Giovanni Salmeri | Ancora l'uomo | Testi antologici | Emmanuel Levinas

Emmanuel Levinas

L'articolo qui presentato, scritto nel 1957, presenta la prospettiva essenziale della filosofia di Emmanuel Levinas con una chiarezza per lui insolita. A questa giova particolarmente il confronto istituito con le due direzioni fondamentali della teoria della conoscenza: la prima quella empirica, la seconda quella razionalista. Levinas si schiera con la prima, perché esperienza vuol dire confronto con una realtà già data, esteriore, ciò che secondo lui avviene in ultima analisi solo tramite l'incontro con l'altro uomo. In maniera sorprendente anche Descartes, e in particolare la sua teoria delle idee innate, viene posto in questa linea: l'idea dell'infinito di cui questi parla indicherebbe infatti la presenza in sé di qualcosa che supera la propria mente e significa necessariamente il rapporto con l'esteriorità divina. È uno dei tanti casi in cui l'interpretazione della storia della filosofia da parte di Levinas è disinvolta sì, ma stimolante e arricchente.

La filosofia e l'idea dell'infinito

1. Autonomia ed Eteronomia

Ogni filosofia cerca la verità. Anche le scienze, a loro volta, possono essere definite da una tale ricerca, nella misura in cui è l'eros filosofico, in esse vivo o sonnecchiante, che alimenta la loro nobile passione. Benché questa definizione possa sembrare troppo generica e un po' vuota, permette però di individuare due vie differenti in cui si inoltra lo spirito filosofico e che ne chiariscono la fisionomia. Queste due vie si incrociano nell'idea stessa di verità.

1. Verità implica esperienza. Nella verità il pensatore è in rapporto con una realtà distinta da lui, altra da lui. «Assolutamente altra», secondo l'espressione ripresa da Jankélévitch. Infatti l'esperienza merita questo nome soltanto se ci proietta al di là di quanto caratterizza la nostra natura. La vera esperienza, anzi, deve condurci al di là della Natura che ci circonda, della Natura che non è gelosa dei meravigliosi segreti che custodisce, ma che, connivente con gli uomini, si piega alle loro ragioni e invenzioni. Anche in essa gli uomini si sentono presso di sé (chez soi). La verità indicherebbe così il punto di arrivo di un movimento che, partendo da un mondo intimo e familiare -- benché non ancora completamente esplorato --, conduce verso quanto ci è estraneo, verso un laggiù, secondo la parola di Platone. Più che un'esteriorità, la verità implicherebbe la trascendenza. La filosofia si occuperebbe dell'assolutamente altro, sarebbe l'eteronomia in quanto tale. Cerchiamo di spingerci ancora un po' oltre. La sola distanza non è sufficiente per distinguere trascendenza ed esteriorità. Figlia dell'esperienza, la verità mira molto in alto. Si apre alla dimensione stessa dell'ideale. Ed è così che filosofia significa metafisica e che la metafisica s'interroga sul divino.

2. Ma verità significa anche adesione libera a una proposizione, risultato di una libera ricerca. La libertà del ricercatore e del pensatore, sulla quale non pesa alcuna costrizione, si esprime nella verità. E che cos'è tale libertà, se non il rifiuto dell'essere pensante di alienarsi nell'adesione, la conservazione della sua natura e della sua identità, il fatto di restare identico, nonostante le terre ignote dove sembra condurre il pensiero? In questa prospettiva la filosofia si sforzerebbe di ridurre all'Identico tutto quel che le si oppone in quanto altro, incamminandosi così verso una autonomia, verso uno stato in cui più niente di irriducibile verrebbe a limitare il pensiero, e in cui quest'ultimo, senza più limiti, sarebbe di conseguenza libero. La filosofia equivarrebbe così alla conquista dell'essere da parte dell'uomo attraverso la storia.

