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Mistero e Trinità ne L'essenza del cristianesimo di Ludwig Feuerbach

di Carla Canullo (Roma, 26-28 maggio 2011)

1. La teologia e Feuerbach

Nel saggio che introduce la traduzione italiana de L'essenza del cristianesimo di Feuerbach (traduzione condotta sulla prima edizione dell'opera), Francesco Tomasoni ricostruisce la recezione dell'opera feuerbachiana da parte della teologia e l'apporto che tale opera ha dato nei riguardi di quest'ultima.1 A queste pagine rinviamo per la puntuale ricostruzione di questa galassia, rinvio che non riguarda, però, un giudizio inaggirabile quando s'incontra l'opera del filosofo tedesco, ossia il giudizio di Karl Barth.

Non sfugge al teologo l'amore di Feuerbach per la teologia, amore che però definisce "infelice",2 rimarcando come «la posizione antiteologica di Feuerbach» fosse «altrettanto teologica che quella di molti teologi; infatti [...] egli intese proporre un'antitesi filosofica ad ogni teologia, non meglio fondata che la teologia stessa».3 E prosegue:

La dottrina di Feuerbach fu essenzialmente un richiamo, un appello, un annunzio. [...] Questa posizione e questa vocazione lo accostano umanamente a noi; perciò in ultima analisi la sua antiteologia costituisce una possibilità così notevole in seno alla problematica della nuova teologia, una possibilità che illumina così bene tutte le altre, da farci trovare qualcosa di teologicamente decisivo.4

L'appello di Feuerbach è alla conversione dalla menzogna alla verità, dalla religione fittizia per dare all'uomo ciò che gli spetta, il suo vivere nella carne e nel sangue, quella concretezza carnale e vivente usurpatagli dalla teologia ma anche dalla filosofia di Kant e Hegel. Concretezza che però Feuerbach non avrebbe totalmente pensato, ché l'essenza dell'uomo è ancora «troppo astratta, troppo ideale, troppo lontana dalla realtà concreta»,5 né nella sua opera il male e la morte hanno il giusto peso. Alla seconda obiezione ha risposto, in Italia, Alberto Caracciolo, obiezione che è soprattutto filosofica e non teologica; la prima, l'astrattezza dell'essenza dell'uomo, fu invece già mossa da Max Stirner, la cui obiezione è da Barth condivisa quando rileva che Stirner ha fatto un «decisivo passo più innanzi di Feuerbach»6 con la sua enfasi sul singolo (parola che lo inscrive a pieno titolo nel suo tempo). Tuttavia, rimarca ancora Barth, neppure il suolo guadagnato da Stirner è del tutto oltre Feuerbach; lo critica ma non lo supera:

Se il discorso sull'essenza dell'uomo dev'essere inteso come un'ultima illusione pretesca, se ogni volta sono io il vero uomo a cui nessun tu umano può togliere il peso della sua esistenza come singolo, anzi se sono io colui a cui viene accollato questo peso attraverso il tu umano, allora scompare la via dell'uomo divino di Feuerbach e quella verso il "singolo" di Stirner; allora diventa possibile capire che Dio non può identificarsi con l'uomo.7

"Dio non può identificarsi con l'uomo": solo il ribadire questa differenza radicale, che rimarca l'insolenza di ogni "teologia dell'identità" (anche rovesciata, come ha fatto Feuerbach, nella verità antropologica della teologia), può offrire terreno per la critica al filosofo tedesco. Altrimenti, «non si ha motivo di criticare Feuerbach: noi siamo insieme a lui "veri figli del suo secolo"».8

Che egli non voglia intonare altro da un Magnificat: questo è un altro motivo del complesso giudizio di Barth. Che «la negazione di un'essenza divina astratta, distinta dalla natura e dall'uomo»9 sia soltanto «il rovescio dell'affermazione dell'essenza di Dio quale vera essenza dell'uomo»10: questo è il cammino di Feuerbach, preso dall'interesse che Dio esista in quanto tale interesse coincide totalmente con quello che io esista, eternamente. «Dio è la mia essenza celata, certa, in quanto sono membro della specie umana»;11 «Egli, scrive ancora Barth, voleva che l'al di là di Dio si trasferisse nell'al di qua dell'uomo».12 Il che, tuttavia, poteva anche significare «una negazione dell'al di là di Dio, e perciò di Dio stesso»,13 sebbene anche «negare o ignorare il rapporto dell'al di là di Dio con l'al di qua dell'uomo potrebbe [...] significare una negazione di Dio; proprio un idealismo e uno spiritualismo unilaterali potrebbero indurre, in una forma particolarmente pericolosa, a sospettare la dottrina di Dio quale umana illusione».14 Dal che Barth conclude: «Ci si domanda se ciò che corrisponde a Dio non sia effettivamente quell'uomo integrale, anima e corpo, dal quale manifestamente Feuerbach voleva parlare»,15 sebbene l'obiezione da lui mossa e da noi prima detta non perda affatto vigore.16

Innegabile quanto queste affermazioni è, tuttavia, anche l'ombra che s'estende dalla lettura barthiana di Feuerbach, ombra critica e nota, non sfuggita ai lettori italiani, tra i quali ricordiamo Ugo Perone e Alberto Caracciolo.17 Quest'ultimo rimarcava la declinazione negativa dell'"evidenza impareggiabile" che Barth rilevava in Feuerbach, ossia quell'ovvietà cui si riduce ogni interpretazione dell'esperienza religiosa metro e misura della quale è l'uomo, che da tali interpretazioni è fatto «contenuto, origine e fine del valore»18 e dalle quali consegue «la legittimità e la garanzia dell'esistenza umana dei suoi bisogni, dei suoi desideri e dei suoi ideali».19 «Questo, prosegue Barth, è ciò che di ovvio c'è in lui e da ciò deriva l'evidenza della sua interpretazione della religione».20 E, di poi, la critica di Ehrenberg, già accennata: il misconoscimento, da parte di un Feuerbach in ciò pienamente figlio del suo secolo, del male e della morte.21 Critica non del tutto condivisa da Caracciolo, che mette in luce come nel filosofo tedesco un certo qual pensiero della morte vi sia, pur restando ignorato il male.22

