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Tommaso d'Aquino

La prima grande «somma» scritta da Tommaso venne chiamata dai suoi discepoli «contro i gentili» (cioè «contro i pagani» a causa del larghissimo spazio in essa dedicato al chiarimento delle verità cristiane direttamente accessibili alla ragione. Ma anche il suo stile discorsivo, svincolato dalle rigide esigenze della «questione» tipica dell'università medievale, contribuisce a renderla una lettura attraente per lo studioso di filosofia. I capitoli introduttivi, che qui riproduciamo per intero, disegnano una riflessione completa sul rapporto tra verità di fede e verità di ragione che, benché abbia un carattere solo preliminare, è certamente caratteristica della posizione equilibrata che Tommaso volle tenere in merito, peraltro abbastanza diversa dalle semplificazioni che spesso gli sono state poi attribuite.

Somma contro i gentili

1. Quale sia il compito del sapiente

La mia bocca proclamerà la verità,
e le mie labbra detesteranno l'empio [Prov. 8,7].

L'uso comune, che a detta del Filosofo [Top., II, c. 1, n. 5] dobbiamo seguire nel denominare le cose, ha stabilito che siano chiamati sapienti coloro che ordinano rettamente le cose, e che sanno ben governarle. Ecco perché tra le prerogative che si attribuiscono al sapiente il Filosofo afferma, che «è proprio dei sapiente ordinare» [Met., I, c. 2, n. 3]. Ma la regola o norma di quanto è ordinato a un fine deve desumersi dal fine stesso: poiché ogni cosa è disposta nel migliore dei modi quando è ben ordinata al proprio fine, essendo il fine il bene di ogni cosa. Notiamo infatti che tra i mestieri l'uno è guida e direttivo dell'altro, quando ne costituisce il fine: la medicina, p. es., dirige e guida l'arte del farmacista, per il fatto che la guarigione, che è oggetto della medicina, è il fine di tutti i medicinali confezionati dall'arte farmaceutica. Lo stesso si riscontra nei rapporti tra l'arte nautica rispetto alla cantieristica navale; o tra l'arte militare e il maneggio di cavalli e di ogni altro apparato bellico. Ebbene, queste arti, o mestieri, che presiedono sulle altre sono denominate architettoniche, ossia arti principali: e i loro capimastri, talora denominati architetti, rivendicano il nome di sapienti, o periti. Siccome però codesti artigiani, occupandosi dei fini di cose particolari, non raggiungono il fine universale di tutte le cose, sono denominati sapienti in questa o in quell'altra materia, secondo l'espressione paolina, [1Cor. 3,10]: «Come sapiente architetto ho posto il fondamento». Ma il nome di sapiente in senso assoluto va riservato a colui che rivolge la sua considerazione al fine dell'universo, che poi è anche il principio di tutte le cose. Cosicché il Filosofo scrive, che è proprio del sapiente considerare «le cause supreme» [Met., I, c. I, n. 12; c. 2, n. 7].

Ora fine ultimo di ogni cosa è quello perseguito dal primo autore e motore di essa. Ma il primo autore e motore dell'universo è un'intelligenza, come dimostreremo in seguito [c. 44, lib. II, c. 24]. Quindi l'ultimo fine dell'universo è necessariamente un bene di ordine intellettuale: ossia è la verità. Perciò è necessario che la verità sia l'ultimo fine di tutto l'universo; e che la sapienza abbia come scopo principale la considerazione di essa. Ecco perché la Sapienza divina incarnata attesta di essere venuta nel mondo per manifestare la verità, [Gv. 18,37]: «Per questo io sono nato, e per questo sono venuto al mondo, per rendere testimonianza alla verità».

Anche il Filosofo del resto conclude che la Filosofia è «la conoscenza della verità»; non di una verità qualsiasi, ma di quella che è origine di ogni verità, ossia quella che riguarda il primo principio dell'essere per tutte le cose; cosicché la sua verità è il principio di ogni verità, poiché le cose stanno alla verità esattamente come stanno all'essere [Met., I, c. 1, nn. 4, 5].

È compito però dell'identica realtà perseguire una data cosa e respingere il suo contrario: la medicina, p. es., mentre dona la guarigione esclude il suo contrario. Perciò come è compito precipuo del sapiente meditare ed esporre agli altri la verità circa la causa prima, così è suo compito impugnare la falsità contraria.

