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«Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42, 5). Dio e il male: con (e oltre) Ricœur dalla teodicea alla «ragione integrale»

di Mauro Cinquetti (20-21 marzo 2009)

1. Introduzione

Che filosofia e teologia incontrino il male come una sfida senza pari, i maggiori pensatori dell'una e dell'altra disciplina concordano nel riconoscerlo, talvolta con grandi gemiti. L'importante non è questo consenso, ma il modo in cui la sfida -- perfino la sconfitta -- è riconosciuta: come un invito a pensare meno o una provocazione a pensare di più, addirittura a pensare altrimenti.1

Il confronto del pensiero di Ricœur con il libro biblico di Giobbe è più volte ripreso e approfondito. Questo confronto è cruciale per il pensiero di Ricœur che è attraversato continuamente dall'esigenza teoretica, pratica e affettiva di rispondere al male in tutte le sue componenti.2 Il male emerge come un'esperienza fondamentale e ineludibile nell'elaborazione dell'esperienza di Dio.

La struttura del contributo è la seguente:

2. Dio e il male: Ricœur in dialogo con Giobbe. Spunti a partire da un'ermeneutica filosofica del testo biblico

2.1. La vicenda biblica

Nella Bibbia, come è noto, Giobbe è un uomo giusto e felice. Improvvisamente, vittima di una scommessa tra Dio e satana, egli cade nella sofferenza peggiore: prima perde tutte le sue ricchezze, poi i suoi figli e infine la malattia gli toglie la salute e la voglia di vivere (Perisca il giorno in cui nacqui, Gb 3, 3). Intervengono tre amici (Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita e Zofar il Naamanita) che in tre cicli di discorsi tentano di consolarlo, ma non ci riescono, anzi aumentano la sua ribellione. Essi ragionano secondo la tradizionale dottrina della retribuzione secondo la quale Dio premia i buoni e castiga i cattivi già in questa vita. Dunque se uno soffre, questo è un segno inequivocabile che ha peccato e pertanto sconta la giusta punizione.3 A queste considerazioni Giobbe contrappone la sua vita di uomo giusto eppure colpito da sventure su sventure. «Ne ho udite già molte di simili cose! Siete tutti consolatori molesti. Non avran termine le parole campate in aria? [...] Anch'io sarei capace di parlare come voi, se voi foste al mio posto» (Gb 16, 2-4). Di fronte alle obiezioni ostinate di Giobbe, Dio interviene, lo invita a guardare la grandezza meravigliosa del'universo creato e, cosa paradossale, dà ragione a Giobbe e torto ai suoi amici («Voi non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe», Gb 42, 7).

2.2. Giobbe contro gli «amici teologi»

Giobbe è descritto come colui che si contrappone agli «amici teologi» e rifiuta la spiegazione che essi tendono a dargli della sua condizione disgraziata come conseguenza di colpe sue. Dietro questi amici si nascondono categorie di pensiero che possiamo enucleare in alcuni termini chiave.

«Visione etica», «teodicea», «onto-teo-logia» e «filosofie della conciliazione» con sfumature diverse sono tutti tentativi simili di trovare una soluzione all'enigma del male, in particolare in relazione a Dio, come fanno gli amici teologi di Giobbe. Giobbe invece rifiuta questa conciliazione11 e Ricœur manifesta la sua simpatia per questo suo rifiuto.

2.3. Verso una «visione sapienziale»: il decentramento del soggetto

Oltre la visione etica e a partire da Giobbe Ricœur suggerisce una visione del male che possiamo definire «sapienziale» in quanto conforme alla sapienza babilonese, greca presocratica e del Giobbe biblico.

Questa nuova razionalità del (I) cogito decentrato e (II) riunificato nel logos consta di alcuni elementi chiave. Ne individuiamo quattro che riguardano in particolare l'elaborazione dell'esperienza di Dio.

  1. Una fede non verificabile in un Dio che è «oltre». Il primo elemento della visione sapienziale sul male è l'approdo a una fede libera da dimostrazioni e da narcisismi. Con Giobbe viene meno una concezione etica della fede in Dio e si «accede a una nuova dimensione della fede, quella della fede non verificabile».18 Giobbe è infatti colui che crede in Dio per nulla, non essendovi alcuna giustificabile corrispondenza tra la sua condotta ineccepibile e le atroci sofferenze della sua esistenza. E sebbene Dio gli parli, le sue parole non sono la risposta ai suoi angosciosi interrogativi:

    Una parola viene rivolta a Giobbe [...]: questa parola non è una risposta al suo problema, non è neppure una soluzione del problema della sofferenza [...] . Il Dio che si rivolge a Giobbe dal fondo della tempesta gli mostra il Behemoth e il Leviatan [...] attraverso questi simboli gli lascia intendere che tutto è ordine, misura, bontà; ordine imperscrutabile, misura smisurata, bellezza tremenda. Tra l'agnosticismo e la visione penale della storia viene tracciato un cammino, la via della fede non verificabile. Nulla in questa rivelazione che lo riguardi personalmente, ma proprio perché non si tratta di lui, Giobbe è interpellato. Il poeta orientale alla maniera di Anassimandro e di Eraclito l'Oscuro, annuncia un ordine al di là dell'ordine, una totalità piena di senso, all'interno della quale l'individuo deve deporre la sua recriminazione.19

    L'ordine di Dio è imperscrutabile e oltrepassa le ristrette visioni umane; perciò si deve mutare lo sguardo, fidarsi di Dio, chiudersi la bocca e rinunciare ad ogni recriminazione.20 Di fronte alla tragedia del male occorre, come Giobbe, deporre le armi, «pensare altrimenti», cioè abbandonare la visione etica e retributiva che concepisce il male come punizione di un atto malvagio e arrivare a credere nell'ordine, nella misura, nella bellezza, per quanto possano apparire imperscrutabili, smisurate, tremende. Ricœur individua questo passaggio nel prologo: «Satana ha fatto la scommessa che Giobbe, di fronte alla sventura, non avrebbe più voluto temere Dio «per nulla» (1, 9). Ecco la posta: rinunciare talmente alla legge della retribuzione sinché non soltanto si rinunci ad invidiare la prosperità dei malvagi, ma si sopporti la sventura come si riceve la felicità, cioè come un dono di Dio».21

  2. Adamo-Giobbe-Cristo: il paradigma del «servo sofferente». Il secondo elemento di questa visione sapienziale consiste nell'assunzione del paradigma del «servo sofferente». La figura di Giobbe assume agli occhi di Ricœur un ruolo centrale all'interno della Bibbia. Essa si colloca al centro tra la figura di Adamo e quella del Servo Sofferente incarnato da Cristo.

    Da un lato il male commesso porta con sé un giusto esilio: è la figura di Adamo; d'altra parte il male subìto porta con sé un ingiusto annientamento: è la figura di Giobbe. La prima figura chiama la seconda, la seconda corregge la prima. Solo una terza figura annuncerà il superamento della contraddizione: sarà la figura del «Servo sofferente», che farà del soffrire, del male subìto, un'azione capace di riscattare il male commesso.22

    La dialettica Adamo-Giobbe (male commesso -- male subìto) trova una riconciliazione proprio in un'accettazione non narcisistica e gratuita: nel consenso attivo del «Servo sofferente», incarnato da Cristo, si può intravedere il ribaltamento del male subìto in azione positiva: egli è capace di fare del soffrire «un'azione capace di riscattare il male commesso».

    In Cristo la sofferenza «si pone di fronte al male umano e si carica dei peccati del mondo» dando luogo al passaggio «dalla punizione alla generosità».23 La via della riconciliazione con l'esperienza del male è così tracciata e consiste nell'assunzione della sofferenza fino a riassorbire «la collera di Dio nell'Amore di Dio».24

  3. Rassegnazione e consenso attivo. Le conflit des interprétations, raccolta di saggi degli anni '60, continua la riflessione su Giobbe e porta in più l'aprirsi della dinamica della rassegnazione e del consenso.

    Ricœur riparte dalla «saggezza tragica» di Giobbe abbozzata al termine della Symbolique du mal.

    Giobbe [...] non riceve alcuna spiegazione sul senso della sua sofferenza; solamente la sua fede è sottratta ad ogni visione morale del mondo e di riflesso non gli è mostrata che la grandezza del tutto senza che il punto di vista finito del suo desiderio ne riceva direttamente un senso. È aperta così una via: quella della riconciliazione non narcisistica, in forza della quale rinuncio al mio punto di vista, amo il tutto, tale quale esso è.25

    Vincere la scommessa con Satana è vincere la tentazione di un rapporto narcisistico con Dio, con un Dio «tappabuchi»,26 costruito dai bisogni del soggetto, un rapporto che entra inevitabilmente in crisi di fronte allo scandalo del male e della sofferenza ingiustificabile. Vincere la scommessa con Satana è approdare a una riconciliazione gratuita che accetta l'ingiustificabilità del male, che rinuncia alla centralità di un soggetto che vuole imporre il proprio punto di vista. È questa la «rassegnazione», cioè «una accettazione che sarebbe il primo grado della consolazione, al di là del desiderio di protezione».27

    Seguendo una linea di lettura heideggeriana,28 questa rassegnazione segna una evidente rottura con la tradizione filosofica cartesiana e moderna ed opera un riavvicinamento alla filosofia greca:

    A questo punto siamo ricondotti da Giobbe ai pre-socratici. [...] Qui risiede la possibilità radicale della consolazione; l'unità dell'essere e del logos, cioè, rende possibile per l'uomo l'appartenenza al tutto in quanto essere capace di parola. Poiché la mia parola appartiene al dire dell'essere, non chiedo più che il mio desiderio sia riconciliato con l'ordine della natura; in questa specie di appartenenza risiede l'origine, non solo dell'obbedienza al di là del timore, ma del consenso al di là del desiderio.29

    Andando oltre sulla strada della rassegnazione, guardando al paradigma del servo sofferente si perviene al secondo stadio della consolazione autentica: il consenso. Il «consenso al di là del desiderio» è il compimento di una riconciliazione non narcisistica col male. L'uomo deve riconoscersi come appartenente all'unità dell'essere, a un «senso dell'universo» in cui «l'ordine naturale e l'ordine etico sono unificati in una totalità di ordine più elevato»30 situata «al di qua della dicotomia del soggetto e dell'oggetto»,31 che inaugura l'epoca moderna e che non figura ancora nel pensiero presocratico e nel discorso sapienziale.32

  4. L'«immaginazione creativa». Per reintegrare il male ineluttabile in quello che abbiamo descritto come un consenso attivo, Ricœur fa intervenire l'«immaginazione creativa», facoltà simile a quella che Kant aveva chiamato «immaginazione produttiva».

