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La forma della testimonianza.
La spiritualità della santità secondo Hans Urs von Balthasar

di Carla Canullo (20-21 marzo 2009)

1. Testimonianza e filosofia

L'interesse della filosofia per la testimonianza non è recente. Chi non ha presenti le pagine che Levinas vi ha dedicato in Altrimenti che essere o al di là dell'essenza1 o l'insistenza che, al tema, ha riservato Paul Ricœur, tornandovi in più luoghi e proponendone le diverse declinazioni? Già negli anni '70, uno dei colloqui di filosofia della religione organizzato da Enrico Castelli era interamente dedicato alla testimonianza e alle sue diverse forme.2

Né poco noto è il motivo che ha segnato l'interesse per il tema, che potremmo riassumere ricordando come il ricorso alla testimonianza abbia rappresentato una tra le possibilità di mettere in questione il paradigma per il quale verità coincide con l'evidenza e la certezza poste dal soggetto. In Levinas, infatti, il soggetto rovesciato dal nominativo nell'accusativo dell'«Eccomi» («la soggettività al di qua della reificazione»), pronunciandosi dà testimonianza all'infinito «come testimonianza che non tematizza ciò che testimonia e la cui verità non è verità di rappresentazione».3 Non la verità espressa dalla rappresentazione che già da tempo Levinas aveva individuato nella «rovina»4 cui è incorsa con l'avvento della fenomenologia, giacché mentre «la relazione classica tra il soggetto e l'oggetto è una presenza dell'oggetto e una presenza presso l'oggetto»,5 l'intenzionalità «porta in sé gli innumerevoli orizzonti delle sue implicazioni e pensa infinitamente più «cose» dell'oggetto in cui essa si fissa. Affermare l'intenzionalità significa percepire il pensiero come legato ad un implicito in cui esso non cade accidentalmente, ma in cui si trova in modo essenziale. Di conseguenza, il pensiero non è più né puro presente, né pura rappresentazione»6 .

Il testo di Levinas ruota interamente attorno all'intenzionalità husserliana per ribadire incessantemente questo: con l'intenzionalità, la rappresentazione si sgretola, si rovina, perde la propria sovranità. La rovina della rappresentazione non apre però -- altrettanto rovinosamente -- ad un «non sapere», ma conduce verso un «nuovo sapere», capace di testimoniare la «gloria dell'Infinito»7. Ciò che non è rappresentato, posto dal soggetto, ri-presentato-a [secondo l'etimologia di rappresentazione: «ri-presentare-a»] ,8 non è perciò non conosciuto ma, anzi, è conosciuto altrimenti, in questo caso testimoniato.

Per ragioni diverse, ma raggiungendo motivi quanto mai prossimi, anche Paul Ricœur ha riflettuto sulla testimonianza cercandone la portata aletica. Non testimonianza dell'Infinito ma testimonianza dell'Assoluto; o meglio, testimonianza che è affaire «di una filosofia per cui la questione dell'assoluto è una questione sensata».9 L'orizzonte di Ricœur è, negli anni '70, quello appreso dalla lettura di Jean Nabert, dal quale l'Assoluto è concepito come «affermazione originaria», ossia come affermazione assoluta dell'assoluto (presente nel soggetto) che assume la forma della «spoliazione» nella quale emerge -- per vie diverse da quelle kantiane sebbene rievocate, queste, dal linguaggio utilizzato -- un incondizionato: «Quando il pensiero dell'incondizionato ha perduto ogni appiglio negli oggetti trascendenti della metafisica, quando ha rinunciato ad ogni oggettivazione imposta dall'intelletto è allora che l'esigenza dell'assoluto, ridotta all'approfondimento di un atto immanente ad ognuna delle nostre operazioni, può essere testimoniata».10 Questo piano assoluto dell'esistenza, che si traduce nell'esistenza, è un infinito intensivo, un assoluto per il quale «noi non siamo (realmente o effettivamente) ciò che siamo assolutamente»; di esso non si ha conoscenza diretta ma soltanto un sapere indiretto, una testimonianza. Ma come è possibile congiungere, chiede Ricœur, «l'interiorità dell'affermazione originaria e l'esteriorità degli atti e delle esistenze che sono dette testimoniare l'assoluto? Un'ermeneutica della testimonianza si sforza di risolvere proprio questo paradosso».11

Per rispondere alla questione e risolvere questo paradosso Ricœur dialogherà con Nabert, del quale condivide le questioni e la ricerca: «Possiamo discernere l'Assoluto solo grazie all'Assoluto che è in noi».12 La testimonianza è fenomeno o esperienza non di qualcosa che sta di fronte al testimone al modo dell'oggetto, ma è testimonianza resa da un atto ad un altro atto, dove l'assoluto è «testimoniato» e riconosciuto per il piano assoluto e metafisico che è in noi. La testimonianza attesta, testimonia di un atto interiore che si proietta, s'implica, si dissimula nel fenomeno; reciprocamente, perché l'opera o la parola diano testimonianza, occorre un testimone. Ciò, tuttavia, è vero per fatti o opere, ma, quando si tratta dell'Assoluto, in che modo possiamo pensare alla testimonianza che gli è resa?

