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La Trinità nell'arte. Lo sfondo come espressione del divino

di Michele Amadò (Roma, 26-28 maggio 2011)

... perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: Poiché di lui stirpe noi siamo (Atti 17, 27-28).

L'arte visiva opera secondo regole e modalità proprie. I contenuti raffigurati sono incarnati in un sistema segnico che ha delle caratteristiche specifiche. Nel caso della raffigurazione della Trinità possiamo parlare di una traduzione di contenuti espressi linguisticamente con modalità proprie del fatto visivo, si tratta di una trasposizione da un sistema segnico ad un altro (traduzione semiotica). Le regole della percezione visiva non sono quelle della percezione auditiva, i canali, le codificazioni, le materie in cui i messaggi si incarnano sono distinti. In particolare la comunicazione linguistica si svolge nel tempo in modo sequenziale, i frammenti sono raccolti nella totalità solo alla fine dell'atto comunicativo; la comunicazione visiva, sostanzialmente spaziale (bi-tridimensionale) presenta dall'inizio la totalità, simultaneamente, e solo in seguito esige il passaggio al frammento. I due sistemi sono fra loro complementari.

È importante segnalare questa differenza per evitare l'errore di interpretare un testo visivo con categorie proprie del testo linguistico. Un contenuto espresso linguisticamente che viene trasposto visivamente implica, come detto, l'incarnazione del contenuto nel nuovo sistema. Questa incarnazione può produrre nuovi scenari, illuminare aspetti difficilmente individuabili in enunciati veicolati linguisticamente. Credo che anche sulla questione della Trinità la figurazione (e dunque interpretazione) della stessa possa mettere il luce fattori che rimangono velati nel linguaggio verbale. Nella trasposizione dei temi da una sistema all'altro non si tratta, ben inteso, di inventare o aggiungere nuovi contenuti, bensì (a volte) è possibile mettere in luce, figurare, far vedere fattori già presenti nel messaggio iniziale, ma nascosti nelle pieghe del linguaggio. Nel caso della traduzione di un messaggio da un sistema segnico linguistico a uno visivo è possibile s-piegare e mostrare elementi altrimenti invisibili.

Si è detto che le immagini medioevali (poco importa se pittoriche, scolpite, architettoniche...) sono da intendersi come «scrittura» per analfabeti. Di certo la maggior parte della popolazione di allora non sapeva leggere, ma sapeva però ascoltare. Le raffigurazioni mettevano in mostra i contenuti religiosi (e non solo) ben noti a tutti. Buona parte della popolazione sapeva «leggere» benissimo quelle opere, quei «libri», e possedeva la capacità di sviscerare i contenuti delle immagini. Erano infatti ben note, a livello popolare, le caratteristiche del sistema segnico visivo. In questo senso non erano affatto analfabeti. Buona parte dell'educazione visiva era impartita ad esempio dai predicatori e dai catechisti. Insegnamento che non si riduceva affatto all'utilizzo del canale auditivo, ma faceva abbondante uso di quello visivo. Timpani, facciate, affreschi, come nei meravigliosi tramezzi dipinti (in Ticino voglio ricordare quello di Santa Maria delle Grazie a Bellinzona -- 1513-1515 -- e Santa Maria degli Angioli -- dipinto dal Luini nel 1529, a Lugano), venivano spiegati dal catechista come dal predicatore, immagini e scene prese a testimonianza di passi teologici dis-piegati davanti ai loro occhi.

Segnaleremo all'inizio di questa riflessione la dialettica visiva fra fondo e figura (forma, oggetto), in quanto utilissima per analizzare le raffigurazioni che abbiamo scelto.

In questa premessa commentiamo brevemente la citazione dagli Atti (17, 27-28), dalla quale abbiamo voluto iniziare. L'autore parla di Dio e dei poeti. Il breve commento che svolgiamo è finalizzato a chiarire l'ipotesi sostenuta nel nostro contributo.

L'autore cita i poeti. Fa riferimento, potremmo dire, all'arte. Riconosce in una cultura non cristiana dei contenuti analoghi al messaggio cristiano.

Afferma: «Dio non è lontano». Potremmo interpretare l'espressione «non è lontano» nel senso che Dio è qualcuno di vicino a noi, che è accanto a noi, che è a fianco di noi come ad esempio un padre, un amico, un fratello, un marito... Ma, ci dice ancora il testo, la vicinanza non corrisponde ad una giustapposizione come se Dio fosse una figura o una forma o un qualcosa o una persona tra le altre nell'universo: «In Lui infatti viviamo, ci muoviamo, esistiamo».

«In Lui» significa dentro lui, non a fianco. Sono utilizzate metafore spaziali che potremmo tradurre nel seguente modo: Dio, che cerchiamo andando come a tentoni, non è una cosa, una persona, come noi. È attorno a noi, ci circonda. Noi siamo in Lui. «In Lui» è il fondo entro il quale viviamo, ci muoviamo, esistiamo.

L'ipotesi che ne traiamo è che, nella raffigurazione della Trinità (e indicheremo tre grandi modelli tipologici), il Padre possa essere trasposto (s-piegato) nel sistema visivo come fondo: fondo visivo che traduce quell'»in Lui» riferito a Dio nel versetto.