    In virtù di questa analogia, nel Conflit des interprétations Ricœur abbozza una sorta di «schematismo» vicino, almeno nella funzione, a quello indicato da Kant nella prima Critica33: là si trattava di mediare, di rendere accessibile alle categorie dell'intelletto il materiale intuito spazio-temporalmente producendo uno «schema», cioè una rappresentazione al tempo stesso figurativa e intellettuale; qui si tratta, in senso più ampio, ma analogo, di dare una figuratività, di rendere intuitivo ciò che resta al di fuori dell'intuizione, ma che è richiesto legittimamente dalla ragione animata dal «desiderio della totalità»34 che caratterizza l'uomo in quanto sforzo e desiderio. Se Kant intendeva dare ordine categoriale al materiale intuitivo, Ricœur vuole dare un contenuto «materiale» a un'Idea della ragione, all'aspirazione all'incondizionato.

    In questa dinamica di schematismo e immaginazione creativa si colloca la speranza di fronte al male. Illuminata della speranza nella riconciliazione e nel primato del bene, l'immaginazione creativa produce «schemi», cioè trova creativamente risorse per riconquistare il male ineluttabile e gettare una luce di riconciliazione su di esso.

    Ricœur collega questa facoltà alla «libertà secondo la speranza»: la speranza è definita come «passione per il possibile», si oppone al «primato della necessità», è «la potenza del possibile e la disposizione dell'essere al radicalmente nuovo», si esprime come «creazione immaginatrice del possibile»,35 è propria dell'uomo divenuto libero, creativo, condizionato certamente, ma non determinato dalla tragicità che sta vivendo. La luce della speranza illumina di un colore nuovo l'ineluttabile: decentrando il soggetto narcisista si apre uno spazio per la saggezza di chi sa «decifrare i segni della resurrezione sotto l'apparenza contraria della morte»36 e diventa possibile smentire la realtà della morte e avanzando la «risposta della sovrabbondanza di senso alla abbondanza del non-senso»,37 e facendo così zampillare la gioia anche in mezzo alle situazioni più difficili, custodire la speranza anche tra le delusioni.

    Questa creatività non è arbitraria. Gli schemi vengono prodotti con riferimento al paradigma del «servo sofferente», del «giusto che offre la vita». È questo riferimento che consente quel passaggio per il quale «un morire per... prenderebbe il posto di un essere ucciso da...»;38 pertanto il senso della morte è rovesciato: diventando «morte per gli altri», la morte del Cristo è al termine di questo sviluppo. Il male più tragico, la morte, può allora essere vissuto come un atto di vita:

    L'esperienza mia di una fine della vita si nutre di questo auspicio profondo di fare dell'atto del morire un atto di vita. [...] Ciò spiega perché non ami affatto né utilizzi il vocabolario heideggeriano dell'essere-per-la-morte; direi piuttosto: essere fino alla morte. È importante essere vivi fino alla morte. [...] Debbo incorporare a questo lavoro del lutto la sicurezza che la gioia è ancora possibile quando si abbandona tutto -- ed è in questo che la sofferenza è il prezzo da pagare: non già che sia necessario cercarla per se stessa, ma bisogna accettare che ci sia un prezzo da pagare.39

    L'uomo non è proiettato verso la morte, ma è chiamato ad essere «fino alla morte», perché anche quando tutto viene meno e tutte le sicurezze vengono spazzate via, la speranza e la gioia restano possibili, perché il male, per quanto radicale e ineluttabile, non è mai originario come il bene.

2.4. Il presupposto fondamentale: la fiducia originaria

L'originarietà nel bene, più forte della radicalità del male, ci conduce al presupposto fondamentale del pensiero ricœuriano nutrito dalla lezione di Giobbe. Guardando a Giobbe, al suo tapparsi la bocca davanti alla manifestazione di Dio, al suo rinunciare a spiegazioni facili, al suo ultimo confidare in Dio, Ricœur giunge alla convinzione fondamentale, che funge da presupposto del suo pensiero, in particolare del suo pensiero intorno al male, di una fiducia originaria in un senso previo sempre presente per quanto difficile da cogliere. Una fiducia che mette fuori gioco in partenza ogni ipotesi di «non-senso».

Questa dimensione fiduciale originaria è ben espressa in un testo del 1977 in cui Ricœur parla del ruolo della sapienza in merito alla sofferenza: «la sapienza non insegna come evitare la sofferenza, né come negarla magicamente, né come dissimularla illusoriamente. Essa insegna come sopportare, come soffrire la sofferenza. Essa colloca la sofferenza in un contesto significativo producendo la qualità attiva del soffrire»,40 una «sofferenza attivamente assunta».41 Giobbe accede a una nuova visione delle cose passando attraverso il pentimento: «pentendosi -- non del peccato perché egli è giusto, ma dall'ipotesi di non senso -- egli presume un senso insospettato» che è «la qualità nuova che la penitenza conferisce al suo soffrire».42 Giobbe arriva a comprendere infatti che vi è un senso profondo, sebbene inaccessibile, che è più forte del non senso. È in questa fiducia a priori che si nasconde l'arma che vince la disperazione, che riconcilia col male, che trasforma «il soffrire nel saper soffrire»43 e apre un varco alla speranza. È in questa fiducia a priori che va cercata la profondità della risposta di Giobbe al male e l'abbondanza della sua ricompensa. Ne deriva una «ragione fiduciosa» che è anch'essa espressione di un soggetto decentrato, che accetta di non porre il senso a partire da sé, ma si riconosce collocata in un senso previo, al quale accorda la propria fiducia.

2.5. Il mezzo nuovo: la «logica della sovrabbondanza»

Il mezzo del pensare ricœuriano, lo strumento logico di cui si avvale, è quella che egli chiama «logica della sovrabbondanza». Si tratta di superare l'esclusività della logica dell'equivalenza, tipica di una ragione calcolante, logico-empirica della quale è ancora prigioniera la teodicea che si esprime nella visione etica del male.

La visione sapienziale che Ricœur delinea a partire da Giobbe intende fare leva su una logica diversa che viene chiamata «logica della sovrabbondanza» e che trova espressione in tre formule progressive scritte in Le conflit des interprétations: il «nonostante», il «grazie a» e il «molto di più».44

Queste tre formule esprimono la visione sapienziale che riconcilia l'esperienza di Dio e l'esperienza del male non con dimostrazioni logiche o metafisiche, ma attraverso una risposta creativa che va in direzione di una accettazione attiva e non solo subìta, dell'esperienza tragica.

Potrebbe in parte sembrare che tale risposta sia vicina a Nietzsche: in Nietzsche «il male si insinua nella costituzione stessa della realtà, al di qua della colpa dell'uomo» (esattamente come in Giobbe) con un esito che non è di rinuncia alla vita (come in Schopenhauer), ma la «franca adesione alla vita nelle sue contraddizioni», giungendo così al superamento del male attraverso l'accettazione.47 In verità, pur essendo analogo l'esito (il superamento del male attraverso l'accettazione) è opposto il metodo: in Nietzsche l'accettazione è espressione della «volontà di potenza» del «super-uomo», esaltazione dell'io che si fa creatore di valori e significati, in Ricœur invece l'accettazione è il risultato del decentramento dell'io che si colloca nell'essere, tra le creature, secondo il paradigma del servo sofferente e accoglie l'insegnamento degli uccelli del cielo e dei gigli del campo.48 Lo stile dell'accettazione nietzschiana è l'autoaffermazione di sé, lo stille dell'accettazione ricœuriana è la gaieté, cioè la condizione di chi ha raggiunto una equilibrata noncuranza di sé e ha imparato a far sì che nella propria felicità ci sia posto anche per il soffrire, cioè ha raggiunto la consapevolezza che «la grazia consiste nel dimenticarsi».49 In sintesi potremmo dire che la creatività cui fa appello Nietzsche è, per così dire, «centripeta» (rispetto all'io), quella cui fa appello Ricœur è «centrifuga».

2.6. L'approdo: rispondere al male con pensiero, azione, sentimento

Il tema del male è ripreso esplicitamente nel 1986 in un denso saggio dal titolo Le mal. In questa breve opera la logica della sovrabbondanza abbozzata nelle opere precedenti approda a una risposta globale e profonda.

