di Claudio Cerroni (Roma, 26-28 maggio 2011)
I problemi trinitari si legano nel XII secolo alla vexata questio medievale riguardante la disputa sugli universali. Prima di Roscellino (nato a Compiègne nel 1050, morto intorno al 1120) è impossibile trovare qualcuno che si discosti dalla concezione agostiniana, con la quale si ammetteva la realtà delle essenze universali nell'intelletto divino; il teologo di Compiègne nega invece in modo radicale l'esistenza degli universali, riducendoli a semplici parole prive di oggetto, in pratica un'emissione di fiato (flatus vocis) .1 Con Roscellino si inizia a denotare una profonda sfiducia nei confronti delle capacità ordinatrici dell'intelligenza (che stabiliscono le norme per la definizione del significato); queste ultime risultano quindi essere il prodotto di un accordo convenzionale tra intelligenze create. Lo iato tra ordo rerum e ordo verborum diviene insanabile, le parole umane sono impossibilitate nella definizione dell'essenza divina. L'identità fondamentale tra vox, res e intellectus viene negata e l'unica certezza per l'uomo rimane nel particolare.
Anche se non è stata individuata una motivazione chiara che spieghi l'accendersi della polemica riguardo agli universali, possiamo tuttavia dire che due furono le caratteristiche principali che l'accompagnarono:
È proprio questo secondo punto che ci interessa di più, perché mette in luce come i problemi di logica, dovendo definire le modalità conoscitive, entrassero nel vivo della fede riconsiderando i dogmi fondamentali del cristianesimo.
Il dogma trinitario era stato definito dal Credo niceno-costantinopolitano (381) per debellare definitivamente l'arianesimo e l'eresia binitaria di Macedonio di Costantinopoli. Ora il problema principale era spiegare (qualora fosse possibile) come tre persone possano sussistere in un'unica sostanza o meglio essenza. La risposta accettata dall'ortodossia cattolica era quella data da sant'Agostino nel De Trinitate:
Dunque in Dio nulla ha significato accidentale, e tuttavia non tutto ciò che di lui si predica si predica secondo la sostanza. Nelle cose create e mutevoli, ciò che non si predica in senso sostanziale, non può venir predicato che in senso accidentale. In esse è accidente tutto ciò che può scomparire o diminuire: le dimensioni, le qualità e le relazioni, come le amicizie, parentele, servitù, somiglianze, uguaglianze e le altre cose di questo genere; la posizione, il modo di essere, lo spazio e il tempo, l'azione e la passione. Ma in Dio nulla si predica in senso accidentale, perché in Lui nulla vi è di mutevole; e tuttavia non tutto ciò che si predica, si predica in senso sostanziale. Infatti si parla a volte di Dio secondo la relazione; così il Padre si dice relazione al Figlio e il Figlio al Padre, e questa relazione non è accidentale perché l'uno è sempre Padre, l'altro sempre Figlio. 2
Ma anche Agostino avanza delle perplessità:
Tuttavia se si chiede che cosa sono questi Tre, dobbiamo riconoscere l'insufficienza estrema dell'umano linguaggio. Certo si risponde: «tre persone», ma più per non restare senza dir nulla che per esprimere quella realtà.3
Il ruolo del linguaggio è spiegato da Agostino nel De Magistro, il suo fondamento ontologico è in Dio stesso:
Ma un'altra volta, se Dio lo concede, esamineremo l'utilità della parola in generale. A ben considerarla, non è trascurabile. Ho già premesso di non concederle al momento più del necessario. Non dobbiamo infatti soltanto aver fede, ma cominciare anche ad avere intelligenza della verità di ciò che per divino magistero è stato scritto, che cioè non dobbiamo considerare nessuno come nostro maestro sulla terra poiché l'unico maestro di tutti è in cielo.4
L'uomo parlando crede di comunicare, ma in realtà nulla di nuovo passa da un individuo all'altro ed il linguaggio serve a risvegliare la propria coscienza illuminata dalla grazia divina. Tuttavia questo ruolo di sollecitazione alla ricezione della grazia rende il linguaggio fondamentale per la vita dell'uomo, chi parla e chi scrive deve stare attento a quello che dice per non condurre l'uditore in errore; per questo Agostino nel De Ordine spiegherà che solo dopo un lungo percorso di studi (Quadrivio e Trivio) l'uomo può discutere delle cose divine, ed ammonirà i suoi interlocutori -- compresa la madre, alla quale tuttavia riconosceva una fede sincera e in grado di meritare la salvezza -- per il loro modo imprudente di parlare:
A questo punto osservai che tutti, con molto ardore e secondo le proprie capacità, si proponevano problemi su Dio, ma senza rispettare l'ordine di cui stavamo trattando. Eppure soltanto mediante esso si giunge alla conoscenza di quella ineffabile maestà. "Vi prego, dissi, di non essere confusionari e disordinati se, come osservo, amate molto l'ordine. L'ineffabile ragione delle cose promette di farci comprendere che nulla avviene fuori della legge razionale. Se ascoltassimo un insegnante elementare che tenta d'insegnare le sillabe a un fanciullo a cui nessuno ha insegnato le lettere, penseremmo che non solo si deve schernire come stolto, ma anche legare perché matto furioso. E l'unico motivo, come penso, sarebbe che non rispetta la norma dell'insegnamento. Ma gli ignoranti fanno delle cose biasimate e schernite dai dotti; gli imbecilli poi ne fanno di tali che non possono sfuggire neanche alla condanna degli ignoranti. In proposito non c'è dubbio. Tuttavia anche tali fatti, che riconosciamo come irrazionali, non sono fuori della ragione sufficiente. Un'altissima disciplina promette di far comprendere tale verità agli spiriti coscienti di sé e che amano soltanto Dio e lo spirito, e in maniera che le addizioni numerali non potrebbero essere più certe. La massa non ne ha neppure un vago indizio.5
Così esprime il difficile rapporto tra ordo verborum e ordo rerum: «Quando si tratta di Dio il pensiero è più vero della parola e la realtà più vera del pensiero».6 Quindi il linguaggio (vox) occupa il gradino più lontano sulla scala discendente della Verità:
Sebbene le umane parole non esprimano con dovizia quello che il pensiero comprende e il pensiero non riesca a raggiungere la perfezione dell'essenza divina, tuttavia viene mantenuto uno stretto legame tra il linguaggio, il pensiero e Dio (realtà), perché anche se l'uomo non riesce a vedere chiaramente, può percepire per speculum in aenigmate,7 come scriveva l'Apostolo e come Sant'Agostino non si stancherà di ricordare. Se tuttavia l'uomo carnale non riuscirà a comprendere il mistero della Trinità, dovrà credere in essa fino a quando brilli nel suo cuore Colui che ha detto per bocca del Profeta: se non credete, non comprenderete.