1. La dialettica fra fondo e figura

Il concetto di fondo caratterizza l'immagine visiva. Abbiamo già detto che il linguaggio si sviluppa linearmente ed è sequenziale: noi ascoltiamo una poesia e ci vuole tempo, leggiamo un romanzo o un trattato e la completezza del messaggio la raggiungiamo solamente alla fine dell'atto comunicativo. Il sistema di segni visivo invece è simultaneo, la totalità è presente sin dall'inizio, e le varie sequenze sono approfondite in seguito.

Esponiamo la dialettica fra fondo e figura: la figura, o se vogliamo la forma o l'oggetto visivo si staglia sempre in un contesto, in uno sfondo entro il quale si manifesta. Figura è ciò che nella percezione visiva viene focalizzato, ciò su cui il fruitore pone attenzione. La figura è caratterizzata da un contorno che la de-finisce; è finita, de-terminata; terminata.

La linea che separa fondo e figura (il contorno) appartiene alla figura. Questo dato tecnico è importante per comprendere l'ambiguità di questo rapporto. Dal modo in cui il fruitore interpreta la linea di contorno è riconosciuta la figura che si staglia (sempre) sullo sfondo.

Per comprendere l'ambiguità del rapporto fondo figura basta osservare le seguenti immagini che citano il famoso vaso di Rubin.1

Se la linea di separazione fra sfondo e oggetto è interpretata da chi osserva come facente parte del vaso, vediamo un vaso sullo sfondo; se la medesima linea (ma non più la stessa) è interpretata come il contorno di due profili di due volti (con fronte, naso, bocca, mento...) allora quello che nel precedente caso era un vaso diventa il fondo (o ne viene assorbito). Nel primo caso il vaso focalizzato viene, per i meccanismi della percezione visiva, verso di noi; nel secondo caso sono i due volti ad avvicinarsi a noi, mentre il fondo si allontana.

La figura è caratterizzata come finita, corrisponde in un certo senso alla parola nel linguaggio (ad esempio alla parola «vaso» o all'espressione «due volti di profilo»). Il fondo invece è identificato, nel fatto visivo, come in-definito, o se vogliamo come in-finito. L'elemento «fondo» non ha un parallelo con il linguaggio per il semplice motivo che è un sistema segnico che non ha caratteri spaziali. Se proprio si volesse trovare una analogia potremmo dire, utilizzando il vocabolario di De Saussure che la figura è simile alla parole (atto) e il fondo alla langue (il potenziale), ma traviseremmo il fatto che nel sistema segnico visivo entrambi i fattori (langue e parole) sono, in un certo grado, presenti in ogni singola opera.

Per la dinamica propria del fatto visivo il primo «dato» percepito è l'infinito (all'inizio dello sviluppo della percezione visiva è chiamato tecnicamente «campo»; un neonato per prima cosa percepisce unicamente il campo), e il finito è una conquista. Prima è percepito il simile (l'intero, la totalità del visibile, con proprietà di indefinitezza) e solo in seguito il diverso (le figura che si stagliano sullo sfondo).

2. Utilizzo dell'immagine nel cristianesimo nei primi secoli

Nei primi secoli dello sviluppo della storia cristiana non esistono immagini che raffigurano la Trinità. Questo dato si i può spiegare tecnicamente per il fatto che la formalizzazione del concetto di Trinità è stabilita nel Concilio di Nicea (325). Per gli artisti la Trinità non poteva essere un soggetto esplicito di una rappresentazione prima della sua formalizzazione. Merita anche ricordare che il termine Trinitas fu coniato da Tertulliano nella sua ultima opera (De Pudicitia, XXI).

Ma prima ancora di affrontare la questione della raffigurazione della Trinità è opportuno affrontare brevemente la problematica più generale dell'utilizzo dell'immagine nei primi secoli della storia cristiana.

Non sono a noi note immagini realizzate da cristiani prima di quelle raffigurate nella Catacombe di Roma (II secolo). I primi cristiani, di cultura e tradizione ebraica, non si posero la questione di trasmettere l'immagine della Trinità, di Dio, del Padre, ma, e questo è certamente singolare, neppure di Cristo. I Testi canonici non forniscono alcuna immagine del Figlio. Non sappiamo nulla della sua figura (altezza, colore della pelle, fisionomia...).

Questa mancanza rende ancora più enigmatica (di certo se volessimo tradurla a livello visivo) l'affermazione (trasmessa a noi solo linguisticamente) di Gesù che attribuisce alla propria persona (e dunque figura) il compito di rivelare quella del Padre: «Chi vede me vede il Padre» (Gv 14, 8). Non è scritto: chi sente me, ma chi vede me, e Gesù lo dice a persone che lo vedevano. Ma questi testimoni non si sono preoccupati di trasmetterci le caratteristiche della sua figura, né con una descrizione linguistica, né tanto meno con una rappresentazione visiva.