Ricœur riafferma qui «il carattere aporetico del pensiero sul male»50 e apre la sfida all'uomo integrale, alla convergenza di pensiero, azione, sentimento, sottolineando così la necessità di cercare una risposta superando un approccio puramente speculativo. Il saggio si conclude con un'apertura sulle facoltà umane (pensiero, azione, sentimento) a indicare che il male non è solo una questione teoretica, ma coinvolge l'intera umanità, e come tale non può trovare una soluzione sul piano teoretico, ma trova una risposta solo attingendo all'integralità dell'uomo.

  1. Al livello del pensiero si tratta di «rendere l'aporia produttiva», continuando «il lavoro del pensiero nel registro dell'agire e del sentire».51 Occorre pensare di più e altrimenti poiché «il compito del pensare -- sì, di pensare Dio e di pensare il male davanti a Dio -- può non essere esaurito dai nostri ragionamenti conformi alla non-contraddizione e alla nostra propensione per la totalizzazione sistematica».52
  2. La risposta al male si sposta allora al livello dell'agire, un aspetto poco presente sia nella Symbolique du mal sia ne Le conflit des interprétations molto preoccupati di ridimensionare la visione etica del male e la portata della libertà del soggetto. Qui, invece, Ricœur ripropone con forza la dimensione etico-politica di un compito da perseguire: «che fare contro il male?».53 È necessaria un'azione concreta contro il male: «Si sottragga la sofferenza inflitta agli uomini dagli uomini e si vedrà ciò che resterà di sofferenza nel mondo [...] Prima di accusare Dio o di speculare su una origine demoniaca del male in Dio stesso, agiamo eticamente e politicamente contro il male».54
  3. Vi è infine lo spazio per una «risposta emozionale» radicata nel sentire profondo del cuore. Egli chiama «saggezza» l'ultimo tratto di un cammino che somiglia al lavoro del lutto descritto da Freud in Lutto e malinconia. Nel lavoro del lutto si diviene capaci di un distacco che libera da un attaccamento eccessivo a se stessi e ai propri investimenti affettivi. La saggezza è divenire capaci del lavoro del lutto di fronte alle lacerazioni della sofferenza e del male,55 essa è innanzitutto l'accettazione della propria ignoranza davanti all'aporia del male,56 il rifiuto di attribuire le cause del male a Dio e insieme il rifiuto di colpevolizzarsi, essa diviene poi lamento contro Dio per la propria sofferenza, senza tuttavia attribuire una causa57 e sfocia infine nella scoperta «che le ragioni del credere in Dio non hanno niente in comune con il bisogno di spiegare l'origine della sofferenza»,58 sicché «credere in Dio, nonostante... è uno dei modi di integrare l'aporia speculativa nel lavoro del lutto».59

Dunque «la protesta iniziale mette in ultima sinergia il pensare, l'agire, il sentire. Non basta pensare di più, nemmeno lottare sul piano morale, giuridico e politico contro il male, occorre che il sentimento si lasci istruire dal dolore».60 Già all'inizio di questo densissimo saggio, Ricœur non manca di scrivere: «il compito del pensare [...] può non essere esaurito dai nostri ragionamenti conformi alla non contraddizione e alla nostra propensione per la totalizzazione sistematica».61 La prospettiva che Ricœur, a partire da Giobbe, delinea di fronte al male non è dissimile da quella che in abbozzo già emergeva nelle opere precedenti con alcune interessanti aggiunte.

Questo «qualcosa che manca» è forse quella ragione integrale64 che ora ci accingiamo a delineare meglio.

3. Dio e il male: dalla teodicea alla «ragione integrale». Considerazioni teoretiche

Allargando ora la nostra problematica a un livello teoretico più generale ci sembra che la questione può essere formulata nei termini seguenti: quale ragione può rispondere adeguatamente al male?

L'approccio oggettuale, causalistico, analitico, di una ragione che si vuole positiva in quanto ostinatamente aderente al piano empirico65 caratterizza ancora oggi gran parte del pensiero al punto da apparire ai più come l'unico possibile paradigma di una «ragione» vera. Questo approccio che ora vuole spiegare tutti i fenomeni in termini di causa-effetto, ora guardare ai problemi come se fossero oggetti risolvibili nelle loro parti, ora concepire le aporie come dei difetti da correggere, e che non ammette deroghe al principio di non contraddizione, ha caratterizzato il pensiero che ha prodotto la teodicea.

Di questo rifiuto della teodicea, che si può definire «antiteodicea», Ricœur non è certo l'unico esponente nel pensiero contemporaneo, poiché possiamo dire che la teodicea è oggi fortemente invisa non solo a chi vede nello scandalo del male la principale contestazione alla fede in Dio, ma anche a chi ha cercato un recupero della questione del male dal punto di vista religioso.66

Ci limitiamo qui a indicare tre nomi che nel pensiero moderno e contemporaneo hanno attestato l'insuccesso di ogni tentativo di teodicea filosofica per cercare di vedere oltre: Kant, un classico irrinunciabile della filosofia; Dostoevskij, un autore letterario; Pareyson, un filosofo italiano del Novecento che più di altri si è lasciato provocare dallo scandalo del male.

3.1. Tre passi oltre la teodicea: Kant, Dostoevskij, Pareyson

Kant: l'insuccesso della teodicea. Il primo testo filosofico che è di fondamentale importanza nel condurre una critica serrata della teodicea è sicuramente il saggio di Kant del 1791 Sull'insuccesso di ogni saggio filosofico di teodicea, una pietra miliare ineludibile nella storia del pensiero sul male: «Per teodicea -- scrive Kant -- si intende la difesa della saggezza suprema del Creatore contro le accuse che le muove la ragione a partire dalla considerazione di quanto nel mondo vi è di contrario al fine di questa saggezza».67 Kant mostra però che questa difesa si rivela inefficace se posta all'esame del tribunale della ragione: «nessuna teodicea finora ha mantenuto la sua promessa di giustificare la saggezza morale nel governo del mondo contro i dubbi che sono stati elevati nei suoi confronti a partire da quel che l'esperienza ci fa conoscere di questo mondo».68 La ragione umana è limitata e come tale è condannata a non poter dimostrare la saggezza di Dio né la sua assurdità: «la nostra ragione è assolutamente incapace di intendere il rapporto tra un mondo così come sempre ci è dato conoscerlo tramite l'esperienza e la saggezza suprema».69 È illegittimo il passaggio dall'empirico all'intenzione morale del Creatore. Va dunque abbandonata la «teodicea dottrinale» che intende interpretare l'intenzione morale, la volontà di Dio a partire dalle espressioni di cui essa si serve a livello esperienziale.70 Di fronte allo scandalo del male non conta tanto «l'eccellenza del conoscere», che non può nulla perché qui sprofonda nell'insondabile, ma «la sincerità di cuore», non tanto l'«argomentare» (teodicea dottrinale) quanto l'«ammissione dell'impotenza della nostra ragione e l'onestà nel non falsare i propri pensieri»,71 che egli chiama «teodicea autentica».

Parafrasando Ricœur, possiamo dire che la «teodicea autentica» è lo stadio del nonostante il male, al quale deve seguire un'apertura del pensiero al grazie a e al molto più. Dostoevskij e Pareyson ci introducono in questa apertura del pensiero.

Dostoevskij: oltre il «pensiero euclideo». Nei suoi romanzi Dostoevskij dà una voce letteraria al rifiuto della teodicea, ribellandosi contro una logica, che non rende affatto ragione del male. I fratelli Karamazov sono noti per lo spazio che lo scrittore russo accorda allo scontro che sulla provocazione del male innocente si apre tra l'ateismo di Ivan e la fede sincera del fratello Alëša.72

La teodicea risulta insopportabile a Ivan. Tuttavia il fratello credente Alëša non gli si oppone, ne accetta la rivolta, la condivide: «non confuta Ivan, anzi accoglie i capisaldi del suo ragionamento; egli non nega il valore della rivolta del fratello, anzi ne riconosce il significato religioso assumendola come componente essenziale di una fede autentica e non consolatoria».73 L'antiteodicea di Ivan diventa in lui la componente essenziale di una fede nuova, che si appella in ultimo al Dio che si è caricato sulla croce il male del mondo: «Lui per primo ha donato l'innocente sangue Suo a favore di tutti e in riparazione di tutto».74 Alëša è allora «il credente che si affida a Dio nonostante faccia propri tutti gli argomenti dell'antiteodicea».75

In virtù di questa assunzione la fede dialettica di Alëša si rivela produttiva, perché non ricade nell'orizzonte consolatorio, sa mantenere ferma la scandalosità del male di fronte a Dio, «mantiene viva ed aperta quell'intima lacerante ferita, da cui tuttavia scaturisce una sapienza superiore, estranea all'ottusità e alla limitatezza del razionalismo euclideo».76 Si tratta di una prospettiva che sa andare al di là del nonostante il male, ma che «è aperta solo a chi sa oltrepassare i limiti del pensiero euclideo e porsi in ascolto di «pensieri di altri mondi» di cui parla lo starec Zosima: un tema che si lega in Dostoevskij alla polemica slavofila contro il razionalismo e l'empirismo occidentali».77

La critica al «pensiero euclideo», al razionalismo empirista occidentale che ha chiuso la via a una saggezza più profonda e ha confinato nell'illusione Dio e, di conseguenza, anche lo scandalo del male. La «terrestre intelligenza euclidea»78 di Ivan svolge una duplice funzione, positiva e negativa:

Ivan, approdato all'ateismo, diventa il paradigma dell'uomo occidentale contemporaneo che si è chiuso nel pensiero euclideo e non sa vedere oltre.

