Giovanni Salmeri | Ancora l'uomo | Testi antologici | Platone
I passi qui raccolti presentano, nello stile dialogico tipico di Platone, alcuni dei tratti più tipici della sua filosofia. Il primo (tratto dal Menone) mette in scena la dottrina della «reminescenza»: ogni conoscere è in realtà un ricordare, il che dimostra contemporaneamente la preesistenza dell'anima rispetto al corpo. Il secondo e il terzo (tratti dal Fedro e dal Simposio) sono dedicati al tema dell'eros, come itinerario di sapienza e di innalzamento. L'ultimo (tratto dal Timeo) indica alcuni principi essenziali della conoscenza: l'intelletto coglie ciò che è sempre identico, dunque una realtà ideale distinta da quella empirica, mentre i sensi sono a contatto con il divenire di questo mondo, in cui ogni cosa si trasforma continuamente.
[Socrate prosegue ad interrogare il ragazzo sulle proprietà della figura geometrica che hanno sotto gli occhi. Il ragazzo si mostra sempre più insicuro.]
[Con le sue domande Socrate conduce il ragazzo a formulare leggi geometriche corrette.]
[Traduzione di Giovanni Reale]
Non è discorso veritiero quello che dice che, anche quando ci sia un amante, si deve concedere i propri favori a chi non ama, perché l'uno si trova in uno stato di follia, mentre l'altro è in uno stato di assennatezza. Se infatti la follia fosse senz'altro un male, sarebbe stato detto bene. Invece, i beni più grandi ci provengono mediante una follia che ci viene data per concessione divina. Infatti, la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona, quando si trovavano in stato di follia, procurarono alla Grecia molti e bei benefici sia in privato sia in pubblico, mentre, quando si trovavano in stato di assennatezza, ne procurarono pochi se non nessuno. [...] E dunque, quanto più è perfetta e degna d'onore la profezia rispetto alla previsione umana [...], tanto più, come attestavano gli antichi, la mania che proviene da un dio è migliore dall'assennatezza che proviene dagli uomini. Inoltre, alle malattie e alle sofferenze più gravi, che vi sono in alcune stirpi e che provengono da non si sa quali antiche colpe, la mania insorgendo e profetizzando in coloro che vi erano destinati, trovò uno scampo mediante il ricorso alle preghiere e ai culti degli dèi. Perciò la mania, grazie a riti di purificazione e di iniziazione, preserva sia per il presente che per il futuro chi ne è partecipe; infatti, per chi è invasato e posseduto da una giusta forma di mania, essa ha trovato una liberazione dai mali presenti. Il terzo tipo di invasamento e di mania proviene dalle Muse. Questa mania, dopo essersi impossessata di un'anima sensibile e pura, la risveglia suscitando in essa ispirazione bacchica per i canti e per gli altri generi di poesia e, attraverso la celebrazione di innumerevoli imprese degli antichi, educa i posteri. Invece, chiunque si presenti alle porte della poesia senza essere ispirato dalla mania delle Muse, convinto che gli basterà la tecnica per essere un bravo poeta, sarà un poeta mancato, perché la poesia di chi è in sé viene oscurata da quella di coloro che sono in preda a mania.