A tal proposito Nabert osserva -- e Ricœur con lui -- che «possiamo discernere l'assoluto solo grazie all'assoluto che è in noi», complicando ulteriormente il problema per chiarirlo subito dopo: «Ritroviamo sempre la stessa questione: fondare l'assolutezza dell'affermazione prima, lontana tanto dalla soggettività come tale che dalla trascendenza, senza farla dipendere dall'irruzione di un assoluto trascendente».13 A dire che l'assoluto che è in noi è il criterio di discernimento di ogni altro assoluto senza che, con questo, si identifichi, giacché si tratta soltanto di ciò che ne permette il riconoscimento. Perciò il significato della parola testimonianza può essere esteso fino ad indicare «sia un'azione che un'opera, in quanto esse attestano sia volontà, intenzione, ispirazione, idea, sia il racconto di un testimone che riferisce di ciò che ha visto».14 Certo, se il «problema» della veridicità trova risposta nella non eccentricità del principio che si verifica nella coscienza, l'eccezionalità della testimonianza resa all'assoluto non può mantenersi allo stesso livello di una testimonianza resa con un'azione e un'opera. Se però i piani fossero assolutamente separati, l'esperienza dell'assoluto perderebbe la propria scommessa nel punto più radicale della questione, ossia nel livello in cui il problema tocca l'eccentrica (de-centrata) verità del «Ciò/Chi» al quale è reso testimonianza. Che tra diverse forme di testimonianza (etica, artistica, religiosa, politica...) ci sia una differenza è un dato di fatto, entrambe però danno da conoscere, sono una certezza diversa da quella che il soggetto raggiunge autoponendosi come fonte di diritto del sapere. È una certezza indiretta, o meglio ancora è un sapere ermeneutico domandato dall'affermazione assoluta stessa:

Quando si produce un'affermazione che è, a seconda del punto di vista a partire dal quale la guardiamo, sia l'affermazione che afferma l'Assoluto sia l'affermazione nella quale l'Assoluto si afferma, la certezza della tesi può essere verificata solo in atti nei quali apparirebbe lo stesso adeguamento tra l'atto e il pensiero che lo ispira, o più ancora, lo stesso adeguamento che c'è tra l'essere che agisce e l'idea che «lo» agisce, o meglio che agisce in lui [...] . L'ermeneutica dell'Assoluto è fondata, giustificata come tale nell'orientamento della sua ricerca. Ma i segni sui quali essa fa fondamento per essere certa di essere un'espressione assoluta dell'Assoluto comportano un margine di interpretazione.15

L'assoluto che è in noi è il criterio per discernere ogni altro assoluto, dunque; ma lo è in quanto criterio di discernimento che non lascia spazio ad alcuna identificazione tra il piano dell'assoluto e l'assoluto che anche in essa si testimonia e da essa è testimoniato. È questa la fonte della nota criteriologia nabertiana del divino: in noi c'è il criterio per discernere l'Assoluto che è fuori di noi testimoniandosi nella storia in atti assoluti di perdono, amicizia, fiducia. La forma dell'Assoluto in noi permette di discernere la forma dell'Assoluto fuori di noi.

Ricœur, nel 1972, ripercorreva e riproponeva ancora questa via, precisando che: 1- la testimonianza chiede interpretazione perché la manifestazione dell'Assoluto non è immediata ma mediata in segni; 2- offrendo qualcosa da interpretare la testimonianza suscita attività critica; 3- la testimonianza si dà nelle opere, generando un interessante scambio tra testimone e testimonianza. Nel movimento dall'affermazione originaria alla testimonianza, invece, e dunque dal testimone alla testimonianza, «l'affermazione originaria si muta in criteriologia del divino... perché il modo in cui una coscienza finita si appropria dell'affermazione che la costituisce può essere soltanto un atto critico. Non c'è nessuna intuizione unitiva, nessun sapere assoluto nel quale la coscienza prenderebbe contemporaneamente coscienza di sé e dell'assoluto. La presa di coscienza si dettaglia e disperde nei predicati, i predicati del divino. Questi predicati non sono i caratteri o le qualità di un essere in sé; essi sono l'espressione multipla e differente di un Atto puro che non può definirsi se attraverso delle qualità».16