Roscellino, per primo, si discosta da questa visione agostiniana mettendo in crisi il rapporto preesistente (complesso ma non ambiguo) tra verba e res. Individua nel linguaggio il campo proprio dell'analisi teologica, che ha come obbiettivo la conoscenza della verità, la quale non può contraddire le parole scritte sui testi sacri e analizzate alla luce della logica grammaticale. Al di là delle testimonianze dei suoi avversari, l'unica testimonianza diretta della concezione trinitaria di Roscellino la ritroviamo in una sua lettera scritta ad Abelardo (che in passato era stato suo discepolo), scritta per discolparsi dalle accuse che il Maestro Palatino gli rivolgeva, ormai sempre più indifferente ad ogni legame di affetto o rispetto che li aveva precedentemente legati. In questa lettera l'autore appare difficilmente difendibile di fronte ad un'accusa di triteismo; infatti ricordando Sant'Atanasio (il difensore del dogma trinitario contro l'arianesimo) egli dice:
l'uguaglianza è sempre fra una pluralità di cose, dal momento che nulla è uguale a se stesso, come dice il beato Ambrogio: «Nessuno è uguale solamente a se stesso». Nel momento in cui [Atanasio] pone uguaglianza e coeternità nella sostanza della santa trinità, vi pone anche la separazione della pluralità. Tuttavia, per mezzo della coeternità elimina relazioni di priorità e posteriorità, e per mezzo dell'uguaglianza elimina le gradazioni di minore e maggiore. D'altra parte, che definisca la sostanza «una sola», non in quanto singolare, ma per somiglianza e uguaglianza, è reso evidente quando dice: «una sola divinità, un'uguale gloria, una maestà coeterna».
E dopo qualche riga chiosa:
Si dimostra così che, quando considerò la separazione della sostanza, non fece riferimento a ogni tipo di separazione, ma solamente a quella ariana, a quella cioè basata sulla distinzione dei gradi.8
In un modo alquanto bizzarro, basato su una forzatura logica delle parole di Sant'Atanasio, l'abile dialettico legittima la sua spiegazione trinitaria, dove appaiono tre sostanze ben distinte e separate ed in cui l'unità è garantita solamente dall'uguaglianza e dalla coeternità di queste tre parti. Roscellino rimane fedele alla sua impostazione logica: è la nascita del nominalismo, secondo il quale è solo il particolare ad esistere, essendo l'universale un semplice concetto privo di oggetto (flatus vocis). Roscellino non può percepire l'essere se non secondo l'unico modo che gli è concesso, ossia nel singolare, l'unità della sostanza divina viene frantumata, al dogma accettato per fede subentra una lucida spiegazione delle relazioni intratrinitarie, la distanza dall'ortodossia cattolica è troppo grande per non essere notata ed accusata, ed è in questo momento che subentra l'opera di Sant'Anselmo.
Nato ad Aosta nel 1033, morto agli inizi del XII secolo, nel 1109, arcivescovo di Canterbury, Anselmo è senza dubbio una delle figure più eminenti del medioevo. È uomo e teologo tradizionale, che pone alla base di ogni conoscenza degna di questo nome una fede inossidabile, come si evince dalle sue due opere più note: il Monologion e il Proslogion, scritti seguendo la concezione filosofica di stampo agostiniano del credo ut intelligam. Questi accusa i dialettici di porre al posto della fede le arguzie della mente, ma allo stesso tempo sottolinea l'importanza della ricerca razionale circa il dato di fede, scagliandosi contro gli irriducibili avversari della dialettica. La ragione ha un suo uso legittimo del quale non si può abusare, ma che non può essere eluso. Così Gilson parafrasa con precisione il pensiero di Anselmo:
L'ordine da osservare nella ricerca della verità è quindi il seguente: in primo luogo credere nei misteri della fede prima di discuterli con la ragione, poi sforzarsi di comprendere ciò in cui si crede. È presunzione non mettere per prima la fede, come fanno i dialettici, è negligenza non fare successivamente appello alla ragione, come ci vietano i loro avversari.9
Questo fine teologo tradizionale è anche il padre di un'innovazione che feconderà i secoli a venire, è infatti con Anselmo che si può considerare nascere il metodo scolastico. Argomentando da puro dialettico, egli non tenta di rendere i dogmi e i misteri della fede intelligibili all'uomo, ma ne mostra la loro necessaria esistenza basata su quelle che definisce «le ragioni necessarie»; celebre è in questo contesto la sua dimostrazione dell'esistenza di Dio fatta nel Proslogion. Se Dio è uno, sembra dire fra sé Anselmo, una ed inconfutabile deve essere la dimostrazione della sua esistenza, unico l'argomento che la sostiene. Durante una misteriosa veglia notturna, l'argomento gli si presenta improvvisamente, come un'illuminazione ed egli lo scrive:
Dunque, Signore, tu che dai l'intelligenza alla fede, concedimi di comprendere, per quanto sai che mi possa giovare, che tu esisti come crediamo e che tu sei quello che crediamo. E davvero noi crediamo che tu sia qualcosa di cui non si possa pensare nulla di più grande (aliquid quo nihil maius cogitari possit).