Tanti sono i begli effetti della mania proveniente dagli dèi e ancora di più potrei dirtene. Di conseguenza non dobbiamo temere questa condizione, né ci deve turbare un discorso che cerchi di spaventarci dicendo che bisogna preferire l'amicizia di chi è padrone di sé a quella di chi è preda della passione. Questo discorso per riuscire vincitore deve anche dimostrare, oltre a ciò, che l'amore non è inviato dagli dèi all'amante e all'amato per loro vantaggio. Noi invece dobbiamo dimostrare il contrario, cioè che tale mania è concessa dagli dèi in vista della massima felicità. Certo la dimostrazione non sarà convincente per i sottili ragionatori, ma lo sarà per i sapienti. Dunque bisogna innanzitutto considerare la vera natura dell'anima, sia divina che umana, osservandone le passioni e le azioni. Ecco il principio della dimostrazione. Ogni anima è immortale. Infatti è immortale ciò che è in continuo movimento, mentre ciò che muove altro o è mosso da altro, quando cessa di muoversi, cessa anche di vivere. Evidentemente solo ciò che si muove da sé, dato che non viene meno a se stesso, non cessa mai di muoversi, ma anzi è fonte di movimento per tutte le altre cose che si muovono. Un principio poi è ingenerato; infatti è necessario che tutto ciò che nasca nasca da un principio, ma che questo principio non nasca da nulla. Perché se un principio nascesse da qualcosa, non potrebbe nascere da un principio. E dato che esso è ingenerato, è necessariamente anche incorruttibile; infatti, una volta che il principio sia venuto meno, né esso nascerà mai da qualcosa né qualcosa d'altro nascerà mai da esso, se è vero che bisogna che tutte le cose nascano da un principio. Così, dunque, ciò che si muove da sé è principio di movimento e non può né morire né nascere; altrimenti tutto il cielo e tutto ciò che è soggetto a generazione, precipitando insieme, resterebbero immobili e non avrebbero mai più un principio da cui nascere ricevendone il movimento. Ora che si è dimostrato che ciò che si muove da sé è immortale, non si esiterà a dire che proprio questa è l'essenza e la definizione dell'anima. Infatti ogni corpo a cui il movimento provenga dall'esterno è inanimato; invece quello a cui provenga dal proprio interno è animato, perché questa è la natura dell'anima. Se le cose stanno in questi termini, allora necessariamente l'anima deve essere ingenerata e immortale. Riguardo all'immortalità dell'anima si è detto abbastanza.
Invece sull'idea di anima dobbiamo dire quanto segue: spiegare quale sia sarebbe compito di una esposizione divina in tutti i sensi e lunga, mentre dire a che cosa essa assomigli si addice a un'esposizione umana e più breve. Parliamone dunque in questi termini. Si consideri l'anima simile alla potenza congiunta di una biga alata e di un auriga. Ebbene, mentre i cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti sia buoni in sé, sia di buona razza, gli altri sono misti. In noi l'auriga guida un carro a due cavalli: dei due cavalli in suo potere, uno è bello e buono e discende da cavalli che lo sono altrettanto, mentre l'altro discende da cavalli che sono l'opposto ed è lui stesso tutto l'opposto. Perciò fare l'auriga nel nostro caso è un compito necessariamente arduo e ingrato. Bisogna dunque cercare di dire in che senso l'essere vivente è stato chiamato mortale o immortale. Ogni anima si prende cura di tutto ciò che è inanimato e vaga per tutto il cielo, apparendo ora in una forma ora in un'altra. Quando dunque l'anima è perfetta e dotata di ali, vola in alto e governa tutto il mondo; mentre, quando ha perduto le ali, precipita fino a raggiungere qualcosa di solido e, stabilitasi lì, assume un corpo terreno che, a causa della forza dell'anima, sembra muoversi da sé. Tutto l'insieme, anima e corpo ad essa unito, prende il nome di vivente ed è definito mortale. Il termine immortale, invece, non deriva da alcun ragionamento ponderato: siamo noi che, senza averlo visto né compreso a sufficienza, ci figuriamo un dio come un essere vivente immortale, dotato di anima e di corpo congiunti per l'eternità. Per quanto riguarda dunque questi argomenti, ammettiamo pure che stiano così, come piace alla divinità, e appunto in questo modo parliamone.
Cerchiamo invece di afferrare la causa della caduta delle ali per la quale esse si staccano dall'anima. [Socrate descrive la vita delle anime nella regione «sovraceleste».]
Nessuno dei poeti di quaggiù cantò né canterà mai degnamente la regione sovraceleste. È così perché bisogna avere il coraggio di dire la verità, specialmente quando si parla di verità. Infatti, la realtà vera, che non ha colore né forma e non si può toccare, che può essere contemplata soltanto dal nocchiero dell'anima, cioè l'intelletto, e su cui verte la vera scienza, occupa questa regione. Dunque la mente divina, dal momento che, come quella di ogni anima che stia per accogliere ciò che le conviene, si nutre di intelligenza e di scienza pura, gioisce quando dopo un certo tempo vede l'essere, e trae nutrimento e beneficio dalla contemplazione della verità, fino a che il movimento circolare non l'abbia riportata al punto di partenza. Durante la rotazione essa contempla la giustizia in sé, contempla la saggezza, contempla la scienza, ma non quella soggetta al divenire e neppure quella che muta a seconda che si occupi dell'uno o dell'altro dei cosiddetti esseri, bensì quella che è la vera scienza del vero essere. E allo stesso modo, dopo aver contemplato gli altri veri esseri fino ad essere sazia, si tuffa di nuovo nel cielo e ritorna alla sua dimora.
