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La natura della fede in Gv 4

di Daniele Bertini (20-21 marzo 2009)

Nella sua forma attuale il quarto capitolo del Vangelo secondo Giovanni si presenta centrato attorno a due episodi di conversione. Tale tesi è particolarmente evidente se si pone attenzione alla suddivisione della materia nei suoi elementi costitutivi:1

Al riguardo possono essere avanzate le seguenti considerazioni:

  1. L'introduzione non sembra giocare alcun ruolo tematico, limitandosi a fornire un raccordo narrativo fra la fine del capitolo precedente e il seguito. La funzione assunta nell'economia complessiva del testo è cioè contestualizzare il dialogo con la Samaritana nel procedere della peregrinazione di Gesù e dei suoi discepoli fra la Giudea e la Galilea, ossia collocare storicamente l'incontro presso il pozzo di Giacobbe nella serie di eventi biografici relativi al Salvatore.
  2. Neppure il primo passaggio sulla missione costituisce una unità indipendente. Offre infatti una sorta di spiegazione del lungo brano dottrinale precedente. Il testo, che si era mosso dalla storia narrata (Introduzione) alla rivelazione (Pericope della Samaritana), torna dunque al piano della storia. Per convincersene è sufficiente osservare la struttura a blocchi del passo in oggetto. Gv 4.27 pone fine al dialogo rivelativo con l'arrivo degli apostoli. Lo stile del redattore è di carattere del tutto contestuale. Non solo si menziona l'elemento temporale, ma la preoccupazione dei discepoli pare completamente dipendente dalla mentalità storico-culturale dell'epoca.2 Segue quindi una breve ripresa della pericope della Samaritana, che la conclude; successivamente alla quale Gesù e i discepoli interagiscono nuovamente sul piano storico-narrativo. Gv 4.31-38 spiega cosa il maestro ha fatto con la donna, rispondendo ad alcune domande che i discepoli non avevano avuto il coraggio di porre: ha seminato la fede, essenza dell'attività evangelica.3
  3. Il secondo passaggio sulla missione è un resoconto di avvenimenti storici relativi alla permanenza di Gesù a Sicàr. Come tale rappresenta una appendice narrativa, una esemplificazione sul piano storico, delle affermazioni rivolte ai discepoli nel primo passaggio sulla missione.

In virtù di questa mancanza di autonomia tematica degli inserti introduttivo e di raccordo, si può, a mio avviso, correttamente qualificare Gv 4 come sostanzialmente costituito dal solo tema caratterizzato nelle due pericopi.

Ora, sembra ragionevole ammettere che il redattore abbia avvicinato i due brani nell'intento di porre l'attenzione sulla loro affinità, così da offrire una trattazione esaustiva del fenomeno della conversione alla fede.

In primo luogo deve essere notato che il testo di Gv 2.1-4.54 è il risultato di una riorganizzazione di materiali che si presentavano con un altro ordine, se non la composizione di fonti diverse.4 La sequenza narrativa mostra infatti una evidente contraddizione. In Gv 2.11 si trova la dichiarazione che il cambiamento dell'acqua in vino a Cana è il primo dei segni (archê tôn sêmeiôn) compiuti da Gesù. In Gv 4.54 si afferma che il secondo di essi (deuteron sêmeiôn) è la guarigione a distanza del figlio del Funzionario. Nonostante questa numerazione il testo attuale menziona molti segni (ta sêmeia) compiuti fra il primo e il secondo (Gv 2.23; 3.2), così da suscitare nel lettore una palese confusione circa la successione degli eventi narrati. Inoltre: se la pericope del Funzionario regio fosse avvicinata a quella delle nozze di Cana (Gv 2.1-12a), una volta espunte le inserzioni redazionali, la lettura del testo parrebbe ben più sensata, in virtù della contiguità spazio-temporale degli eventi narrati.5 Ne segue che i due brani dovevano essere inizialmente collocati in successione;6 sia che questo significhi che appartenevano alla medesima fonte del rimanente materiale, sia nell'ipotesi che invece facessero parte di una collezione alternativa di segni. Ora, considerazioni di carattere letterario offrono una plausibile spiegazione del motivo che avrebbe indotto il redattore a spezzare questo ordinamento: inserendo fra il primo e il secondo segno il racconto delle peregrinazioni di Gesù e dei suoi discepoli fra la Giudea e la Galilea, entro le quali compare anche il viaggio in Samaria, la posticipazione della guarigione a distanza avrebbe costruito una struttura circolare indicante con chiarezza al lettore l'unità narrativa di 2.1-4.54 (Ringkomposition).7 Questo fatto fa pensare che la pericope della Samaritana e quella del Funzionario regio non siano vicine per una casualità. È infatti evidente che la composizione ad anello avrebbe potuto essere ottenuta anche lasciando nella posizione originaria la seconda pericope e posticipando il racconto del segno di Cana all'attuale quarto capitolo. Una tale scelta sarebbe apparsa più conforme alla struttura narrativa di Gv 1.19-51, ove predomina la logica dell'erranza. Il testo, cioè, avrebbe potuto avere una forma del genere: mentre Gesù si spostava con i discepoli incontra il Funzionario regio; quindi, fatto il miracolo, prosegue per Gerusalemme. Si può pensare perciò, a mio avviso, che il redattore abbia risposto a una intenzione precisa nel costruire il proprio testo come lo leggiamo: voleva far apprendere congiuntamente la pericope della Samaritana e quella del Funzionario regio, perché ne risaltasse con chiarezza l'affinità tematica.