Che cosa rimane, oggi, di questo dibattito? Forse, resta ancora attuale il giudizio con il quale Ugo Perone concludeva la Premessa all'opera dedicata a Feuerbach, dove rifiutando di risolvere le contraddizioni interne alla sua opera, le indicava come significative e feconde per i problemi «che pose e continua a porre al pensiero teologico contemporaneo».23

Perone sostiene fondatamente che taluni teologi del XX secolo abbiano tentato, implicitamente o esplicitamente, una risposta «al dilemma di Feuerbach»,24 un dilemma che individua nella compresenza di complementarietà ed esclusione dei termini costituenti il plesso uomo-Dio. Ovvero: «Feuerbach, non volendo perdere né la complementarietà uomo-Dio, né l'esclusione, ha finito per far valere contro la complementarietà l'esclusione (il vero volto di Dio è un volto umano, e l'uomo è il vero Dio) ».25 Totalmente condivisibile è, a nostro avviso, la conclusione cui giunge Perone e che segue immediatamente le righe appena citate:

È di qui che la sua negazione di Dio ha origine, ma è di qui anche che si può trarre [...] il suo contributo positivo alla problematica religiosa successiva. Ciò non può avvenire, ovviamente, con un puro capovolgimento di Feuerbach, ma con un'analisi più approfondita dell'alternativa che egli propone. [...] Il suo contributo sta nell'aver tentato di mantenere contemporaneamente i due termini di complementarietà ed esclusione anche se questo è culminato, da un punto di vista cristiano, in un fallimento. Una riflessione su questo problema può suggerire [...] sviluppi interessanti. Non si tratta infatti di pensare l'esclusione a partire dalla complementarietà, perché questa posizione culmina evidentemente nell'ateismo. Proprio perché Dio è Dio e non uomo, è possibile e si dà un rapporto uomo-Dio. La loro complementarietà non è necessaria ma possibile, il loro rapporto non fatto ma dono, la consapevolezza di tale rapporto non scienza ma fede.26

Sulla tensione del dilemma suddetto torna la conclusione dello studio di Perone, il quale, dopo aver rimarcato che «la filosofia di Feuerbach non si lascia restringere nello schema di un ateismo puramente negativo» ché «dietro la negazione di Dio è l'affermazione dell'uomo, dietro l'ateismo l'antropologia»,27 scrive:

L'antropologia che nasce da questa negazione non è un'antropologia della finitezza che dichiara Dio escluso dal mondo, ma un'antropologia innamorata dell'infinito che dichiara la necessità di sopprimere Dio per salvare l'uomo e la storia. L'istanza di Feuerbach [...] suggerisce al tempo stesso la complementarietà di Dio e uomo e la loro reciproca esclusione. La complementarietà: parlare di Dio significa parlare dell'uomo, come parlare dell'uomo significa parlare di Dio. Il contenuto della religione è umano, ma l'umanità dell'uomo è la sua divinità, il suo desiderio infinito, il suo amore illimitato, la sua coscienza di un genere che lo supera. [...] L'esclusione: attribuire qualcosa a Dio significa toglierlo dall'uomo [...] . L'alternativa tra Dio e uomo si fa perciò drammatica: o Dio o l'uomo, o Dio o il mondo, o Dio o la natura. Sopprimere Dio non è quindi tanto la conseguenza della constatazione di un errore dell'umanità [...] quanto piuttosto l'impegno per restituire dignità all'esistenza.28

La teologia ha ricevuto da Feuerbach l'eredità di un dilemma sul quale ha meditato in modo diverso, e Karl Barth e Rudolph Bultmann, ma anche Friedrich Gogarten e Dietrich Bonhoeffer, hanno a loro modo risposto alla provocazione. Ma non è la loro teologia a essere in questione in queste pagine: a essere interrogato è invece il pensiero di Feuerbach sulla religione,29 limitatamente a un tema specifico, la Trinità e il "suo" mistero, verificando l'indicazione di Perone circa la complementarietà di Dio-uomo e non la loro esclusione. Complementarietà annunciata in un'antropologia della finitezza innamorata dell'infinito. Quale finito e quale infinito, tuttavia? Sarà la prima questione specificamente feuerbachiana con la quale ci confronteremo, seguendo la nostra domanda-guida che formuliamo in forma di riassunto di quanto fino a ora emerso.

***

L'"amore infelice" di Feuerbach per la teologia, giustamente rilevato da Barth, la critica di Caracciolo a Barth sino alla tensione in forma di dilemma complementarietà-esclusione di Dio e uomo, potrebbero essere fissate da questa nota e lapidaria sintesi feuerbachiana: «La religione è l'inconsapevole autocoscienza dell'uomo» e, in negativo (e dunque secondo la tesi che Feuerbach intende superare): «Dio non è ciò che è l'uomo -- l'uomo non è ciò che è Dio».30 Nostra ipotesi sarà, nel questionamento della disamina della Trinità feuerbachiana, il senso del non; ovvero, proseguendo il discorso di Ugo Perone, ci domandiamo se la non esclusione triviale di Dio possa essere letta nei termini di una distanza tra Dio e uomo che mantiene la loro tensione contro una teologia speculativa e razionale che li salda. Che Dio e uomo siano distanti significa che non sono prendibili nel cerchio stretto del (medesimo) pensiero e significa anche che il reciproco "non" essere l'uno l'altro ("Dio non è ciò che è l'uomo e l'uomo non è ciò che è Dio") non è il "non" della nullità e dell'esclusione. Si tratta invece di un "non" complementare perché distanza e non escludente.