Rifiutando la teodicea, Alëša non solo sa credere nonostante il male, ma sa anche vedere più in profondità grazie al male, cioè grazie al salto qualitativo che il male permette di fare al pensiero, allargando il suo orizzonte oltre gli angusti confini terrestri, empirici, euclidei.

Pareyson: oltre la ragione concettuale. Nell'ambito filosofico contemporaneo, Luigi Pareyson ha focalizzato la sua riflessione sul tema del male, collocandosi sulla scia del rifiuto della teodicea classica ed elaborando pensiero che mira al superamento della ragione concettuale, oggettivante, causalistica, a favore di una ragione ermeneutica aperta la mito e all'esperienza religiosa.80

Il suo punto di partenza è la constatazione del fallimento della teodicea: «nell'affrontare il problema del male -- scrive Pareyson -- la filosofia si è dimostrata nel corso dei secoli straordinariamente manchevole se non addirittura insufficiente».81 Si tratta dunque di accedere ad un tipo di razionalità nuova. Per delinearla Pareyson si rifà in particolare al pensiero di Heidegger e dell'ultimo Schelling.

La distinzione schellinghiana tra una filosofia negativa, concettuale, e una filosofia positiva, esistenziale si rivela produttiva Tra i due momenti, Schelling individua quello che Kant chiamava «il baratro della ragione», l'abisso senza fondo, lo stupore davanti al cielo stellato e alla legge morale.82 Lì dove Kant si fermava e individuava il confine del pensiero, Schelling riparte per dare nuovo slancio al pensiero, per allargare la ragione attingendo al contatto vivo con ciò che non è racchiudibile nel pensiero concettuale, poiché vi è una «insanabile irriducibilità dell'essere al pensiero».83

Pareyson vede in questo passaggio schellighiano dalla filosofia negativa concettuale (rappresentativa, oggettuale) alla filosofia positiva che attinge all'esistenza l'unica possibilità di rigenerare il carattere metafisico del pensiero senza ricadere nella metafisica.84 La ragione ontica e oggettiva deve farsi estatica, uscire da se stessa e aprirsi all'esistenza: «l'estasi non attinge e non rende che il puro esistente, la semplice e nuda esistenza, un qualcosa di irriducibile e di indicibile»,85 «la mera esistenza senza essenza»,86 «la mera realtà: l'esistenza spoglia dell'essenza, la realtà destituita di idea», la cui «caratteristica è la più totale inconcettualità».87 Grazie all'apporto della pura esistenza, della realtà non concettuale, di ciò che è irriducibile concettualmente, baratro e abisso, la ragione così si allarga, entra in relazione con «un essere anteriore al pensiero»88 che diviene stimolo per il pensiero. A partire da Schelling, Pareyson delinea allora una filosofia che va oltre la mera ragione oggettiva e il pensiero concettuale, si rapporta a ciò che è proprio dell'esistenza, a ciò che va oltre il pensiero, per ricondurlo al pensiero: «la filosofia negativa va dal discorso al silenzio e la filosofia positiva dal silenzio al discorso».89

Si tratta di accedere a una razionalità filosofica che non è più «razionale e dimostrativa», ma diviene piuttosto «esistenziale ed interpretativa»90 muovendo dal linguaggio mitico-simbolico e dall'esperienza religiosa,91 cioè dalla più fondamentale originaria esperienza di verità, come reazione a convinzioni esistenziali.92

Abbiamo fatto riferimento a tre nomi Kant, Dostoevskij, Pareyson per indicare da un lato l'insufficienza della teodicea tradizionale, dall'altro l'esigenza di una razionalità più ampia rispetto a quella logico-empirica o scientifica-concettuale, affinché la filosofia possa essere all'altezza ancora oggi di rispondere alla sfida del male.

3.2. Alcune suggestioni dal pensiero contemporaneo

L'esigenza teoretica di rispondere alla sfida lanciata dal male alla filosofia e alla teologia ci conduce dunque a una razionalità nuova e integrale più ampia rispetto alla ragione in senso lato scientifico-positivista.93

In modo molto frammentario e per forza di cose generico ci limitiamo ora a presentare una rassegna per mostrare come l'esigenza di un pensiero aperto e integrale attraversi molti pensatori soprattutto contemporanei.

Senza addentrarci analiticamente nelle suggestioni sollevate, ci limitiamo a indicarle come possibili percorsi di ricerca da approfondire.

3.3. Pensare di più e altrimenti: una ragione integrale cioè dialettica

La sfida del male è per Ricœur una provocazione a pensare di più e a pensare altrimenti. «Anche se Ricœur -- scrive J. Greisch -- ratifica il verdetto di Kant che afferma lo scacco definitivo di ogni teodicea concepita sul modello leibniziano, si affretta ad aggiungere che questa constatazione dello scacco non significa in alcun caso che si possa ritornare al di qua della soglia dell'elaborazione razionale raggiunta con la teodicea classica. È per questo che, lungi dall'aver messo fine alla teologia razionale, Kant l'ha costretta ad usare altre risorse di pensiero».105 Abbiamo cercato di mostrare come raccogliere questa provocazione possa essere fecondo per la filosofia e la teologia.

Citando Ricœur, dicevamo all'inizio come questa sfida possa essere invece raccolta come un invito a pensare meno. Senza l'apertura della ragione all'essere nella sua ampiezza e nella sua integralità, alle sue dimensioni esistenziali, inoggettivabili e spesso inspiegabili secondo la linearità della logica, la ragione oggettivante non può trovare risposte adeguate. Questo pensare meno si può tradurre nella rinuncia a pensare il male e in particolare Dio e il male, stante la insufficienza di ogni teodicea. Un altro rischio è quello di ovviare la questione semplicemente pensando ad altro e cadendo in quelle che Pareyson ha definito «filosofie di pura evasione»106 che finiscono per emarginare il male come problema filosofico.107

Si tratta invece di rivitalizzare il pensiero, mettendolo in dialogo con l'esperienza viva, attivando le risorse che provengono dall'immaginazione, dalla creatività e dalla fiducia originaria, senza trascurare il rigore della descrizione fenomenologica. All'intera verità si può aspirare solo attivando una ragione che mantenendo fermo il rigore fenomenologico, non estrometta i vissuti affettivi, volitivi, la sensibilità artistica, l'immaginazione poetica, ma soprattutto faccia propria, come Giobbe, la fiducia esistenziale nel senso, per quanto difficile e talvolta imperscrutabile.

Rispondere al male significa insomma attivare una ragione che netta da parte la rigida conformità alla non-contraddizione formale, che superi la tentazione di totalizzazione sistematica. Non si tratta di creare confusione tra la filosofia e la poesia, l'arte, la religione. Ricœur afferma bene che «pensare non è poetare».108 Si tratta piuttosto di mettere in tensione dialettica quelle polarità della condizione umana spesso separate e distinte, ma che devono integrarsi insieme senza annullarsi:

Si tratta in sintesi di coniugare insieme:

Occorre tenere in perpetua tensione entro una ragione integrale i poli distinti perché l'uomo è amore e non solo giustizia, sovrabbondante generosità e non solo calcolo o equivalenza, poesia e non solo prosa, festività del dono e non solo ferialità dell'utile, partecipazione e convinzione e non solo distacco critico e analisi, creatività e non solo descrizione.

4. Giobbe: pensare altrimenti... pensare meglio Dio? Conclusioni

Nella vicenda di Giobbe la Bibbia ci consegna un epilogo felice. L'uomo che aveva perso tutto, caduto nella peggiore disgrazia ha mantenuto la sua veracità, ha protestato contro Dio, ma non ha ceduto alla tentazione di voler giustificare Dio secondo visioni umane. Libero da questa presunzione, Dio ha potuto rivelarsi a lui, anche in mezzo alla sua protesta e alle sue sincere maledizioni. Giobbe non ha avuto risposte dirette alle sue domande, ma la sua prospettiva ha potuto arricchirsi e allargarsi. Il suo punto di vista si è decentrato e ha accettato i propri limiti, ha riconosciuto l'errore narcisistico di chi, senza elementi, vuole parlare di cose troppo grandi: «chi è colui che, senza aver scienza, può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo» (Gb 42, 3). E soprattutto ha accolto la fiducia incrollabile che Dio può tutto e nessun progetto è per lui impossibile (Gb 42, 2).

Alla luce di questo decentramento del proprio punto di vista e di questo abbandono fiduciale in Dio Giobbe ha avuto accesso a una nuova prospettiva, ha capito che può esserci un significato impensabile anche a realtà come la sofferenza e la morte.

Passando attraverso il male e affrontandolo con animo umile e senza nascondersi dietro false soluzioni Giobbe è maturato. Le sue ultime parole ne sono il suggello: «io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere» (Gb 42, 5-6). L'uomo integro e retto, alieno dal male e pieno di timore di Dio che c'era all'inizio in realtà conosceva Dio solo per sentito dire. L'uomo fiaccato dalla sofferenza e passato attraverso la notte della ribellione senza cedere a compromessi ha invece avuto la possibilità di «vedere Dio» e quindi di rinnovare la sua adesione fiduciale a lui Il male è questa sfida cruciale per ogni uomo, assumerla e rispondervi senza fughe è compito di ognuno, chiamato a superare la conoscenza senza discernimento, per pervenire a una visione autentica e matura di Dio in cui l'essenziale è la fiducia e l'abbandono in Lui.