Nessuna ri-ad-presentazione, dunque, dell'Assoluto (come già dell'Infinito di Levinas) ma un sapere ermeneutico (a differenza di Levinas) indiretto, dove l'Assoluto è colto negli atti, in modo mediato. In ogni caso, e fatte salve tutte le differenze, la testimonianza è un «sapere» che, dopo la rovina della rappresentazione, permette di dire il vero in modo diverso da quello della rappresentazione su ciò che è irrappresentabile (Infinito) e che, perciò, chiede un sapere diverso da quello epistemico (Ricœur). Nel primo caso, il soggetto in questione è l'«Eccomi» che dà testimonianza, passando dal nominativo all'accusativo che lo pone; nel secondo caso la testimonianza ridefinisce il testimone tramite ciò di cui egli è testimone: vi è una dialettica tra testimone e testimonianza per la quale «il testimone testimonia sempre per qualcosa o qualcuno che lo supera: in questo senso la testimonianza procede dall'Altro; ma l'impegno del testimone è anche la sua testimonianza; la testimonianza del Cristo sono le opere del Cristo».17 Il testimone dà testimonianza nell'opera e con le opere; e testimoniando dell'Altro e di altro è, per ciò stesso, testimone. Egli, dunque, è sé e altro; è testimone, e dunque , ma in quanto è per altro. Ovvero, è costituito in ciò che è dall'atto nel quale rende conto di a/Altro e ad a/Altro.

Questo Altro (Infinito, Assoluto) porta la filosofia nelle prossimità dell'esperienza di Dio: senza ripercorrere tutti i passaggi, bastino alcuni accenni a temi notissimi. In Altrimenti che essere o al di là dell'essenza, è noto l'obiettivo di Levinas di pensare un Dio non contaminato dall'essere,18 obiettivo della criteriologia del divino di Nabert (da cui Ricœur nel '72 riprendeva -- condividendolo -- lo schema argomentativo) era quello di pensare Dio non a partire dall'essere ma a partire dal divino, oltre ogni onto-teo-logia. L'esperienza di un Dio vivente era l'auspicio di entrambi, sebbene mirato percorrendo per vie tanto diverse, per Levinas la via etica, per Nabert quella della «metafisica della testimonianza»; indubbia la svolta che entrambe segnano e/o aprono, allontanandosi da un soggetto fonte auto-attestantesi di certezza verso un io/chi «testimone» di Altro. Dunque, ad essere in gioco non è soltanto Dio ma anche chi testimonia dell'esperienza dell'Assoluto e dell'Infinito, di Dio.

***

La filosofia, pensando il soggetto come testimone, lo de-centra, non riconoscendolo più come il momento fondatore-istituente ma pensandolo come istituito; in questo si apre all'esperienza di Altro, di Dio. Troviamo anche nella teologia figure di testimonianza e di testimone che, nell'esercizio stesso della sua testimonianza, portano alla luce Altro che lo costituisce in quanto testimone e gli dà la forma di testimone. Il che conduce alla tangenza tra filosofia e teologia, dove la differenza tra le due si mostra più «storica» che non scaturita dal loro «oggetto» e dalle loro questioni. Assumere il tema della testimonianza ci conduce in questa tangenza, nella quale l'esperienza di Dio accade riconfigurando l'umano. Hans Urs von Balthasar sarà compagno di cammino in questa seconda parte del percorso.

2. La testimonianza della forma

La riflessione di von Balthasar è stata definita una «estetica teologica»; né ciò è immotivato, visto il legame tra verità e bellezza, vero e bello: «In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica» e «la stessa testimonianza dell'essere diventa incredibile per colui il quale non riesce più a cogliere il bello». Primo tratto, evidente, che questa teologia mette in luce è dunque il fatto che non soltanto il testimone dà testimonianza del vero e che da questa testimonianza è istituito come tale; egli, anche, rende testimonianza del vero e del bello. Ora, le parole che tentano di esprimere il bello «ruotano attorno al mistero della forma»; ciò detto, chiede von Balthasar:

Cos'è l'uomo senza la forma che lo segna, che lo circonda come corazza inesorabile e che tuttavia lo rende malleabile, libero da qualsiasi insicurezza e dallo sgomento che inceppa, libero per se stesso e per le sue possibilità più alte: cos'è l'uomo senza tutto ciò? Cos'è l'uomo senza forma vitale, cioè senza forma che egli abbia scelto per la sua vita e nella quale egli riversa e fonde questa vita, perché possa diventare anima di questa forma e la forma possa diventare espressione della sua anima, una forma non già estranea, ma così intima che vale la pena identificarsi ad essa, una forma non costretta, ma scelta liberamente e interiormente donata, una forma non arbitraria, ma irripetibile e personale, legge individuale?19

Introducendo in Nello spazio della metafisica il concetto di forma (Gestalt), il teologo scrive che «dove in diversi gradi di distinzione brilla ad ogni singolo essere ogni volta il tutto dell'essere, si offre il concetto della forma».20 Con tale concetto si intende una totalità di parti ed elementi delimitata, riposante in se stessa che per essere ha bisogno «dell'essere nel suo insieme e in questo bisogno è una «contratta» rappresentazione dell'assoluto in quanto anch'essa nel suo piccolo campo trascende e domina le parti in cui si articola».21 L'idea è ripresa da Goethe, che ha pensato la forma proprio come esistenza perfetta e partecipe di infinità; forma che, appunto perché partecipe dell'infinito, si sottrae alla nostra capacità di conoscere. Ovvero, in quanto partecipe dell'infinità e dunque eccedendo i singoli fattori, la forma non è abbracciabile dal solo intelletto poiché ogni Gestalt, e tutte le Gestalten «spiritualmente visibili» rinviano oltre se stesse all'essere nella sua pienezza e perfezione che, come osserva ancora Goethe, «non può essere da noi pensato».22 Non pensabile non vuol dire assolutamente non conoscibile, come già sopra visto a proposito dell'Infinito e dell'assoluto. La percezione della Gestalt è possibile per la luce che irradia dalla Gestalt stessa; una percezione che performa se stessa senza aver bisogno d'altro da sé per essere colta. Infatti, «la luce che irradia la Gestalt e che si apre alla comprensione è in tal modo indivisibilmente luce della forma stessa e luce dell'essere in genere in cui la forma è immersa per poter avere in genere reale Gestalt».23

Dunque, vi è una perfezione spirituale coglibile soltanto perché riluce per la luce dell'essere. Il trascendentale che permette di pensare tale rilucere è il bello, ultimo dei trascendentali in ordine di tempo ma anche dal punto di vista dell'essere, non senza possedere un ambiguo carattere demoniaco. Demoniaco, perché «l'essere universale nella sua non determinabile trasparenza rinvia attraverso se stesso a Dio o al nulla a seconda dell'illuminazione che l'uomo gli fornisce».24 Al nulla rinvia quando l'uomo lo vuole padroneggiare con i mezzi della ragione trascendentale, escludendo ogni testimonianza resa alla gloria dell'essere e al bello. Così, «come ultimo (dopo l'uno, il vero, il buono), il bello è solo uno splendore insufflato sulla realtà transitoria: chi sa se splendore di Dio o del nulla?». E prosegue: «Quando l'essere è concepito in senso scientifico-neutrale (come il concetto di essere noto a tutti), la decisione è, nel profondo già presa: in direzione del nulla. Come ultimo trascendentale il bello custodisce e sigilla gli altri: nulla di vero e di buono alla lunga senza la graziosa luce di quello che viene donato senza uno scopo». Per concludere con un riferimento alla santità: «Quando i santi dedicavano la loro esistenza alla sempre maggiore gloria di Dio erano anche custodi del bello».25

Questa forma, rilucente nel bello che custodisce l'essere, è la forma della quale von Balthasar chiede: «Cos'è l'uomo senza la forma che lo segna, che lo circonda come corazza inesorabile e che tuttavia lo rende malleabile, libero da qualsiasi insicurezza e dallo sgomento che inceppa, libero per se stesso e per le sue possibilità più alte: cos'è l'uomo senza tutto ciò? Cos'è l'uomo senza forma vitale [...]?».26 Tale forma vitale che -- coinvolgendo come ogni forma la totalità dell'essere -- è capace «di conferire nobiltà alla stessa quotidianità (dell'uomo)».27 A tal scopo l'uomo ha bisogno di possedere occhi capaci di scorgere la forma spirituale; deve aver potuto vederla per poter a sua volta vedere ciò che riluce e per comprenderlo; il che, reciprocamente, è possibile soltanto in ciò che l'uomo è, nella forma della sua esistenza, della sua totalità. Ora, per von Balthasar, «ciò che l'uomo è nella sua totalità non può essere «chiarito» da ciò che egli è divenuto, sia che si tratti della sua preistoria evoluzionistica nel regno dell'esistenza vegetale ed animale, sia che si tratti della storia umana dei suoi antenati [...]. Tutte queste dimensioni sprigionano senz'altro materiale che si deposita nelle giunture della forma [...]. Ma non varrebbe veramente essere uomo se tutto si riducesse qui, se non ci fosse l'unica cosa necessaria, la perla insostituibile per amore della quale vendere tutto».28 È questa perla che occorre avere occhi per vedere, perla che partecipa «del tutto» e che è il prezioso dell'uomo. Anche la forma dell'uomo, così come ogni forma, è partecipe dell'infinità e rinvia oltre se stessa all'essere nella sua pienezza e perfezione. Detto altrimenti, vale per la forma dell'uomo ciò che da Goethe abbiamo appreso valere per ogni forma.