Saldando Dio e uomo, la teologia razionale non lascia alternative altre dalla reciproca esclusione e fallisce perché non tiene conto della distanza31 nella quale Dio e l'uomo si collocano. Dal pensiero dell'infinito che accade nel finito (uomo) s'annuncia, invece, una distanza destinata a lasciare irrisolta, sempre, la tensione tra i due termini, e ciò nel metodo stesso applicato. Come Luigi Pareyson ha efficacemente messo in luce e Perone ha ripreso,32 Feuerbach ha rovesciato l'hegelismo proponendo l'umanizzazione della filosofia, combattendo l'astrattezza del sistema nel quale il concreto e la vita non hanno posto, capovolgendo la conciliazione hegeliana di essere e pensiero e quella di finito e infinito.33 È di questo rovesciamento che Pareyson dà una lettura che coglie efficacemente il cuore della filosofia feuerbachiana in opposizione al sistema hegeliano che avrebbe, nel suo implicito teocentrismo, negato il finito nell'infinito. Viceversa,

bisogna capovolgere il teocentrismo hegeliano, cioè conciliare finito e infinito dal punto di vista del finito. Il finito è la vera realtà dell'infinito, non nel senso che l'infinito si realizzi soltanto nel finito, ma nel senso che lo stesso finito è l'infinito; [...] la vera sostanza non è più l'infinito che si manifesta concretamente solo nell'apparenza del finito, ma è il finito stesso che, pur mantenendo i suoi caratteri di finitezza, ha anche la qualità dell'infinito.34

Tale rovesciamento, proprio nel rapporto tra finito e infinito, è, a nostro avviso, duplice: oltre ad essere tematico, rovesciando i temi hegeliani con l'offrire punti di partenza diversi da quelli del sistema hegeliano, è anche specificamente filosofico, portando alla luce una qualità nuova del finito. Questa nuova qualità è il rovescio non visto né colto dal sistema che, rappresentando, non coglie ciò che si sottrae alla rappresentazione stessa. È qui, in questo rovescio, che può, forse, insinuarsi quella distanza che sfugge al pensiero speculativo; quella distanza nella quale accade la qualità dell'infinito nel finito.

2. Finito/ infinito: il cerchio e l'ellisse

«Il cerchio è il simbolo, lo stemma della filosofia speculativa, del pensiero che si richiama soltanto a se stesso -- anche la filosofia hegeliana è, come è noto, un circolo di circoli [...]: l'ellisse è invece il simbolo, lo stemma della filosofia sensibile, del pensiero che si richiama all'intuizione».35 Entrambe le filosofie (l'hegeliana e la feuerbachiana) sono rappresentabili in figure, le quali tuttavia non si equivalgono: la prima, ha un centro ed è perfettamente compiuta; l'ellisse, invece, ha due fuochi. Ma la differenza sta anche prima, in quel termine greco (elleipsis) che è nome che fa dell'ellisse un cerchio mancato, imperfetto. A dire che la filosofia sensibile assume quale proprio simbolo una figura imperfetta.

Imperfezione e mancanza simbolo di una nuova filosofia il cui principio di conoscenza è «la totale e reale essenza dell'uomo. [...] Solo l'umano è vero e reale; solo l'umano è razionale»,36 umano reale che riconosce nel cuore e nella sensibilità il centro dell'uomo stesso. Perciò «la nuova filosofia si fonda sulla verità dell'amore, sulla verità della sensazione»37 e «il filosofo nuovo pensa in accordo e in pace con i sensi»,38 il che fa sì che la nuova filosofia includa la fisiologia. Sono simbolo, ancora, di una verità che coincide soltanto con «la totalità della vita e dell'essenza umana».39 Ma, anche, sono simbolo del rovesciamento non soltanto tematico ma filosofico che Feuerbach mette in atto; quel rovesciamento capace di portare alla luce l'invisto e impensato rovescio dell'uomo. Rovesciamento che, messo in atto in e da una filosofia "ellittica", mancante, si compie sullo sfondo di un altro rovesciamento, quello del rapporto tra finito e infinito.

L'assoluto o infinito della filosofia speculativa (il cui simbolo è il cerchio perfetto) non è altro dall'indeterminato, il quale, «se guardato in chiave storica non è altro [...] che il vecchio ente [...] teologico-metafisico, non finito, non umano, non materiale, non determinato, non creato».40 Lo spirito assoluto di Hegel, invece, «non è altro che il cosiddetto spirito finito, ma astratto e separato da se stesso, come l'ente infinito della teologia non è altro che l'astratta essenza finita»,41 dove astrarre «vuol dire porre l'essenza della natura fuori della natura, l'essenza dell'uomo fuori dell'uomo, l'essenza del pensiero fuori dell'atto del pensare».42 Tuttavia, una filosofia «che deriva il finito dall'infinito e il determinato dall'indeterminato non riuscirà mai a compiere una vera posizione del finito e del determinato»,43 ché derivare il finito dall'infinito è possibile soltanto negando l'infinito e reciprocamente, negando il finito nell'infinito, in un evidente circolo, o meglio, cerchio di finito e infinito per nulla e di nulla mancante. E se «la filosofia assoluta dichiara la verità del finito solo in modo indiretto, alla rovescia»,44 occorre rovesciare tale filosofia per ritrovare il rovescio invisto: «Il compito della vera filosofia è di conoscere non l'infinito come il finito, ma il finito come il non-finito, come l'infinito -- in altre parole, di porre non il finito nell'infinito, ma l'infinito nel finito».45 E ancora: «L'infinito è la vera essenza del finito -- il vero finito. [...] La filosofia speculativa ha commesso [...] l'errore (di rendere) determinazioni e predicati dell'infinito [...] le determinazioni della realtà e della finitezza».46