Alla fine «Dio ristabilì Giobbe nello stato di prima» anzi «accrebbe del doppio quanto aveva posseduto» (Gb 42, 10), «il Signore benedisse la nuova condizione di Giobbe più della prima» (Gb 42, 12) finché, dopo aver vissuto altri centoquarant'anni e aver visto figli e nipoti per quattro generazioni, «Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni» (Gb 42, 17). Forse uscire dall'angustia di una ragione troppo ristretta e conforme agli standard dell'umana controllabilità e accedere a una ragione ampia e integrale porta con sé la conquista di una pienezza nuova e impensata che permette di «vedere Dio» e rende degni di quella ricompensa che Giobbe ricevette dalle mani di Dio.

Esplicitiamo in tre sensi la portata filosofico-teologica di questa ragione integrale.

  1. Una ragione non nichilista. In primo luogo questa ragione integrale apre lo spazio per trovare risposte creative alle sfide del male (ingiustizia, disgrazie, malattia, morte, malvagità...) che permettano di opporsi all'angoscia, al non-senso e alla tentazione nichilista di considerare assurda l'esistenza: la ragione intrisa di fiducia è chiamata a «inventare» nel senso pieno del termine (cioè a creare, ma insieme a trovare) risposte in un lavoro sapiente, equilibrato e inesauribile di ricognizione fenomenologica e di creatività ermeneutica. Sulla scorta del paradigma di Cristo (che porta a compimento Giobbe), l'accettazione generosa della sofferenza diviene dono di sé senza recriminazioni, nell'amore verso chi sopravvive e in spirito di gaieté; l'esempio edificante e la testimonianza di vita anche nell'approssimarsi della morte creano solidarietà e comunione; la sollecitudine per l'altro, l'accompagnamento degli agonizzanti, l'apertura al perdono,110 il mutuo riconoscimento,111 la lotta per la giustizia... sono i frutti maturi di questa impostazione di pensiero in cui il calcolo razionale, pur non assente, si coniuga con la creatività e la fiducia.
  2. Una ragione teologica. In secondo luogo è dentro questa ragione integrale che può ancora trovare posto una ragione teologica. Nell'apertura integrale a tutte le dimensioni del pensiero umano anche la sfida di Dio mantiene uno spazio non confinato nell'irrazionale e nel non-senso,112 dal momento che Dio non è un apparato di verità da ritenere vere, ma una vita che interpella globalmente e chiama in causa tutta la persona. In questa prospettiva l'ipotesi Dio non è esclusa a priori, sebbene non sia necessariamente assunta.113
  3. Una ragione cristologica. In terzo luogo solo questa razionalità integrale può misurarsi adeguatamente con il Dio di Gesù Cristo: si può dire che è proprio un Dio che si è fatto carne e ha assunto l'integralità della condizione umana a richiedere che si elabori l'esperienza che per grazia gli uomini fanno di lui necessariamente in una prospettiva di «ragione integrale» e non meramente calcolante.

Raccogliere la sfida del male e pensare di più fino a pensare altrimenti può forse allora tradursi in un pensare meglio, in particolare pensare meglio Dio, sì da poter dire con Giobbe: «io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto».114

Copyright © 2009 Mauro Cinquetti

Mauro Cinquetti. ««Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42, 5). Dio e il male: con (e oltre) Ricœur dalla teodicea alla «ragione integrale»». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno, Parma 20-21 marzo 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [104 KB].

Tavola delle abbreviazioni

Riportiamo la tabella delle abbreviazioni utilizzate nelle note seguenti. Le pagine sono indicate dapprima nella versione francese (se consultata) quindi, tra parentesi quadre, nella traduzione italiana.

CC
La critique et la conviction, Calmann-Lévy, Paris 1995 [La critica e la convinzione. A colloquio con François Azouvi e Marc de Launay, tr. it. e intr. di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1997]
CI
Le conflit des interprétations. Essais d'herméneutique, Seuil, Paris 1993 (1969) [Il conflitto delle interpretazioni. Saggi di ermeneutica, tr. it. di R. Balzarotti, F. Botturi, G. Colombo, intr. di A. Rigobello, Jaca Book, Milano 1999 (1977)]
FC, FC/HF, FC/SM
Philosophie de la volonté 2. Finitude et culpabilité,I. L'homme faillible, II. La symbolique du mal, Aubier, Paris 1988 (1960: prima ed. in due volumi) [Finitudine e colpa, tr. it. di M. Girardet Sbaffi, intr. di V. Melchiorre, Il Mulino, Bologna 1972 (in un solo volume)]
M
Le mal. Un défi à la philosophie et à la théologie, Labor et Fides, Genève 1996 (1986) [Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, tr. it. di I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia 1993]
MHO
Mémoire, Histoire, Oubli, Seuil, Paris 2000 [La memoria, la storia, l'oblio, tr. it. di D. Iannotta, Raffaello Cortina, Milano 2003]
MV
La métaphore vive, Seuil, Pais 1975 [La metafora viva, tr. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano 1981]
PR
Parcours de la reconnaissance, Seuil, Paris 2004 [Percorsi del riconoscimento, tr. it. di F. Polidori, Raffaello Cortina, Milano 2005]
RF
Réflexion faite. Autobiographie intellectuelle, Esprit-Seuil, Paris 1995 [Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, tr. it. e intr. di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1998]
SA
Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1996 (1990) [Sé come un altro, tr. it. e intr. di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 2002 (1993)]
TR1
Temps et récit. Tome 1. Seuil, Paris 1983 [Tempo e racconto. Vol. I, tr. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano 1986]
VI
Philosophie de la volonté 1. Le volontaire et l'involontaire, Aubier, Paris 1988 (1950) [Filosofia della volontà 1. Il volontario e l'involontario, tr. it. e intr. di M. Bonato, Marietti, Genova 1990]

Note

  1. M, 19 [7]. Testo

  2. Sulla centralità della sfida del male in Ricœur si veda la nostra tesi dottorale Pensare di più, pensare altrimenti. Paul Ricœur e la sfida del male (reperibile on-line http://hdl.handle.net/1889/840) . Testo

  3. Riportiamo a mo' di esemplificazione alcune frasi dei tre amici. Elifaz il Temanita: «Ricordalo: quale innocente è mai perito e quando mai furono distrutti gli uomini retti? Per quanto io ho visto, chi coltiva iniquità, chi semina affanni, li raccoglie» (Gb 4,7-8); «Perciò tu non sdegnare la correzione dell'Onnipotente» (Gb 5, 17); «Che cos'è l'uomo perché si ritenga puro, perché si dica giusto un nato da donna?» (Gb 15, 14); «Per tutti i giorni della vita il malvagio si tormenta» (Gb 15, 20). Bildad il Suchita: «Può forse Dio deviare il diritto o l'Onnipotente sovvertire la giustizia? [...] Dio non rigetta l'uomo integro, e non sostiene la mano dei malfattori» (Gb 8, 3.20). Zofar il Naamanita: «Egli conosce gli uomini fallaci, vede l'iniquità e l'osserva [...] se allontanerai l'iniquità che è nella tua mano e non farai abitare l'ingiustizia nelle tue tende, allora potrai alzare la faccia senza macchia» (Gb 11, 11.14); «Non sai tu che da sempre, da quando l'uomo fu posto sulla terra, il trionfo degli empi è breve e la gioia del perverso è d'un istante?» (Gb 20, 4-5). Testo

  4. FC/SM, 448 [588]. Testo

  5. FC/SM, 451 [590-591]. Testo

  6. M, 40 [29] Testo

  7. Cfr. M, 40 [29]. Testo

  8. M, 55 [45]. Testo

  9. M, 45 [35]. Testo

  10. Cfr. la sintesi di carattere storico-filosofico contenuta in M e in CI (per quest'ultimo cfr in particolare 267-309[287-329]). Testo

  11. Questa conciliazione è definita con il termine «razionalizzazione» da C. Ciancio. Cfr. C. Ciancio, Del male e di Dio, Morcelliana, Brescia 2006, 14-26. Testo

  12. Cfr. FC/SM, 487 [633]. Testo

  13. D.Jervolino, Ricœur. L'amore difficile, cit., 207, cfr. 207-209. Si vedano in particolare Ricœur in CI, 104 [119]: «La coscienza comprende così di doversi liberare da ogni avarizia nei confronti di se stessa e di quella sottile concupiscenza di sé che forse è il rapporto narcisistico della coscienza immediata della vita. Attraverso questa sconfitta la coscienza scopre che la certezza immediata di sé era soltanto presunzione». Testo

  14. CI, 451 [476]. Testo

  15. CI, 453-454 [478]. Testo

  16. CI, 454 [478]. Testo

  17. CI, 455 [479]. Testo

  18. FC/SM, 453 [593]. «La condizione storico-esistenziale del male costituisce la sfida alla quale la religione apporta la risposta del «nonostante...», del «malgrado...». Ora questo legame tra sfida e risposta non è altro che il legame della speranza, che un testo famoso dell'Opus Postumum ci dice che può essere formulato in una domanda - «Che cosa posso sperare?» - che segue le due questioni che animano la prima e la seconda critica: «Che cosa posso sapere?»; «Che cosa devo fare?»», L3, 20. Testo

  19. FC/SM, 454 [594-595]. Testo

  20. «Come nella tragedia, la teofania finale non gli ha spiegato nulla, ma ha mutato il suo sguardo», FC/SM, 455 [595]. Testo