Il discorso evangelico entro il quale l'affermazione «Chi vede me vede il Padre» è proferita evidenzia, almeno a nostro avviso, l'impossibilità di rappresentare il Padre (se non attraverso il Figlio). L'impossibilità di raffigurare «direttamente» l'immagine del Padre è il cuore teologico ed estetico della questione della rappresentazione dell'immagine della Trinità. Possiamo raffigurare il Padre solo attraverso la Persona del Figlio. Dio, nel versetto degli Atti non è una figura, dato che è caratterizzata come «in Lui».

Le fonti teologiche (Nuovo Patto) descrivono unicamente l'immagine dello Spirito Santo, figurato come colomba (Battesimo di Gesù, Matt., 3, 16), come «lingue come di fuoco» (Atti 2: 1-11). La figura del vento impetuoso (sempre nel contesto della Pentecoste) è un immagine letteraria che presenta una certa complessità di visualizzazione e disambiguazione. Il simbolo della Colomba è usato dai cristiani già nelle catacombe, ricollegato alle storie di Noè (Gen. 8, 11).

Le ragioni della mancanza di fonti canoniche che descrivano il Figlio sono da una parte riconducibili alla tradizione iconoclasta ebraica (ad esempio il Secondo Comandamento) ma soprattutto alla generale convinzione dei primi cristiani che il tempo dell'attesa del ritorno di Cristo fosse breve.

Subito dopo la tribolazione di quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più il suo splendore, le stelle cadranno dal cielo e le potenze dei cieli saranno scrollate. Allora apparirà nel cielo il segno del Figlio dell'uomo; e allora tutte le tribù della terra faranno cordoglio e vedranno il Figlio dell'uomo venire sulle nuvole del cielo con gran potenza e gloria. E manderà i suoi angeli con gran suono di tromba per riunire i suoi eletti dai quattro venti, da un capo all'altro dei cieli. Imparate dal fico questa similitudine: quando già i suoi rami si fanno teneri e mettono le foglie, voi sapete che l'estate è vicina. Così anche voi, quando vedrete tutte queste cose, sappiate che egli è vicino, proprio alle porte. Io vi dico in verità che questa generazione non passerà prima che tutte queste cose siano avvenute. (Mt 13, 29-34).

Non si tratta di una religione che effigia il suo fondatore defunto, ma di un popolo in attesa del ritorno del suo Re vivo. L'effige è solito riprodurla di un defunto, mentre Gesù risorto era avvertito, sentito, incontrato come vivente, prossimo, presente e dunque non si sentiva, probabilmente, il bisogno di raffigurarlo. Di fronte all'originale ogni rappresentazione non è neppure in grado di sfiorarne l'essere.

Forse per le stesse motivazione i Vangeli furono redatti solo decenni dopo la morte di Cristo.

Se non è ritenuto indispensabile effigiare il Figlio perché dovrebbe essere necessario rappresentare il Padre o il mistero della Trinità? Tanto più considerando l'impossibilità di raffigurare il Padre come deducibile dall'affermazione citata del Figlio?

Per un'analisi delle immagini cristiane, la cui origine si trova a Roma, è opportuno ricordare la pratica di reinterpretare in chiave cristiana le immagini dell'Antico Patto, e della mitologia greco-romana. Da quest'ultima fonte sono state tratte non solo le immagini letterarie ma, e in pratica in modo esclusivo, anche quelle iconiche. Le prime immagini iconiche ebraiche in epoca cristiana non potevano essere una fonte dato che sono state realizzate solo verso la metà del III secolo (Sinagoga Duro Europos, in Mesopotania).

Ai primordi dell'era cristiana erano prodotte delle immagini di carattere simbolico-allegorico. Una delle prime icone prodotta era il pesce. Si sono anche utilizzati acronimi e il monogramma. Il monogramma è formato dalle due lettere greche X (chi) e P (ro) intrecciate: sono le prime due lettere della parola greca Christòs: Cristo. Il nome in greco del pesce è l'acronimo di «Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore»

3. Lo sviluppo del cristianesimo a Roma

Le prime icone si trovano nelle Catacombe cristiane a Roma.

Si tratta di immagini simboliche, molto stilizzate, con una evidente funzione di accompagnamento e di rinforzo della liturgia e della catechesi. Chi dipinge non è ebreo ma romano, e fa uso dei modelli della pittura romana, in modo abbastanza naïf. Il senso era quello di evocare degli eventi che non di rappresentare dei soggetti.

È interessante notare che per la figura di Cristo viene utilizzato il repertorio di immagini greco-romane. Ad esempio la figura di Gesù pastore, coi capelli neri, con e senza barba, con e senza aureola. Altre immagini perese a prestito da quella tradizione sono il Cristo come Apollo, e anche il Cristo come Orfeo (che fa risorgere i morti).

In tale periodo sembra prevalere la linea paolina che cerca di valorizzare le tradizioni che incontra (quella greca, quella romana) interpretate in chiave cristiana. Tali immagini visualizzano i contenuti dell'insegnamento cristiano sia per evocarli sia per un fine catechetico.

Non si evince, nelle icone su Gesù, nessuna intenzione di rappresentare fedelmente a sua figura. Non vi alcuna pretesa di cercare una somiglianza tra icone prodotte e archetipo. Questo atteggiamento rende lecito l'utilizzo di icone stilizzate, anche molto diverse tra loro, riprese appunto della cultura romana dell'epoca.