La filosofia nuova, ellittica perché mancante, scopre la propria mancanza nel "questo" particolare «che assume un valore assoluto, e il finito diventa infinito».47 E contro un pensiero astratto «senza sensazione e senza passione»48 che «toglie la differenza tra essere e non essere»,49 l'amore, che acquisisce un'inedita forza nell'individuare proprio il "questo" particolare prima detto, mantiene quella differenza che, invece, «viene meno di fronte al pensiero».50 L'ellisse sta qui, nell'irriducibilità del reale al pensiero per la differenza tra essere e non essere che, invece, il pensiero speculativo ingloba e riprende nella sua totalità. La nuova filosofia pensa la differenza là dove il pensiero speculativo pensa l'identità, differenza che riguarda l'essere e il non essere, l'irriducibilità del pensiero alla realtà. Non riguarda invece finito e infinito, per i quali si tratta piuttosto dell'inveramento del secondo nel primo, ché "l'infinito è il vero finito". È identificazione, questa verità? È il riproporsi dell'identità di finito e infinito? Che l'infinito sia il vero finito non ne implica necessariamente l'identificazione né la totale differenza; implica che l'uno sia la verità dell'altro pur mantenendosi quell'impercettibile distanza che impedisce la soluzione dell'uno nell'altro, dell'infinito nel finito e del finito nell'infinito. Perciò proponiamo di pensare l'infinito come il lato rovescio del finito, dove il rovescio aderisce al diritto senza mai identificarvisi e rilanciandone continuamente la finitezza mai circolarmente esaurita e sempre ellitticamente mantenuta in una mancanza che è distanza e scarto nel quale l'uno (infinito) si consegna alla e nella realtà dell'altro (finito). Come un tappeto o un ricamo dove il lato rovescio consegna il (e si consegna nel) disegno del lato diritto e visibile è possibile per la distanza della tela o della tessitura, allo stesso modo l'infinito è verità del finito nella misura in cui non si identifica con esso lasciando il finito a una finitezza non circolarmente chiusa in sé né contraddittoriamente superata nell'infinito. Un finito trafitto dell'infinito che in esso si consegna pur restando distante (perché differente) ma non estraneo (perché sua verità). Un finito fuoco di un'ellisse il cui secondo fuoco (l'infinito) lo trapassa trafiggendolo senza assumerlo e solverlo. La distanza tra i due fuochi si gioca, allora, nella distanza che finito e infinito mantengono mentre e perché restano fuochi della medesima ellisse.

A togliere astrattezza a questo discorso è l'uomo, ellisse nella quale finito e infinito si trapassano erodendo in esso quella distanza che il pensiero speculativo non coglie (perché la salda) ma anche lasciandolo sempre nella distanza qualitativa da quello che il pensiero speculativo circolarmente riprende per esaurirlo, formulando un "pensiero su Dio". Viceversa, la distanza che l'infinito scava nel finito inverandolo è anche distanza che si mantiene nel piano in cui l'uomo s'interroga su Dio. Affermazione che va svolta su due piani: un primo che si spinge alla declinazione della celebre tesi per la quale «l'essenza della teologia è l'antropologia».51 Un secondo, che si colloca già nell'antropologia domandando quale sia innanzitutto dell'essenza dell'uomo. In tal senso va la prima parte de L'essenza del cristianesimo, dove è questione dell'accordo della religione con l'essenza dell'uomo. Accordo che non è identificazione ma verità nella distanza. Ci focalizzeremo soprattutto su questo secondo senso, percorso scelto nell'interpretazione del pensiero di Feuerbach come pensiero del rovescio in quanto distanza, pensiero della distanza e nella distanza, dell'ellisse e non del cerchio, della verità dell'infinito in quanto inverante il finito e non dell'identificazione concepita e rappresentata dalla speculazione.

3. L'essenza dell'uomo in generale

«Il segreto della teologia è l'antropologia»,52 ma la distanza, sosteniamo, è il segreto dell'antropologia; ovvero: l'essenza dell'uomo reca in sé una distanza che la apre alla teologia rendendo possibile l'accordo tra Dio e uomo e esclusivamente l'identificazione. Se resta inconfutabile la sconfitta del cristianesimo (o almeno di una certa sua interpretazione, speculativa) ,53 inaggirabile resta la scoperta del rovescio dell'uomo, o meglio, il ritrovamento di tale rovescio e la sua distanza.

In primo luogo la distanza dall'animale, determinata dal fatto che soltanto l'uomo ha la coscienza, la quale è «sentimento di sé, facoltà di distinzione»54 che l'animale non possiede, almeno non la possiede come coscienza del suo genere, della sua essenzialità.55 Infatti, «dove c'è coscienza c'è facoltà di scienza» e «la scienza è la coscienza dei generi».56 E mentre nella vita trattiamo con individui, nella scienza trattiamo con generi. L'animale, allora, ha, sì, «per oggetto se stesso come individuo -- perciò ha sentimento di sé -- , ma non come genere -- perciò gli manca quella coscienza che deriva il suo nome da scienza».57 Ancora, mentre la vita dell'animale è semplice, quella dell'uomo è duplice, esteriore e interiore, capace di conversare e parlare con se stesso: «L'uomo, rispetto a se stesso, è contemporaneamente Io e Tu, di fronte a se stesso può ricoprire il posto dell'altro», il che è impossibile all'animale «che non può svolgere alcuna funzione del genere senza un altro individuo fuori di lui», mentre l'uomo «ha per oggetto il suo genere, la sua essenza, non solo la sua individualità».58 A questi passi segue il riferimento alla religione, la quale, identificandosi con l'essenza dell'uomo, «s'identifica con l'autocoscienza, con la coscienza che ha l'uomo della propria essenza». Ed essendo la religione, «in termini universali, coscienza dell'infinito, [...] non è e non può essere altro se non la coscienza che l'uomo ha della sua essenza, e questa non finita, limitata, ma infinita».59 Una coscienza limitata non è neppure chiamata coscienza ma "istinto"; invece, «la coscienza in senso stretto o proprio e la coscienza dell'infinito s'identificano. Una coscienza limitata non è coscienza; la coscienza è essenzialmente di natura infinita».60 Ancora, coscienza dell'infinito è coscienza dell'infinità della coscienza e, osserva Feuerbach, «nella coscienza dell'infinito l'ente cosciente ha come oggetto solo l'infinità della sua propria essenza».61