  21. FC/SM, 455 [595]. Per questo rifiuto di ogni elemento edonistico della religione Ricœur individua un «significato religioso» dello stesso ateismo: non si può costruire la fede sulla base di categorie narcisistiche e infantili («ricompensa, consolazione, ecc.»), ma, come ha insegnato Kant, si deve riconoscere che «la connessione [...] della moralità e della felicità deve restare una sintesi trascendente, l'unione di cose differenti, specificamente distinte» (CI, 407 [430]). In tal senso Ricœur riconosce e censura l'aspetto edonistico che è intrinseco alla religione: «il dio che minaccia e il dio che protegge sono un solo e medesimo dio, e questo dio è il dio morale [...] il dio morale è l'ordinatore di un mondo che soddisfa alla legge di retribuzione» (CI, 445 [469]), ma come dimostra la letteratura sapienziale «l'autentica fede in Dio è opposta con la massima violenza a questa legge della retribuzione, per essere descritta come una fede tragica al di là di ogni assicurazione e di ogni protezione» (CI, 445 [469-470]). A tal proposito si veda Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, tr.it. di A.L. Callow e R. Carpinella Guarneri, Adelphi, Milano 1997. Si tratta di una finzione letteraria che ben esprime l'esperienza della «fede adulta» e non consolatoria. Giobbe è il modello della fede autentica e immagine di ogni uomo che abbia saputo superare la fase edonistica e narcisistica della religione: «Credo nel sole, anche quando non splende; credo nell'amore, anche quando non lo sento, credo in Dio, anche quando tace» (11). Lévinas commenta così il testo di Kolitz: «Un Dio per adulti si manifesta [...] attraverso il vuoto del cielo infantile», la sofferenza «rivela un Dio che, rinunciando a ogni manifestazione pietosa, fa appello alla piena maturità dell'uomo totalmente responsabile» poiché l'uomo è chiamato ad avere «fiducia in un Dio che non si manifesta attraverso alcuna autorità terrestre», E. Lévinas, Amare la Torah più di Dio, in Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, cit., 85-91, qui 87, 88, 89; l'originale francese del testo di Lévinas è del 1963. Testo

  22. FC/SM, 457 [598]. Testo

  23. FC/SM, 458 [599]. Testo

  24. FC/SM, 459 [600]. Ricœur contesta radicalmente l'interpretazione del sacrificio di Cristo in termini di «sostituzione vicaria». A tal proposito scrive: «Una tradizione maggioritaria, che ha una base nel Nuovo Testamento, in particolare in Paolo, ha compreso questa morte nei termini del sacrificio, della soddisfazione vicaria offerta alla collera divina. Gesù punito al posto nostro. Un'altra tradizione minoritaria, ma altrimenti più profonda, e veramente rivoluzionaria in rapporto alle religioni sacrificali, come ha eloquentemente mostrato René Girard, mette l'accento principale sul dono gratuito che Gesù fa della propria vita: «Nessuno mi toglie la vita, io ne faccio dono». Questa interpretazione non sacrificale è in accordo con uno degli insegnamenti di Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Tengo molto a liberare la teologia della croce dall'interpretazione sacrificale» (CC, 229-230 [213]). Testo

  25. CI, 346 [365]. Testo

  26. L'espressione e di D. Bonhoeffer, che è citato da Ricœur in particolare in CI, 450 [474]. Su Bonhoeffer si veda quanto scritto da Ricœur in un interessante articolo P. Ricœur, L'interprétation non religieuse du christianisme chez Bonhoeffer, «Cahiers du Centre Protestant de l'Ouest» (1966), n°7. Testo

  27. CI, 451 [475]. Testo

  28. Cfr. M. Heidegger, L'epoca dell'immagine del mondo, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, 71-101. Il testo originale è del 1938. Testo

  29. CI, 451-452 [476]. Testo

  30. CI, 452 [476]. Testo

  31. CI, 453 [477]. Testo

  32. In un'intervista del 1999 si esprime così: «Fondo la mia comprensione del mondo, degli altri e di me stesso sulla figura simbolica del servitore sofferente, cioè su un amore che non è estorto, ma offerto. Il servitore sofferente, «l'agnello di Dio», è tutto il contrario del «capro espiatorio»». Quest'ultimo è «colui che, con l'accordo di tutti, è escluso per preservare l'unità del gruppo. Nel cristianesimo, al contrario, il gruppo è fondato da una vittima che è stata esclusa dagli altri ma che, accettando di essere esclusa, ha denunciato e messo a nudo il sistema del capro espiatorio. Con il simbolismo della vittima consenziente, la croce è sottratta a un'interpretazione puramente punitiva, in termini di compenso (il sangue versato in cambio della Salvezza). Già Giobbe, con la sua sofferenza aveva infranto ciò. La straordinaria potenza di Gesù risiede in un sacrificio consentito che spezza definitivamente tutto il sistema vittimario. È ciò che sottolinea San Giovanni quando fa dire a Gesù: «La mia vita, nessuno la prende, ma sono io a darla»», Bertrand Révillon a rencontré... Paul Ricœur. «Dieu n'est pas tout-puissant», in «Panorama» (1999), n.340, 26-30. Testo

  33. Sul tema dell'immaginazione a partire da un confronto tra Ricœur, Kant e Heidegger si veda C. Cotifava, L'immaginazione trascendentale kantiana nell'antropologia dell'uomo fallibile di Paul Ricœur: il confronto con Heidegger, in M. Meletti Bertolini (ed.), Percorsi etici. Studi in memoria di Antonio Lambertino, FrancoAngeli, Milano 2007, 297-316. Testo

  34. CI, 340 [359]: «La domanda della religione - e Kant prefigura qui Hegel - si dispiega a livello di uno schematismo del desiderio della totalità. Nella sua essenza si tratta di una problematica della rappresentazione [...] concernente la schematizzazione del buon principio di un archetipo». Testo

  35. CI, 399 [421]. Testo

  36. CI, 400 [423]. Testo

  37. CI, 402 [424]. Testo

  38. CI, 481-482 [507]. Testo

  39. CC, 236 [219]. Testo

  40. P. Ricœur, Herméneutique de l'idée de révélation, in Aa.Vv., La Révélation, Bruxelles 1977. Citiamo la traduzione italiana contenuta in P. Ricœur, Testimonianza, parola e rivelazione, a cura di F. Franco, Dehoniane, Roma 1997, [122]. Testo

  41. Ibidem, [122]. Il corsivo è nostro. Già nella sua prima grande opera Le volontaire et l'involontaire (1950) Ricœur a proposito della sofferenza e del male scriveva: «La speranza che attende la liberazione è il consenso che si immerge nella prova. [...] Essa non è rinunciataria, ma si impegna. [...] La speranza vuole convertire ogni ostilità in una tensione fraterna, all'interno di una unità di creazione. Una conoscenza francescana della necessità: io sono «con» la necessità, «fra» le creature», VI, 451-452 [475-476]. Testo

  42. Ibidem, [123]. Testo

  43. Ibidem, [126]. Testo

  44. CI, 310 [329-330]: «Innanzitutto la riconciliazione è attesa nonostante il male. Questo «nonostante» costituisce una vera categoria della speranza, la categoria della smentita, anche se di ciò non c'è prova ma solamente segni, dal momento che il contesto, il luogo d'inserimento di questa categoria è una storia non una logica, una escatologia non un sistema. In secondo luogo, questo «nonostante» è un «grazie a»: con il male il Principio delle cose fa del bene. Per questo la smentita finale è nello stesso tempo pedagogia nascosta: etiam peccata, dice Sant'Agostino come esergo alla Scarpina di raso, starei per dire. «Il peggio non è sempre sicuro», replica Claudel in forma di litote: ma non c'è sapere assoluto, né del «nonostante», né del «grazie a». Terza categoria di questa storia sensata è il «molto di più» pollw=| ma=llon; e questa legge di sovrabbondanza ingloba a sua volta il «grazie a» e il «nonostante». E questo è il miracolo del Logos: da lui procede il movimento a ritroso del vero e dalla meraviglia nasce la necessità che colloca retroattivamente il male nella luce dell'essere. Così ciò che, nella vecchia teodicea, non era altro che l'espediente del falso sapere, diviene ora l'intelligenza della speranza. La necessità allora che noi cerchiamo è il più alto simbolo razionale generato da questa intelligenza della speranza». Testo

  45. CI, 368 [387]. Testo

  46. Cfr. Etica e viver bene: conversazione con Paul Ricœur, in Aa.Vv., Il male, Raffaello Cortina, Milano 2000, 4. Testo

  47. C. Ciancio, Del male e di Dio, cit., 31. Testo

  48. «Per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete [...]. Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. [...] E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come loro». (Mt 6, 25-26.28-29 citato da Ricœur in MHO, 656 [716-717]). Testo

  49. La citazione è tratta da G. Bernanos, Diario di un curato di campagna, tr.it. di A. Grande, Mondadori, Milano 1978 (Oscar Mondadori 29), 288, citato da Ricœur in SA, 36 nota [100-101 nota]. Sul termine gaieté cfr. P. Ricœur, Vivant jusqu'à la mort (Suivi des Fragments), Seuil, Paris, 2007, in particolare 75-78 e 89-91. Sull'importanza di ritenere che «la felicità non è incompatibile con la sofferenza»cfr. P. Ricœur, L'Éthique entre le mal et le pire, une échange de vue entre le philosophe Paul Ricœur et le Pr.Yves Pelicier, psychiatre, 27 septembre 1994, Paris. Il testo del colloquio è reperibile on-line sul sito del Fonds Ricœur, alla voce «textes en ligne». È disponibile la traduzione italiana: P. Ricœur, Etica e viver bene: conversazione con Paul Ricœur, in Aa.Vv., Il male, Raffaello Cortina, Milano 2000, qui in particolare [4]. Testo