La conquista dell'essere da parte dell'uomo attraverso la storia -- ecco la formula a cui si riducono la libertà, l'autonomia, la riduzione dell'Altro all'Identico e che non rappresenta chissà quale schema astratto, ma l'Io umano. L'esistenza di un Io si svolge come identificazione del diverso. Nonostante tutti gli eventi che lo coinvolgono, tutti gli anni che lo invecchiano, l'Io resta lo Stesso. L'Io, il Sé-stesso, l'ipseità come si dice oggi, non resta -- nel cuore del mutamento -- immutabile come una rupe minacciata dai flutti. La rupe minacciata dai flutti è semplicemente immutabile. L'Io resta lo Stesso, facendo degli eventi disparati e diversi una storia, la sua storia. Ed è questo il fatto originario dell'identificazione dell'Identico, anteriore alla stessa identità della rupe, anzi condizione di tale identità.

Autonomia o eteronomia? La filosofia occidentale il più delle volte ha inclinato dal lato della libertà e dell'Identico. Non nacque, forse, la filosofia, in terra greca per detronizzare l'opinione, in cui tutte le tirannie minacciano e stanno in agguato? Con l'opinione, il veleno più sottile e più insidioso penetra nell'anima l'altera nelle sue profondità e la fa diventare altra da sé. L'anima «divorata dagli altri», come direbbe Monsieur Teste, non si accorge della propria alterazione e si espone perciò a tutte le violenze. Ma tale penetrazione e tale prestigio dell'opinione presuppongono uno stato mitico dell'essere in cui le anime partecipano le une delle altre, secondo l'accezione di Lévy-Bruhl. Contro quella partecipazione sconcertante e torbida che l'opinione presuppone, la filosofia ha inteso le anime come separate e, in un certo senso, impenetrabili. L'idea dello Stesso e quella di libertà sembravano offrire la garanzia più sicura di una tale separazione.

In tal modo è parso che il pensiero occidentale escludesse molto spesso il trascendente, incorporasse qualunque alterità nell'Identico e proclamasse il diritto di primogenitura filosofica dell'autonomia.

2. Il primato dell'Identico e il narcisismo

L'autonomia -- la filosofia che tende ad assicurare la libertà o l'identità degli esseri -- presuppone che la libertà in quanto tale sia sicura del suo diritto, si giustifichi senza ricorrere a nient'altro, si compiaccia di sé stessa come Narciso. Quando nella vita filosofica che realizza questa libertà sorge un elemento ad essa estraneo, un elemento altro -- la terra che ci sostiene e disattende i nostri sforzi, il cielo che ci attira a sé e ci ignora, le forze della natura che ci uccidono e ci aiutano, le cose che ci ingombrano o ci servono, gli uomini che ci amano e ci rendono schiavi --, tale elemento costituisce immediatamente un ostacolo. Bisogna superarlo e integrarlo in questa vita. Ora, la verità è appunto questa vittoria e questa integrazione. La violenza dell'incontro con il non-io si estingue nell'evidenza. In tal modo il rapporto con la verità esterna, che ha luogo nella conoscenza vera, non si oppone alla libertà, ma coincide con essa. La ricerca della verità diviene così il respiro stesso di un essere libero, esposto alle realtà esterne che ospitano ma insieme minacciano la sua libertà. Grazie alla verità, io posso comprendere quelle realtà di cui rischio di essere in balìa.

L'«io penso», il pensiero alla prima persona, l'anima che dialoga con sé stessa o che ritrova dentro di sé come reminiscenza gli insegnamenti che riceve, promuovono così la libertà. Essa trionferà quando il monologo dell'anima sarà giunto all'universalità, avrà incorporato la totalità dell'essere e perfino l'individuo vivente in cui quel pensiero dimorava. Tutti gli elementi e gli oggetti dell'esperienza del mondo si prestano a questa dialettica dell'anima che dialoga con sé stessa, vi entrano, vi appartengono. Le cose saranno idee e, nel corso di una storia economica e politica nella quale quel pensiero si sarà pienamente dispiegato, saranno conquistate, dominate, possedute. Certamente per questo Cartesio dirà che l'anima potrebbe essere l'origine delle idee relative alle cose esteriori e rispondere del reale.