E giusto quindi che per bocca della Sapienza vengano indicati i due compiti del sapiente nelle parole che abbiamo premesso: proclamare, cioè, la verità divina meditata, che è la verità per antonomasia, con l'espressione: «La mia bocca proclamerà la verità»; e impugnare l'errore contrario alla verità, con l'espressione: «e le mie labbra detesteranno l'empio», la quale sta a indicare la falsità contraria alla verità divina, che è contraria appunto alla religione, denominata anche pietà, cosicché la falsità opposta assume il nome di empietà.

2. L'intenzione dell'autore nella compilazione dell'opera

Tra tutti i compiti cui si applicano gli uomini lo studio della sapienza vince in perfezione, sublimità, utilità e godimento. -- In perfezione, perché nella misura in cui l'uomo si applica alla sapienza, partecipa in qualche maniera alla vera beatitudine; di qui le parole del Savio: «Beato l'uomo che si applica alla sapienza» [Eccli. 14,22]. -- In sublimità, perché tale studio specialmente avvicina l'uomo alla somiglianza di Dio, il quale «ha fatto con sapienza tutte le cose» [Sal. 103, 24]; ed essendo la somiglianza causa della benevolenza, lo studio della sapienza è il mezzo principale che unisce a Dio con l'amicizia. Di qui l'affermazione della Scrittura [Sap. 7,14], che la sapienza «è per gli uomini un tesoro inesauribile, cosicché quanti vi attingono sono partecipi dell'amicizia di Dio». -- In utilità, perché mediante la sapienza si giunge al regno dell'immortalità: «poiché il desiderio della saggezza condurrà al regno imperituro» [Sap. 7,21]. -- In godimento, finalmente, perché «la familiarità con la sapienza non ha amarezze, né dà fastidio la sua convivenza, ma letizia e gioia» [Sap. 8,16].

Prendendo perciò fiducia dalla bontà divina, nell'affrontare il compito del sapiente, pur trattandosi di un'impresa superiore alle nostre forze, ci proponiamo di esporre, secondo le nostre capacità, la verità professata dalla fede cattolica, respingendo gli errori contrari; poiché, per dirla con S. Ilario, «io penso che il compito principale della mia vita sia quello di esprimere Dio in ogni parola e in ogni mio sentimento» [De Trin., I, c. 37].

È però difficile confutare tutti e singoli gli errori, per due motivi. Primo, perché non abbiamo tale conoscenza delle asserzioni sacrileghe dei singoli oppositori, da poter desumere validi argomenti dalle ragioni da essi addotte per distruggere partendo da esse i loro errori. Così infatti fecero gli antichi dottori nel distruggere gli errori dei gentili, avendo avuto la possibilità di conoscere le loro posizioni, essendo stati gentili loro stessi, o per lo meno avendo vissuto con essi ed essendo stati istruiti nelle loro dottrine. -- Secondo, perché alcuni di essi, quali i Maomettani e i pagani, non accettano come noi l'autorità della Scrittura, mediante la quale è possibile invece disputare con gli Ebrei, ricorrendo all'Antico Testamento, oppure con gli eretici ricorrendo al Nuovo Testamento. Quelli invece non accettano né l'uno né l'altro. Perciò è necessario ricorrere alla ragione naturale, cui tutti sono costretti a piegarsi. Questa però nelle cose di Dio non è sufficiente.

Nell'investigare quindi certe verità mostreremo quali errori esse escludano, e in che modo la verità raggiunta con la dimostrazione concordi con la fede della religione cristiana.

3. Modi possibili per manifestare la verità divina

Ma poiché non è identico il modo di manifestare ogni tipo di verità, ché secondo l'ottima osservazione di Aristotele riferita da Boezio, «è proprio dell'uomo saggio contentarsi in ciascuna cosa di capire quanto la natura di essa comporta» [Eth., I, c. 2; cfr. De Trin., c. 2], prima di tutto è necessario vedere quale sia il modo possibile di manifestare la verità proposta.