Quale forma, dunque, segna l'uomo in modo tale da trarlo fuori delle sabbie mobili dell'instabilità o del nulla? Questa forma, «da cui è generata la bellezza dell'esistenza umana»29 è affidata alla vigilanza cristiana e all'esperienza di Dio cui apre. «Proprio l'essere cristiano, infatti, è forma», e che cosa c'è «di più totale e indissolubile e, nello stesso tempo, di più determinato di questa forma cristiana?».30 L'infinità della forma dell'uomo (finito e prigioniero delle sabbie mobili dell'instabilità), non è possibilità informe e indifferente a tutto, «libertà immaginaria»; essa «supera la problematica dell'autodecisione e dell'autovalutazione umana, l'insicurezza e la melanconia che minano, nel profondo, la maggior parte delle forme della vita (giacché sarebbe stato sempre possibile qualcosa di completamente diverso, giacché mai abbiamo potuto raggiungere ciò che desideriamo e a cui effettivamente tendevamo)».31 Il prezioso dell'uomo è forma anche della sua precarietà, del suo cadere, giacché la forma «è murata nel miracolo del perdono dei peccati, della giustificazione, della santità, di una illuminazione e nobilitazione di tutto lo spazio esistenziale, miracolo che già da se stesso garantisce lo sviluppo più bello di una forma spirituale».32 È murata, cioè, in quell'infinito che si manifesta nell'esistenza dell'uomo che, proprio per questo, può farne esperienza. E di esperienza (Erfahrung), si tratta quando «un contenuto «eterno» viene reso presente soltanto se un istante chiuso viene fatto «passare» (fahren) affinché avvicini all'esperienza (Erfahrung) ciò che è assente».33 Un istante chiuso viene fatto passare oltre il suo essere soltanto «parte» perché se ne colga la forma infinita; perché, ancora, sia «aperto» e l'infinità della gloria, ossia i suoi contenuti infiniti, siano messi a disposizione. Ma, si è detto, l'uomo deve poter vedere o aver visto questa forma, perché non sia soltanto immaginata o esito di uno sforzo intellettuale in fin dei conti nullificante perché ricondotto soltanto all'intelletto.

La forma dell'esistenza è visibile all'uomo perché questa ha da testimoniarsi. Potremmo moltiplicare i luoghi in cui forma e testimonianza sono legate, in special modo nella sezione conclusiva del primo volume di Herrlichkeit, Gloria, ossia La percezione della forma. Ne ripercorro rapidamente le tappe: ogni natura creata è, in quanto forma, apparizione di se stessa, «rappresentazione della propria profondità, superficie del proprio fondamento, parola del proprio nucleo essenziale».34 Tuttavia, questo movimento dell'essere che dal fondamento va alla sua apparizione «non si compie da sé, giacché avviene solo nel tendere della natura oltre se stessa [...] . Nessuna apparizione chiarisce e fonda se stessa ma rimanda al fondamento che appare. Ma il fondamento vuole se stesso solo nell'apparizione, e la luce e la misura che si danno quindi fra i due, sono quanto di più manifesto e misterioso c'è al tempo stesso: essere come grazia, gratuità, bellezza, amore».35 Dunque l'essere non è puro nulla astratto (al quale è ridotto quando «è concepito in senso scientifico-neutrale» o positum del/dal soggetto); l'essere è luce che appare ed è riconosciuto quando è testimoniato, non quando è costituito a partire da una misura altra da sé. Questa via sarà seguita dal teologo «nello spazio della metafisica», ma richiede -- come egli stesso dice -- che sia anticipata teologicamente. La gloria cui anche la filosofia ha voluto e vuole rendere testimonianza, non definibile, parte innanzitutto dalla possibilità della sua apparizione. Tale possibilità è radicata nell'apparizione stessa di Dio che si dà da esperire nella testimonianza.