Ecco quello che Kant definì «argomento ontologico». Il problema è ora di sapere se questo aliquid esista. Quando noi diciamo: «qualcosa di cui non si possa pensare nulla di più grande» tutti capiscono ciò che diciamo anche se non credono in Dio, tutti riescono a rappresentarsi, con la propria intelligenza, nella mente questa grandezza e pienezza d'Essere incommensurabile. Ma ciò di cui non è possibile concepire nulla di più grande non può esistere solo nell'intelletto, perché l'esistere nella realtà è ancor più grande dell'esistere nell'intelletto. Quindi, se possiamo pensare Dio e la sua infinita grandezza, siamo costretti ad ammettere la sua esistenza nella realtà. Questa dimostrazione dell'esistenza di Dio sigilla il trionfo della pura dialettica che opera su una definizione, attraverso una geniale ricerca dei termini, delle parole, delle definizioni, secondo lo studio del trivium (dialettica, retorica e grammatica). È chiaro che l'unica via di conoscenza verso Dio è aperta per Anselmo solo se si crede alla sua autorivelazione, cominciata nella creazione, proseguita nella rivelazione biblica e che ha il suo culmine nel Cristo. Ogni sforzo umano per conoscere Dio come si conoscono le realtà empiriche risulta vano. Ma anche la conoscenza razionale, come egli la propone, è pur sempre un avvicinamento alla verità, senza però il pieno possesso di essa. Questa conoscenza non è staccata dalla ragione, non si chiude in un avventato spiritualismo, come purtroppo oggi è di moda, ma non presume neanche di conoscere la verità a partire da se stessi. Anselmo chiede con insistenza ed umiltà:
Ti prego, Dio, fa' che io ti conosca e ti ami, per gioire di te. E se in questa vita non lo posso pienamente, che almeno io progredisca ogni giorno, per giungere poi alla pienezza. Qui progredisca in me la tua conoscenza, e là diventi piena, qui cresca il tuo amore, e là sia pieno: affinché la mia gioia qui sia grande nella speranza e là sia piena nella realtà.
La creazione divina ha fatto dell'uomo la creatura in cui si ritrova maggiormente l'immagine di Dio. Quindi Anselmo non si discosta da Agostino considerando che l'uomo scopre in se stesso il riflesso della Trinità. La memoria, l'intelligenza e l'amore presenti nell'anima umana sono le vestigia della Trinità divina. I rapporti intratrinitari sono stati descritti da Agostino nell'ampiezza delle possibilità umane e questo sembra bastare ad Anselmo. Non può accettare le innovazioni apportate in tale ambito da Roscellino, quindi scredita il suo nominalismo (causa delle innovazioni) ed arriva a fare del realismo una condizione necessaria all'ortodossia cattolica:
Per poter accedere nel modo più sicuro alle questioni poste dalla sacra pagina, si deve ricordare a tutti in modo deciso che vanno assolutamente tenuti lontani dalla discussione delle questioni spirituali quei dialettici nostri contemporanei, o meglio eretici della dialettica, che ritengono le sostanze universali essere solamente emissione di voce, e che non riescono a comprendere che il colore è altro dal corpo e la sapienza dell'uomo altro dall'anima. In realtà, nelle loro anime la ragione, che deve essere principe e giudice di tutte le cose che sono nell'uomo, è così avviluppata nelle immaginazioni corporee, da non potersene sciogliere, e da non riuscire a distinguere dalle altre le cose che essa, sola e pura, deve contemplare. Se infatti qualcuno non riesce nemmeno a comprendere che i molti uomini sono, per quanto riguarda la specie, un unico uomo, come potrà mai comprendere che, in quella segretissima e profondissima natura, siano un solo Dio più persone, ognuna delle quali presa singolarmente è a sua volta Dio in modo perfetto? E colui la cui mente neppure riesce a discernere un cavallo e il suo colore, come potrà mai discernere l'unico Dio e le sue molteplici relazioni? Infine chi non sa comprendere che l'uomo è qualcosa oltre il semplice individuo, in nessun modo comprenderà che l'uomo non è solo la persona umana. Infatti ogni uomo individuale è persona. In che modo dunque costui comprenderà che nel verbo fu assunto l'uomo e non la persona, cioè un'altra natura ma non un'altra persona?10
È opinione alquanto diffusa (accettata anche da Massimo Parodi e Marco Rossini autori di questa traduzione) che nel passo sopra riportato Anselmo faccia confusione ed incorra negli stessi errori che attribuisce ai suoi avversari; secondo questi studiosi Anselmo, in modo forse implicito, sembra paragonare il rapporto che sussiste tra gli individui (gli uomini) e la specie (umanità) a quello che c'è tra le persone divine e Dio (questo è uno dei capi d'accusa in cui incorrerà Abelardo), Dio sembra diventare una sorta di specie al quale sono rapportate le individualità delle persone trinitarie. Secondo questi studiosi viene minato anche il concetto agostiniano di «relazione» quando Anselmo sostiene che chi non è in grado di comprendere la distinzione tra il cavallo e il suo colore (accidentale) non può comprendere la distinzione tra Dio e le sue molteplici relazioni; facendo questo paragone Anselmo sosterrebbe il valore accidentale di tali relazioni intratrinitarie. Infine, essi criticano anche l'ultimo punto, perché credono che solo con la distinzione fra persona umana e persona individuale Anselmo riesca a far comprendere come sia possibile sostenere che Cristo assume la natura umana e tuttavia rimane persona divina.