Ora, tra le cose che affermiamo di Dio ci sono due tipi di verità. Ce ne sono alcune che superano ogni capacità della ragione umana: come, p. es., il fatto che Dio è [contemporaneamente] trino e uno. Altre invece possono essere raggiunte dalla ragione naturale: che Dio esiste, p. es., che è uno, e altre cose consimili. E queste furono dimostrate anche dai filosofi, guidati dalla luce della ragione naturale.

Che tra le nozioni riguardanti Dio ce ne siano di quelle le quali superano del tutto l'ingegno dell'uomo è evidentissimo. Principio infatti di qualsiasi conoscenza di ordine razionale è l'intellezione della natura di una cosa; poiché, come Aristotele spiega, principio della dimostrazione è la quiddità. Cosicché le proprietà che noi conosciamo di una cosa dipendono dal modo di comprenderne la natura. Se quindi l'intelletto umano comprende la natura di determinate cose, p. es., della pietra o del triangolo, nessuna nozione relativa ad esse supera la capacità della ragione umana.

Ma questo non avviene nella nostra conoscenza di Dio. Poiché l'intelletto umano non può arrivare a conoscerne l'essenza mediante le sue capacità naturali, essendo costretto nella vita presente a iniziare la conoscenza dai sensi; e quindi le cose che non cadono sono il dominio dei sensi non possono essere capite dall'intelletto umano, se non in quanto la loro conoscenza deriva dalle cose sensibili. Ora, le cose sensibili non possono condurre il nostro intelletto a scorgere in esse la quiddità della natura divina: poiché si tratta di effetti che non adeguano la virtù della causa. Tuttavia dalle cose sensibili il nostro intelletto viene condotto a conoscere di Dio che esiste, ed altre perfezioni che si devono attribuire al primo principio. Ci sono quindi delle cose divine che la ragione umana può raggiungere, e altre che ne trascendono del tutto la capacità.

La stessa conclusione si può facilmente dedurre, considerando i vari gradi dell'intelligenza. Confrontando infatti due individui, uno dei quali percepisce intellettualmente una cosa con più acutezza dell'altro, vediamo che colui il quale possiede l'intelletto più elevato conosce molte cose che l'altro è affatto incapace di capire. Ciò è evidente nel caso dell'uomo dei campi del tutto impreparato alle sottili considerazioni della filosofia. Ora, l'intelletto di un angelo supera l'intelletto umano più di quanto l'intelletto del migliore filosofo non superi l'intelletto del più rozzo ignorante: poiché quest'ultima distanza rientra nei limiti della specie umana, mentre questi sono trascesi dall'intelletto angelico. Un angelo infatti conosce Dio da effetti tanto più nobili quanto la natura angelica, che serve all'angelo per conoscere Dio, è superiore alle cose sensibili e all'anima stessa, con la quale l'intelletto umano sale alla conoscenza di Dio. L'intelletto divino poi supera quello angelico, più di quanto quello angelico non superi l'intelletto umano. Infatti l'intelletto divino adegua con la sua capacità la propria sostanza, e quindi ne conosce perfettamente l'essenza e quanto c'è in lui d'intelligibile: invece l'angelo con la propria conoscenza naturale non può conoscere l'essenza di Dio; perché la sostanza stessa dell'angelo, di cui questi si serve per arrivare a conoscere Dio, è un effetto che non adegua la virtù della causa. Perciò l'angelo con la sua conoscenza naturale non può comprendere tutto ciò che Dio conosce in se stesso: né, d'altra parte, la ragione naturale è sufficiente per capire tutto ciò che l'angelo conosce con la sua capacità naturale. Perciò come sarebbe sommamente pazzo l'ignorante il quale affermasse che son false le asserzioni dei filosofi, perché egli non è in grado di capirle, così e più ancora sarebbe sommamente stolto l'uomo, se ritenesse false le rivelazioni delle cose divine trasmesse per il ministero degli angeli, per il fatto che non è possibile investigarle con la ragione.

La cosa appare anche più evidente dalle deficienze che riscontriamo ogni giorno nella nostra conoscenza. Ignoriamo infatti molte proprietà delle cose sensibili, e anche in quelle apprese dai sensi non siamo in grado di scoprire perfettamente il perché di molteplici aspetti. Perciò la ragione umana a molto maggior ragione deve ritenersi incapace con i propri concetti d'investigare quanto riguarda l'essere più sublime.