Vi è sono due «eccezioni». È altamente probabile che le prime immagini di Pietro e di Paolo siano fedeli alle caratteristiche dei due personaggi. Testimoni che li avevano conosciuti erano ancora prossimi. Il prolungamento del tempo dell'attesa del ritorno di Cristo poteva rendere ragionevole voler ricordare i tratti dei discepoli defunti per trasmetterli alla posterità. In tal modo si spiega anche la somiglianza dei due Apostoli che riscontriamo in opere realizzate nei secoli successivi, sino ai nostri tempi.2

In conclusione possiamo asserire che nei primi secoli le raffigurazioni sono intese in senso pedagogico, simbolico, come scrittura visiva.

4. Esempi di raffigurazioni della Trinità e commenti

Nelle Catacombe di Priscilla è presente un dipinto che descrive tre personaggi quasi identici con le braccia e le mani rivolte verso l'alto (metà secolo III). Non si tratta (e sarebbe impossibile) di una immagine della Trinità. Sono raffigurati tre giovani ebrei nella fornace; si tratta di Sadràch, Mesàch e Abdènego (Daniele 3: 13-30).

Nel racconto biblico il re Nabucodonosor vede quattro uomini, sciolti, camminare in mezzo al fuoco. Il quarto somiglia a un essere divino (Daniele 3: 25). Il pittore del dipinto raffigura questo quarto essere identificato come divino con una colomba che reca nel becco un ramoscello; figura biblica che nel Nuovo Patto indica lo Spirito Santo.

Come detto in nessun modo si può parlare di Trinità ma il modello di tre figure umane identiche sarà ripreso posteriormente per figurare (non rappresentare) la Trinità.

Tra le prime immagini della Trinità ve ne era una (perduta) nella Basilica di San Felice a Nola.3 L'immagine rappresentava la Trinità per mezzo di tre simboli: una mano che indica dal cielo (il Padre), un agnello (il Figlio) e una colomba (lo Spirito Santo).

Se interpretiamo questa immagine considerando la dialettica fondo-figura abbiamo: tre figure (la mano per il Padre, l'agnello per il Figlio, la Colomba per lo Spirito Santo) e lo sfondo (lo spazio entro i quali sono collocati i simboli). Sono dunque inscenati quattro «elementi». Questo dato ci comunica da una parte che, nella logica già esplicata in precedenza, l'immagine indica in chiave simbolico-pedagogico la Trinità (coi tre simboli). Indica solo delle caratteristiche di Dio trinitario, tratte dal repertorio simbolico ed iconico a disposizione dei pittori dell'epoca. Il fatto stesso che si veda solo la mano (simbolo del Padre) induce ad immaginare il corpo del Padre (invisibile) situato in un altro spazio, esterno a quello del fondo in cui sono collocati i tre simboli. L'opera ci comunica di due fondi: uno naturale e uno sovrannaturale. Dunque è dichiarato che le figure della Trinità sono solamente indici che evocano la natura trinitaria del Dio cristiano nel mondo, e affermano al contempo la natura sovrannaturale della Trinità che in nessun modo è rappresenta, dato che esce dalla cornice del mondo naturale. Non è rappresentata la Trinità ma solo figurata, «scritta», avvertendo il fruitore che la natura sostanziale della stessa è irrappresentabile, è fuori dalla possibilità di rappresentazione, grazie all'artificio della presenza della sola mano, e di un Universo sovrannaturale che tutto avvolge.

L'utilizzo di tre figure differenti per rappresentare la Trinità si riscontra anche in Masaccio. La sua famosa Trinità collocata a Santa Maria Novella a Firenze ne è un esempio eccellente (databile tra il1426 e il 1428). Il Padre è rappresentato come un saggio e maturo Signore che sostiene la Croce dove è raffigurato Cristo, lo Spirito Santo è raffigurato come colomba posto su una linea verticale, attorno al collo del Padre. Lo sfondo è costituito sia dallo spazio sotto la volta a botte che avvolge i Tre e Maria e Giovanni, spazio incredibile per la capacità dell'artista di farlo percepire come un vuoto compresso, sia dallo spazio esterno che per la finzione pittorica è quello fisico della parete della Chiesa. Lo spazio più esterno è quello del mondo naturale dove sono raffigurati anche i committenti, lo spazio vuoto all'interno dell'immagine è analogo, a livello di contenuto, a quello spirituale che nella Basilica di San Felice era rappresentato come lo spazio soprannaturale posto fuori, oltre le cornici del mondo. Sul senso di tale vuoto, nell'affresco di Masaccio, torneremo successivamente.

Si può certo notare che questa figurazione della Trinità raffigura anche il Padre, di certo tradendo l'assunto dell'impossibilità di rappresentarlo. Ma la stessa cosa potremmo imputarla anche al pittore dell'affresco di Nola. La mano è pur sempre un'icona. A mio avviso è però corretto interpretare le tre icone di Masaccio come figure-simboli che evocano e non rappresentano. Lo spazio fuori dalla cornice e il vuoto che abbraccia le tre figure ha il valore di Dio, dell' «In lui» del versetto degli Atti. È un quarto elemento che solo è in grado di «dire» della Trinità come mistero interiore in Dio stesso, in sé mai raffigurabile.