In secondo luogo i due brani mostrano che il processo di conversione è articolato formalmente in modo analogo, nonostante il fatto che il redattore esprima un interesse maggiore per il primo rispetto al secondo. Sotto ogni profilo, infatti, la pericope della Samaritana appare più ampiamente sviluppata di quella del Funzionario regio. Da un punto di vista di carattere formale, è maggiormente curata nella trattazione dei personaggi, che acquisiscono aspetti caratteriali definiti; così come nella drammatizzazione del dialogo, che procede con potenza verso un apice rivelativo. Da un punto di vista dottrinale contiene informazioni più copiose, come più precisamente espresse. Inoltre la stessa comparazione delle estensioni quantitative dei due brani, congiuntamente al rilievo stilistico e dottrinale, conferma questo assunto. Ora, pur sussistendo questa situazione testuale, le tappe che conducono i due interlocutori di Gesù alla fede si mostrano le medesime, come illustra lo schema seguente:

SamaritanaFiglio del funzionario
a) Incontro fra Gesù e l'interlocutoreGv 4.7Gv 4.46
b) Dialogo fra i due personaggiGv 4.8-14Gv 4.47-48
c) Domanda di una grazia da parte del secondoGv 4.15Gv 4.49
d) Esaudimento della domanda da parte di GesùGv 4.16-26Gv 4.50
e) Conversione ed effetti della conversioneGv 4.29Gv 4.53

Ne risulta allora avvalorata l'idea che il lettore si trovi innanzi a due alternative determinazioni del medesimo fenomeno.

In terzo luogo la seconda pericope presenta i segni di una pesante ristrutturazione ad opera del redattore, che ha per effetto proprio l'imposizione della struttura in cinque tappe della conversione che anima più chiaramente la prima pericope. Il testo presenta infatti una ripetizione, apparentemente priva di senso: il Funzionario regio prega Gesù due volte di operare il miracolo, perché alla prima richiesta ha ricevuto lo strano rimprovero occorrente in Gv 4.48.8 La risposta è in effetti poco adeguata alla richiesta. Il funzionario sembrerebbe già credere, visto che richiede proprio un miracolo. E Gesù pare eccessivamente severo, proprio con chi, invece, non ha bisogno di segni per avere fede. Ora, se i due versetti fossero espunti, il testo apparirebbe più lineare: «Avendo egli [il Funzionario] saputo che Gesù era venuto dalla Giudea alla Galilea, si recò da lui e lo pregò di scendere e guarire suo figlio, visto che stava per morire... Gli dice Gesù: Va'! Tuo figlio vive». Tuttavia in questo modo verrebbe a mancare la giusta enfasi sui momenti b) e c) del cammino di conversione. Il redattore inserisce quindi i versetti Gv 4.48-49, piegando il materiale presente nella sua fonte alla propria concezione della natura della fede.9

Alla luce di queste considerazioni si può concludere che la pericope della Samaritana e quella del Funzionario regio stanno fra loro in una connessione strutturale; così che pare plausibile ritenere che la forma attuale del quarto capitolo del Vangelo secondo Giovanni rispecchi l'intenzione redazionale di porre a tema in modo sistematico il fenomeno della conversione alla fede.

L'aspetto peculiare della trattazione è, a mio avviso, la riduzione del fenomeno al processo della sua insorgenza. L'aver fede ha cioè per il redattore natura processuale: è una esperienza di carattere personale.

In questo modo si intende qualificare il fatto che il credere sia una disposizione esistenziale che si consegue al termine di un percorso reattivo alla evidenza dell'Assoluto: la fede non è un assenso preriflessivo a un certo contenuto concettuale, bensì lo stato ontologico caratterizzante la posizione soggettiva relativa alla messa in questione del tutto dell'esistenza; messa in questione che procede da una interpellazione originaria.10

Ora, si osservi da vicino il testo. Le due pericopi introducono l'interlocutore a partire da due situazioni molto diverse. Nell'una la donna samaritana si sta recando presso un pozzo ad attingere dell'acqua e incontra per caso Gesù. Nell'altra il Funzionario va intenzionalmente alla ricerca di un Salvatore dalle virtù taumaturgiche, perché il figlio è mortalmente ammalato. I due casi appaiono, cioè, relativi a due situazioni esistenziali opposte.