Queste accuse sono da respingere in blocco: troppo banali per essere vere, si basano su un pregiudizio che vede in Anselmo il seguace di Agostino in un tempo in cui sono cambiate le esigenze e il linguaggio: per seguire Agostino usando un linguaggio aristotelico e rispondendo a domande che prima non erano presenti, il povero Anselmo cadrebbe nelle contraddizioni sopra elencate. Questa accusa è inaccettabile, Anselmo è padrone dei propri mezzi, e il brano sopra elencato mi sembra abbastanza chiaro: il realismo diviene sì condizione necessaria per l'ortodossia cattolica, ma non perché fornisce gli strumenti per la comprensione di Dio, bensì perché se non si riesce a comprendere ciò che è più semplice come il mondo manifestato e la distinzione tra individuo e specie, mai si potrà penetrare il mistero divino che è al di là di queste conoscenze. Le conoscenze umane, logiche, che fanno appello alla sola ragione trovano il loro fondamento nel realismo, una volta che queste conoscenze sono sicure si può passare ad indagare i misteri ineffabili di Dio. Non si può pretendere di comprendere che le tre persone trinitarie sono distinte eppure unite misteriosamente nell'essenza divina che non è diversa dall'essenza delle singole persone prese separatamente, se non si riesce a capire una cosa che Anselmo ritiene tanto banale come la differenza tra gli individui e la specie dell'umanità. Anselmo avanza una dura critica a Roscellino, priva di ogni fraintendimento o confusione; sono i moderni che spesso viziano i testi vedendovi solo quello che stanno ricercando, entusiasti per l'avverarsi delle loro previsioni.
Il brano riportato ricorda in realtà molto da vicino il passo del De Ordine di Agostino, che abbiamo già riportato, dove il santo mette in guardia i suoi discepoli dal parlare in modo improprio di Dio senza aver raggiunto la perfezione nello studio delle arti del trivio e del quadrivio (allo stesso modo Anselmo ammonisce chi parla di Dio senza esser in grado di fare un giusto utilizzo della logica, che è parte del trivio), così Agostino sospende la lezione della giornata con l'intenzione di riprendere l'argomento dal principio e dice che non è possibile imparare a leggere se prima non si conoscono le lettere dell'alfabeto. In pratica, la conoscenza avanza per gradi (che sono correlati tra loro, ma non confusi) e questo è quello che vuol dire Anselmo; anche secondo il parere di Gilson, Anselmo presenterebbe una scala di conoscenza che partendo dalla visione realista si avvicina sempre di più a Dio:
Questa realtà attribuita alle idee generali è d'altra parte uno degli elementi che hanno orientato il pensiero di sant'Anselmo verso la scoperta dell'argomento ontologico e che gli hanno permesso di argomentare direttamente sui gradi di perfezione per elevarsi a Dio.11
Gilson, non contento di mostrare la lucidità e correttezza del pensiero anselmiano, arriva a dire:
Tecnicamente parlando, la teologia di Anselmo era in anticipo sulla teologia di andamento ancora del tutto patristico che Abelardo stava per proporre.12
Questa osservazione potrebbe sembrare a prima vista bizzarra, ma in realtà si nota il continuo richiamo abelardiano alla tradizione patristica (a volte pre-nicena) in molti passi della sua opera, forse a causa delle molte accuse ricevute. Tuttavia Abelardo è ben attento a fondare tutte le sue intuizioni sulla conoscenza dei padri della Chiesa, al contrario di Anselmo che dà in modo del tutto dialettico una dimostrazione dell'esistenza di Dio.
Accettato che la disputa sugli universali è iniziata tra la fine dell'XI e l'inizio del XII secolo, quando Roscellino pensò di trattare Categorie ed Isagoge come opere dedicate prevalentemente a questioni metalinguistiche riguardanti lo studio delle voces; ciò che rimane da chiarire è se vi fossero delle posizioni principali rispetto alle quali i vari teologi potessero schierarsi. Sembra che queste posizioni fossero alquanto fluttuanti, e forse ogni grande teologo aveva una propria soluzione delle problematiche sollevate dalla disputa. Tuttavia la classica divisione tra nominales e reales non è arbitraria, anche se sicuramente è postuma. Probabilmente i contemporanei di Roscellino definivano il gruppo dei suoi seguaci come vocales distinguendolo dal gruppo dei nominales seguaci di Abelardo, e chiamati in questo modo non in riferimento all'interpretazione degli universali ma poiché sostenevano che dietro la diversità dei generi grammaticali, maschile (albus), femminile (alba), e neutro (album) i nomi restassero identici.
Dato che l'identificazione dei nominales con i nominalistae (termine che comparve solo nel XV secolo) è problematica, aspettando che gli storici prendano una posizione univoca adotteremo la seguente classificazione (forse riduttiva ma speriamo chiarificatrice):
1. Nominalismo: in questo gruppo includeremo le posizioni di Roscellino e di tutti quelli che come lui pensano che i termini universali sono solo un flatus vocis e che la realtà risiede nel singolare.
2. Realismo: in questo gruppo (notevolmente più numeroso) includeremo Anselmo d'Aosta e tutti i suoi seguaci (come Guglielmo di Champeaux maestro e contemporaneo di Abelardo) che considerano gli universali come res.
Con questa suddivisione crediamo di non tradire il pensiero di un autore tanto importante per la filosofia medievale come Gilson. Per quanto riguarda un ultimo gruppo ci sentiamo invece di discostarci da questo maestro per avvicinarci ad una posizione da lui duramente criticata:
3. Concettulismo: con questo termine, di grande successo, proposto dal H. Cousin, ci riferiamo al pensiero di Abelardo, che ha delle caratteristiche particolarmente originali da non poter esser inserito in nessuno dei gruppi precedenti.
Gilson contesta questa definizione data dal suo connazionale; per lui Abelardo, nonostante le critiche avanzate a Guglielmo di Champeaux, resta un realista:
La sua posizione [di Abelardo] non si distingue affatto da quella a cui finì per arrestarsi Guglielmo. Platone e Socrate, dice lo stesso Abelardo, hanno questo di simile, che ciascuno di essi è nello stato di uomo. Tra la similitudine di status invocata da Abelardo e la somiglianza invocata da Guglielmo, la distanza non è per niente sensibile. Per Ockham, tutti e due sarebbero dei realisti. Abelardo è rimasto allievo di Guglielmo più di quanto egli credesse.13
Nonostante l'esitazione che proviamo a contraddire un maestro tanto autorevole, crediamo sia giusto proseguire sulla nostra strada, sottolineando ancora una volta che tutte queste distinzioni e classificazioni sono in gran parte arbitrarie anche se funzionali a quello che vuolsi dimostrare, cioè: l'originalità della logica abelardiana che diventerà la base della sua teologia.
