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La teologia di Abelardo come Metalinguaggio

di Claudio Cerroni (20-21 marzo 2009)

1. Complessità del termine Theologia

Gran parte delle vicissitudini negative che accompagnarono l'esistenza di Abelardo sono legate all'utilizzo inusuale del termine Theologia per indicare alcuni dei suoi trattati volti ad analizzare principalmente l'unità e la trinità divine. Infatti il monaco ed erudito cistercense, già abate benedettino, Guglielmo di Saint-Thierry, nella famosa lettera di denuncia inviata intorno al 1138 a San Bernardo e al vescovo Guafridum Carotensem afferma:

Casu nuper incidi in lectionem cuiusdam libelli hominis illius, cui titulus erat, «Theologia Petri Abelardi». Fateor, curiosum me fecit titulus ad legendum.

All'epoca di Abelardo, nel XII secolo, il termine «teologia» indicava principalmente lo studio della divinità condotto dagli autori pre-cristiani. In ambito cristiano si preferiva parlare di studio della «sacra dottrina» o «sacra pagina», sottolineando l'approccio kerygmatico (dal greco keryssein: proclamare, bandire) della lettura del testo biblico: una lettura che non pretende di essere depositaria di conoscenze in materia di fede, ma che vuole solamente annunciare l'evento Cristo. Lo stesso Abelardo nel suo primo trattato teologico (Theologia Summi Boni) non userà mai il termine teologia, che apparirà qualche anno più tardi nella lettera autobiografica Historia Calamitatum, nella quale definirà la sua opera come un trattato di «teologia sull'unità e la trinità divina».

È comunemente accertato che, dopo la Theologia Summi Boni, in un continuo evolversi di pensiero, il Maestro di Le Pallet approderà prima alla Theologia Christiana infine alla Theologia Scholarium. È proprio quest'ultima a cadere tra le mani di Guglielmo di Saint-Thierry che, insospettito dal termine, sarà ancor più allarmato dal testo e non esiterà ad avvisare l'amico Bernardo, che si ergeva in quel periodo a guida spirituale dell'intera cristianità.

Per chiarezza è bene precisare che l'utilizzo del termine teologia non verrà contestato al Maestro Palatino neanche da Bernardo. Anzi, il termine in questione è divenuto, da quel momento e in breve tempo, di uso comune. Abelardo aveva delegittimato l'antico contesto semantico della parola e con una nuova imposizione del nome aveva restituito all'Occidente cristiano il termine teologia, facendogli assumere il significato di «scienza di Dio».

La caratteristica principale della teologia abelardiana è il forte utilizzo della ragione, le analisi condotte da Abelardo fanno continuamente riferimento alle sue conoscenze di logica: anche nel campo della teologia rimane pur sempre un dialettico. Questo è bastato a vedere nell'Aristotele parigino un precursore dei fasti dei lumi, un difensore del razionalismo, ad avvicinare a Cartesio -- distruttore della Scolastica -- colui che in qualche modo la fonda. Nonostante le posizioni estreme assunte da qualche studioso ottocentesco siano state abbandonate, questi clichè culturali stentano a scomparire, ed è così che anche in un lavoro apprezzato di uno studioso del calibro di Jacques Le Goff, Gli intellettuali nel medioevo, leggiamo: «nessuno più di Abelardo ha reclamato l'alleanza della ragione e della fede». Affermazioni del tutto fuorvianti che non tengono in considerazione il vissuto culturale del filosofo medievale. Infatti, nonostante sia assiduo il ricorso di Abelardo alla ragione, si deve osservare che essa viene limitata all'analisi del linguaggio, il campo specifico della dialettica. Per quanto riguarda la fede, anche per Abelardo è vera la «teologia negativa» di Scoto Eriugena che sostiene l'inesprimibilità della natura divina.

Allora la teologia si riduce per Abelardo ad un metalinguaggio, ovvero ad un linguaggio che studia il linguaggio oggetto: il linguaggio intradivino. Lo studio avviene attraverso il linguaggio umano che è usato in teologia, compito del dialettico è controllare la validità delle leggi logico-grammaticali che vengono utilizzate. Ma tutto ciò può essere compreso appieno solo se si ritorna all'Abelardo più originale ed innovativo, solo se prendiamo in considerazione il logico che sconvolse la posizione realista medievale tramite quello che Victor Cousin definì concettualismo.