Nel primo il lettore è innanzi a un fatto di carattere quotidiano, ordinario. L'attingere acqua dal pozzo era una delle normali incombenze di un'età in cui nelle case non c'era un sistema di distribuzione idrica corrente. Nessuna eccezionalità è dunque indicata dalla menzione dell'attività della donna. Semmai il testo presenta un caso di azione banale e necessaria, il genere di impiego che magari è svolto con la distrazione che spesso accompagna i gesti abitudinari. Potrebbe essere paragonato all'andare al lavoro la mattina, pedalando in bicicletta, guidando la macchina nel traffico cittadino o utilizzando mezzi pubblici; oppure all'uscire di casa per andare a fare la spesa. Nel secondo, al contrario, il protagonista vive un momento esistenziale di intensa significanza, uno di quegli avvenimenti che potrebbero segnare in modo indelebile il suo profilo biografico: la possibile perdita del figlio. Sembra logico pensare che la rilevanza dell'intervento richiesto a Gesù disponga quindi il protagonista a sovraccaricare di aspettative emotive il decorso di tale evento. Un po' come se un nostro parente si trovasse a soffrire di una grave malattia, e noi iniziassimo così un calvario ospedaliero: quale che ne fosse l'esito, tale vicenda resterebbe sempre a far parte del nostro vissuto.

La nostra esistenza si svolge di fatto fra questi due estremi: da un lato le incombenze abitudinarie, dall'altro gli eventi rilevanti. Nel mezzo stanno tutte le gradazioni possibili di miscelazione di tali estremi, che costituiscono la reale sostanza della nostra esperienza: i piaceri, i giochi, gli incontri, l'amore, gli svaghi, i dolori, le sofferenze, i conflitti, il lavoro sono sempre costituiti da una certa dose di abitudine e da una di rilevanza. E l'abitudine e la rilevanza stessa non appaiono mai nella loro purezza astratta, ma sempre come rivolte l'una all'altra.

Cosa significa tutto ciò? Che Gv 4 tratta le due situazioni ideali entro i confini tracciati dalle quali prende corpo ogni esistenza. Fra l'abitudinarietà e la rilevanza esemplificate dalla necessità di attingere acqua da un pozzo e quella di supplicare per la salvezza del proprio figlio si qualifica il tutto della nostra esperienza. Nel trattare tali due situazioni, il redattore ci comunica che esse sono poste in questione dall'apparire dell'Assoluto. Non importa quale compito si stia svolgendo o quale grave problema ci ponga in una situazione di estrema difficoltà: prima o poi l'Assoluto si manifesta in modo tale che la nostra esistenza ne sia radicalmente cambiata, giacché la manifestazione innesca un processo che ci induce ad acquisire una fede. Ognuno di noi è dunque determinato dal prendere in considerazione il proprio modo di essere a partire da una propria esperienza dell'Assoluto; così che al termine del percorso intrapreso si raggiunga una credenza che è espressione esplicita della nostra riforma spirituale implicita.

Ricapitolando con una formula la concezione giovannea si potrebbe dire che il modo d'essere dell'esistenza è un essere verso la fede; perché ogni esistere è necessariamente un conformare l'essere così e così a un determinato sistema di credenze, giustificate da un processo di valutazione di una certa esperienza originaria dell'Assoluto.

Così Gv 4. Ma è vero?

1. Un modello filosofico di interpretazione

Ci sono due modi, credo, per rispondere alla questione sulla verità della concezione giovannea.

Il primo è quello di accettarla per fede. Siccome il Vangelo di Giovanni è una rivelazione divina, come tale andrà creduta; ossia: dovremmo dare ai suoi contenuti dottrinali un assenso immediato, che non poggi cioè su alcun procedimento argomentativo.

Una tale situazione potrebbe essere così esemplificata: la maestra spiega ai bambini la suddivisione dei numeri in pari e dispari. Enuncia la definizione: un numero pari P è un numero tale che P/2 è un numero intero N. Senza addentrarsi in sottigliezze logiche, è banale dire che chi comprende la definizione non crede che 4 sia un numero pari, bensì lo sa, perché la definizione è un criterio operativo di verifica. Se invece la maestra introducesse l'argomento dicendo 2, 4, 6, 8, 10 sono tutti numeri pari mentre 1, 3, 5, 7, 9 sono dispari, rimandando la definizione di numero pari a una lezione successiva, non sembrerebbe corretto dire che i suoi alunni sappiano che 4 è un numero pari, ma piuttosto si direbbe che lo credano, perché si basano, per affermare la proposizione 4 è un numero pari, sulla sola fiducia nell'attendibilità di quello che dice la maestra.11

Accettare per fede la verità della concezione giovannea sul modo d'essere dell'esistenza è analogo a trovarsi nella seconda opzione della situazione delineata. Significa dare il proprio assenso a un certo contenuto concettuale in virtù della semplice autorità di chi trasmette il contenuto concettuale; che nel caso in esame sarebbe più che sensato, visto che siamo in presenza di una rivelazione divina. Il problema è tuttavia, a mio avviso, che agendo così si innescherebbe un circolo autocontradditorio fra credenza e contenuto concettuale della credenza. La questione sta nei termini seguenti:

Tre credenze per fede

1) la concezione giovannea della fede è una rivelazione divina;

2) la rivelazione divina concerne determinati contenuti concettuali veri;

3) se una rivelazione è divina allora va creduta per fede;

Implicazioni

da 1) e 2):

4) la concezione giovannea della fede afferma dunque determinati contenuti concettuali veri.