L'evoluzione del pensiero logico abelardiano (in relazione al problema degli universali) testimoniato dai suoi scritti, è così riassumibile: in un primo momento sotto l'influenza di Roscellino, suo primo maestro, sceglie la vox come alternativa alla res per indicare l'universale che seguendo la definizione di Aristotele è «ciò che vien istituito alla predicazione di molti». Ben presto comprende che ciò che rende universale un termine non è la sua fisicità (flatus vocis), ma la sua significatio. È la potenza di una vox a far sorgere un concetto che ne determina l'universalità; la parola uomo può indicare sia un uomo specifico come Socrate o un universale come umanità. La significazione non è inerente la parola in sé stessa, bensì riguarda la parola in un determinato contesto, quindi ciò che significa in ultima analisi è la relazione tra i predicati, il sermo, che è un discorrere della mente tra immagini simili da vox a vox per far sorgere l'universalità come predicazione universale. Alla fine non resta ad Abelardo altro che spiegare quale sia l'oggetto che determina attraverso il sermo una significatio universale. Il Maestro Palatino individua nello status l'oggetto delle parole universali. Ma che cosa è questo status? L'autore non è molto chiaro al riguardo, e lo definisce come una causa comune che determina l'invenzione del nome universale, ma ci tiene a precisare che non è un'essenza, ma solo un modo di essere. Per questo non possiamo accettare il punto di vista di Gilson, che interpretandolo come una realtà concreta non riesce più a percepire la differenza tra la posizione di Abelardo e quella riveduta di Guglielmo di Champeaux: della in-differenza. È vero che ci sono dei punti in comune tra i due autori: questi risiedono in vaghe reminiscenze medievali del dimenticato Menone platonico14 nel quale Socrate fa notare a Menone che le api sono tutte uguali perché non differenti tra di loro. Ma di questa stessa intuizione Guglielmo e Abelardo danno interpretazioni fortemente divergenti: il primo sfrutta questo tipo di ragionamento per superare le accuse abelardiane della classica teoria realista e riaffermare con prepotenza la presenza di un essenza-esistenza (res) comune tra ciò che è indifferente; Abelardo non può invece accettare la presenza di una res universale, perché la percepisce solo nel particolare, quindi attraverso lo status percepisce una in-differenza o meglio somiglianza tra individui diversi, ma ciò è solo il frutto di un'astrazione mentale, lo status dell'uomo (l'essere uomo e non altro) è un concetto presente nella mente umana, non è solo flatus vocis ha una sua consistenza formale e una sua significazione, anche se non è una res. Abelardo con la sua riflessione metalinguistica stacca il linguaggio dalla realtà ed elabora, come giustamente nota Alain De Libera, una filosofia del linguaggio.
La separazione tra ordo rerum e ordo verborum, iniziata da Roscellino, si completa con Abelardo; è bene precisare che, nonostante questa netta separazione del linguaggio dalla realtà, tra le due dimensioni rimangono dei punti di comunicazione.
Abelardo distingue tra significatio rei e significatio intellectus: la prima è la capacità di nominare la cosa specifica ed è legata alla stessa imposizione del nome, è quindi un nome strettamente legato ad una res; la seconda è la capacità di generare un concetto che ha le caratteristiche di universalità. È chiaro che l'imposizione del condiziona entrambi i significati, ma determina (in modo chiaro) soltanto la significatio rei, mentre la significatio intellectus è la funzione per cui un nome designa un concetto e non altro. Quindi l'unico punto di contatto tra realtà e linguaggio è nell'imposizione del nome.
Questa distinzione avrebbe come conseguenza l'affermazione che soltanto gli individui esistono, mentre l'universalità sarebbe non altro che un modo di concepire la realtà, veritiero solo sotto il profilo logico e grammaticale. A noi sembra quindi, contrariamente a Gilson, che la posizione abelardiana sia molto più vicina al suo primo maestro, Roscellino, che al secondo, Guglielmo di Champeaux.
Sant'Anselmo aveva già fatto notare che, se si rimane nella pura logica del termine, a ciascuno di questi si deve sempre attribuire un significato univoco, quello della sua definizione: un significato corrispondente a qualcosa che occupa un luogo determinato, singolare o universale che sia, nella scala porfiriana della realtà.
Per Abelardo il compito del teologo è di trovare il giusto modo di predicare la verità rivelata, perché il linguaggio si applica alla rivelazione che sostituisce la conoscenza diretta e sensibile dell'oggetto; la predicazione teologica (essendo Dio inesprimibile) è verosimile, secondo la definizione data dal Maestro Palatino nella Theologia Summi Boni: verosimile è ciò che è vicino alla ragione umana e non contrario alla rivelazione. Resta quindi fondamentale la rivelazione ai fini della conoscenza di Dio; la teologia per Abelardo non può che diventare metalinguaggio,15 il linguaggio-oggetto è quello con cui si esprime la dinamica intra-divina, è un linguaggio sconosciuto all'uomo. Il metalinguaggio diviene l'uso improprio del linguaggio umano per esprimere in modo traslato qualcosa che non gli appartiene, per spiegare il linguaggio divino che è il linguaggio-oggetto sconosciuto.
Il teologo-filosofo deve assumere il compito di difesa della fede con gli stessi mezzi della dialettica, ma deve essere attento a definire il campo di indagine nel quale questi mezzi assumono valore e significato. Il dogma si compone di un contenuto e di un enunciato, al teologo è dato di indagare -- tramite le leggi dell'analisi logica -- il solo enunciato, mentre il contenuto rimane per definizione indefinibile. Da questa analisi del linguaggio emerge una conoscenza verosimile diversa dalla verità dell'essenza divina, che è al di là della comprensione umana.
