la fede in Cristo manifesta la possibilità dell'elezione divina e l'aver posto in primo piano queste nozioni ha significato per Barth il decisivo cambio di rotta rispetto alla priorità dell'esistenza posta dalla teologia liberale (e il successivo rifiuto di precomprensioni alla Bultmann). Questa urgenza ha quindi condotto la concezione barthiana al rifiuto di un'altra precomprensione, quella presupposta «dalla teologia cattolica, quella della teologia naturale, basata sulla analogia entis» e dunque all'accentuazione, che va di pari passo con il prender corpo del cristocentrismo, di analogia fidei, «cioè di un'analogia tra Dio e l'uomo solo quando questo, dopo l'elezione, è diventato partner di Dio, analogia quindi tra Dio e l'opera di salvazione operata da Dio».26

5. L'analogia fidei e il "problema" della predestinazione: un breve accenno

Il presupposto della fede nei confronti del mistero della Rivelazione è dunque la condicio sine qua non della possibilità di accogliere l'umanità di Cristo nell'umile comprensione della natura caduca dell'umanità: «le più importanti qualità essenziali dell'uomo [...] possono essere comprese nella loro realtà più profonda solo sulla base della nostra fede nell'uomo-Dio Gesù Cristo». Ciò che fonda la fede è soltanto «la Parola rivelata che hic et nunc mi sta di fronte» e che è «la Persona vivente del Cristo stesso».27 Dalla centralità dell'elemento cristologico si irradia anche la concezione barthiana circa la predestinazione. Dio è colui che elegge o condanna e Cristo rappresenta assieme il giudice e l'eletto. Colui grazie al quale l'uomo non solo conosce la propria miseria, ma, nel contempo, diviene consapevole di essere sotto la misericordia infinita di Dio. In questo modo, l'elemento drammatico dell'incontro fra l'uomo e Cristo sembrerebbe assorbito in una concezione che rischia di appiattirsi sulla linea di una possibile apocatastasi origeniana. Come osserva Bouillard, Barth cerca di salvaguardare la sua concezione da questa potenziale deriva attraverso la dottrina della fede. Sebbene cioè la Rivelazione di Cristo ci ponga sotto l'annuncio della elezione,28 quest'ultimo si rivela realmente concreto solo se l'uomo vi risponde attraverso un atto di fede. E tuttavia, la fede stessa è qualcosa che viene trasmessa da Dio all'uomo. Ovvero, la possibilità della fede è già una ricezione di un atto grazia da parte di Dio. E allora, come non piegare la dottrina della predestinazione barthiana verso quella calvinista da cui Barth stesso ha tentato di differenziarsi? Lo stesso Italo Manicini, tentando di mostrare come in realtà nello stesso Römerbrief l'elemento dialettico non sia da intendersi in maniera dura e pura così come potrebbe apparire, sulla base di una stessa affermazione di Barth, sostiene che il Leitmotiv della teologia barthiana che non consente né di considerare l'uomo come realmente operante nella crisi, né di valutare la dialettica come reale strumento autonomo, è la concezione dell'elezione: lo stesso versante peccaminoso della natura dell'uomo si radicherebbe «nella divina predestinazione dell'uomo alla riprovazione che segue la sua eterna elezione in Cristo come l'ombra segue la luce» -- così afferma Barth nell'Epistola. In ciò, Italo Mancini riscontra la «matrice calvinista che spiega tutto il barthismo, eliminando definitivamente la dialettica come forza autonoma, e soprattutto eliminando la teologia della crisi, perché il dato dominante è quello dell'elezione».29

Questo è uno dei molti punti di attrito che permangono nella teologia di Barth cui spetta sicuramente il grande merito di aver riattualizzato determinati temi all'interno della teologia protestante. La positività dell'uomo, che sembrava riabilitata dalla dottrina trinitaria, resta ancorata in maniera problematica ad un portato fortemente calvinista che non consente, a nostro avviso, di chiudere completamente il cerchio aperto con il Römerbrief e di concretizzare effettivamente la possibilità dell'uomo.

Copyright © 2011 Nicoletta Domma

Nicoletta Domma. «L'importanza della Trinità nel pensiero di Karl Barth e gli esiti cristologici». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [**44 B].

Note

  1. I. Mancini, p.viii Testo

  2. H. Bavinck, Gereformeede Dogmatik, citato in Dogm. I/1, p. 302. Testo

  3. Dogm. I/1, p. 305. Testo

  4. I. Mancini, Il pensiero teologico di Barth nel suo sviluppo, Il Mulino, Bologna 1969, p. xcii. Testo

  5. K. Barth, L'Epistola ai Romani, Feltrinelli, Milano 2002, p. 417. Testo

  6. H.U. von Balthasar, La teologia di Karl Barth, Jaca Book, Milano 1985, pp. 42-44. Testo

  7. Bouillard, Karl Barth, p. 133, citato in I.Mancini, cit., p. xcii. Testo

  8. I. Mancini, cit., p. xcii. Testo

  9. Ibidem, p. lxxvi. Testo

  10. Ibidem, p. lxxxvi. Testo

  11. Dogm. I/1, p. xiii. Testo

  12. B.Willems, Introduzione a Karl Barth, Queriniana, Brescia 1985, p. 36. Testo

  13. Ibidem, p. 38. Testo

  14. I. Mancini, cit., p. lxxxviii. Testo

  15. Dogmatik im Entwurf, p. 111, citato in I. Mancini, cit., p. lxxxviii. Testo

  16. Dogm., I/1, p. 348. Testo

  17. Ibidem, p. 356. Testo

  18. Ibidem, p. 353. Testo

  19. Ibidem, p. 350. Testo

  20. Ibidem, cfr. pp. 355-358. Testo

  21. Ibidem, p. 359. Testo

  22. Ibidem, p. 359. Testo

  23. P. Grassi, Teologia e filosofia, Quattro Venti, Urbino 1992, p. 172. Testo

  24. Ibidem, pp. 172-173. Testo

  25. B. Willems, cit., pp. 80-82. Testo

  26. I. Mancini, cit., p. xcvi. Testo

  27. B. Willems, cit., pp. 76-77. Testo

  28. Ibidem, pp. 110-101. Testo

  29. I. Mancini, cit., p. lxii. Testo

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