Da 2) e 3):

5) dato che una rivelazione divina afferma determinati contenuti concettuali veri, allora i determinati contenuti concettuali veri vanno creduti per fede.

Conclusione

da 4) e 5):

6) la concezione giovannea della fede va creduta per fede.

Ora, la concezione giovannea della fede afferma però il seguente contenuto concettuale (DGF): il credere per fede non è un assenso preriflessivo a un certo contenuto concettuale, cioè quello che normalmente si intende con credere per fede, bensì un processo di natura reattiva alla esperienza personale dell'Assoluto.

Si sostituisce DGF in 6):

7) DGF va creduto per fede

Autocontraddizione:

8) L'affermazione che il credere per fede non è un assenso preriflessivo a un certo contenuto concettuale, cioè un credere per fede, va creduto per fede.

Se si volesse seguire Gv 4 sulla base del credere per fede nella verità della rivelazione divina, dovremmo allora concludere che si dovrebbe credere per fede che il credere per fede non è un credere per fede. Francamente non riesco a comprendere chiaramente cosa una simile autocontraddizione possa davvero significare. Sono quindi incline a percorrere una strada alternativa per rendere ragione della concezione giovannea: porla al vaglio della riflessione filosofica, che è il secondo dei possibili modi dichiarati all'inizio della sezione per valutarne l'eventuale verità o meno.12

Lo strumento d'indagine che guida il mio interrogare è un principio empiristico radicale: ogni conoscenza possibile è una esperienza.13 Per prendere posizione intorno alla concezione giovannea procedo di conseguenza a individuare, esporre e analizzare criticamente l'esperienza del fenomeno da essa dichiarata essere così e così; per misurare successivamente se e in che modo le caratterizzazioni formulate corrispondano effettivamente a quanto il testo del quarto capitolo del Vangelo secondo Giovanni afferma sul fenomeno stesso. In caso di successo, la concezione giovannea si mostrerebbe, a mio avviso, pienamente fondata dal ricorso all'esperienza, potendosi così qualificare come una interpretazione normativa del proprio oggetto.

a) Individuazione del fenomeno. Il primo passo è presto fatto: il fenomeno in esame è l'esistenza umana. Gv 4 è infatti una tesi circa la natura dell'esistenza.14 K. Rahner ha compendiato la concezione giovannea dicendo che «la vera e propria questione esistentiva personale è in verità una questione salvifica».15 A differenza di quanto fa il redattore del quarto vangelo, che illustra narrativamente la propria tesi qualificandola così come una interpretazione di carattere generale di un fatto ontologico, il teologo tedesco cerca di mostrare filosoficamente che quando noi comprendiamo cosa sia l'esistenza, questa rivela necessariamente l'avere come proprietà l'essere una questione salvifica. Ossia: l'essere verso la fede non è una determinazione possibile dell'esistenza fra le altre, ma quella di natura essenziale; perché la qualifica a partire dalla sua proprietà ontologica necessaria. Questo significa che per gli essenti il cui modo di essere è esistere, essere significa essere nella salvezza o meno. E poiché un tale essere non può avere una fondazione cognitiva, ma è piuttosto il modo d'essere degli essenti che esistono, ne segue che il fatto di essere effettivamente nella salvezza o meno non può che essere una questione di fede nella propria autenticità esistenziale. L'essere come essere nella salvezza è dunque un essere verso la fede. L'esistenza è perciò il modo d'essere dell'essente che è verso la fede perché sussistente come salvezza o meno.

Rahner deduce questa caratterizzazione ontologica dell'esistenza dalla nota nozione dell'esistenza come niente di essenza.16 Questa nozione presuppone un orientamento ontologico così delineato. Ci sono due fondamentali modi di essere. Il primo è quello degli enti che non esistono, ossia delle semplici presenze. Per tali enti essere è esemplificare determinatamente un certo numero di proprietà. Tali proprietà esprimono in modo compiuto la totalità dell'ente, ossia la sua essenza. L'ente il cui essere è semplice-presenza è dunque la realizzazione effettuale di un'essenza. Il secondo modo di essere è quello degli enti che esistono, ossia delle esistenze. Per tali enti essere è aver-da-essere, ossia la proprietà dell'esistente è quella di non avere un'essenza ma di esserla. In quanto tale l'esistenza non ha proprietà, ma semmai è proprietà. Di conseguenza questo modo di essere è pura possibilità, perché nell'aver-da-essere l'esistente si dà, essendo, la propria attuale essenzialità.17 Alla luce di questa ontologia la semplice-presenza è una mera successione di parti finite che non possono che essere la manifestazione della propria essenza, delle proprie proprietà, mentre l'esistente è un tutto; tutto che è mettendo costantemente in essere la propria peculiare possibilità di essere.