Nel secondo libro della Theologia Scholarium Abelardo precisa che i termini «sostanza» e «persona» che comunemente vengono usati per descrivere la Trinità (come una sostanza e tre persone) non appartengono alla Scrittura, questo per Abelardo legittima un'analisi dei termini utilizzati che sia comunque consona con la professione di fede fatta. Da tale analisi emerge che si può attribuire la sostanza a Dio solo in modo improprio, infatti già nel Sic et non alla nona questione egli affronta la problematica di applicare a Dio la categoria della sostanza e lo fa partendo da Boezio che nel commento al II libro dei Topici definisce la sostanza come: ciò che può essere soggetto ad accidenti, ma in Dio nulla è accidentale, quindi la categoria di sostanza si applica in modo improprio e traslato. Questa traslazione non è imposta per motivi poetici o secundum ornatum ma si tratta di una translatio propter necessitatem che porta inevitabilmente all'equivocazione, in quanto viene imposto ad una cosa un nome che ha già una propria ragione impositiva.
Allo stesso tempo anche il termine «persona» viene utilizzato in modo improprio e traslato, infatti è un termine che ha molti significati a seconda del contesto in cui viene considerato. Abelardo, nella Theologia Scholarium accoglie la definizione di Boezio in merito alla persona individuale: «Persona est naturae rationalis individua substantia».16 Come possiamo vedere sia nella definizione di sostanza che di persona Abelardo va alla ricerca della proprietà che ne determina l'utilizzo in campo teologico, è proprio intorno al concetto di proprium che si esplica la relazione intra-divina secondo Abelardo.
Nella Theologia Scholarium Abelardo si chiede in quanti modi possa essere detto idem e diversum, prendendo le mosse da Boezio se ne distacca, infatti il pensatore romano nel De Trinitate sostiene che uguale e diverso si dicono secondo le modalità del genere, della specie e del numero, per Abelardo invece:
Infatti «stesso» lo possiamo dire secondo la similitudine, secondo l'essenza o il numero, e secondo la proprietà. Si dice «stesso» secondo la similitudine quando una medesima cosa si trova presso tutti quelli considerati, come afferma di aver compreso anche Aristotele: e così diciamo che le stesse mercanzie possono essere reperite in questa città come in quella. Inoltre «stesso» può essere detto sia secondo il numero che essenzialmente: così si dice che questo e quello sono essenzialmente la stessa cosa, quando non si tratta di una molteplicità di cose, né si può parlare di molti secondo il numero: e questo è il caso che si verifica quando, trattando di Socrate, diciamo di lui che è «uomo» e «animale», oppure «uomo» e «capace di ridere». Infine, sono le stesse per proprietà e definizione quelle cose che non solo sono identiche per numero, ma che neppure differiscono per qualche proprietà o definizione peculiare, come «spada» e «ferro appuntito», «bianco» e «candido», e ogni altro caso in cui si presenti una univocità di questo tipo.17
Allo stesso modo per Abelardo sono tre i modi in cui diciamo diverso (diversum), secondo l'essenza, secondo il numero e secondo la proprietà o definizione; «diciamo definizione propria di una cosa quella che ne esprime l'essere integralmente: e così il corpo lo definiamo sostanza corporea, il ridente lo definiamo capace di ridere, il bianco lo definiamo come ciò che ha la bianchezza».18 La cosa importante che ne risulta è che l'identità secondo la proprietà garantisce quella secondo l'essenza, ma non il contrario. Quindi, ci può essere un'identità essenziale che non assicura l'identità secondo proprietà o definizione: questo è il caso della Trinità:
Sebbene Padre, Figlio e Spirito Santo siano la medesima essenza, tuttavia una è la proprietà del Padre, secondo cui genera, altra quella del Figlio, secondo cui è generato, altra quella dello Spirito, secondo cui procede.19
Riassumendo, uguale si dice in base a:
Diverso, invece, si dice secondo:
Quindi Abelardo sostiene che la sostanza divina è unica perché identici sono l'essenza e il numero, ma le persone sono distinte in base alla definizione o proprium; egli sostituisce quindi alla categoria di relazione, di agostiniana memoria, quella del proprium, che definisce «l'espressione dell'essere integrale di una cosa». Infatti l'identità secondo proprietà o definizione garantisce l'identità secondo l'essenza, ma l'identità secondo l'essenza, da sola, non basta per garantire l'identità secondo proprietà o definizione.
È interessante notare che è proprio da questa analisi che in stretta relazione con la modalità del proprium Abelardo introduce il concetto di status come causa comune di imposizione, quella dimensione oggettiva che è alla base della formazione dell'universale senza tuttavia essere una res ne un semplice flatus vocis. Si tratta di qualcosa che è molto simile alla categoria di relazione agostiniana, né accidente né sostanza.
Abelardo arriva ad affermare quindi che l'essenza di Dio è la stessa del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, tuttavia la distinzione delle persone non è arbitraria perché dipende dal proprium o definizione di ogni singola persona e questa distinzione non riguarda l'essenza. Adesso la problematica più grande da superare è quella del valore da dare a questo proprium o definizione; lo stesso Abelardo, nella Theologia Summi Boni, univa il proprium all'essenza, ricadendo nella problematicità sottolineate dalle accuse di eresia, nella Theologia Scholarium lega il proprium alla definizione, credendo così di scampare alle accuse... ci riesce veramente? Che rapporto ha il proprium con l'essenza?