Chiedendo poi che cosa l'essenza dell'uomo sia, essenza di cui ha autocoscienza, e chiedendosi che cosa costituisca il genere, l'umanità vera dell'uomo, il filosofo tedesco risponde con i termini «ragione, volontà, cuore»: «Volere, amare, pensare sono le facoltà supreme, sono l'essenza assoluta dell'uomo in quanto tale e il fondamento del suo esistere».62 E proprio per queste tre facoltà Feuerbach parla di trinità che abita l'uomo facendolo altro da se stesso, o forse e meglio, distante da sé. Ché, infatti, «la volontà, l'amore o il cuore non sono facoltà che l'uomo possieda [...] ma in quanto facoltà, elementi o principi che costituiscono la sua essenza, un'essenza che egli né possiede, né fa, sono forze che animano, determinano, dominano -- forze divine, assolute».63 E della trinità di ragione, amore e volontà, Feuerbach dice che essa è nell'uomo ma anche al di sopra dell'uomo.64 Certo, stando a questi passi è difficile confermare la tesi della distanza tra uomo e Dio e il senso del non ("Dio non è ciò che è l'uomo -- l'uomo non è ciò che è Dio"), ché l'identificazione Dio-uomo sembrerebbe vincere sulla distanza. Quando poi leggiamo che «ogni ente ha in sé il proprio Dio, la propria essenza suprema» e «se esalti la gloria di Dio, esalti la gloria della tua propria essenza»,65 sembra addirittura impossibile uscire dall'identificazione che fa l'uomo Dio escludendo Dio. Di più, la conclusione dell'opera e il celebre annuncio homo homini Deus non dice altro da quest'esclusione. Più che distanza, dunque, parrebbe consumarsi un allontanamento di Dio. O meglio, si consuma l'identificazione dell'uomo con ciò che egli individua come suo Dio, passando proprio attraverso quel finito/infinito prima detto. Ma tutte queste affermazioni sono cariche, sempre, dello scarto, della differenza e della distanza dei fuochi dell'ellisse e non della compiutezza del cerchio. E soprattutto, sono dette pensando l'infinito come il lato rovescio del finito, dove il rovescio aderisce al diritto senza mai identificarvisi e rilanciandone continuamente la finitezza mai circolarmente esaurita e sempre ellitticamente mantenuta in una mancanza che è distanza e scarto nel quale l'uno (infinito) si consegna alla e nella realtà dell'altro (finito). Detto altrimenti, la tensione tra complementarietà ed esclusione di Dio e uomo non è destinata a esaurirsi.

«Se pensi l'infinito, pensi e confermi l'infinità della facoltà di pensare; se senti l'infinito, senti e confermi l'infinità della facoltà di sentire».66 Questo pensiero dell'infinito non identifica l'uomo idolatricamente con Dio; v'è un limite, una distanza che tiene i due fuochi dell'ellisse separati: «L'intelletto è l'orizzonte della tua essenza. Fin dove arrivi a vedere, fin lì si estende la tua essenza e viceversa. [...] E fin dove giunge la tua essenza, fin lì arriva il tuo illimitato sentimento di te, fin lì tu sei Dio».67 Fin lì, nell'infinito che trafigge il tuo finito, non oltre; fin lì, fino alla soglia, non oltre. E il sentimento è «in te al di sopra di te»,68 in quella dinamica di possesso e spossessamento possibile per la distanza. Che cosa, tuttavia, tale distanza fa scoprire nell'uomo dell'uomo, oltre al suo essere abitato da ciò che è sopra di lui? Che cosa gli dà in lui? Quale rovescio gli fa scoprire?

4. Mistero della Trinità, mistero dell'uomo

Tale distanza gli fa scoprire il mistero che è in lui, quello che spossessandolo lo abita e che non domina né possiede. "Mistero" in questo senso, dunque. Ma, di nuovo, non si tratta dello stesso mistero per la Trinità e per l'uomo, ché l'uno è "distante" dall'altro. «Solo un ente che implichi in sé tutto l'uomo può pure appagare tutto l'uomo» e «la coscienza che l'uomo ha di sé nella sua totalità è la Trinità».69 A dire che il senso della prima trinità detta, la trinità "volontà intelletto e cuore" si compie e trova la sua possibilità di unità nella coscienza della Trinità. E ancora: «Il segreto di questo Mistero non è altro che il segreto dell'uomo stesso» e «le presunte immagini attraverso le quali si è cercato di illustrare, di rendere comprensibile la Trinità erano prevalentemente: spirito, intelletto, memoria, amore, mens, intellectus, memoria, voluntas, amor».70 Spirito, intelletto, memoria, amore, tuttavia, diversi in Dio e nell'uomo; diversi della distanza dei due fuochi della medesima ellisse.

Sostenere la distanza non aggira o elude in nulla la propensione feuerbachiana all'esclusione di Dio da parte dell'uomo, esclusione che sembra prevalere su una complementarietà resa possibile, invece, dalla distanza:

Dio pensa e, anzi pensa se stesso, conosce se stesso e ciò che è pensato, conosciuto è Dio stesso. L'oggettivazione dell'autocoscienza è il primo aspetto che riscontriamo nella Trinità. L'autocoscienza si impone necessariamente, involontariamente all'uomo come qualcosa di assoluto. [...] L'autocoscienza ha per l'uomo, anzi, ha di fatto in se stessa un significato assoluto. Un Dio non consapevole di sé, un Dio senza coscienza non è un Dio. Come l'uomo non può concepirsi senza coscienza, così neppure Dio può esserlo. L'autocoscienza divina non è altro che la coscienza della coscienza in quanto essenzialità assoluta.71

Qui, in questa Trinità pensata sul modello di quella umana (Padre / intelletto, Figlio / volontà, Spirito Santo / amore) sembra essere escluso ogni riferimento alla Trinità divina. E invece la scoperta dell'infinito come essenza del finito, proprio là dove si parla della Trinità/trinità divina e umana, mette in luce la scissione dell'essenza umana stessa, «dell'uomo in sé»;72 mette in luce il suo limite, che Feuerbach nomina «dissidio dell'uomo con la sua propria essenza».73 Se la critica al cristianesimo per Feuerbach è indubbia, altrettanto lo è la tensione che egli individua nell'uomo. All'esclusione di Dio il filosofo arriva per rispondere in modo diametralmente opposto ad una religione che esclude l'uomo pensando l'essenza divina nella reciproca opposizione all'umano. Ma tra le due esclusioni estreme e antipodiche si situa quell'umanesimo per il quale la scissione è avvertita perché l'essenza è la stessa ma non identica, nell'ordine della complementarità Dio-uomo e non nell'ordine dell'identificazione. Perciò, «quell'essenza dalla quale l'uomo si sente scisso, dev'essere un'essenza a lui innata, benché nel contempo debba essere di costituzione diversa dall'essenza o facoltà che gli conferisce il sentimento, la coscienza dell'unità, della conciliazione con Dio o, cosa che è poi identica, con se stesso».74 E più oltre: «Se l'uomo trova pace in Dio, la prova solo perché Dio è finalmente la sua vera essenza, perché solo in lui è presso di sé, perché tutto quello in cui finora aveva cercato pace e che aveva scambiato per sua essenza è un'essenza diversa, estranea».75 Vera essenza che nulla ci dice essere non differente; che nulla ci dice essere complementare e non medesima. Complementare in vece che medesima.