Lo «spazio» divino, irrappresentabile è indicato a Nola all'esterno del mondo (fuori dalle cornici), mentre da Masaccio all'interno di esso, come ad indicare un elemento interiore. Una presenza più intima di noi stessi di agostiniana memoria.

Un'altra strategia utilizzata dagli artisti per figurare la Trinità è un'immagine che moltiplica per tre lo stesso (tre volti identici, tre persone uguali). Abbiamo già incontrato l'immagine dei tre ebrei sulla fornace. Il riferimento biblico è quello della visita dei tre «uomini» ad Abramo (Genesi 18: 2). La più nota è quella di Andrej Rublëv databile 1410-1411 (di pochi anni precedente a quella di Masaccio) che si trova presso la Galleria statale di Tret'jakov di Mosca. È conosciuta anche con il titolo «L'ospitalità di Abramo». Le tre persone identiche figurano la Trinità. Identiche alla figura di Cristo, dato che il Figlio è la visualizzazione del Padre.

Anche in questo caso il ruolo del fondo è cruciale. Un fondo d'oro che abbraccia le tre figure. Il divino in cui questa figura della Trinità ripresa da Genesi 18: 2 si staglia. È il fondo ad indicare che queste figure sono divine. Dunque ancora una volta compare il numero quattro (tre figure e il fondo).

Sino ad ora abbiamo individuato due tipologie di rappresentare la Trinità: quella che utilizza tre simboli diversi su uno sfondo. Lo sfondo divino è posto all'interno o all'esterno dei bordi delle opere; quella che moltiplica per tre una identica figura. Persone che si stagliano su uno Sfondo che comunica la divinità delle figure.

Il terzo modello sul quale ci concentriamo è il Timpano del Nartece dell'abbazia di Vézelay in Borgogna. La grande chiesa abbaziale di Sainte Madeleine, è centro di pellegrinaggi medievali. L'abbazia venne rifondata da Badilo, un seguace dell'Ordine Benedettino riformato a Cluny. Vézelay è posta all'inizio della Via Lemovicense, una delle quattro strade francesi che fanno parte del Cammino di Santiago di Compostela.

Intorno al 1050 i monaci di Vézelay iniziarono a sostenere di possedere le reliquie di Maria Maddalena. L'abbazia divenne importantissima, come si può dedurre dagli importanti eventi che si succedono nell'abbazia: nella Pasqua del 1146 San Bernardo di Chiaravalle iniziò qui la sua predica in favore della seconda crociata, in presenza del re Luigi VII di Francia. Nel 1166, durante il suo esilio, Thomas Becket scelse l'abbazia di Vézelay per pronunciare il famoso sermone con il quale scomunicava il re Enrico II d'Inghilterra e i suoi principali sostenitori. Nel 1190 qui si incontrarono Riccardo I d'Inghilterra e Filippo II di Francia, passando tre mesi all'abbazia prima di partire per la terza crociata...

Il Timpano del Nartece (1120-1140)

L'enunciato cui facciamo riferimento è compreso nella cornice del Timpano. Questo enunciato è suddiviso all'interno in diversi comparti. È come un libro aperto e i vari capitoli sono delimitati dalle cornici interne all'opera.

Dapprima scorre una fascia che contiene 30. 5 medaglioni di formato rotondo. Vi sono raffigurati sia i mestieri dell'uomo nelle varie stagioni sia i segni zodiacali nel loro ordine cronologico. Il «capitolo» così incorniciato parla del tempo. Tempo circolare (fascia circolare che non si conclude dato che il primo e l'ultimo medaglione raffigurano ciascuno metà fiore indicando che il semicerchio si chiude in un cerchio). La forma circolare dei medaglioni ripropone l'interpretazione ciclica del tempo.

Il mezzo medaglione in alto (fra il segno zodiacale del Cancro e del Leone, dunque in estate) raffigura un volatile, collocato subito dopo il medaglione del Cancro che scompare per metà dietro ad un medaglione che raffigura un cane che si morde la coda, anche esso in posizione circolare. Ne segue verso destra un medaglione che raffigura un saltimbanco che fa un salto mortale all'indietro (sempre rimarcando la circolarità) e infine è descritta una sirena (circolare anche essa). Il numero 30. 5 conferma che il tema è il tempo, si tratta infatti della media dei giorno del mese in un anno.

La ridondanza dell'elemento circolare caratterizza il tempo ciclico che viene in quanto tale giudicato. Il tempo è come una bestia che si morde la coda (il cane non ha una grande considerazione anticamente, questo a partire dalle oche del Campidoglio che avvertono i romani dell'arrivo dei barbari mentre i cani dormono); il saltimbanco sta per la poca serietà del tempo, nel senso che non gli interessa nulla delle vicende dell'uomo.4 Infine è rappresentata una sirena che incanta per divorare.