2. La soluzione di Abelardo al problema degli universali

Il contributo più interessante dato da Abelardo alla storia del pensiero è sicuramente quello che riguarda la sua soluzione originale del problema degli universali. Forse sopravvalutato dagli studiosi, sicuramente rimane una pietra miliare per chi si accinge a studiare il pensiero medievale.

Il problema era stato sollevato da Porfirio, filosofo allievo di Plotino nato a Tiro nel 232 o 233 d. C., quando redasse un breve trattato dal titolo Isagoge, in sostanza un'introduzione alle Categorie di Aristotele, collocate all'inizio dell'Organon. Questo trattato venne tradotto e commentato in latino da Boezio, che accentuò le problematiche legate allo studio delle cinque voci (genere, specie, differenza, proprio e accidente) prese in oggetto nel trattato. Le problematiche sollevate erano così riassumibili:

Fino all'XI secolo si era affermata la visione classica realista di stampo neoplatonico, per cui a ogni nome universale corrispondeva una res nel regno delle essenze. Ma tra XI e il XII secolo Roscellino di Compiègne pensò di trattare Categorie e Isagoge come opere dedicate prevalentemente a questioni metalinguistiche riguardanti lo studio delle voces. Roscellino diede origine alla disputa sugli universali affermando che tali termini non sono altro che flatus vocis, mentre la realtà o sostanza risiede nel particolare.

Abelardo fu allievo di Roscellino e la sua formazione risentì di questa esperienza giovanile. L'evoluzione del pensiero logico abelardiano (in relazione al problema degli universali) lo porterà ad allontanarsi dall'antico maestro in modo fondamentale, tanto che credo sia giusto sottolineare questa distanza dando alla speculazione logica di Abelardo un nome diverso da quello dato al Nominalismo di Roscellino: a tale proposito già abbiamo deciso di seguire il Cousin e definire il pensiero abelardiano come concettualismo.

Abelardo si rende presto conto che non è la fisicità delle parole (flatus vocis) ad essere universale, bensì il loro significato. Nello stabilire quale sia l'oggetto di tale significato, il Maestro Palatino ricorre al concetto di status. Quindi a determinare l'universalità delle parole sarebbe il significato che esprime lo status comune delle singole cose. Ma che cosa è questo status? L'autore non è molto chiaro al riguardo, e lo definisce come una causa comune che determina l'invenzione del nome universale, ma ci tiene a precisare che non è un'essenza, ma solo un modo di essere. Quindi attraverso lo status percepisce una indifferenza o meglio somiglianza tra cose diverse, ma ciò è solo il frutto di un'astrazione mentale. Ad esempio: lo status dell'uomo (l'essere uomo e non altro) è un concetto presente nella mente umana. Esso non è solo flatus vocis, ma ha una sua consistenza formale e una sua significazione, anche se non è una res. Abelardo con la sua riflessione metalinguistica stacca il linguaggio dalla realtà ed elabora, come giustamente nota Alain De Libera, una filosofia del linguaggio.

Quindi il regno dei concetti è separato da quello della realtà ed il solo punto di contatto resta l'imposizione del nome. Nel nome sono racchiuse due significazioni che Abelardo chiama significatio rei e significatio intellectus. La prima è la capacità di nominare la cosa specifica ed è legata alla stessa imposizione del nome: è quindi un nome strettamente legato ad una res singolare; la seconda è la capacità di generare un concetto che abbia le caratteristiche dell'universalità. È chiaro che l'imposizione del nome (unico punto di unione tra res e vox) condiziona entrambi i significati, ma determina in modo chiaro soltanto la significatio rei, mentre la significatio intellectus è la funzione per cui un nome designa un concetto e non altro.

In ultima istanza, la distinzione tra significatio rei e significatio intellectus (o più semplicemente tra appellatio e significatio), dedotta da Abelardo, avrebbe come conseguenza il fatto che soltanto gli individui esistono, mentre l'universalità non sarebbe altro che un modo di concepire la realtà, veritiero solo sotto il profilo logico e grammaticale.

Come risultato della sua speculazione logica, Abelardo aggiunge una quarta questione oltre le tre poste da Porfirio nell'Isagoge. Infatti si domanda se i generi e le specie avessero ancora un significato per il pensiero, se gli individui corrispondenti cessassero di esistere. Per esempio: la parola 'rosa'avrebbe ancora significato se non ci fossero più rose? A questo punto credo che la risposta la possiamo dare ed in modo affermativo: il nome 'rosa'come appellativo è determinato dalla rosa come fiore, ma il significato del nome è indipendente dall'oggetto che lo ha generato e perdura nonostante l'oggetto, anzi è addirittura possibile avere concetti di cose inesistenti come l'unicorno. Di questa questione si ricorderà Umberto Eco nel suo best-seller Il nome della rosa; infatti il romanzo si chiude così: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.