  50. M, 56 [46]. Testo

  51. M, 57-58 [48]. Testo

  52. M, 21 [8]. Testo

  53. M, 58 [49]. Testo

  54. M, 59 [49]. Testo

  55. Come osserva Jervolino: «La risposta emozionale al problema del male non è una risposta statica, il sentimento si trasforma e matura. Qualcosa di simile al freudiano «lavoro del lutto». Qui il nostro autore ci delinea un itinerario che è insieme di purificazione e di crescita spirituale, nel quale il sentire si affina, camminando in compagnia del pensare e dell'agire, cioè senza rinunciare ad interrogarsi e a lottare», D. Jervolino, Ricœur. L'amore difficile, Studium, Roma 1995, 99-100. Testo

  56. M, 61 [52]. Testo

  57. M, 62 [53]. Testo

  58. M, 63 [53]. Testo

  59. M, 63 [54]. Testo

  60. P. Ricœur, Préface a D. Jervolino, Ricœur. L'amore difficile, cit.., 13. Testo

  61. M, 21 [8]. Testo

  62. Cfr. C. E. Reagan, Paul Ricœur. His Life and His Work, cit., 111-112: «non una soluzione, ma una risposta», Cfr. anche M, 20 [8] e 58 [49] Testo

  63. Ibidem, 120. Testo

  64. Il termine è in parte mutuato sempre da Ricœur che in un passo di CI parla di recuperare la ragione intiera: «Se non c'è che un Logos, il Logos del Cristo non mi domanda altro, in quanto filosofo, che una più completa e perfetta messa in opera della ragione; niente più che la ragione, ma la ragione intiera (raison entière). Ripetiamo questo termine: la ragione intiera, perché è questo problema dell'integralità del pensare che si dimostrerà essere il nodo di tutta la problematica» (CI, 394 [416-417]). Testo

  65. Il termine «positiva» indica un pensiero basato sull'imprescindibilità di elementi posti (dal latino pono, is, posui, positum, ponere che significa «porre»), cioè «dati» empirici osservabili. In un'accezione simile si possono intendere altre espressioni che definiscono i diversi modi operandi di una ragione in senso lato «scientifica»: ragione oggettivante o oggettiva o oggettuale (sottolineando l'approccio «frontale» di un pensiero che vuole affrontare i problemi come se fossero oggetti posti davanti da scomporre, analizzare, misurare, definire senza residui), ragione rappresentativa (indicando l'atteggiamento conoscitivo che intende adeguarsi all'oggetto rispecchiandolo, rappresentandolo ancora in termini «frontali»), ragione empirica (esprimendo una ragione che rimane strettamente ancorata ai dati empirici, forniti dall'esperienza esterna e quindi sottoponibili al criterio di verificazione empirica; con ragione analitica si designa la caratteristica di un pensiero che vuole scomporre in termini semplici un fenomeno o un problema ritenendo con ciò che ogni problema sia una somma di parti connesse tra loro in un processo ricostruibile oggettivamente), ragione causalistica o dimostrativa si indica una razionalità che intende sempre ricondurre i fenomeni e i problemi a un nesso di spiegazione di causa-effetto e vuole dimostrare per derivazione da leggi universali e necessarie), ragione concettuale (individuando un pensiero che procede per concetti generali, per definizioni astratte, per classificazioni che vogliono ordinare, definire, spiegare e anche prevedere la realtà nella sua totalità). Testo

  66. Si sofferma su questa «trasfigurazione religiosa dell'antiteodicea» Stefano Brogi in S. Brogi, I filosofi e il male. Storia della teodicea da Platone ad Auschwitz, FrancoAngeli, Milano 2006, 213-227. Secondo Brogi «la trasfigurazione religiosa dell'antiteodicea si collega [...] alla crisi della ragione totalizzante, autoconclusiva ed «evidenzialistica», ed alla denuncia dei limiti dell'ontoteologia» in vista di nuove forme di razionalità, le quali «fanno della contestazione del razionalismo «euclideo», in favore di un pensiero di «altri mondi», uno dei propri motivi fondamentali» (213). Testo

  67. I. Kant, Sull'insuccesso di ogni saggio filosofico di teodicea (1791), in I. Kant, Scritti di filosofia della religione, Mursia, Milano 1994, 53. Testo

  68. Ibidem, 58. Testo

  69. Ibidem, 59. Testo

  70. Questa dichiarazione di fallimento della teodicea tuttavia non significa per Kant che Dio non possa essere saggio: «sebbene questi dubbi e obiezioni» la capacità di «una ragione limitata come la nostra» impone di ammettere che neanche possiamo «dimostrare il contrario». Per questo anzi Kant riconosce la possibilità di una «teodicea autentica», purché si tratti di una giustificazione di Dio che non si affidi alla ragione umana e alle sue argomentazioni, ma all'interpretazione che Dio stesso dà della sua volontà. Si tratta, da un lato, di riconoscere che il Creatore è buono, santo e giusto perché così ci è rivelato dalla nostra «ragion pratica sovrana», «espressione immediata e voce di Dio». Testo

  71. Ibidem, 62. Testo

  72. «Se le sofferenze dei bambini fossero destinate a completar quella somma di sofferenza, che era il prezzo necessario per l'acquisto della verità, in tal caso io dichiaro fin d'ora che tutta la verità non vale un tal prezzo. [...] Non voglio l'armonia: per amore stesso dell'umanità, non la voglio. Voglio che si rimanga, piuttosto, con le sofferenze invendicate. Preferisco, io, di rimanere nel mio stato d'invendicata sofferenza e d'implacato scontento, dovessi pure non essere nel giusto. Troppo caro, in conclusione, hanno valutato l'armonia: non è davvero per le tasche nostre, pagar tanto d'ingresso. Quindi, il mio biglietto d'ingresso, io m'affretto a restituirlo. E se appena appena sono un uomo onesto, ho l'obbligo di restituirlo il più presto possibile. E così faccio appunto. Non è che non accetti Dio, Alëša: ma semplicemente Gli restituisco, con la massima deferenza, il mio biglietto», F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino 1993, 328 (parte II, libro 5). Testo

  73. S. Brogi, I filosofi e il male, cit., 216. Testo

  74. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., 329. Testo

  75. S. Brogi, I filosofi e il male, cit., 217. Testo

  76. Ibidem, 218. Testo

  77. Ibidem. Testo

  78. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., 326. Testo

  79. Ibidem, 314. Testo

  80. Sulla linea di Pareyson si colloca anche Claudio Ciancio (Cfr. C. Ciancio, Del male e di Dio, cit.) . Non ci soffermiamo eccessivamente sulla prospettiva di Pareyson e Ciancio che, nonostante alcune forti somiglianze, non collima con la posizione di Ricœur che qui cerchiamo di sviluppare. Basti dire che i due filosofi torinesi centrano il loro pensiero riguardo al male sulla «visione etica» elevandola a livello cosmico e ritenendo essenzialmente che «il male è ciò che è, ma non doveva essere» (ibidem, 39) cioè solo il male come colpa («magari persino di Dio») è inspiegabile, inaccettabile, ingiustificabile «in quanto è, ma poteva non essere e non doveva essere» (39). Questo a nostro avviso fa ricadere la posizione in una sostanziale logica dell'equivalenza, che non allarga il pensiero, ma lo lascia imbrigliato in una dinamica umana di retribuzione, in un'«algebra» che è ancora di una ragione calcolante (cfr. 72). In questa dinamica Dio, assumendo liberamente su di sé la sofferenza (e perfino la colpa secondo 2Cor 5,21), trasformerebbe il male in bene secondo la categoria di «espiazione». Resta inoltre problematico, come ha bene sottolineato Giacomo Canobbio in diversi scritti, il modo in cui Dio assumendo la sofferenza su di sé possa con ciò stesso liberare l'uomo dal peso del male: «che via di uscita si può sperare dal male se questo è - anche nella forma della colpa - fatto proprio da Dio stesso? Provocatoriamente si potrebbe domandare: chi libererà Dio dal male?». Cfr. la scheda di lettura di Canobbio sul testo di Ciancio contenuta in «Filosofia e Teologia» 22 (2008), n.2, 414-416 e il volume della rivista «Humanitas» 63 (2008), n.5, intitolato Dio e il male . A partire dai saggi di G. Canobbio e C. Ciancio. Ciò che invece ci sembra positivo del «cristianesimo tragico» di Pareyson (e Ciancio) è invece la prospettiva di una filosofia meno logico-dimostrativa e più radicata nell'esistenza e nelle sue convinzioni (cfr. C. Ciancio, Del male e di Dio, cit., 110-113). Testo