E il volatile? Si tratta di un cormorano (si veda il caratteristico collo e soprattutto il piumaggio). Il Vecchio Patto non è tenero con il cormorano dato che lo inserisce nell'elenco degli animali che non si devono mangiare in quanto abominio (Levitico 11, 13-18). Vasi attici ed etruschi raffigurano le sirene come grossi cormorani. Un cratere etrusco trovato a Caere e conservato al Louvre, mostra un cormorano dal volto di donna di cui una scritta sotto l'ala dichiara: "Io sono la sirena".

Sulpicio Severo5 racconta che un giorno San Martino di Tour (316-397) si trovava con alcuni discepoli sulla riva di un fiume, quando vide gli uccelli pescatori inseguire una preda a fior d'acqua; allora egli fece notare ai presenti che quegli uccelli erano l'immagine di satana che perseguita le anime. Poi ordinò agli uccelli di ritirarsi in terre deserte, dove avrebbero nuociuto meno, e fu obbedito. Gli uccelli pescatori sono chiamati da Sulpicio «mergus» e sono maragoni o cormorani.6

Nel Timpano è dato un giudizio severissimo sul tempo, che trangugia gli uomini, la vita come Crono che divora i suoi figli alla loro nascita.

La fascia inferiore che scorre orizzontalmente è di più difficile lettura. Comunque si tratta di uomini (e animali) che da sinistra a destra e da destra a sinistra sono incamminati verso il centro, per l'esattezza verso la testa di San Giovanni Battista. Tra questi uomini, ebrei e pagani, giganti, nani, panozi. Tutti sono invitati al battesimo per entrare nella Chiesa, accolti da due personaggi di cui si intravvedono solo i corpi (le teste sono coperte dalla Mandorla che incornicia il Cristo glorioso al centro del Timpano). Uno ha in mano una chiave. L'iconografia ci svela che si tratta di Pietro al quale associamo senza ombra di dubbio Paolo. Due apostoli, uomini concreti, che accolgono i fedeli.

Un altro capitolo è costituito dalla fascia che succede verso l'interno dell'opera a quella circolare che parla del tempo. Fascia composta da otto comparti (dei quadrilateri), con una interruzione in alto lasciando uno spazio entro il quale si staglia la testa di Cristo. Questa fascia è composita da due fasce di quattro scomparti. Questo capitolo parla dello spazio (o meglio dei luoghi), indicando le quattro parti dell'Universo. I costumi indossati fanno riferimento ai popoli della terra sino ai suoi estremi confini: Giudei, Cappadoci, Arabi, Cinocefali egizi (Anubi) o indiani (Swamukh), Etiopi, Armeni, Bizantini.

Al centro dell'opera, incorniciato da una mandorla Cristo siede comodamente su una città (Gerusalemme). Cristo in Gloria è raffigurato con le braccia aperte ad evocare la croce, ma non sono raffigurate le ferite alle mani a significare che è libero dalla morte e dunque dal tempo; dalla circolarità diabolica del tempo che conduce tutti e tutto alla polvere.

Un altro capitolo di questo grande libro è la zona interna attorno alla mandorla dove è raffigurato Cristo. Sono scolpiti i dodici apostoli suddivisi in quattro gruppi di tre. Sono raffigurati anche i quattro elementi: sullo sfondo delle gocciolone ad indicare l'acqua, delle linee ondulate a significare l'aria, la città sulla quale è seduto Cristo è una sineddoche della terra: «Il cielo è il mio trono e la terra sgabello per i miei piedi» (Atti 7, 49).

E il fuoco? Osservando le mani di Gesù si notano come dei filamenti che escono dalle sue dita che giungono direttamente sulle teste degli apostoli. Sono le lingue di fuoco della Pentecoste. Lo Spirito Santo nella figura di fuoco scende sugli apostoli e li invia nelle quattro parti della terra a ad annunciare la Lieta Novella, facendoli parlare in tutte le lingue.

Dunque fino ad ora abbiamo scoperto che l'opera parla del tempo, dello spazio, della chiamata di tutti gli essere umani (anche di quelli che non sembrano uomini come i cinocefali, o sono molto diversi, come i nani, i giganti, i panozi) al battesimo (che umanizza); della Chiesa come realtà concreta che accoglie; di un Cristo in Gloria; della Pentecoste. Questa opera racconta anche del Giudizio finale. Giudizio sulla diabolica ciclicità del tempo a cui nulla sembra calare delle vicende dell'uomo; mortale incantato e divorato.

E questo giudizio finale è prossimo come vicina allo scontro finale è la testa di Cristo inscritta nell'aureola circolare: il solistizio di Cristo,7 che indica il vero sole, e i tre medaglioni e mezzo fra il Cancro e il Leone (solistizio estivo).