L'esperienza di Dio, cioè, è resa possibile dall'apparizione del Figlio, il quale non parla di sé, non si limita a questo: l'attività del Padre si esprime e glorifica nella forma e nella parola del Figlio. Questa è la testimonianza, vincolata alla forma. Infatti, l'umiltà del Cristo dimostra che non si glorifica da sé ma un Altro in Lui si glorifica; Altro, ossia il Padre, che non ha bisogno di essere creduto dal momento che è visto e riconosciuto. E «questa conoscenza della forma implica la conoscenza interiore che Gesù ha del Padre fino al punto che «se dicessi che non lo conosco, sarei un mentitore [...]» e verrebbe anche ad essere distrutta la leggibilità della forma di Gesù».36 Tra forma e testimonianza vi è più di un legame, vi è un vincolo tale che l'una è conosciuta per l'altra: «È quindi proprio la testimonianza interna ad autenticare la forma: questo caso assolutamente unico, in cui il rapporto tra fondamento e forma è al tempo stesso personale, una testimonianza quindi che il Padre esprime nella forma del Figlio e che corrisponde come persona al Figlio. Testimonianza e forma sono una sola cosa. Chi è in grado di vedere la forma, comprende al tempo stesso la testimonianza che il Padre dà internamente al Figlio».37 Infine, «la comprensione della forma della rivelazione, nella quale il Padre testimonia se stesso, presuppone, ad un grado più alto, ciò che è presupposto da ogni comprensione della forma già a livello mondano: una comunicazione interna, nella quale soltanto può cominciare a splendere l'ordine oggettivo della forma».38

Ora, è proprio questo vincolo a continuare, tra l'uomo e Dio, nel santo, il quale nella sua vita e con la sua vita dà testimonianza al Cristo così come il Cristo dà testimonianza del Padre. I santi sono uomini la cui forma coincide totalmente con questa testimonianza, nella quale l'esperienza di Dio è testimonianza a Dio; nella quale, ancora, l'infinità della forma dell'uomo si rivela e manifesta, viene alla luce come forma propria dell'uomo per e in grazia dell'esperienza di Dio. L'esperienza di una santa molto cara a von Balthasar, Teresa di Lisieux, ci guida verso questa forma della testimonianza che testimoniandosi fa tralucere la forma dell'uomo.

I luoghi in cui von Balthasar parla di Teresa sono tanti: in TeoDrammatica39 la pone come via da seguire quando «nell'oscurità dove Dio la condusse e dove comprese di dover «sedersi alla mensa dei peccatori» [...] per accompagnarli sulla loro strada, non provò nessuna «inclinazione» ad offrirsi come vittima «alla giustizia di Dio», ma si offerse -- del tutto consapevole della sua nuova inedita scoperta -- al suo «sempre misconosciuto e rigettato amore misericorde»».40 Teresa possiede la cieca speranza nella misericordia, nell'amore: «Non ci si aspetta mai troppo da Dio che è così potente e misericordioso; si riceve da lui esattamente tanto quanto si confida in Lui».41 Nell'esperienza personale dell'amore di Dio (di cui Teresa di Lisieux dà testimonianza nella Storia di un'anima) riluce la rivelazione di Dio nella forma della misericordia che diventa, in lei, forma dell'amore per gli altri uomini, quelli più amati e non condannati, ossia i peccatori. Questa forma della testimonianza fa domandare a Teresa se il Signore non le abbia perdonato più di quanto abbia perdonato alla Maddalena perché a lei «ha perdonato i peccati in anticipo»; e così come in lei, «rosa bianca», brilla l'innocenza, nella peccatrice, «rosa rossa», riluce l'umiltà. Ma è soprattutto in Sorelle nello spirito, dedicato dal ad Elisabetta di Digione e a Teresa di Lisieux, che questa testimonianza della forma, che si fa forma della testimonianza, si evidenzia.

«Forma della testimonianza»: chiariamo subito questa non incidentale né accidentale inversione dei termini rispetto alla «testimonianza della forma». La forma si comunica e si dà nella testimonianza che le è resa: il Figlio, infatti, fa conoscere il Padre rendendogli testimonianza. Ma questa testimonianza può riaccadere per ogni uomo? Il santo sembra indicare proprio questo: è, infatti, una figura di «testimone» non soltanto nel martirio, e dunque nel dare la vita per la verità, ma anche nel testimoniare la forma propria della forma stessa, e questa forma è l'amore o misericordia. Misericordia è la forma della testimonianza resa alla forma. Riconosciuta per sé è rivelata a tutti in quanto testimoniata nella medesima forma nella quale è stata rivelata, come amore, misericordia, accoglienza dell'uomo, di ogni uomo. Mangiare alla mensa degli atei, del peccatore è dare testimonianza alla forma nella forma stessa della testimonianza, nel suo testimoniare in quanto ri-comunicazione dell'amore ricevuto, della misericordia esperita.