Si accorda con questo l'asserzione di Aristotele, il quale dice nel secondo libro della Met. [II, c. 1, n. 2], che «il nostro intelletto rispetto ai primi enti, i quali in natura sono evidentissimi, si comporta come l'occhio del pipistrello rispetto al sole».

Anche la Scrittura rende testimonianza a codesta verità; poiché in Giobbe [11,7] si legge: «Puoi tu scrutare le vestigia di Dio, e giungere alla perfezione dell'Onnipotente?». E ancora [36,26]: «Ecco, Dio è così grande da vincere la nostra scienza». E S. Paolo afferma [1Cor., 13,9]: «Parziale è la nostra conoscenza».

Perciò quanto si dice di Dio, anche se non è possibile investigarlo con la ragione, non si deve subito respingere come falso, alla maniera dei Manichei, e di molti altri increduli.

4. È conveniente che all'uomo vengano proposte da ritenere per fede le verità divine che possono essere investigate dalla ragione naturale

Essendoci dunque due serie di verità riguardo alle cose di Dio, la prima raggiungibile dalla ragione, mentre la seconda trascende qualsiasi capacità dell'ingegno umano, è conveniente che entrambe vengano proposte all'uomo da Dio come materia di fede. In proposito bisogna prima di tutto notare in che condizioni si trovino quelle verità che sono raggiungibili dall'indagine razionale, perché a nessuno sembri inutile la loro presentazione come oggetto di fede dall'ispirazione soprannaturale, dal momento che sono raggiungibili dalla ragione.

Seguirebbero infatti tre inconvenienti, se codeste verità fossero lasciate alla sola indagine razionale. Primo, che pochi uomini avrebbero la conoscenza di Dio. Poiché i più si troverebbero impediti dal raggiungere i risultati di una ricerca scientifica, sarebbero cioè negati alla scoperta della verità, per tre motivi. Alcuni lo sarebbero per la loro complessione, che rende moltissimi inadatti allo studio. Cosicché costoro con tutto il loro impegno non sarebbero capaci di raggiungere il grado supremo della conoscenza umana, che consiste nella cognizione di Dio. Altri sono impeti dai bisogni familiari. Tra gli uomini infatti molti sono costretti a curare gli interessi temporali, così da non poter impiegare tanto tempo nella ricerca e nella contemplazione, per poter giungere al fastigio dell'indagine umana, cioè alla conoscenza di Dio. Finalmente altri sono impediti dalla pigrizia; poiché per conoscere quanto la ragione può sapere di Dio, è necessaria la previa conoscenza di molte cose, dal momento che quasi tutta la filosofia è ordinata alla conoscenza di Dio. Infatti la metafisica, che ha per oggetto le cose divine, viene insegnata per ultima tra le discipline filosofiche. Perciò non si può arrivare all'indagine delle suddette verità, se non con grande fatica di studio; fatica che pochi si rassegnano ad affrontare per amore del sapere, pur avendone Dio posto in tutte le anime il desiderio naturale.

Secondo inconveniente: quegli stessi che raggiungessero la conoscenza o la scoperta di codeste verità, ci arriverebbero difficilmente e dopo lungo tempo: sia per la profondità di esse, che richiede da parte della ragione umana un lungo esercizio, sia per le molte conoscenze prerequisite di cui abbiamo parlato, sia perché in gioventù l'anima, agitata tra i moti contrastanti delle passioni, non è adatta all'esercizio di una conoscenza così alta, ma «diviene prudente e savia nell'acquietarsi», come si esprime Aristotele nel settimo libro della Phys. [c. 3, n. 7]. Perciò il genere umano resterebbe nelle più fitte tenebre dell'ignoranza, se per conoscere Dio non avesse altra via che la ragione; qualora la conoscenza di Dio, che è il massimo coefficiente della perfezione e della bontà, fosse riservata a pochi, che poi non ci arriverebbero se non dopo lungo tempo.

Il terzo inconveniente sta nel fatto che nelle investigazioni della ragione umana il più delle volte si mescola il falso, a cagione della debolezza nostra nel giudicare sotto le impressioni della fantasia. Perciò presso molti resterebbero dubbie anche le cose rigorosamente dimostrate, non afferrando essi il valore delle dimostrazioni; e soprattutto vedendo i pareri contrastanti di coloro che sono considerati sapienti. E anche nelle verità dimostrate talora si mescola qualche falsità, che non deriva dalla dimostrazione, bensì da ragioni probabili o sofistiche, considerate come vere dimostrazioni.