3. Il linguaggio come oggetto della ricerca teologica

L'oggetto dell'analisi e della ricerca teologica non è quindi l'essenza di Dio in sé, ma la sua manifestazione nel linguaggio scritturistico, quindi l'oggetto dell'indagine abelardiana è il linguaggio stesso. E ciò è reso evidente anche dalla teoria gnoseologica che Abelardo espone, arrivando alla distinzione tra sensus, imaginatio e intellectus. Dove per «senso» è da intendersi la capacità di percepire ed esperire direttamente l'oggetto della conoscenza (in una dimensione ovviamente specifica e singolare); con «immaginazione» ci si riferisce al modo in cui si trattiene la conoscenza dei sensi: è una capacità di astrazione che permette di richiamare alla mente il dato sensibile anche quando non è più presente; infine, con «intelletto» si intende la comprensione della struttura interna delle cose guardando alla loro intima natura.

Nei confronti di Dio non si hanno sensazioni empiriche, non è possibile applicargli il sensus (anche se questo viene sostituito dalla Rivelazione), ma allo stesso modo a Dio non è applicabile nemmeno l'intellectus, ricordiamo che anche per Abelardo la natura divina resta inesprimibile. Quindi, come unico campo della ricerca logica del divino (teologia) resta il grado intermedio dell'imaginatio, questa capacità di astrazione e concettualizzazione che è in grado di richiamare alla mente il dato sensibile anche quando non è più presente, questo è il campo dove opera il linguaggio. Il compito del teologo è quindi di trovare il giusto modo di predicare la verità rivelata, perché il linguaggio si applica alla Rivelazione che sostituisce la conoscenza diretta e sensibile dell'oggetto; la predicazione teologica (essendo Dio inesprimibile) è verosimile, secondo la definizione data dal Maestro Palatino nella Theologia Summi Boni: verosimile è ciò che è vicino alla ragione umana e non contrario alla rivelazione.

Per Abelardo, dunque, la conoscenza di Dio non può prescindere dalla Rivelazione, ed ora si capirà meglio cosa si intende quando si parla di teologia abelardiana come metalinguaggio. Il linguaggio oggetto è quello con cui si esprime la dinamica intradivina, è un linguaggio sconosciuto all'uomo. Il metalinguaggio diviene l'uso improprio del linguaggio umano per esprimere in modo traslato qualcosa che non gli appartiene, per spiegare il linguaggio divino che è il linguaggio oggetto sconosciuto. Il linguaggio umano, viene traslato da Abelardo approfittando del fatto che: sia l'uomo è ad immagine di Dio, sia la Rivelazione si esprime secondo il linguaggio umano. Attraverso questo procedimento all'uomo è dato di degustare qualcosa di quell'ineffabile maestà che è Dio, ma soprattutto l'uomo è in grado di contrastare i falsi dialettici o pseudo-dialettici sulla base della loro stessa follia. Quindi la teologia si caratterizza in Abelardo soprattutto come difesa razionale della fede contro le accuse degli pseudo-dialettici e non propriamente come strumento di conoscenza di Dio.

Abelardo, spingendosi ad analizzare i dogmi divini come quello trinitario, terrà sempre separati il campo dell'enunciato da quello del contenuto. Al teologo è dato di indagare -- tramite le leggi dell'analisi logica -- il solo enunciato, mentre il contenuto rimane per definizione indefinibile. Da questa analisi del linguaggio emerge una conoscenza verosimile diversa dalla verità dell'essenza divina, che è al di là della comprensione umana.

Questa posizione si scontrerà con quella dei realisti, infatti per quest'ultimi la dimensione stessa dell'enunciato rappresenta il suo contenuto, parlare allegoricamente di Dio significa, comunque, dire qualcosa dell'essenza di Dio. Lo scontro, che porterà al concilio di Sens del 1140, sarà rivolto a punti specifici della teologia abelardiana e non a tutta la sua speculazione filosofica.

Copyright © 2009 Claudio Cerroni

Claudio Cerroni. «La teologia di Abelardo come Metalinguaggio». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno, Parma 20-21 marzo 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [15 KB].

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