Acutamente Rémi Brague mette in evidenza la particolare forma disegnata all'interno dell'opera. Forma di una «damigiana dal collo largo che si vuota verso l'alto», ,8 in quel collo (costituito dalla interruzione della fascia di scomparti rettangolari che significano le quattro parti dell'universo) la testa di Cristo è collegata ai tre medaglione e mezzo di cui abbiamo detto. Con la medesima acutezza Brague scopre un'analogia fra questa forma di bottiglia rovesciata (o vaso) con la «forma di un utero rovesciato, nel momento d'un parto in cui solo la testa sia uscita. Si ritrova in questo modo l'idea che secondo la quale solo la testa della Chiesa, cioè Cristo, è seduto alla destra del Padre, mentre le membra aspettano ancora la redenzione. ».9 Brague segnala in nota che Agostino ritorna a più riprese su questa idea in particolare nelle Enarrationes in Psalmos.10 A nostro avviso merita essere ricordato anche Paolo: Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi (Romani 8, 19-22). Dunque è anche un giudizio che dichiara la prossimità del Regno. La testa di Cristo è nel collo dell'utero e fra pochissimo si romperanno le acque e tutto scivolerà verso l'esterno, verso il Regno, spazzando via sirene, buffoni, bestie diaboliche.

Nell'opera compaiono il Figlio e lo Spirito Santo, e il Padre? È evocato dal numero tre dei gruppi degli Apostoli, e questo è un indizio. L'opera non potrebbe raffigurare anche una Trinità?

Il Figlio, risorto e asceso al Cielo, è seduto alla destra del Padre. Ma a sinistra del Figlio non vi è nulla. Sono raffigurati (come figure con un proprio contorno) solo il Figlio e lo Spirito Santo. Braque sostiene che «l'opposizione sinistra e destra cede il passo all'opposizione antero-posteriore: il Padre, se possiamo situarlo, si trova non alla sinistra dal Cristo, ma davanti e al di sopra di Lui -- quasi nel punto di osservazione nel quale è colto il Crocefisso nel celebre disegno di San Giovanni della Croce. Il Padre invisibile è rappresentato da null'altro che dal vuoto lasciato dallo iato nella successione degli scomparti quadrati nel quale si inserisce la sommità della mandorla del Cristo. È lui che il Figlio guarda esteticamente, ed è questo sguardo che gli permette di fare ciò che vede fare dal Padre (Giovanni 5, 19) ».11

Il Padre non è una figura è il fondo. O meglio la sua pienezza e presenza o piena presenza è nel Vuoto che circonda e avvolge Gesù. Non è lontano nel senso che l'intera vicenda trinitaria, come quella della creazione e della salvezza, si svolge in Lui. Tutto è in Lui, ogni differenza è in Lui.

In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: Poiché di lui stirpe noi siamo.

Il Timpano mette in scena, con tecniche artistico-retoriche che sono quelle del sublime, la presenza del Padre che tutto abbraccia nel vuoto attorno al volto di Cristo come quello che penetra come sfondo in ogni scena. Nulla è al di fuori di questa dinamica rappresentata a Vézelay. Il nulla, il vuoto, il fondo paradossale (paradossale perché come valore è immisurabile, indefinibile, non contornabile) viene anche esso, nell'evocazione della fine dei tempi, paradossalmente rotto, fratturato. Il vuoto attorno al Figlio riempirà quello spazio che non è ancora apparso, al di là dei margini costituiti dal cerchio (infernale) del tempo. Anche il Timpano di Vézelay segnala lo spazio esteriore al di fuori della cornice (come nel caso di Nola), quando la testa di Cristo romperà definitivamente il tempo, e al contempo indica anche quello spazio interiore al mondo, che circonda e avvolge il volto di Cristo. Vuoto interiore analogo a quello che Masaccio produce a Firenze.

Questa tipologia di raffigurare la Trinità prevede dunque solo due figure e il Padre è presente come fondo; evocato internamente come vuoto e all'esterno del bordo dell'enunciato dove Cristo sta per arrivare come spazio che tutto avvolge, come Dio, come Trinità. Di nuovo in qualche modo torna il numero quattro; due figure e due fondi.12

Il cerchio nero di Kazimir Malevic (1913)

Poniamo, molto brevemente, l'attenzione su un opera di Kazimir Malevic.

Nel dicembre del 1915 alla Ultima Mostra Futurista: 0. 10, a Pietrogrado, l'artista espone 36 opere. La più nota è il Quadrato nero, su fondo bianco. Sergio Givone ricorda che Malevic crede «nella possibilità di trasferire l'assoluto sulla tela: quell'assoluto che è bianco si bianco o quadrato nero»13 e afferma di «rifarsi alla pittura delle icone».14 L'azzeramento della figura, nel sistema di segni visivo, comporta l'esaltazione del fondo. Fondo inteso come assoluto, divino. «Se qualcuno ha compreso l'assoluto, ha compreso lo zero».15

In una foto di repertorio questo dipinto è parte di un trittico insieme ad un dipinto che raffigura un quadrato nero su fondo bianco e uno nel quale una croce nera è dipinta su un fondo bianco.

Nel dipinto «Cerchio nero» la distinzione fondo-figura è ambigua. Il contorno può esserlo del cerchio nero (allora è la figura) ma può essere anche un ritaglio nella zona bianca (allora la figura è la zona bianca). Per le regole della percezione visiva il cerchio nero (inteso dunque come figura, e questo a partire dal titolo con il suo valore di riduttore semantico) posto in alto a destra, è orientato verso l'alto a destra. Il breve spazio fra margine del cerchio e margine superiore del quadrato porta l'occhio a collegarli, per tanto l'immagine del cerchio tende a debordare oltre il bordo del quadrato verso uno spazio esterno invisibile ma evocato (come nel dipinto a Nola e nella scultura di Vézelay).