Nel libro dei Topici Aristotele sostiene che il proprio di una cosa è ciò che:
... appartiene a una sola cosa e si predica al posto della cosa. Per esempio è proprio dell'uomo essere in grado di apprendere la grammatica, e se è capace di apprendere la grammatica è uomo.20
Quindi non si tratta di qualcosa di accidentale ma che riguarda proprio l'essenza delle cose, tuttavia rimane distinto, infatti per ogni essenza ci sono diversi propri. Infatti, se è proprio dell'uomo imparare la grammatica, lo è anche la capacità di intrattenere relazioni sociali, ridere e così via... quindi il proprio sembra rappresentare questa apertura dell'essere. Tuttavia quest'aspetto era venuto in secondo piano nella lettura che i medievali facevano di Aristotele, una lettura che era fortemente neoplatonizzante e che si sintetizza nell'albero porfiriano. Porfirio nello studio dei cinque predicabili aristotelici (genere, specie, differenza, proprio ed accidente) scrive del proprio:
Del proprio si distinguono quattro significati. In primo luogo è ciò che appartiene accidentalmente ad una sola specie, pur non appartenendo a tutta quanta; come per l'uomo può essere ad esempio «l'esercizio della medicina» o «l'applicazione della geometria». Secondariamente è ciò che appartiene ad una specie intera, pur non appartenendo ad essa sola, come per l'uomo il fatto di «essere bipede». In terzo luogo è ciò che appartiene ad una specie sola o a tutta quanta, ma solo in un momento determinato, come per ogni uomo «l'incanutire della vecchiaia». Il quarto tipo è infine quello della compresenza di tutti questi caratteri: appartenenza ad una sola specie, a tutta quanta e sempre, come all'uomo appartiene la «facoltà di ridere»: poiché sebbene l'uomo non rida sempre, ma perché ne ha la capacità naturale; e tale qualità è sempre legata alla sua natura, come alla natura del cavallo la «capacità di nitrire». Queste ultime capacità sono definite a buon diritto proprie, poiché fra esse ed il soggetto vi è rapporto di reciprocità; se vi è «cavallo», vi è «capacità di nitrire», se vi è «capacità di nitrire» vi è anche «cavallo».21
Parlando del proprio con riferimento diretto alla specie Porfirio introduce una differenza fondamentale rispetto ad Aristotele, infatti viene sottolineata questa derivazione ontologica dall'essere, dove il genere è prima della specie e la specie prima del proprio. Questa visione non permette di azzardare un parallelismo tra specie/proprio e Dio/Persone poiché la derivazione ontologica del proprio dalla specie sottintende una gerarchia ontologica che non può esistere tra Dio e le Persone divine. La visione profiriana sarà quella che accompagnerà tutto il realismo medievale, che utilizzerà l'albero di Porfirio anzitutto come prezioso strumento per ottenere definizioni, per Porfirio la definizione si ottiene partendo dal genere aggiungendo la differenza, così: razionale mortale combinato con animale dà la definizione di uomo.
Proprio alla definizione, con la speranza di svincolarlo dall'essenza, Abelardo legherà il proprio. Ma la cosa principale è che Abelardo fonda la sua posizione sulla considerazione che genere e specie vanno insieme, e non c'è priorità ontologica dell'uno sull'altro. Dunque per Abelardo potrebbe essere lecito, entro certi termini, parlare dei rapporti intratrinitari basandosi su un modello di comprensione simile a quello che controlla la relazione tra genere e specie. E se qui lui crede di seguire le riflessioni logiche di Aristotele è certo che abbandoni nello stesso tempo l'autorità di sant'Agostino che scrive:
Se l'essenza è un genere, un'essenza che sia unica non ha specie, come ad esempio, poiché un animale è un genere, se c'è un solo animale è senza specie. Allora il Padre, il Figlio e lo Spirito santo non sono le tre specie di un'essenza unica. Se invece l'essenza è una specie, nello stesso modo in cui l'uomo è una specie, allora i tre che chiamiamo sostanze o persone hanno in comune la stessa specie, come Isacco, Abramo o Giacobbe hanno in comune la specie umana. La specie umana si suddivide in Abramo, Isacco e Giacobbe, ma un uomo non si può suddividere allo stesso modo in vari individui umani; questo è assolutamente impossibile perché un uomo è già un individuo umano. Perché dunque l'unica essenza (divina) si suddivide in tre sostanze o persone? Se infatti l'essenza è una specie, come 'uomo', vale per un'essenza unica ciò che vale per un uomo singolo.22
Il paragone tra genere e specie non è idoneo a descrivere la realtà intradivina che viene descritta (non spiegata) tramite la categoria della relazione, come abbiamo già osservato. Quel passo della lettera ai Corinzi: Cristo è la forza e la sapienza di Dio (1 Cor 1, 24) che aveva alimentato la polemica ariana, viene così interpretato da Sant'Agostino:
Il Padre stesso è la Sapienza e si chiama il Figlio sapienza del Padre come lo si chiama luce del Padre. Cioè allo stesso modo che si chiama il Figlio 'luce da luce', e l'uno e l'altro sono una sola luce, così si ha da intendere 'sapienza da sapienza' e l'uno e l'altro sono una sola sapienza. Perciò sono pure una sola essenza, perché qui essere è la stessa cosa che essere sapiente.23
Quindi Padre e Figlio sono una sola Sapienza una sola Luce ed una sola Essenza, se nella scrittura il termine Sapienza si riferisce principalmente al Figlio questo è dovuto per Agostino al fatto che è il Figlio che si è manifestato nel tempo mostrando la Sapienza divina.
Nel terzo libro della Theologia Christiana Abelardo si chiederà: «Forse il fatto che chiamiamo le proprietà relazioni ci autorizza a comprenderle come cose diverse dalla sostanza stessa, cosicché proprio secondo le proprietà la sostanza potrebbe essere detta relativa a qualcosa? Non sia mai. » (TChr III, 168). Potenza, sapienza e benignità non sono forme significanti in se stesse, che ineriscono a qualcosa di determinato e preciso dell'albero porfiriano, ma sono predicati il cui significato non può essere compreso a prescindere dal contesto in cui vengono menzionati. Allora per Abelardo solo dall'analisi della proprietà o definizione che i predicati assumono in un determinato status (che è il modo oggettivo di presentarsi delle cose che legittima l'imposizione del nome) possiamo capire la realtà della Trinità, solo dando una giusta definizione alle persone, dove per definizione propria di una cosa intende ciò che ne esprime l'essere integralmente.