L'essenza della verità non consisterebbe, dunque, nel rapporto eteronomo con un Dio ignoto, ma nel già-conosciuto che è ancora da scoprire o da reinventare liberamente in sé, e in cui confluisce ogni cosa sconosciuta. Essa si oppone radicalmente a un Dio rivelatore. La filosofia è ateismo, o piuttosto irreligione, negazione di un Dio che si rivela e che pone in noi delle verità. È questa la lezione di Socrate, secondo la quale al maestro non resta altro che l'esercizio della maieutica: ogni insegnamento introdotto nell'anima vi era infatti già contenuto. L'identificazione dell'Io -- la meravigliosa autarchia dell'io -- è il naturale crogiolo di questa trasformazione dell'Altro nell'Identico. Ogni filosofia è un'egologia, per usare un neologismo husserliano. E allorché Cartesio individuerà nella verità l'assenso della volontà più ragionevole, non soltanto spiegherà la possibilità dell'errore, ma porrà la ragione come un io, e la verità come dipendente da un movimento libero e perciò stesso sovrano e giustificato.

Questa identificazione esige la mediazione, il che implica un secondo aspetto della filosofia dell'Identico: il suo ricorso ai Neutri. Per comprendere il non-io, occorre trovarvi un accesso attraverso un'entità, un'essenza astratta che, al tempo stesso, è e non è. È qui che si dissolve l'alterità dell'altro. L'essere estraneo, invece di mantenersi nella fortezza inespugnabile della sua singolarità, invece di stare di fronte, viene tematizzato e oggettivato. Si sussume già sotto un concetto o si dissolve in relazioni. Cade nella rete di idee a priori che io porto con me per captarlo. Conoscere significa cogliere nell'individuo che mi è di fronte, in questa pietra che ferisce, in questo pino che si slancia, in questo leone che ruggisce, ciò mediante cui non è più questo individuo determinato che mi è estraneo, ma attraverso cui già tradendo sé stesso, dà appiglio alla volontà libera che vibra in ogni certezza, si lascia afferrare e comprendere, entra in un concetto. La conoscenza consiste nel cogliere l'individuo che soltanto esiste, non nella sua singolarità che non conta, ma nella sua generalità, di cui solamente si dà scienza.

Ed è qui che comincia ogni potenza. La resa delle cose esteriori alla libertà umana mediante la loro generalità non significa solo innocentemente comprenderle, ma anche utilizzarle, addomesticarle e possederle. Soltanto nel possesso l'io porta a compimento l'identificazione del diverso. Certamente il possesso conserva la realtà dell'altro che è posseduto, ma sospendendone appunto l'indipendenza. In una civiltà che si riflette nella filosofia dell'Identico, la libertà si realizza nella ricchezza. La ragione che riduce l'altro è appropriazione e potere.

Ma, se le cose non resistono alle astuzie del pensiero e confermano la filosofia dell'Identico, senza mai mettere in questione la libertà dell'io, che ne è degli uomini? Si arrendono a me come le cose? Neanch'essi mettono in questione la mia libertà?

Innanzitutto possono metterla in scacco opponendole le loro libertà più che la loro forza. Possono fare la guerra. La guerra infatti non è una pura opposizione di forze. La guerra si definisce forse come rapporto in cui la forza non entra in gioco da sola, perché contano anche gli imprevisti della libertà: destrezza, coraggio e invenzione. Ma nella guerra la volontà libera può non avere successo, senza per questo mettersi in questione, senza rinunciare alle sue buone ragioni e alla rivincita. La libertà si trova messa in questione dall'Altro (Autrui) e si rivela ingiustificata, solo quando si sa ingiusta. Il fatto di sapersi ingiusta non viene ad aggiungersi a una coscienza spontanea e libera che sarebbe presente a sé stessa, e inoltre si riconoscerebbe colpevole. Qui si verifica una situazione del tutto nuova. La modalità della presenza a sé della coscienza cambia volto, le sue posizioni crollano. Per dirlo in modo formale, l'identico non vi ritrova la sua supremazia sull'altro, l'identico non riposa tranquillamente su di sé, non è più principio. Cercheremo di precisare queste formule. Ma, se l'identico non riposa tranquillamente su di sé, allora la filosofia non sembra indissolubilmente legata all'avventura che incorpora qualunque alterità nell'Identico.