Ecco perché era necessario che le verità divine fossero presentate agli uomini con certezza assoluta come materia di fede. Perciò la divina bontà provvide salutarmente a comandarci di tenere per fede anche le verità conoscibili con la ragione: affinché tutti possano con facilità essere partecipi della conoscenza di Dio, senza dubbi e senza errori.

Di qui le parole della Scrittura: «Non camminate più, come camminano i gentili, nella vanità dei loro pensieri, con l'intelligenza ottenebrata» [Eph. 4,17-18]. E ancora: « Tutti i tuoi figli saranno istruiti dal Signore» [Is. 54,13].

5. È opportuno che all'uomo vengano proposte come materia di fede cose che non possono essere investigate dalla ragione

A qualcuno forse potrà sembrare che all'uomo non si debbano proporre a credere cose che la ragione non è in grado di investigare; poiché la sapienza divina provvede a ciascun essere secondo la sua natura. Perciò bisogna qui dimostrare che era necessario venissero proposte all'uomo come materia di fede anche cose che sorpassano la ragione.

Ebbene, nessuno tende con desiderio e con impegno verso cose che non conosce. Ora, avendo la divina provvidenza, come vedremo in seguito [lib. III, c. 142], preordinato l'uomo a un bene più alto di quello sperimentabile nella vita presente, era necessario che la mente umana venisse iniziata a cose più alte di quelle raggiungibili al presente dalla nostra ragione; imparando così a desiderare e a perseguire beni che trascendono la nostra condizione attuale. E questo compete soprattutto alla religione cristiana, che promette in modo singolare beni spirituali ed eterni. Ecco perché in essa si riscontrano molti insegnamenti che superano le capacità umane. Invece l'antica legge, in cui c'erano promesse di beni temporali, aveva proposto poche cose superiori all'indagine della ragione umana. -- Del resto anche i filosofi hanno seguito lo stesso criterio, nel distaccare gli uomini dai piaceri sensibili, per condurli all'onestà: mostrarono cioè che esistono beni superiori a quelli sensibili, capaci di offrire godimenti superiori a coloro che attendono alle virtù attive e a quelle contemplative.

Anzi è necessario che agli uomini vengano proposte come cose di fede verità di codesto genere, per avere di Dio una conoscenza più vera. Allora soltanto infatti noi conosciamo Dio veramente, quando lo crediamo superiore a quanto l'uomo è capace di pensarne: poiché la realtà divina trascende la conoscenza naturale dell'uomo, come sopra abbiamo notato, perciò dall'esser proposte all'uomo verità divine superiori alla ragione, si conferma nell'uomo l'opinione che Dio è qualcosa di superiore a quanto è possibile pensarne.

C'è poi in questo un altro vantaggio, cioè il freno della presunzione che è madre dell'errore. Ci sono invero alcuni così presuntuosi del proprio ingegno, che immaginano di poter misurare con la propria intelligenza la natura divina, ritenendo per vero quello che loro sembra tale, e falso quello che non li persuade. Affinché, dunque, l'animo umano liberato di siffatta presunzione potesse giungere a ricercare con modestia la verità, era necessario che Dio proponesse all'uomo delle nozioni che superano del tutto l'intelligenza umana.

Un altro vantaggio poi è quello cui accenna Aristotele nel decimo libro dell'Eth. [c. 7, n. 8]. Volendo infatti un certo Simonide convincere un uomo a disinteressarsi delle cose di Dio, per applicare il proprio ingegno alle cose umane, col pretesto che «l'uomo deve intendersi delle cose umane e il mortale di quelle mortali», il Filosofo replica dicendo che «l'uomo deve innalzarsi per quanto è possibile alle cose immortali e divine». Ed ecco perché nell'undicesimo libro De Animalibus afferma, che per quanto sia poca la nostra conoscenza delle nature superiori, tuttavia questo poco è più amato e desiderato di tutta la conoscenza che abbiamo delle nature inferiori. E nel secondo libro del De caelo et mundo [c. 12, n. 1] insegna che, sebbene i problemi relativi ai corpi celesti non possano avere che una soluzione modesta e solo probabile, tuttavia produce in chi l'ascolta un grande godimento.