[Viene descritto il modo in cui le anime, affollandosi nella regione sovraceleste, si ostacolano a vicenda nella contemplazione e non riescono a vedere il vero essere.]
In effetti, l'anima che non ha mai contemplato la verità non potrà mai giungere alla forma di uomo. Bisogna infatti che l'uomo comprenda in funzione di quella che viene chiamata Idea, procedendo da una molteplicità di sensazioni ad una unità colta con il pensiero. E questa è una reminescenza di quelle cose che un tempo la nostra anima ha visto quando procedeva al seguito di un dio e guardava dall'alto le cose che diciamo che sono essere, alzando la testa verso quello che è veramente essere. Perciò, giustamente, solo l'anima del filosofo mette le ali. Infatti con il ricordo, nella misura in cui gli è possibile, egli è sempre in rapporto con quelle realtà, in relazione con le quali anche un dio è divino. Un uomo che si serva di tali reminescenze in modo corretto, in quanto è sempre iniziato a misteri perfetti, diventa, lui solo, veramente perfetto. Però, in quanto si allontana dalle occupazioni umane e si rivolge al divino, viene accusato dai più di essere fuori di senno. Ma sfugge ai più che egli, invece, è invasato da un dio.
Ecco il punto di arrivo di tutto il discorso sulla quarta mania (la mania per la quale qualcuno, vedendo la bellezza di quaggiù e ricordandosi di quella vera, mette le ali e così alato arde dal desiderio di levarsi in volo, ma non riuscendovi, guarda verso l'alto come un uccello senza curarsi di quanto avviene quaggiù e guadagnandosi in tal modo l'accusa di essere pazzo). Ebbene, il discorso afferma che, fra tutte le forme di entusiasmo, questa è la migliore e ha le migliori origini, sia per colui che ne è preda, sia per colui al quale si comunica; e che inoltre, chi ama i belli, partecipe di questa mania, viene chiamato innamorato. Come si è detto, infatti, ogni anima umana, per sua natura, ha contemplato i veri esseri, altrimenti non avrebbe assunto questa forma. Ma ricordarsi di quegli esseri partendo dalla realtà terrena non è facile per nessuna delle anime, né per quante allora videro brevemente ciò che stava lassù, né per quante, cadute qui, furono così sfortunate da farsi indurre all'ingiustizia da qualche cattiva compagnia e da dimenticarsi in tal modo delle sacre visioni contemplate un tempo. Restano dunque poche anime che ne conservino un sufficiente ricordo; queste quando scorgono qualcosa che assomiglia a ciò che stava lassù, ne restano colpite e non sono più padrone di se stesse. Ma non capiscono ciò che provano, perché non ne hanno una chiara percezione. Ora, della giustizia, della temperanza e di tutte le altre virtù che sono preziose per le anime non c'è nessuna luce nelle rassomiglianze terrene, ma in pochi a fatica, avvicinandosi alle immagini di quelle virtù mediante organi imperfetti, riescono a contemplare il genere di ciò che vi è stato rappresentato. La bellezza invece era splendida a vedersi a quel tempo, quando, con un coro felice (noi seguendo Zeus, altri seguendo chi un dio chi un altro), si contemplava il beato spettacolo che essa offriva alla vista e si era iniziati a quella che è lecito chiamare la più beata delle iniziazioni, che noi celebravamo in condizione di assoluta perfezione e immuni da tutti quei mali che ci attendevano successivamente. Perfette, semplici, immutabili e beate erano le visioni a cui eravamo iniziati e che contemplavamo in una luce pura, anche noi puri e senza questo sepolcro che ora portiamo in giro chiamandolo corpo, legati ad esso come ostriche. Di tutto ciò bisogna dunque ringraziare la memoria, a causa della quale, per rimpianto delle visioni di quei tempi, ci siamo ora dilungati eccessivamente. La vista infatti è il più acuto dei sensi che giungono a noi attraverso il corpo, ma non ci consente di vedere la sapienza: essa infatti susciterebbe incredibili amori se offrisse un'immagine altrettanto chiara di sé presentandosi alla vista, e lo stesso vale per tutte le altre realtà degne d'amore. Invece solo la bellezza ha avuto questa sorte, di essere