Questo dualismo ontologico può essere illustrato nel modo seguente. Una sedia, in quanto semplice-presenza, è ma non esiste. Ciò significa che il suo modo di essere è avere le proprietà caratteristiche dell'essere una sedia. Tali proprietà possono essere esplicitate da una condizione di questo genere: una sedia è un mobile costruito al fine di consentire a una persona di sedersi per mezzo di un piano sorretto da una o più parti, completato da una struttura addizionale alla quale la persona che si siede può poggiarsi. Questa condizione esprime ciò che qualifica tutte le sedie possibili, cioè il loro modo di essere. Inoltre ogni sedia avrà proprietà aggiuntive che determinano il loro essere questa sedia particolare. Nessuna sedia può essere altrimenti che così, perché una sedia ha le proprietà che la qualificano come sedia e come questa sedia. Nessuna sedia può darsi proprietà diverse da quelle che ha.

Un'esistenza, al contrario, non ha alcuna proprietà da cui risulta definita, se non quella di essere un'esistenza. L'essere uomo, per esempio, non può essere esplicitato da alcuna condizione essenziale come nel caso della sedia, perché nessun uomo è un insieme di proprietà univocamente definite, ma semmai un insieme di proprietà univocamente definibili come risultato di una scelta soggettiva. Tale definibilità non è qualcosa che capita all'uomo, come alla sedia capita l'essere sedia: è invece il risultato della pura possibilità implicita nell'aver-da-essere che caratterizza gli esistenti. L'esistente si dà il proprio essere, così da giustificarsi la caratterizzazione in funzione dell'assenza di proprietà.

Ora, è questa nozione di esistenza che implica, secondo Rahner, la determinazione soteriologica della stessa. Si consideri infatti cosa significa essere una semplice presenza. Un ente che è senza esistere è esclusivamente una realizzazione di certe proprietà. Come tale è un ente finito la cui determinazione dipende dall'avere per essenza l'essere la tal cosa. La semplice-presenza sarà dunque un sistema di parti che non sono l'una per l'altra in un rapporto che possa essere qualificato come un'autorelazione. «Un sistema finito non può porsi davanti a se stesso come un tutto. Un sistema finito, in forza di un'ultima posizione di partenza impostagli, ha un rapporto verso una determinata prestazione, ... non però verso la sua posizione di partenza».18 Esso può solo realizzare la propria essenza, avendo certe proprietà. L'uomo, invece, in quanto ha la possibilità di mettersi in questione, avendo una autorelazione di tipo conoscitivo e libero, svolge prestazioni che un sistema finito non può svolgere. L'uomo esiste; cioè è un tutto che si comporta verso se stesso in modo da determinare la propria totalità. Ma se l'uomo è questo essere che si comporta verso se stesso come un tutto, ossia se «l'uomo è responsabilmente affidato a sé stesso», allora l'uomo ha necessariamente una salvezza, perché nel determinarsi per mezzo della propria autocomprensione e della propria azione verso sé stesso, può autenticamente raggiungere la definitività della propria condizione, oppure fallire tale raggiungimento. La salvezza è perciò una questione esistentiva; vale a dire che ogni esistenza implica che la totalità che ogni uomo è sia effettivamente tale o meno. «L'eternità dell'uomo può essere concepita soltanto come l'autenticità e la definitività della libertà che si matura».19

Questo tentativo di rendere conto della concezione giovannea sul modo d'essere dell'esistenza va incontro, a mio avviso, a una insormontabile difficoltà, la cui considerazione sospinge la riflessione verso il secondo passo della considerazione filosofica che sto avanzando, cioè l'esposizione dell'esperienza del fenomeno in esame. La difficoltà può essere formulata nel modo seguente:

  1. La deduzione ontologica della determinazione soteriologica dell'esistenza si fonda sulla nozione dell'esistenza come niente di essenza.
  2. Tale nozione definisce un'ontologia dualistica che distingue i modi d'essere fra l'essere della semplice-presenza e l'essere dell'esistenza.
  3. Ma ogni ontologia ha pretese epistemiche.
  4. L'ontologia dualistica della semplice-presenza e dell'esistenza pretende di affermare dunque una conoscenza sul modo di essere degli enti.
  5. Tale affermazione è tuttavia epistemicamente vuota, perché proviene da una definizione e non da una indagine epistemicamente fondata.
  6. In quanto tale potrebbe anche essere corretta, ma non può essere provata se non con il ricorso a una considerazione epistemica effettiva.