E da tutti questi argomenti appare evidente che la conoscenza delle cose più sublimi, per quanto imperfetta, conferisce all'anima la più grande perfezione. Perciò, sebbene la ragione umana non possa capire pienamente ciò che la trascende, tuttavia acquista così una grande eccellenza, ritenendo almeno per fede codeste verità.

Ecco perché nell'Ecclesiastico, III, 25, si legge: «Ti sono state mostrate molte cose che sorpassano la comprensione umana»; e nella I Cor. II, 10s., S. Paolo afferma: «Nessuno conosce i segreti di Dio all'infuori dello Spirito di Dio: ma Dio ce li ha rivelati mediante il suo Spirito».

6. Non è atto di leggerezza l'assenso alle cose di fede, per quanto esse siano superiori alla ragione

Prestando fede a codeste verità, che la ragione umana non è in grado di controllare, non si fa un atto di leggerezza, quasi «prestando fede a dotte favole», secondo l'espressione di S. Pietro [2Pt., 1,16]. Poiché la stessa sapienza divina, che tutto conosce in modo completo, si degnò di rivelare i suoi segreti agli uomini; mostrando il suo intervento e la verità del suo insegnamento e della sua ispirazione con argomenti adatti: confermando cioè cose che sorpassano la conoscenza naturale con opere visibili superiori alle capacità di tutta la natura. Vale a dire con la guarigione prodigiosa di malattie, con la resurrezione dei morti, con le mutazioni miracolose dei corpi celesti, e, cosa ancora più mirabile, con l'ispirazione interiore delle menti umane, così da riempire col dono dello Spirito Santo uomini ignoranti e semplici, facendo loro conseguire all'istante somma sapienza ed eloquenza.

In considerazione di ciò, per l'efficacia delle prove suddette e non già per violenza di armi, né per attrattiva di piaceri e, cosa mirabilissima, in mezzo alla tirannia dei persecutori, una turba innumerevole non solo di persone semplici, ma anche di uomini sapientissimi, abbracciò la fede cristiana; nella quale vengono predicate cose che trascendono qualsiasi intelletto umano, mentre insegna a tenere a freno i piaceri della carne, e a disprezzare tutte le cose del mondo. Ora, l'adesione degli animi dei mortali a codeste cose è insieme il più grande dei miracoli, ed esige l'intervento manifesto dell'ispirazione divina, per disprezzare le cose visibili nel solo desiderio di quelle invisibili. E questo non avvenne improvvisamente o per caso, ma per disposizione divina, com'è evidente dalla predizione fattane in precedenza dagli oracoli di molti profeti, i cui libri sono stati conservati religiosamente fino a noi, come testimonianza della nostra fede.

Di tale conferma si ha un accenno in quelle parole della Scrittura, in cui si dice che la salvezza umana, «fu annunziata prima dal Signore, poi ci è stata confermata da quelli che l'avevano udito, mentre Dio aggiungeva la sua testimonianza con segni e prodigi e coi doni dello Spirito Santo» [Eb. 2,3].

Questa mirabile conversione del mondo alla fede cristiana è segno certissimo degli antichi miracoli, così da non esser necessaria la loro ripetizione, apparendo essi evidenti nei loro effetti. Sarebbe infatti il più strepitoso dei miracoli, se il mondo fosse stato indotto a credere cose tanto ardue, a compiere azioni tanto difficili e a sperare cose tanto alte da uomini semplici e poveri, senza prodigi mirabili. Sebbene Dio non cessi, anche ai nostri giorni per confermare la fede, di compiere miracoli per mezzo dei suoi santi.