evidentissima e amabilissima. [...] Chi è stato iniziato recentemente e chi ha a lungo contemplato le visioni passate, quando vede un bel volto di aspetto divino, che imita bene la bellezza, o un bel corpo, per prima cosa ha un fremito e qualcuno dei timori passati si insinua in lui. Quindi lo guarda e lo onora come un dio e, se non temesse di apparire completamente folle, offrirebbe sacrifici all'amato come a una statua sacra o a un dio. Poi, come è naturale che avvenga dopo il fremito, alla vista di quello, un cambiamento un sudore e un calore insolito si impadroniscono di lui. Egli, infatti, ricevuto l'effluvio della bellezza attraverso gli occhi, si riscalda e così l'ala viene irrorata. Per effetto di questo calore, si sciolgono le parti circostanti al germoglio che, indurite e chiuse da tempo, gli impedivano di crescere. Una volta che l'alimento ha preso ad affluire, la nervatura dell'ala si inturgidisce e comincia a spuntare dalla radice sotto tutta la superficie dell'anima, che infatti un tempo era tutta alata. In questa fase, dunque, essa ribolle tutta quanta ed erompe. La stessa sofferenza che prova chi sta mettendo i denti nel momento in cui questi spuntano, cioè prurito e irritazione alle gengive, prova anche l'anima di chi comincia a mettere le ali: essa ribolle, ha irritazione e prurito mentre le fa spuntare.
[Viene proseguita la descrizione gli effetti dell'innamoramento sulla persona, che comincia a provare sentimenti contrastanti e a comportarsi da «folle»]
E da questa condizione certo non si allontana volentieri né c'è alcuno che essa tenga in considerazione più dell'amato. Si dimentica di tutti, persino di madri, fratelli, amici, e non importa nulla se il patrimonio va in rovina per la sua incuria. [...]
[Traduzione di Giovanni Reale]
[Parla Diotima:]
Ecco, Socrate, le verità sull'amore alle quali tu puoi certamente essere iniziato. Ma le rivelazioni più profonde e la loro contemplazione -- il fine ultimo della ricerca su Eros -- non so se sono alla tua portata. Voglio però parlartene egualmente, senza diminuire il mio sforzo. Cerca di seguirmi, almeno finché puoi. Chi inizia il cammino che può portarlo al fine ultimo, sin da giovane deve essere attento alla bellezza fisica. In primo luogo, se chi lo dirige sa indirizzarlo sulla giusta strada, si innamorerà di una sola persona e troverà con lei le parole per i dialoghi più belli. Poi si accorgerà che la bellezza sensibile della persona che ama è sorella della bellezza di tutte le altre persone: se si deve ricercare la bellezza che è propria delle forme sensibili, non si può non capire che essa è una sola, identica per tutti. Capito questo, imparerà a innamorarsi della bellezza di tutte le persone belle e a frenare il suo amore per una sola: dovrà imparare a non valutare molto questa prima forma dell'amore, a giudicarla di minor valore. Poi, imparerà a innamorarsi della bellezza delle anime piuttosto che della bellezza sensibile: a desiderare una persona per la sua anima bella, anche se non è fisicamente attraente. Con lei nasceranno discorsi così belli che potranno elevare i giovani che li ascoltano. E giunto a questo punto, potrà imparare a riconoscere la bellezza in quel che fanno gli uomini e nelle leggi: scoprirà che essa è sempre simile a se stessa, e così la bellezza dei corpi gli apparirà ben piccola al confronto. Dalle azioni degli uomini, poi, sarà portato allo studio delle scienze, per coglierne la bellezza, gli occhi fissi sull'immenso spazio su cui essa domina. Cesserà allora di innamorarsi della bellezza di un solo genere, d'una sola persona o di una sola azione -- una forma d'amore che lo lascia ancora schiavo -- e rinuncerà così alle limitazioni che lo avviliscono e lo impoveriscono. Orientato ormai verso l'infinito universo della bellezza, che ha imparato a contemplare, le sue parole e i suoi pensieri saranno pieni del fascino che dà l'amore per il sapere. Finché, reso forte e grande per il cammino compiuto, giungerà al punto da fissare i suoi occhi sulla scienza stessa della bellezza perfetta, di cui adesso ti parlerò.