«Forma della testimonianza», poi, perché la forma nella quale Dio si dà da esperire segna la forma stessa dell'uomo; dunque forma della testimonianza in quanto forma assunta dal testimone nella testimonianza resa. Si è detto che la forma dell'uomo è infinità non cernibile dal solo intelletto: in che modo questa forma si rivela, testimoniandosi fino a farsi forma della testimonianza, nella spiritualità di Teresa di Lisieux? L'accento posto da von Balthasar sulla «piccola via» sembra offrire una risposta alla questione. «Piccola via» che si confonde e fa un tutt'uno con la vita stessa di Teresa, dove «il messaggio della sua vita si confonde con la verità che, come tale, rientra nella sfera della teologia, [...] verità intesa come testimonianza della propria vita alla luce di Dio, come rappresentazione della parola di Dio nella propria esistenza, come offerta di tutte le proprie verità alla grande, unica verità di Dio in me. Verità intesa come obbedienza, come missione».42 La testimonianza della verità è esperienza di Dio nella propria esistenza e la parola è il modo in cui la forma stessa di Dio si rivela e testimonia, testimoniandosi così nella vita, dandosi a questa particolare e speciale esperienza performando l'umano. La «piccola via» di Teresa è questo performarsi dell'umano alla luce di una «forma» non colta dall'intelletto ma nella vita.

Tale «via» è percorsa in due momenti, di demolizione e di costruzione: nel primo momento la forma si afferma e rivela, «prende posto», s'insinua nella demolizione di ogni calcolo umano per far posto alla grazia, ossia all'infinità che sola dà forma: «La grazia della nuova alleanza distrugge ogni calcolo, [...] dal momento che la grazia è il dono più libero del Dio misericordioso (e che) la storia fra Dio e l'anima non si basa su una legge dipendente dall'uomo, dalle sue opere, dal suo comportamento».43 Teresa continuamente svuota sé per far spazio alla forma di sé, ossia alla grazia divina, all'amore di Dio, demolendo ogni «fiducia nelle opere in favore del puro sentimento di amore»44 per lasciar spazio alla perfezione di Dio nell'uomo.45 L'altro momento, della costruzione, è per Teresa il «rinunciare progressivamente a tutto quello che fa apparire l'amore cristiano come grande, forte e glorioso, affinché nella sua debolezza esso sperimenti la forza dell'amore divino e sotto le specie della piccolezza e dell'oscurità rappresenti la grandezza e la santità dell'amore divino».46 È quest'esperienza di Dio, in cui l'assoluto si dà da testimoniare come amore nell'amore, che fa amare chi è lontano, peccatore; esperienza rivelativa del volto di Dio alla quale Teresa risponde, appunto, mangiando alla «mensa del peccatore». Esperienza di quel volto di Dio tanto amato, adorabile nella sua bellezza, nella sua «forma» che comunica con l'uomo nell'impossibile incrocio dei due sguardi: «È come se Gesù e Teresa non potessero sollevare gli occhi nello stesso momento, come se Teresa dovesse abbassare gli occhi per permettere allo sguardo di Gesù di rimanere fisso su di lei; come se il Signore dovesse abbassare lo sguardo per consentire a Teresa di fissarlo intensamente. Questo gioco del nascondere e dello scoprire è il più sublime che l'amore possa inventare: il gioco della comunicazione indiretta, che può essere molto più eloquente di qualsiasi dichiarazione immediata».47 Questo volto, amante ed amato, è il volto che la Veronica aveva asciugato e del quale chiede Teresa per la sorella Céline: «Possa lei essere un'altra Veronica che asciuga tutto il sangue e tutte le lacrime di Gesù»;48 possa lei asciugare le lacrime di chi cerca amore testimoniando così la forma di Dio rivelata.