Coloro invece che introdussero sette erronee procedettero per vie del tutto contrarie, com'è evidente nei caso di Maometto, il quale allettò i popoli con la promessa di piaceri carnali, ai quali essi sono già propensi per la concupiscenza della carne. Inoltre diede precetti conformi a codeste promesse, sciogliendo le briglie alle passioni del piacere, in cui è facile farsi ubbidire dagli uomini carnali. In più egli non diede altri insegnamenti all'infuori di quelli che qualsiasi persona mediocremente istruita può dare facilmente e comprendere col suo ingegno naturale; anzi, le verità stesse elle egli insegnò sono mescolate a favole e a dottrine falsissime. E neppure si servì di miracoli soprannaturali, che costituiscono la sola testimonianza adeguata della rivelazione divina, in quanto un fatto visibile, il quale non può attribuirsi che a Dio, mostra essere ispirato da Dio colui che insegna questa data verità. Ma disse di essere stato inviato con la potenza delle armi: il quale contrassegno non manca neppure ai briganti e ai tiranni. Inoltre a lui inizialmente non credettero uomini pratici delle cose divine ed umane, ma uomini bestiali abitanti nel deserto, del tutto ignari delle cose di Dio; e servendosi poi del loro numero, egli costrinse gli altri ad accettare la sua legge con la forza delle armi. E neppure ebbe anteriormente la testimonianza dei profeti precedenti; anzi egli guasta tutti gli insegnamenti del Vecchio e del Nuovo Testamento con racconti favolosi, come risulta dalla lettura della sua legge. Ecco perché con astuzia egli proibisce ai suoi seguaci di leggere i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento, per non essere tacciato di falsità. Perciò è evidente che coloro che credono in lui compiono un atto di leggerezza.

7. Le verità di fede non sono incompatibili con la ragione

Sebbene la verità della fede cristiana superi la capacità della ragione, tuttavia i principi naturali della ragione non possono essere in contrasto con codesta verità. Infatti:

  1. I principi così innati nella ragione si dimostrano verissimi: al punto che è impossibile pensare che siano falsi. E neppure è lecito ritenere che possa esser falso quanto si ritiene per fede, essendo confermato da Dio in maniera così evidente. Perciò essendo contrario al vero solo il falso, com'è evidente dalle loro rispettive definizioni, è impossibile che una verità di fede possa essere contraria a quei principi che la ragione conosce per natura.
  2. Inoltre, le idee che l'insegnante suscita nell'anima del discepolo contengono la dottrina del maestro, se costui non ricorre alla finzione; il che sarebbe delittuoso attribuite a Dio. Ora, la conoscenza dei principi a noi noti per natura ci è stata infusa da Dio, essendo egli l'autore della nostra natura. Quindi anche la sapienza divina possiede questi principi. Perciò quanto è contrario a tali principi è centrano alla sapienza divina; e quindi non può derivare da Dio. Le cose dunque che si tengono per fede, derivando dalla rivelazione divina, non possono mai essere in contraddizione con le nozioni avute dalla conoscenza naturale.
  3. In più, ragioni contrarie legano l'intelletto nostro al punto da non poter procedere alla conoscenza della verità. Perciò se Dio ci infondesse conoscenze contrastanti, impedirebbe al nostro intelletto di conoscere la verità. Il che non si può pensare di Dio.
  4. Inoltre, ciò che è naturale non può essere mutato finché permane la natura. Ora, opinioni contrastanti non sono compatibili nel medesimo soggetto. Dunque non è possibile che Dio infonda nell'uomo un'opinione, o una fede, incompatibile con la sua conoscenza naturale. Di qui le parole dell'Apostolo: «Il messaggio è vicino a te, nella tua bocca e nel tuo cuore, cioè il messaggio della fede che vi predichiamo» [Rom. 10,8]. Ma poiché le verità di fede superano la ragione, alcuni sono portati a considerarle come ad essa contrarie; il che è impossibile. Ciò è confermato da quelle parole di S. Agostino: «Quanto viene manifestato dalla verità in nessun modo può essere in contrasto sia col Vecchio, che col Nuovo Testamento» [Super Gen. ad litt., 2, c. 18].

Da ciò si ricava con chiarezza che tutti gli argomenti addotti contro gli insegnamenti della fede, non derivano logicamente dai principi primi naturali noti per se stessi. E quindi essi non hanno valore di dimostrazioni; ma, o sono ragioni solo dialettiche, o addirittura sofistiche, e quindi si possono sempre risolvere.