Qui sorge un po' di perplessità: come si può dire che il proprio definisce l'essere integrale della persona divina senza poi affermare che: come tra potenza, sapienza e bontà c'è una distinzione di gradi, così è tra gli esseri integrali e altrettanto tra le persone divine? Le accuse rivolte da Guglielmo di Saint-Thierry e San Bernardo al dialettico non sembrano poi così peregrine; così accusa San Bernardo il dialettico:
Ha, poi stabilito che «Dio Padre è potenza perfetta, il figlio potenza solo in certo modo, lo Spirito Santo in nessun modo potenza; e parimenti che il Figlio sta al Padre come una certa potenza sta alla potenza, la specie al genere, ciò che è materiale alla materia, l'uomo all'animale, il sigillo di bronzo al bronzo». Costui non è peggio di Ario?24
Abelardo controbatte:
In quanto a ciò che mi è stato malvagiamente attribuito, cioè di aver sostenuto che il Padre è piena potenza, il Figlio è potenza limitata e lo Spirito santo non è affatto potenza, dichiaro che aborrisco e detesto queste affermazioni non solo come eretiche, ma addirittura come diaboliche, e le condanno insieme con il loro autore; anzi affermo che se qualcuno riuscirà a ritrovarle nei miei scritti, confesserò di essere non solo un eretico ma un eresiarca.25
Per certi versi Abelardo sembra aver ragione, infatti non vi è luogo, in tutte e tre le trattazioni trinitarie, nel quale possiamo rinvenire esattamente le parole dette da Bernardo. Abelardo si limita a dire che la Sapienza è una certa potenza e la Benignità non è potenza alcuna; il problema è che sostiene, sulla base delle Sacre Scritture, che Sapienza si dice propriamente del Figlio e Benignità dello Spirito Santo. L'equazione bernardiana è evidente: se la Sapienza è una certa potenza allora il Figlio è una certa potenza e se la Benignità non è potenza alcuna allora lo Spirito Santo è impotente. Per Bernardo non è possibile separare le proprietà personali dalle persone.
Seguendo Abelardo, dove finirebbe il mistero Trinitario se venisse distrutto a livello logico e sintattico? Avrebbe senso parlare di imprescrutabilità divina con questi presupposti? Sarebbe possibile considerare separatamente linguaggio ed essere? Quale sarebbe il rapporto intercorrente tra il proprio delle Persone e l'Essere divino? San Bernardo direbbe: «Scrutari hoc temeritas est, credere pietas est, nosse vita, et vita aeterna est».26
Copyright © 2011 Claudio Cerroni
Claudio Cerroni. «Abelardo e la distinzione delle persone trinitarie secondo il proprium». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [**52 B].
Si deve tuttavia precisare che le fonti che riguardano Roscellino sono quasi tutte indirette e provengono principalmente dai suoi avversari, fa eccezione una lettera scritta da Roscellino ad Abelardo che comunque è poca cosa per poter esprimere un giudizio preciso su tematiche tanto complesse. Testo
Agostino, La Trinità, V, 5, trad. di Giuseppe Beschin, Città Nuova, Roma 2002, pag. 185. Testo
Ibidem (V, 9), pag. 193. Testo
Agostino, De Magistro, 14, 46. Testo
Agostino, De Ordine, libro 2: 7, 24. Testo
Agostino, La Trinità(VII, 4), trad. di Giuseppe Beschin, Città Nuova, Roma 2002, pag. 237. Testo
1 Cor 3,16 Testo
Roscellino, Epistola ad Petrum Abaelardum,trad. a cura di Massimo Parodi e Marco Rossini in: Fra le due rupi, Edizioni Unicopli 2000, pag. 93. Testo
Gilson Ètienne, La filosofia nel Medioevo, trad. di Maria Assunta del Torre, Sansoni Editore, Milano 2005, pag. 275. Testo
Anselmo, Epistola de incarnatione Verbi, trad. a cura di Massimo Parodi e Marco Rossini in: Fra le due rupi, Edizioni Unicopli, 2000, pagg. 116-117. Testo
Gilson Ètienne, La filosofia nel Medioevo, trad. di Maria Assunta del Torre, Sansoni Editore, Milano 2005, pag. 285. Testo
Ibidem, pagg. 285-286. Testo
Ibidem, pag. 335. Testo
Il conceto di indifferenza espresso nel Menone sopravvive nel De Consolatione di Boezio. Testo
Per metalinguaggio è da intendersi il linguaggio che spiega il lingaggio-oggetto, un concetto molto semplice per chi studia le lingue, infatti se imparo l'inglese e uso le spiegazioni dei vocaboli e della grammatica inglese in italiano, l'italiano diventa metalinguaggio e l'inglese è il linguaggio-oggetto. Testo
Boezio, Contra Eutychen et Nestorium. Testo
Pietro Abelardo, Theologia Scholarium (II, 95), Trad. di S. P. Bonanni in, Parlare della Trinità, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1996, pagg. 149-150. Testo
Ibidem (II,95), pagg. 150-151. Testo
Ibidem (II, 102), pagg. 154-155. Testo
Aristotele, Topica I,V pagg. 87-89. Testo
Porfirio, Isagoge, pag. 38. Testo
Agostino, De Trinitate VII, 6, 11, pag.317. Testo
Agostino, De Trinitate VII, 1,2, pag.299. Testo
Bernardo di Chiaravalle, Le lettere contro Pietro Abelardo, a cura di Albino Babolin, Liviana editrice, Padova 1969, pag. 99. Testo
Pietro Abelardo, Epistolario completo, a cura di Carmelo Ottaviano, Industrie Riunite Editoriali Siciliane, Palermo 1934, pag. 210. Testo
De Consideratione, VIII, 20,21. Testo
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