Questa difficoltà è molto grave per due motivi. Per un verso l'ontologia esistenzialistica presuppone la validità di una definizione che non ammette di essere posta al vaglio della critica. Che il dualismo ontologico di semplice-presenza ed esistenza sia valido pare un dogma da accettare preliminarmente a ogni analisi filosofica. Ne segue pertanto una carenza metodologica che inficia ogni possibile ricaduta epistemica delle analisi dedotte dall'assunzione della definizione dualistica. Per un altro, invece, quando tale ontologia si pone di fronte alla realtà che pretenderebbe di conoscere, muovendo il passo, logicamente implicito in tale pretesa, dalla definizione alla ragionevolezza epistemica, essa rivela una debolezza sconcertante nel rendere effettivamente conto del fenomeno in esame.

Si consideri infatti l'essere sedia della sedia. Tale essere è una semplice-presenza. La sedia è dunque totalmente determinata a essere dal proprio avere una certa configurazione di proprietà, delle quali alcune saranno essenziali. Essa non potrà essere che così. Io posso infatti anche immaginare che questa sedia al momento di essere fabbricata possa aver subito un qualche incidente, così che sia stata tolta dalla lavorazione. Ma allora non sembrerebbe ancora sensato dire che quel certo oggetto sia la stessa sedia. Oppure: dopo averla acquistata mi rendo conto che il suo colore marrone non mi piace. Allora compro della vernice di un colore che mi pare più adatto e le cambio il colore. Questa sedia resterà evidentemente la stessa, ma non potrà che essere quella che ha cambiato colore perché a me non piaceva. Perciò questa sedia non potrà che essere come è, avendo le proprie proprietà a definirla. Nessuna di queste proprietà dipende dall'essere della sedia, non potendo la sedia darsi il proprio essere, ma semplicemente riceverlo. L'esempio sembra perciò funzionare e giustificare un lato della definizione ontologica dualista. C'è un però. Si ponga adesso attenzione a un genere di essere diverso: l'essere fiume di un fiume. Un fiume è ancora una semplice-presenza? Se si dice di no, perché il fiume è un insieme di semplici-presenze e non una effettiva unità, diremmo qualcosa di apparentemente sensato. Un fiume è infatti un miscuglio fluido composto da acqua in movimento, pesci, detriti di varia natura, come pietre, tronchi, rifiuti, la cui forma è determinata dall'ambiente circostante (argini e letto del fiume). In che misura esso avrebbe una unità ontologica? Tuttavia il caso sembra diverso da quello della sedia solo superficialmente. Anche la sedia è un insieme di semplici-presenze (i gambi, la seduta, lo schienale, le vernici con cui sono colorate le parti), adattate allo scopo di far loro avere la proprietà dell'essere sedia. Non c'è alcuna connessione necessaria fra la seduta e lo schienale di una sedia, così come non c'è fra le parti costituenti un fiume. Posta una seduta nessuna effettiva considerazione della stessa mi può suggerire che essa debba essere associata a uno schienale. Ovviamente se io privo una sedia dello schienale questo diverrà uno sgabello e non sarà più una sedia, ma anche se io privo un fiume di pesci, questo non sarà più un fiume ma qualcosa di diverso. In realtà ogni oggetto di considerazione epistemica al livello fenomenologico possiede una unità che è funzione dell'esperienza effettivamente unitaria che noi ne facciamo. È l'esperienza della utilità per noi della sedia come oggetto su cui sedersi a conferire alla sedia unità. Così anche il fiume è da noi provato come una esperienza unitaria di un certo insieme di semplici-presenze; e in quanto tale è una semplice-presenza. Ne segue pertanto che anche il fiume è un certo insieme unitario di semplici-presenze così come lo è una sedia. Ora, l'essere fiume del fiume non sembra tuttavia godere della medesima proprietà, goduta dall'essere sedia delle sedia, di non poter essere che così. È chiaro che un fiume non ha la volontà di cambiare a piacimento il proprio corso, tuttavia non ha nemmeno quella che appare la pura passività di una sedia. Il fatto di essere in movimento conferisce al fiume una certa disposizione a cambiare il proprio corso. Potrebbe piovere molto e il fiume di conseguenza strariperebbe. Oppure incontrando ostacoli di una certa natura, potrebbe fare una curva, mutando così il percorso che lo getta in un lago, in un fiume o nel mare. Non è un caso che la mitologia in genere associ a tutti gli enti naturali che possono muoversi un qualche grado di volontarietà. L'automovimento naturale inclina a ritenere che siamo in presenza di un fatto ontologico diverso da quello che caratterizza gli enti statici come le pietre.

Questo caso attesta perciò almeno l'affermazione che da un punto di vista fenomenologico il genere di essere che è l'essere un fiume è diverso da quello di essere una sedia: il dualismo ontologico di semplice-presenza ed esistenza sembra dunque sconfessato da una considerazione degli effettivi modi di essere che si presentano alla nostra esperienza. Peraltro si potrebbe continuare con: a) la discussione della tesi bizzarra secondo la quale le semplici-presenze non sarebbero certe proprietà ma le avrebbero; b) la discussione della reale penetrazione fenomenologica della caratterizzazione dell'esistenza come essere un tutto in modo diverso dall'essere un tutto di ogni oggetto unitario. Tuttavia non è necessario farlo in questo sede, che non è quella di una trattazione ontologica generale, perché ciò che credo riuscirei a conseguire è quello che ritengo di avere già raggiunto con la discussione appena avanzata: mostrare che il tentativo di rendere conto della nostra esperienza partendo da una formulazione ontologica definitoria che non scenda al livello dell'esperienza stessa si rivela di fatto fallimentare.