Ci sono due elementi in gioco all'interno dei bordi del quadrato (il quadrato bianco e il cerchio nero) e uno all'esterno (lo spazio evocato dal debordamento). Questa immagine che vuole dichiaratamente indicare l'assoluto per mezzo dell'azzeramento delle forme è costituita essenzialmente da tre «elementi», posti fra loro in un rapporto di continuo scambio di valore fra figura e fondo. Un rapporto dinamico che è difficile non credere volutamente trinitario, anche per la disposizione dei tre quadri nella foto modi repertorio ricordata.

5. Conclusione

Il Timpano di Vézelay non manca di evocare il Padre, anzi, lo visualizza come lo sfondo che raccoglie, abbraccia, circonda il rapporto fra Figlio e Spirito Santo. Al contempo Dio raccoglie l'Universo intero che trova nel rapporto trinitario il suo principio, la sua stessa nascita.

Il Padre, come indicato nel Timpano, ha le caratteristiche di Dio nella citazione iniziale tratta dagli atti degli Apostoli. In Lui viviamo, ci muoviamo, esistiamo.

«In Lui» è la chiave della interpretazione della Trinità da parte dei fautori dell'opera del Timpano nel nartece di Vézelay.

Solo il Figlio e lo Spirito Santo sono raffigurati. E in quanto figure sono giustapposte, affiancate, ordinate con le altre presenti nel Timpano (uomini, animali, architettura, elementi naturali).

Questa possibile giustapposizione, che fa si che Figlio e Spirito Santo appaiono come figure fra altre (benché più importanti), resa possibile dalla kénosis divina, non toglie la divinità al Figlio e allo Spirito Santo. Se fossero elementi fra altri nel mondo non potrebbero essere Dio. Possibilità che si fonda sul Padre. Padre irrafigurabile perché non è una figura, un elemento fra gli altri nel mondo, ma fondo dentro al quale viviamo. Tutto l'Universo è un accadimento interno a Dio, «In Lui». Dentro il Figlio e lo Spirito Santo non è che Lui. Tutto è «in Lui», nelle sue viscere, nella sua intimità svelata come amore trinitario.

Le modalità di figurare la Trinità nelle opere citate sono presenti anche nell'arte contemporanea. Abbiamo detto, a titolo esemplificativo, di Malevic, ma potremmo citare molti altri artisti. Dunque questa missione impossibile (raffigurare il mistero della Trinità) ha contribuito e contribuisce anche allo sviluppo dell'arte contemporanea. È presente ancora oggi.

Michele Amadò

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Michele Amadò. «La Trinità nell'arte. Lo sfondo come espressione del divino». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web: <http://mondodomani.org/teologia/>, [**42 B].

Note

  1. Edgard Rubin (1886-1951). Psicologo danese che condusse analisi sulle caratteristiche visive del fenomeno figura-sfondo. Testo

  2. Ad esempio la raffigurazione di Paolo nelle Catacombe di Domitilla (III secolo) ; l'incontro fra Paolo e Pietro nella Cattedrale di Monreale (VII secolo); Paolo con Santa Prassede a Roma (IX secolo); Pietro e Paolo dipinti da El Greco nel 1987, e si potrebbe continuare a lungo. Testo

  3. Fonte ; Epistolario di San Paolino di Nola (Bordeaux 355 -- Nola 431) Testo

  4. Come non ricordare Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia? Testo

  5. Ep. III ad Bassulam. Testo

  6. Molto dopo, ma è significativo ricordarlo a motivo della nostra interpretazione, William Shakespeare, in Pene d'amor perdute, definisce il tempo un vorace cormorano. Testo

  7. È una definizione di Gérard de Champeux, dom Sébastian Sterckx, O.S.B., Introduction au monde des symboles, Zodiaque, 1966, p. 425 Trad. It., I simboli nel Medioevo, Jaca Book, Milano 1981, p. 420. Testo

  8. Rémi Brague, Sul timpano di Vézelay, in. AA.VV., Il luogo dell'arte oggi, Jaca Book, Milano 1988, p. 64. Testo

  9. Ibidem. Testo

  10. Ibidem Testo

  11. Idem, p. 60. Testo

  12. Come non ricordare Ignazio di Loyola, che prega il Padre, il Figlio, Lo Spirito Santo e la Santissima Trinità (quattro)? Essenza divina dalla quale esce e ritorna il Padre, senza distinguere o vedere le singole persone (Diario spirituale 34) Testo

  13. Sergio Givone, Prima lezione di estetica, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 124. Testo

  14. Ibidem. Testo

  15. K.S. Malevic, Lo specchio suprematista, in Id., Scritti, a cura di A. B. Nakov, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1077, p. 200. Riferiamo anche su Malevic di M.Carboni, Il sublime è ora, Saggio sulle estetiche contemporanee, Castelvecchi, Roma 1988, pp. 77-82. Testo

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