8. Rapporto tra la ragione umana e le verità di fede

Si deve notare che le cose sensibili, dalle quali la ragione umana desume la conoscenza, conservano in sé un certo vestigio della causalità divina, però così imperfetto da essere del tutto insufficiente a manifestare la natura stessa di Dio. Poiché gli effetti conservano in una certa misura la somiglianza con la loro causa, perché ogni agente produce una cosa a sé somigliante; ma l'effetto non sempre raggiunge una perfetta somiglianza. Perciò la ragione umana nel conoscere le verità di fede, che possono essere evidenti solo a coloro che contemplano l'essenza di Dio, è in grado di raccoglierne certe analogie, che però non sono sufficienti a dimostrare codeste verità o a comprenderlo per intuizione intellettiva. Tuttavia è proficuo per la mente umana esercitarsi in tali ragionamenti per quanto inadeguati, purché non si abbia la presunzione di comprendere o di dimostrare: poiché poter intendere anche poco e debolmente le cose e le realtà più sublimi procura la più grande gioia, come abbiamo già notato sopra [c. 5].

Tale considerazione è confermata dall'autorità di S. Ilario, il quale afferma nel secondo libro del De Trin. [c. 10, 11], a proposito delle verità di fede: «Nella tua fede inizia, progredisci, insisti: sebbene io sappia che non arriverai alla fine, mi rallegrerò del tuo progresso. Chi infatti si muove con fervore verso l'infinito, anche se non arriva mai, tuttavia va sempre avanti. Però non presumere di penetrare il mistero, e non ti immergere nell'arcano di una natura infinita, immaginando di comprendere il tutto dell'intelligibile: ma cerca di capire che si tratta di realtà incomprensibili».

9. Piano e metodo espositivo dell'opera

Da quanto abbiamo detto risulta evidente che il sapiente deve mirare alle due serie delle verità divine, e alla confutazione degli errori contrari: circa la prima serie l'investigazione razionale è sufficiente; la seconda invece supera ogni risorsa della ragione. Ho parlato di due serie di verità divine non in riferimento a Dio, che è la verità unica e semplice, ma in riferimento alla nostra conoscenza, che nel conoscere le cose di Dio ha varie maniere.

Perciò nell'esporre le verità della prima serie bisogna procedere con ragioni dimostrative, capaci di convincere gli avversari. Ma poiché tali ragioni non possono applicarsi alla seconda serie, non si deve mirare a convincere l'avversario col ragionamento; bensì a risolvere gli argomenti da lui addotti contro la verità; poiché la ragione naturale non può essere contraria alle verità della fede, come sopra [c. 7] abbiamo dimostrato. Il modo singolare di convincere l'avversario che combatte verità di questo genere, consiste nell'addurre l'autorità della Scrittura confermata divinamente dai miracoli: poiché quanto supera la ragione umana, non lo crediamo se non per rivelazione divina. Tuttavia nell'esporre codeste verità è bene addurre degli argomenti probabili, perché la fede dei credenti trovi il modo di esercitarsi e di confortarsi, senza la pretesa però di convincere gli avversari: poiché la debolezza stessa di tali argomenti potrebbe confermarli maggiormente nei loro errori, pensando essi che noi accettiamo le verità di fede per degli argomenti così fragili.

Volendo perciò procedere secondo il metodo indicato, cercheremo prima di esporre quella serie di verità che è insieme professata dalla fede e investigata dalla ragione, portando argomenti, sia dimostrativi che probabili, desunti in parte dai libri dei filosofi e dei santi, capaci di confermare la verità e di convincere gli avversari [lib. I-III].

Quindi, passando dalle cose più note a quelle meno note, esporremo quella serie di verità che sorpassa la ragione [lib. IV], illustreremo le verità di fede, per quanto Dio ce lo concederà, sciogliendo gli argomenti degli avversari, sia con ragioni probabili che con argomenti d'autorità.

Volendo perciò procedere razionalmente nell'esporre quanto la ragione umana può investigare su Dio, in primo luogo si presenta lo studio di ciò che va attribuito a Dio in sé stesso [lib. I]; secondo, la derivazione delle creature da lui [lib. II]; terzo, il tendere ordinato delle creature verso di lui come loro fine [lib. III].

Alle cose da considerare circa Dio in sé stesso, si deve premettere, come fondamento necessario di tutta l'opera, la dimostrazione dell'esistenza di Dio. Poiché in mancanza di questa, ogni ricerca intorno alle cose di Dio sarebbe necessariamente distrutta.

[Traduzione di Tito S. Centi]