Ora, io credo che la nostra esperienza attesti effettivamente una forma di dualismo fra ciò che noi proviamo essere e il contenuto della nostra esperienza. E credo che all'interno del contenuto della nostra esperienza si possa distinguere fenomenologicamente le modalità dell'apparenza degli enti in una molteplicità determinata di modi per i quali si può anche impiegare il linguaggio tradizionale dell'ontologia. Tuttavia questo non può essere assunto come il principio deduttivo di un'indagine dalle pretese epistemiche: deve piuttosto risultare da una considerazione critica dell'esperienza effettuale. Ritengo dunque che ogni considerazione ontologica debba necessariamente collocarsi entro l'analisi della nostra esperienza, perché ogni fondazione logica è di necessità sospinta all'indagine epistemica dalla propria vuotezza di contenuto.

Nell'individuare il fenomeno al centro della concezione giovannea nell'esistenza non si è allora fatto niente di rilevante, se tale esistenza resta una nozione ontologica vuota, assunta per definizione. Si deve invece procedere all'esposizione dell'esperienza dell'esistenza da noi provata, muovendo così al passo numero due della valutazione filosofica proposta.

Questo è il mio principale impegno teoretico-speculativo quotidiano, rispetto allo svolgimento del quale spero di poter essere impegnato fino a quando non ne sarò venuto a capo. L'intento, è chiaro, è alto. Fornire un'interpretazione dell'esperienza che misurando la verità di Gv 4 mostri teologicamente con chiarezza come la concezione affermata dal redattore del testo sia un'interpretazione normativa del fenomeno in esame.

Copyright © 2009 Daniele Bertini, La natura della fede in Gv 4.

Daniele Bertini, La natura della fede in Gv 4.. «». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno, Parma 20-21 marzo 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [43 KB].

Note

  1. Cfr. F.Mosetto, «Gesù in Samaria», in G. Ghiberti e collaboratori, Opera Giovannea, Leumann (Torino): Editrice Elledici, 2003, p. 186. Testo

  2. Gv 4.27: «In questo momento (kai epi toutô) arrivarono i suoi discepoli e si meravigliarono (ethaumazon) che lui parlasse con la donna». Testo

  3. È evidente che sarebbe stato normale pensarle, perché il redattore le formula, sottolineando la mancata emissione dele stesse. Gv 4.27: «nessuno tuttavia (mentoi) disse: Che vuoi tu da lei? Oppure: Perché parli con lei?». Testo

  4. Cfr. R.T. Forta, Fourth Gospel and Its Predecessor: From Narrative Source to Present Gospel, London-New York: Continuum International Publishing Group, 2004, pp. 49.64. Testo

  5. Così suona il passo nella ricostruzione di R.T. Forta, Fourth gospel and Its Predecessor: From Narrative Source to Present Gospel, op.cit., p.59: «Dopo questo fatto egli si mosse verso Cafarnao con i suoi discepoli (Gv 2.12a). Ora, c'era un certo funzionario regio, il cui figlio era ammalato in Cafarnao (Gv 4.46b). Quando seppe che Gesù stava arrivando, gli andò incontro...». Cfr. R. Schnackenburg, Das Johannesevangelium, I, Freiburg im Breisgau: Verlag Herder, 1972; tr.it. a cura di G. Cecchi, Il vangelo di Giovanni, I, Brescia: Paideia Editrice, 1973, p. 688; M. Labahn, «Between Tradition and Literary Art. The Miracle Tradition in the Fourth Gospel», Biblica, 80, 1999, pp. 192-195. Testo

  6. Cfr. R. Schnackenburg, Das Johannesevangelium, I, Freiburg im Breisgau: Verlag Herder, 1972; tr.it. a cura di G. Cecchi, Il vangelo di Giovanni, I, Brescia: Paideia Editrice, 1973, p. 688; M. Labahn, «Between Tradition and Literary Art. The Miracle Tradition in the Fourth Gospel», Biblica, 80, 1999, pp. 192-195. Testo

  7. Cfr. M. Labahn, «Between Tradition and Literary Art. The Miracle Tradition in the Fourth Gospel», art.cit., p. 194. Testo