Se -- dunque -- indubbia e incontestata è la critica alla religione e l'opposizione totale a una religione che pensa l'essenza di Dio in quanto altra dall'uomo, è anche vero che la formulazione della tesi feuerbachiana non esclude la complementarietà Dio-uomo. Non la esclude perché v'è un punto medio tra la posizione di Feuerbach e la teologia criticata in cui l'uomo è scoperto, rivelato a se stesso, e questo proprio nella riflessione sulla trinità. «L'autocoscienza divina non è altro che la coscienza della coscienza in quanto essenzialità assoluta»,76 si è detto. Questo, però, «non esaurisce affatto la Trinità»,77 e il Dio trinitario non è un Dio isolato e chiuso. Soltanto il Dio della speculazione è un Dio unico e separato da tutto, ché «la solitudine è un bisogno del pensiero [...] . Solitudine è autarchia -- solo nell'intelligenza, solo nell'atto del pensiero siamo senza bisogni».78 «Dio come Dio, scrive ancora Feuerbach, non è altro che la coscienza della facoltà del pensare, della facoltà di astrarre da tutti gli altri e di poter essere solo per sé e con sé; una coscienza, beninteso, qual è oggetto per gli uomini all'interno della religione, cioè come essenza separata, distinta dall'uomo».79 Il Dio in relazione soltanto con se stesso è il Dio Padre mentre Dio Figlio è la relazione di Dio con noi. «In Dio come Dio l'uomo è rimosso, nel Figlio ritorna. Il Padre è l'essenza metafisica alla quale la religione si appiglia, giacché senza includere in sé l'elemento metafisico sarebbe incompleta; nel Figlio, Dio è finalmente oggetto della religione; Dio come oggetto della religione, come Dio religioso, è Dio Figlio. Nel Figlio, l'uomo diventa oggetto; in lui si concentrano tutti i bisogni umani».80 E il bisogno umano per primo è «la società, un bisogno del cuore».81 In questo sta il mistero della Trinità, ossia nel bisogno umano di una vita in comune. Da un Dio solitario, di fatti, «è escluso il bisogno, essenziale all'uomo, di amore, di comunione dell'autorealizzazione reale, adempiutasi, dell'alter ego nel senso più stretto e ampio. Questo bisogno, dunque, appagato, accolto nella quieta solitudine dell'essenza divina, è Dio Figlio -- un altro secondo ente, differente dal Padre nella personalità ma nell'essenza identico a lui -- il suo alter ego».82

La religione distorce, nel mistero della Trinità, questo bisogno umano, dove la terza persona, lo Spirito Santo, non è altro dal bisogno di amicizia e comunità. Ancora, «la seconda persona è l'autoaffermazione del cuore umano, il principio della vita comunitaria, l'amore».83 La critica alla Trinità e al suo mistero è chiara: in essa l'uomo vedeva esaltati i propri bisogni di amore e socialità. Ciò chiarito, e posto che lo Spirito Santo è amore, perché Feuerbach torna ancora sulla Trinità, dopo averla criticamente attraversata? Per pensare un Dio che si comprometta con l'uomo, finito e non proiezione della filosofia. Solo un Dio in cui ci sia «la stessa essenza del finito, l'essenza del sentimento di dipendenza, il principio dell'empiria, del non-esser-da-se-stesso»84 è un Dio «per un ente empirico, finito».85 E ancora: «Come l'uomo religioso non può amare un Dio che non abbia in sé l'essenza dell'amore, così l'uomo, o più in generale, un ente finito non può essere oggetto di un Dio che non abbia in sé il fondamento, il principio della finitezza. A un tale Dio mancherebbe il senso, l'intelletto, la partecipazione al finito».86 E tale partecipazione è il Figlio, che Dio genera rinunciando alla sua esclusiva divinità: «Egli si abbassa, si umilia, pone in sé il principio della finitezza, dell'esser-da-un-principio; diventa uomo nel Figlio».87 Nella Trinità è, dunque, anche il segreto dell'amore all'uomo, ché «Dio Padre ama gli uomini solo nel Figlio per il Figlio. L'amore verso gli uomini è un amore derivato dall'amore per il Figlio».88

Inoltre, nella Trinità questa relazione è reale e non va intesa in senso figurato ma «in senso proprio»89: «Il Padre è padre reale in relazione al Figlio, il Figlio è figlio reale in relazione al Padre. La loro essenziale differenza personale consiste soltanto nel fatto che l'uno è generante, l'altro generato. Se si elimina questa determinatezza naturale, empirica, si toglie la loro personale esistenza e realtà».90 Lo Spirito Santo, infine, è l'amore che lega Padre e Figlio. È per cogliere l'essenza antropologica della Trinità, allora, che Feuerbach vi insiste; essenza antropologica perché "in accordo", complementare e rispondente a un uomo che si scopre, esso stesso e in sé, vivente relazione. Un Dio "in cui ci sia la stessa essenza del finito" fa scoprire anche al finito la sua essenza. Da parte dell'uomo, perciò, «la religione è la coscienza di sé [...] nella sua totalità empirica: in essa l'identità dell'autocoscienza esiste solo come unità piena, ricca di relazioni fra io e tu».91

Nella stessa direzione, in Filosofia dell'avvenire leggiamo che «l'essenza dell'uomo è contenuta soltanto nella comunità, nell'unità dell'uomo con l'uomo che però si fonda soltanto sulla realtà della differenza tra io e tu».92 E ancora: «L'uomo con l'uomo, cioè l'unità di io e tu, è Dio»,93 dove la vita in comune è libertà e infinità; contro un filosofo assoluto che dice "la vérité c'est moi" il filosofo umano annuncia che «anche nel pensare, anche da filosofo, io sono uomo con gli uomini».94 Ovvero, come recita lapidario il § 62: «La vera dialettica non è un monologo del pensatore solitario con se stesso, è un dialogo io-tu».95 E infine:

La trinità era il supremo mistero, il punto centrale della filosofia e religione assoluta. Ma questo mistero, come fu dimostrato storicamente e filosoficamente nell'Essenza del cristianesimo, è il mistero della vita collettiva, della vita in società, è il mistero della necessità del tu per l'io; e ne deriva che nessun ente, sia o si chiami uomo o Dio, spirito o io, è da solo un ente vero, perfetto e assoluto.96

E tuttavia, trovare nella relazione il senso dell'uno e dell'altro non significa identificare l'uno con l'altro (finito/infinito, Dio/uomo, Trinità/trinità). È piuttosto cercarne il vero senso, la vera essenza che la speculazione ha ridotto alla profanazione del pensiero, pretendendo di istituire e porre il mistero senza preservarne la distanza. Profanando il Mistero trinitario affermandone ciò che il pensiero ne poteva cogliere. L'idroterapia pneumatica che Feuerbach propone fin dalla Prefazione97 de l'Essenza della religione, è l'ironico tentativo di proporre un "metodo" che apra gli occhi e rischiari, mirando allo scopo autentico di quest'opera, quel socratico gnoti sauton che ne rappresenta «il vero epigramma e tema».98

"Conosci te stesso" che invita a fare il contrario della rappresentazione, di quel ri-presentare-a che pone il proprio oggetto davanti al pensiero. Si tratta, piuttosto, di un percorso nel quale due essenze, quella della religione e quella dell'uomo, vengono scoperte nella loro dimensione radicale, antropologica senza che le distanze siano annullate. In fondo, quale Dio parlerebbe a un uomo che non potrebbe intenderlo? Nessuna analogia si affaccia in queste pagine, mantenendosi invece quella distanza che criticamente mette in crisi, chiarisce e pulisce, come acqua, concetti astrattamente ipostatizzati (Dio, innanzitutto, ma anche l'uomo) per coglierne l'essenza. Contro questa duplice ipostatizzazione, e prima dell'esclusione di Dio in una filosofia dell'avvenire che intende risolvere completamente la teologia nell'antropologia,99 v'è la terra di mezzo in cui Dio e uomo si pongono in quella distanza nella quale reciprocamente vivono, fuori dal pensiero, di uno scambio interno a entrambi, dove la complementarità non salda la distanza che fa esigere un Dio in cui ci sia «la stessa essenza del finito, l'essenza del sentimento di dipendenza, il principio del'empiria, del non-esser-da-se-stesso»,100 un Dio che sia «per un ente empirico, finito»,101 un Dio che ami l'uomo.

In questo scambio e commercio, Dio e uomo reciprocamente s'istruiscono, fuori dalla speculazione, in una distanza che è esterna perché innanzitutto interna; che è tra Dio e uomo perché è prima in Dio e nell'uomo. In Dio, nello scambio vivente delle persone che lo restituisce oltre e dopo il concetto che lo proclama "oggetto" teologico. Nell'uomo, cogliendosi questi non come ego assoluto ma come scambio io-tu vivente; commercio, societas vivente che ne è il suo rovescio, quel lato che la solitudine dell'ego trascendentale obnubila. Ma commercio e scambio chiedono la distanza da sé, o la scissione, nel linguaggio di Feuerbach. Così, la profanazione della rappresentazione moderna che pone concetti miranti alla totalità non basta a dire un Dio che l'uomo costruisce costruendo reciprocamente sé nel concetto col quale si rappresenta. Alla profanazione dell'idolatria concettuale risponde, invece, una filosofia «convertita in succum et sanguinem, fattasi carne e sangue, fattasi uomo»102 che mette alla prova la teologia, fino al suo rifiuto, per pensare ancora l'uomo. Di inizio in inizio, secondo inizi che non avranno mai fine.

Copyright © 2011 Carla Canullo

Carla Canullo. «Mistero e Trinità ne L'essenza del cristianesimo di Ludwig Feuerbach». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [**59 B].

Note

  1. Ruolo per il quale rinviamo a quest'introduzione, dal titolo L'opera e il suo autore, in L. Feuerbach, L'essenza del cristianesimo, a cura di F. Tomasoni, Laterza, Roma-Bari 20074, pp. IX-XXXVI. Testo

  2. K. Barth, La teologia dialettica e il pensiero di Feuerbach, in Karl Barth. Antologia, ed. it. a cura di E. Riverso, Bompiani, Milano 1964, pp. 105-134; cit. a p. 105. Quanto citiamo del testo barthiano non deve ingannare circa la radicalità dell'avversione del teologo a Feuerbach. È il giudizio di Ugo Perone nel testo Teologia ed esperienza religiosa in Feuerbach, Mursia, Milano 1972, p. 14. Testo

  3. Ibid., p. 106. Testo

  4. Ibid. Testo

  5. Ibid., p. 132. Testo

  6. Ibid., p. 133. Testo

  7. Ibid. Testo

  8. Ibid., p. 134. Testo

  9. K. Barth, Feuerbach, in La teologia protestante nel XIX secolo. Vol. 2: La Storia, introduzione e cura di I. Mancini, trad. it. di G. Bof, Jaca Book, Milano 1980, p. 123. Testo

  10. Ibid. Testo

  11. Ibid. Testo

  12. Ibid., p. 126. Testo

  13. Ibid. Testo

  14. Ibid. Testo

  15. Ibid. Testo

  16. E dunque, sebbene l'uomo feuerbachiano resti sempre l'uomo ideale e non reale. Testo

  17. Cfr. A. Caracciolo, Dio e spazio religioso in Feuerbach, in Nichilismo ed etica, il Melangolo, Genova 1983, pp. 135-178. Il giudizio di Perone è stato già riportato. Testo

  18. Barth, La teologia dialettica e il pensiero di Feuerbach, cit., pp. 131-132. Testo

  19. Ibid., p. 132. Testo

  20. Ibid. Testo

  21. Ibid. Testo

  22. Quanto alla difesa di Feuerbach dall'assenza di una riflessione sulla morte cfr. Caracciolo, Dio e spazio religioso in Feuerbach, cit., pp. 155 ss., sul male cfr. ibid., pp. 162 ss. Sul tema si veda anche Perone, Teologia ed esperienza religiosa in Feuerbach, cit., soprattutto il secondo capitolo, Il problema della morte e del limite, pp. 55-91. Testo