Sfòrzati -- mi disse Diotima -- di dedicarti alle mie parole con tutta l'attenzione di cui sei capace. Guidato fino a questo punto sul cammino dell'amore, il nostro uomo contemplerà le cose belle nella loro successione e nel loro esatto ordine; raggiungerà il vertice supremo dell'amore e allora improvvisamente gli apparirà la Bellezza nella sua meravigliosa natura, quella stessa, Socrate, che era il fine di tutti i suoi sforzi: eterna, senza nascita né morte. Essa non si accresce né diminuisce, né è più o meno bella se vista da un lato o dall'altro. Essa è senza tempo, sempre egualmente bella, da qualsiasi punto di vista la si osservi. E tutti comprendono che è bella. La Bellezza non ha forme definite: non ha volto, non ha mani, non ha nulla delle immagini sensibili o delle parole. Non è una teoria astratta. Non è uno dei caratteri di qualcosa di esteriore, per esempio di un essere vivente, o della Terra o del cielo, o non importa di cos'altro. No, essa apparirà all'uomo che è giunto sino a lei nella sua perfetta natura, eternamente identica a se stessa per l'unicità della sua forma. Tutte le cose belle sono belle perché partecipano della sua bellezza, ma esse nascono e muoiono -- divenendo quindi più o meno belle -- senza che questo abbia alcuna influenza su di lei. Iniziando il proprio cammino dal primo gradino della bellezza sensibile, l'uomo si eleva coltivando il suo fecondo amore per i giovani e così impara a percepire in loro i segni della pura e perfetta bellezza: allora potrà dire di non essere lontano dalla meta. Così, da soli o sotto la guida di un altro, la perfetta via dell'amore ha inizio con la bellezza sensibile ed ha per fine la contemplazione della Bellezza pura: l'uomo deve salire come su una scala, da una sola persona bella a due, poi a tutte, poi dalla bellezza sensibile alle azioni ben fatte e alla scienza, fino alla pura conoscenza del bello, e ancora avanti sino alla contemplazione della Bellezza in sé. Questo, mio caro Socrate -- mi disse la straniera di Mantinea --, è il momento più alto nella vita di una persona: l'attimo in cui si contempla la Bellezza pura. Se la vedrai un giorno, al suo confronto sfioriranno le ricchezze, i bei vestiti, i bei ragazzi che ti fanno girar la testa: eppure tu e tanti altri accettereste di non mangiare né bere, per così dire, pur di poterli ammirare e poter stare con loro. Cosa proverà l'anima allora nel fissare la Bellezza pura, semplice, senza alcuna impurità, del tutto estranea all'imperfezione umana, ai colori, alle vanità sensibili? Cosa proverà il nostro spirito nel contemplare la Bellezza divina nell'unicità della sua forma? Credi forse che possa ancora essere vuota la vita di un uomo che abbia fissato sulla Bellezza il suo sguardo, contemplandola pur nei limiti dei mezzi che possiede, ed abbia vissuto in unione con essa? Non pensi, disse, che solamente allora, quando vedrà la bellezza con gli occhi dello spirito ai quali essa è visibile, quest'uomo potrà esprimere il meglio di se stesso? Non una falsa immagine egli contempla, infatti, ma la virtù più autentica, in piena verità. Egli coltiva in sé la vera virtù e la nutre: non sarà forse per questo amato dagli dèi? non diverrà tra gli uomini immortale?