  81. L. Pareyson, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995, 151. Testo

  82. Cfr. Ibidem, 382-383, 415-418. Testo

  83. Ibidem, 385. Testo

  84. Ibidem, 390. Effettuare questo passaggio è allargare la ragione, farla uscire estaticamente dalla chiusura nelle sue categorie intellettuali, dalla concettualità, per aprirla all'esistenza: «è l'esistenza che, per il suo carattere inconcettuale, può essere colta e affermata solo estaticamente» (389-390), il che non significa nulla di mistico: «l'estasi della ragione proposta da Schelling non implica una professione di misticismo in quanto non è presentata come un'esperienza ineffabile e indescrivibile, compiuta da una facoltà eccezionale e straordinaria, ma un atto descrivibilissimo dalla ragione» poiché «si tratta pur sempre d'un'estasi della ragione, ed è pur sempre la ragione che si fa estatica» cioè «la ragione si rende conto che malgrado ogni suo sforzo non riesce di per sé a raggiungere la realtà, perché i suoi movimenti sono puramente concettuali», «è dunque la ragione stessa che, colpita dalla vanità dei propri sforzi e dall'inesorabilità del proprio smacco e ormai accertatasi che l'esistenza è realmente tale solo fuori del pensiero, appunto per trovarla varca la propria frontiera ed esce da se stessa». Testo

  85. Ibidem, 392. Testo

  86. Ibidem, 393. Testo

  87. Ibidem, 403. Testo

  88. Ibidem, 407. Testo

  89. Ibidem, 425. Testo

  90. Ibidem, 86. Testo

  91. Pareyson sottolinea ancora il necessario superamento del pensiero oggettivante e concettuale: «Questo ricorso al mito non implica affatto una rinuncia alla filosofia, perché nel e sul mito è appunto la riflessione filosofica che deve intervenire. Naturalmente tale riflessione deve abbandonare il carattere oggettivante della concettualizzazione razionalistica e la presunta capacità di estendere la conoscenza mediante la pura dimostrazione, e assumere invece un carattere ermeneutico, inteso a interpretare un sapere preesistente col proposito di chiarirne gli intimi significati e universalizzarli offrendoli a una larga partecipazione umana», Ibidem, 158-159. Testo

  92. Cfr. C. Ciancio, Del male e di Dio, cit., 112. Testo

  93. Dello stesso Kant c'è chi ha dato una lettura in questa direzione. Peter Kemp ha sottolineato come Kant si era scagliato contro il dogmatismo della metafisica accusandolo di arroganza (Anmassung) in quanto «speculazione che presuntuosamente vuole concepire ogni cosa come fisica e così rappresentarsi la libertà umana, Dio e l'essenza stessa dell'uomo come degli oggetti fisici». Attraverso l'articolazione della ragione, l'unica ragione, in tre funzioni diverse (teoretica, pratica e del giudizio riflettente) egli ha voluto allargare la ragione e mostrarla in tutta la sua unitaria complessità. Cfr. P. Kemp, Le penseur du religieux par excellence, «Rue Descartes» (2006), 119. Testo

  94. Cfr. VI. Testo

  95. Cfr. MV. Testo

  96. Cfr. In particolare TR1 e SA. Testo

  97. Cfr. In particolare PR. Testo

  98. R. Guardini, L'opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente (1925), Morcelliana, Brescia 1997, 15. Testo

  99. «La pura energia concettuale risolverebbe il concreto nell'astratto. La pura intuizione lo farebbe dileguare nell'inafferrabile. Bisognerebbe unire l'uno e l'altra», Ibidem, 168. Testo

  100. Cfr. M. Hénaff, Le prix de la verité. Le don, l'argent, la philosophie, Seuil, Paris 2002 [tr.it. di R. Cincotta e M. Baccianini revisione di A. Olivieri, Il prezzo della verità. Il dono, il denaro, la filosofia, Città Aperta, Troina (En) 2006]. Testo

  101. Cfr. J.L. Marion, Le phénomène saturé, in J.F. Courtine (ed.), Phénoménologie et Théologie, Critérion, Paris 1992. Si veda anche in termini molto più estesi e sviluppati J.L. Marion, Étant donné. Essai d'une phénomenologie de la donation, Puf, Paris 1997 e 19982. Testo

  102. L'affermazione di Habermas è tratta da un'intervista apparsa su un quotidiano italiano («Solo la religione può salvarci dalle cadute della modernità». Intervista a Jürgen Habermas, di Vanna Vannuccini, «la Repubblica», 15 gennaio 2005 , pag.50). In un confronto con lo stesso Ratzinger Habermas in termini analoghi e chiari afferma che «alle convinzioni religiose» deve essere «riconosciuto dal punto di vista del sapere laico, uno status epistemico, che non è semplicemente irrazionale» per cui anche politicamente «visioni del mondo naturalistiche, debitrici di una rielaborazione speculativa di informazioni scientifiche e rilevanti per l'autocomprensione etica dei cittadini, non godono prima facie di alcuna priorità rispetto a concezioni, di natura religiosa o cosmologica, concorrenti», (J. Habermas - J. Ratzinger , Ragione e fede in dialogo, a cura di G. Bosetti, Marsilio, Venezia 2005, 62). Testo

  103. J. Habermas - J. Ratzinger , Ragione e fede in dialogo, cit., 51 e 53 Testo

  104. Benedetto XVI, Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni, Incontro con i rappresentanti della scienza, Aula Magna dell'Università di Regensburg, 12 settembre 2006. Le successive citazioni sono tratte da questo intervento. Testo

  105. J. Greisch, Paul Ricœur. L'itinérance du sens, Jérôme Million, Grenoble 2001, 410. Testo

  106. «Trovo sconvolgente il fatto che in quel momento, quando l'umanità stava appena uscendo dall'abisso del male e della sofferenza in cui era precipitata, e ancora in seguito per alcuni decenni, abbiano avuto grande successo e rilevante diffusione filosofie impegnate in problemi tecnici di estrema astrattezza e sottigliezza, come il positivismo logico e la filosofia analitica, forme di pensiero insensibili alla problematica del male, e in generale poco interessate ai problemi dell'uomo e del suo destino. Non nego che i problemi di cui s'occupano queste correnti siano importanti per la necessaria criticità della filosofia; ma bisogna riconoscere che il successo di tali filosofie appare tanto più sconcertante quanto più selettiva ha preteso d'essere la loro frequentazione e quanto più esclusivo è apparso il loro atteggiamento verso altre filosofie più inclini ai problemi dell'esistenza umana. Dopo quelle tragiche esperienze è auspicabile che la filosofia sappia recuperare la sua pensosità partecipe e avvolgente, e abbandonare non solo la presunzione razionalistica che vuole spiegare tutto, ma anche l'abdicazione rinunciataria di queste filosofie di pura evasione» (L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., 156). Testo

  107. Cfr. C. Ciancio, Del male e di Dio, cit., 32-33, quando parla della rimozione del male nel nichilismo contemporaneo e della riduzione del male nel neo-illumismo. Testo

  108. MV, 395 [413]. Testo

  109. La presa di distanza dal concetto di «problema» ha in Ricœur una matrice proveniente dal suo maestro Gabriel Marcel il quale aveva distinto problema e mistero: egli parla di «conversione dal «problema» al «mistero»» (VI, 18 [18]). Seguendo Marcel, Ricœur parla esplicitamente della necessità di attuare una «conversione costante che conduce dal pensiero che pone davanti a sé delle nozioni a un pensiero che partecipa dell'esistenza» (VI, 19 [19-20]), da una ragione dunque oggettivante e frontale a una ragione globale, esistenziale. Al termine mistero, che evoca il silenzio e la rinuncia al pensiero, Ricœur preferisce il termine «sfida». Testo

  110. Sulla possibilità, per quanto difficile, del perdono segnaliamo in particolare di Ricœur l'epilogo di MHO, 593 ss [649ss]. Testo

  111. Sul mutuo riconoscimento rinviamo sempre a Ricœur, in particolare all'ultimo suo lavoro PR. Testo

  112. Si pensi a quanto afferma Paolo Flores d'Arcais che sostiene che il male ingiustificabile resti il problema cruciale che rende vana la fede in un Dio giusto e buono Cfr. Dio esiste? apparso in «MicroMega» (2000), n.2, ripreso con il titolo Ateismo e verità nel volume P. Flores d'Arcais - J. Ratzinger, Dio esiste?, supplemento al n.2/2005 di «MicroMega» (Il fondaco di Micromega), in particolare alle pagine 87-92. Più recentemente Flores è ritornato su questo punto in A. Scola - P. Flores d'Arcais, Dio? Ateismo della ragione e ragioni della fede, Marsilio, Venezia 2008, 26. Testo

  113. In questo senso va intesa, a nostro avviso, l'esigenza di pensare «veluti Deus daretur» (oppure «etsi Deus daretur»), come avanzato da Ratzinger ancora cardinale (l'espressione è stata usata dapprima in un incontro pubblico presso l'aula magna della Pontificia Università Lateranense il 13 dicembre 2004 per la presentazione di un libro di Marcello Pera, poi ripresa in un discorso tenuto a Subiaco il 1 aprile 2005, pubblicato nel volume J. Ratzinger, L'Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Cantagalli, Siena 2005, 63). Ricorrendo di nuovo a Ricœur ci sembra molto significativo un testo già citato, che qui riprendiamo: «Se non c'è che un Logos, il Logos del Cristo non mi domanda altro, in quanto filosofo, che una più completa e perfetta messa in opera della ragione; niente più che la ragione, ma la ragione intiera. Ripetiamo questo termine: la ragione intiera, perché è questo problema dell'integralità del pensare che si dimostrerà essere il nodo di tutta la problematica» (CI, 394 [416-417]). Testo

  114. Riportiamo qui il testo di Gb 42,5 secondo la nuova traduzione Cei (2008). Testo

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