  23. Ibid., p. 8. Testo

  24. Ibid., p. 213. Testo

  25. Ibid., p. 14. Testo

  26. Ibid., pp. 14-15. Testo

  27. Ibid., p. 209 per entrambe le citazioni. Testo

  28. Ibid., p. 210-211. Testo

  29. Pensiero oscillante, come giustamente individua Perone, tra la definizione della religione come teologia e come esperienza religiosa, le quali «nel loro reciproco e irriducibile escludersi e nel loro continuo e perenne implicarsi costituiscono (per Feuerbach) i due poli a partire dai quali la religione può essere intesa» (ibid., p. 8). Testo

  30. L. Feuerbach, L'essenza del cristianesimo, cit., p. 53. Testo

  31. Un'idea non lontana -- anzi, prossima -- è espressa da Perone nei termini di "incommensurabilità" di Dio e uomo pensata non già da Feuerbach ma da Barth proprio come risposta al dilemma posto dal filosofo tedesco alla teologia. Chiediamo: è possibile che tale categoria, nuova, si sia affacciata perché già la distanza era l'ombra impensata della critica di Feuerbach al cristianesimo? Testo

  32. Di Pareyson si veda Due possibilità: Kierkegaard e Feuerbach, in Esistenza e persona, il Melangolo, Genova 1985, pp. 41-78; sulla ripresa di questo testo, Perone, Teologia ed esperienza religiosa in Feuerbach, cit., pp. 86 ss. Testo

  33. Cfr. Pareyson, Due possibilità: Kierkegaard e Feuerbach, cit. Testo

  34. Ibid., p. 58. Testo

  35. L. Feuerbach, Principi della filosofia dell'avvenire, ed. it. a cura di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1967, pp. 164-165. (§ 48). Testo

  36. Ibid., p. 166 (§ 50) Testo

  37. Ibid., p. 150 (§ 34). Testo

  38. Ibid., p. 151 (§ 36). Testo

  39. Ibid., p. 171 (§ 58). Testo

  40. L. Feuerbach, Tesi preliminari per la riforma della filosofia, in Scritti filosofici, ed. it a cura di C. Cesa, Laerza, Bari-Roma1976, p. 179. Testo

  41. Ibid., p. 180. Testo

  42. Ibid., p. 181. Testo

  43. Ibid., p. 183. Riportiamo tutto il passo, a nostro avviso centrale perché esplicita efficacemente il cerchio che, secondo Feuerbach, simboleggia il pensiero speculativo hegeliano: «"Il finito vien derivato dall'infinito" significa: l'infinito, l'indeterminato, vien determinato e negato; si ammette che l'infinito senza determinazione, cioè senza finitezza, non è niente se non in quanto è posta la realtà dell'infinito, cioè la finitezza. Ma il monstrum negativo dell'assoluto continua a restare a fondamento; la finitezza posta torna sempre a esser tolta. Il finito è la negazione dell'infinito e poi l'infinito è la negazione del finito». Testo

  44. Ibid. Testo

  45. Ibid. Testo

  46. Ibid., p. 184. Testo

  47. Feuerbach, Principi della filosofia dell'avvenire, cit., p. 148 (§ 33). Testo

  48. Ibid., p. 149 (§ 33). Testo

  49. Ibid. Testo

  50. Ibid. Testo

  51. Feuerbach, Tesi preliminari per la riforma della filosofia, cit., p. 178, ma l'affermazione ricorre nella pressoché totalità delle opere feuerbachiane. Testo

  52. A conferma di quanto detto nella nota precedente, questa volta riportiamo la citazione da L'essenza del cristianesimo, cit., p. 7. Testo

  53. Sulla complementarietà ed esclusione di cui abbiamo detto, Perone rimarca che il contributo di Feuerbach «sta nell'aver tentato di mantenere contemporaneamente i due termini di complementarietà ed esclusione anche se questo è culminato, da un punto di vista cristiano, in un fallimento» (Perone, Teologia ed esperienza religiosa in Feuerbach, cit., p. 14). Testo

  54. Feuerbach, L'essenza del cristianesimo, cit., p. 25. Testo

  55. Ibid. Testo

  56. Ibid. Testo

  57. Ibid. Testo

  58. Per tutti questi passi, cfr. ibid., p. 26. Testo

  59. Ibid., per entrambe le citazioni. Testo

  60. Ibid., i corsivi di Feuerbach. Testo

  61. Ibid., p. 27 per tutti i passi. Testo

  62. Ibid., passim. Testo

  63. Ibid., pp. 27-28. Testo

  64. Ibid., p. 27. Testo

  65. Ibid., p. 32. Testo

  66. Ibid. Testo

  67. Ibid. Testo

  68. Ibid., p.35. Testo

  69. Ibid., p.78. Testo

  70. Ibid. Testo

  71. Ibid., pp. 78-79. Testo

  72. Ibid., p. 53. Testo

  73. Ibid. Testo

  74. Ibid. Testo

  75. Ibid., p. 56. Testo

  76. Ibid., p. 79. Testo

  77. Ibid. Testo

  78. Ibid., p. 80. Testo

  79. Ibid., pp. 80-81. Testo

  80. Ibid., p. 80. Testo

  81. Ibid. Testo

  82. Ibid., p. 81. Testo

  83. Ibid., p. 82. Testo

  84. Ibid., p. 83. Testo

  85. Ibid. Testo

  86. Ibid. Testo

  87. Ibid., p. 82. Testo

  88. Ibid, p. 83. Testo

  89. Ibid. Testo

  90. Ibid. Testo

  91. Ibid., p. 79. Testo

  92. Feuerbach, Principi della filosofia dell'avvenire, cit., p. 178 (§ 59). Testo

  93. Ibid., p. 172 (§ 60). Testo

  94. Ibid.,, p. 172 (§ 61). Testo

  95. Ibid.,, p. 172 (§ 62). Testo

  96. Ibid., pp. 172-173 (§ 63). Testo

  97. Feuerbach, L'essenza del cristianesimo, cit., p. 7 ss. Testo

  98. Ibid. Testo

  99. Feuerbach, Principi della filosofia dell'avvenire, cit., p. 178 (§ 52). Testo

  100. Ibid., p. 83. Testo

  101. Ibid. Testo

  102. Feuerbach, L'essenza del cristianesimo, cit., p. 15. Testo

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