***

Con la «piccola via» di Teresa non siamo tanto lontani dalla spoliazione di cui parla Nabert (punto di riferimento di Ricœur negli anni '70): anche Teresa auspica l'abbandono di ciò che è estrinseco ed accessorio perché emerga la verità di sé, la propria forma autentica. Quell'incontro che il filosofo aveva per tutta la vita desiderato ed auspicato è in lei forma stessa della testimonianza alla forma che si dà da testimoniare. Testimonianza resa ad una forma che, discendendo nell'assoluto nulla della creatura le dà la sua propria forma, la forma di un'infinità non cernibile dall'intelletto e che si rivela nella testimonianza ad essa data.

Copyright © 2009 Carla Canullo

Carla Canullo. «La forma della testimonianza. La spiritualità della santità secondo Hans Urs von Balthasar». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno, Parma 20-21 marzo 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [41 KB].

Note

  1. E. Levinas, Autrement qu'être ou au-delà de l'essence, Nijhoff, La Haye 1978; tr. it. di S. Petrosino e M. T. Aiello, con introduzione di S. Petrosino, Altrimenti che essere o di là dell'essenza, Jaca Book, Milano 1983, pp. 178 ss. Testo

  2. E. Castelli (ed.), La testimonianza, Cedam, Padova 1972. Testo

  3. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 183. Testo

  4. Cfr. E. Levinas, La rovina della rappresentazione, in Scoprire l'esistenza con Husserl e Heidegger, tr. it. di F. Sossi, Raffaello Cortina editore, Milano 1998. Testo

  5. Cosa che anche Heidegger, ne La tesi di Kant sull'essere, aveva lucidamente precisato (cfr. M. Heidegger, Segnavia, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, pp.393-427). Testo

  6. Levinas, La rovina della rappresentazione, p. 148. Testo

  7. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 184. Testo

  8. Rappresentare è costruito dai due prefissi «ri» e «ad» e dal verbo presentare. Come ha notato opportunamente Virgilio Melchiorre, il prefisso «ri» equivale al latino «re», e dunque «implica l'idea di un movimento all'indietro, di un ripristino [...] o anche quella di un movimento in senso contrario, che talora annulla qualcosa di già fatto» (Virgilio Melchiorre, Sul concetto di rappresentazione, in Essere e parola. Idee per un'antropologia metafisica, Vita e Pensiero, Milano 19934, pp. 115-125; cit. p. 115). Testo

  9. P. Ricœur, L'herméneutique du témoignage, in Id., Lectures 3, Paris, Seuil, 1994, pp. 129-139. Testo

  10. Ibid., p. 75 (ed. it.). Testo

  11. Ibid., p. 76. Testo

  12. J. Nabert, Le désir de Dieu, éd. Du Cerf, Paris 1966, p. 276. Testo

  13. Ibid., p. 276. Testo

  14. Ibid., p. 277. Testo

  15. Ibid., p. 285. Testo

  16. Ricœur, L'herméneutique du témoignage, cit., pp. 101-102. Testo

  17. Ibid., p. 101. Testo

  18. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 2. Testo

  19. H.U. von Balthasar, La percezione della forma, Gloria, vol. I, ed. it. Milano 1985, p. 17. Testo

  20. H.U. von Balthasar, Nello spazio della metafisica, Gloria, vol. IV/I, ed. it. Milano 1977, p. 34. Testo

  21. Ibid. Testo

  22. Ibid., p. 35. Testo

  23. Ibid. Testo

  24. Ibid., p. 41. Testo

  25. Per tutte le citazioni cfr. ibid., pp. 41-42. Testo

  26. von Balthasar, La percezione della forma, cit., p. 15. Testo

  27. Ibid., p. 16. Testo

  28. Ibid., p. 18. Testo

  29. Ibid., p. 19. Testo

  30. Ibid. Testo

  31. Ibid. Testo

  32. Ibid. Testo

  33. von Balthasar, Nello spazio della metafisica, cit., p. 38. Testo

  34. von Balthasar, La percezione della forma, cit., p. 574. Testo

  35. Ibid. Testo

  36. Ibid., p. 577. Testo

  37. Ibid. Testo

  38. Ibid., p. 580. Testo

  39. H.U. von Balthasar, L'ultimo atto, in TeoDrammatica, ed. it. a cura di G. Sommavilla, Milano 1986. Testo

  40. Ibid., p. 273. Testo

  41. Ibid. Testo

  42. H.U. von Balthasar, Sorelle nella fede, ed. it. a cura di G. Mion, Jaca Book, Milano 1974, p. 36. Testo

  43. Ibid., p. 181. Testo

  44. Ibid., p. 185. Testo

  45. Cfr. ibid., p. 203. Testo

  46. Ibid., p. 195. Testo

  47. Ibid., p. 163. Testo

  48. Ibid., p. 205. Testo

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