[Traduzione di Giovanni Reale]
Ma, Socrate, tutti quanti, anche quelli che partecipano in piccola misura della saggezza fanno così, ovvero prima di intraprendere qualsiasi affare, piccolo o grande che sia, sempre invocano la divinità: e noi, che stiamo per fare dei ragionamenti intorno all'universo, vale a dire se è nato o se è privo della nascita, se non deliriamo completamente, dobbiamo di necessità invocare gli dèi e le dee, e pregarli di poter dire tutto assolutamente secondo il loro pensiero, ma anche in conformità con il nostro. E così si invochino gli dèi: dobbiamo d'altra parte invocare questa nostra fatica, perché più facilmente voi apprendiate, mentre io vi possa spiegare meglio quello che penso sulle questioni che si sono stabilite.
A mio avviso si devono innanzitutto distinguere queste cose: che cos'è ciò che sempre è e non ha nascita, e che cos'è ciò che sempre si genera, e che mai non è? L'uno si apprende con l'intelligenza e mediante il ragionamento, poiché è sempre allo stesso modo, l'altro si congettura con l'opinione mediante la sensazione irrazionale, poiché si genera e muore, e in realtà non è mai. Tutto ciò che è generato si genera necessariamente per una causa: infatti per ogni cosa è impossibile generarsi senza una causa. Quando l'artefice, rivolgendo il suo sguardo verso ciò che è sempre allo stesso modo e servendosi di una tale entità come di un modello, realizza la forma e la proprietà di qualche cosa, è necessariamente bello tutto quello che in questo modo realizza.
Non è bello se invece ha prestato attenzione a ciò che è soggetto a generazione, servendosi appunto di un modello generato. Dunque, riguardo a tutto il cielo -- o cosmo o come lo si preferisca chiamare, così noi possiamo chiamarlo -- bisogna innanzitutto considerare di esso ciò che abbiamo stabilito di dover considerare in principio riguardo ad ogni cosa, vale a dire se è sempre, e non ha alcun principio di nascita, oppure si è generato traendo origine da un qualche principio. è nato: infatti si può vedere e toccare, è fornito di un corpo, e tali proprietà sono tutte cose sensibili, e ciò che è sensibile, che si coglie con l'opinione mediante la sensazione, è evidentemente soggetto a divenire e generato. D'altra parte ciò che è nato diciamo che necessariamente si è generato per una qualche causa. è tuttavia impossibile trovare il fattore e il padre dell'universo, e, una volta trovatolo, indicarlo a tutti. Proprio questo dobbiamo considerare di esso, vale a dire in base a quale dei due modelli l'artefice lo realizzò, se guardando a quello che è allo stesso modo e identico, oppure a quello generato. Se questo mondo è bello e l'artefice è buono è chiaro che guardò al modello eterno: altrimenti, ma non è neppure lecito dirlo, a quello generato. è chiaro ad ognuno che rivolse il suo sguardo al modello eterno, poiché è il più bello fra i mondi generati, e l'artefice, fra le cause, quella migliore. Generato in questo modo, il mondo è stato realizzato sulla base di quel modello che può essere appreso con la ragione e l'intelletto e che è sempre allo stesso modo: stando così le cose, vi è assoluta necessità che che questo mondo sia ad immagine di qualcosa. La cosa più importante in ogni questione è quella di cominciare dal principio naturale. Così allora si deve distinguere l'immagine dal suo modello, come se i discorsi fossero parenti di quelle cose di cui sono interpreti: i discorsi, dunque, intorno a ciò che è saldo e fisso ed evidente all'intelletto sono saldi e sicuri, e per quanto è possibile, conviene che siano inconfutabili e invincibili e nulla di ciò deve mancare. Quanto allora a quei discorsi che si riferiscono a ciò che raffigura quel modello, ed è a sua immagine, essi sono verosimili e in proporzione a quegli altri: perché come l'essenza sta alla generazione, così la verità sta alla fede. Se dunque, Socrate, poiché sono state dette molte cose cose riguardo a svariate questioni concernenti gli dèi e la generazione dell'universo, non siamo in grado di offrirti dei discorsi assolutamente e perfettamente congruenti fra loro ed esatti, non ti stupire: ma purché non ti offriamo discorsi meno verosimili di altri, bisogna contentarsi ricordando che io che parlo e voi che giudicate abbiamo natura umana, sicché intorno a tali questioni ci conviene accettare un mito verosimile, e non cercare più lontano.
[Traduzione di Giovanni Reale]