  8. Gv 4.48: «Se non vedete segni e prodigi, voi non prestate fede (pisteusête)». Testo

  9. Cfr. R. Schnackenburg, Das Johannesevangelium, I, op.cit.; tr.it., p. 687. Strumenti di lettura alternativi possono condurre a una differente suddivisione del testo e a negare che interventi redazionali abbiano per fine la ristrutturazione dottrinale (cfr. J.S.Sibinga, «The Shape of a Miracle Story. A Respectful Analysis of John 4.43-54», Novum Testamentum, 45, 2003, pp. 222-236). Tuttavia il criterio del conteggio sillabico e lessicale è esposto a difficoltà di varia natura, che lo rendono un metodo discutibile e poco attendibile: se il numero delle sillabe è certo, la suddivisione nelle sottounità testuali risponde a logiche arbitrarie (somme diverse producono simmetrie diverse, cioè la logica è imposta dall'esterno); la struttura metrica non può avere a fini mnemonici e compositivi maggior importanza della struttura dottrinale e narrativa; la comparazione con altri testi di presunta costruzione sillabica non ha funzione probante, a monte della quantità di letteratura effettivamente disponibile. Testo

  10. Cfr. R. Bultmann, Theologie des Neuen Testaments, Tübingen: J.C.B. Mohr, 1953; tr. it. a cura di A. Rizzi, Teologia del Nuovo Testamento, Brescia: Editrice Queriniana, 1992, pp. 406 e seguenti; C.H. Dodd, The Interpretation of the Fourth Gospel, Cambridge: CUP, 2005 (first edition, 1953), p. 183-186;R. Schnackenburg, Das Johannesevangelium, I, op.cit.; tr.it., pp. 703-704; A. Casalegno, «Perché contemplino la mia Gloria» (Gv 17,24), Cinisello Balsamo: San Paolo, 2006, pp. 358 e seguenti. Testo

  11. Si potrebbe obiettare che anche la seconda è una definizione operativa del tipo della prima, perché significa: si definisce il seguente criterio operativo di verifica: quando hai un numero compreso da 1 a 10 prendi la tabella dei numeri pari e dispari fra 1 e 10 e controlla se N (con N compreso fra 1 e 10) appartiene ai pari o ai dispari. Se questo fosse vero, se sappiamo che 4 è un numero pari nel primo caso, così sarebbe anche per il secondo esempio. Tuttavia la tesi dell'identità delle due definizioni non è plausibile, perché non considera il fatto che nel primo caso io enuncio una tesi generale, mentre nel secondo mi limito a enumerare una serie di casi limite. In entrambri gli esempi, infatti, io compio un atto di fede: scelgo di credere alla definizione della maestra. Nel primo caso però ho uno strumento che mi consente di verificare qualsiasi esempio di numero pari, mentre nel secondo no. La prima definizione operativa esprime dunque una generalità, il che equivale a dire che è una conoscenza; la seconda invece vale per un numero limitato di casi e non è dunque un reale criterio operativo di verifica ma una semplice dichiarazione su uno stato di fatto. Testo

  12. Osserva Origene, nel proprio Commentario a Giovanni (Cfr. Origene, Commento al Vangelo di Giovanni, XIII.63.450-454, a cura di E. Corsini, Torino: UTET, 1995 seconda edizione, p. 561), che nel rivolgere al Funzionario le parole «se non vedete segni e prodigi, voi non prestate fede», Gesù non intende criticare la necessità dei miracoli per indurre alla fede, quanto semmai il fatto che essi spingono alcuni alla fede per la sola forza della loro straordinarietà; quando invece dovrebbero essere un punto di partenza di un cammino verso il qualcosa d'altro indicato dal segno. Vale a dire: posto il segno è necessario, non il credere in virtù di esso, il che equivarebbe a credere per fede, ma muovere da esso a una valutazione complessiva della propria esperienza come reazione all'avvenimento del segno stesso; ossia iniziare un percorso di intellezione razionale che abbia per termine l'acquisizione della fede. Testo

  13. È charo che un simile principio non possa essere giustificato in questa sede, essendo al centro di un dibattito millenario sulla fondazione del conoscere. In quanto tale vale più come dichiarazione del punto di vista a partire dal quale svolgo al mia argomentazione, che come un principio nel senso del punto fermo di una deduzione necessaria. Testo

  14. Ancora più radicale è Bultmann, che legge l'intero vangelo alla luce della nozione di esistenza. Cfr. R. Bultmann, Theologie des Neuen Testaments, op.cit.; tr.it., p. 356. Testo

  15. Cfr. K. Rahner, Grundkurs des Glaubens. Einführung in den Begriff des Christentums, Freiburg im Breisgau: Herder, 1976; tr.it. a cura di C. Danna, Corso fondamentale sulla fede, Cinisello Balsamo: San Paolo, 1990, p. 64. Testo

  16. Cfr. M. Heidegger, Sein un Zeit, Tübingen: Max Niemeyer Verlag, 1927; tr.it. a cura di P. Chiodi, Essere e Tempo, Milano: Longanesi & C., 1976, pp. 64-65. Testo

  17. Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, op.cit.; tr.it., p. 65: «l'Esserci è essenzialmente la sua possibilità». Testo

  18. Cfr. K. Rahner, Grundkurs des Glauben, op.cit.; tr.it., p. 52. Testo

  19. Cfr. K. Rahner, Grundkurs des Glauben, op.cit.; tr.it., p. 65. Testo

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