Torneremo in seguito su questo punto. Per ora precisiamo che questa supremazia dell'Identico sull'Altro ci sembra radicalmente mantenuta nella filosofia di Heidegger che conosce attualmente il più clamoroso successo. Quando Heidegger rintraccia le vie di accesso a ogni singolarità reale attraverso l'Essere, che non è un essere particolare né un genere in cui rientrerebbero tutte le particolarità, ma in qualche modo l'atto stesso di essere, espresso dal verbo e non dal sostantivo (e che noi, come A. de Waelhens, scriviamo con la E maiuscola), ci conduce alla singolarità attraverso un Neutro che illumina e comanda il pensiero e che rende possibile la comprensione. Quando Heidegger dice che l'uomo è posseduto dalla libertà invece di possederla, pone al di sopra dell'uomo un Neutro che illumina la libertà senza metterla in questione -- e in tal modo, invece di distruggerla, riassume tutta una corrente della filosofia occidentale.

Il Dasein -- che Heidegger sostituisce all'anima, alla coscienza, all'Io -- conserva la struttura dell'Identico. L'indipendenza -- l'autarchia -- derivava all'anima platonica (e a tutte le sue contraffazioni) dalla sua patria, dal mondo delle Idee, alle quali, secondo il Fedone, l'anima rassomiglia; sicché in quel mondo non poteva incontrare nulla di veramente estraneo. La ragione -- la facoltà di mantenersi identica al di sopra dei mutamenti del divenire -- costituiva l'anima di quell'anima. Heidegger contesta all'uomo questa posizione dominante, ma lascia il Dasein nell'Identico, in quanto mortale. Proprio la possibilità di annientarsi è costitutiva del Dasein, e sostiene in tal modo la sua ipseità. Questo niente è una morte, vale a dire la mia morte, la mia possibilità (dell'impossibilità), il mio potere. Nessuno può sostituirsi a me per morire. L'istante supremo della risoluzione è solitario e personale.

Certo, per Heidegger la libertà dell'uomo dipende dalla luce dell'Essere e perciò non sembra principio. Ma anche nell'idealismo classico il libero arbitrio era considerato la forma più bassa della libertà, e la vera libertà obbediva alla ragione universale. La libertà heideggeriana è obbediente, ma l'obbedienza la fa emergere senza porla in questione, senza rendere manifesta la sua ingiustizia. L'Essere, che equivale all'indipendenza e all'estraneità del reale, equivale anche alla fosforescenza e alla luce, si converte in intelligibilità. Il «mistero», essenziale a questa «oscura chiarezza», non è altro che un modo di questa convertibilità. L'indipendenza dell'Essere svanisce in raggi di luce. Sein und Zeit, la prima e principale opera di Heidegger, forse ha sostenuto sempre quest'unica tesi: l'Essere è inseparabile dalla comprensione dell'essere, l'Essere è già invocazione della soggettività. Ma l'Essere non è un essente. È un Neutro che, mentre ordina pensieri ed esseri, rafforza la volontà invece di umiliarla. La coscienza della propria finitudine non raggiunge l'uomo a partire dall'idea dell'infinito, cioè non si manifesta come un'imperfezione, non si riferisce al Bene, non si riconosce malvagia. La filosofia heideggeriana segna precisamente l'apice di un pensiero in cui il finito non si riferisce più all'infinito (continuando alcune tendenze della filosofia kantiana, quali la separazione fra intelletto e ragione e diversi temi della dialettica trascendentale), in cui ogni deficienza è solo debolezza e ogni colpa è commessa solo contro di sé; in essa culmina una lunga tradizione di orgoglio eroico, di dominazione e di crudeltà.

L'ontologia heideggeriana subordina il rapporto con l'Altro alla relazione con quel Neutro che è l'Essere, e in questo modo continua ad esaltare la volontà di potenza, di cui solo l'Altro (Autrui) può compromettere la legittimità e turbare la buona coscienza. Quando Heidegger segnala l'oblio dell'Essere occultato dalle diverse realtà che esso stesso rischiara, oblio di cui si sarebbe resa colpevole la filosofia derivata da Socrate, mentre deplora l'orientarsi dell'intelligenza verso la tecnica, al tempo stesso conserva un sistema di potenze ancor più disumano del macchinismo e che forse non ha la sua stessa origine. (Non è infatti sicuro che il nazional-socialismo derivi dalla reificazione meccanicistica degli uomini, e che non si fondi, al contrario, su un radicamento contadino e un'adorazione feudale da parte di uomini sottomessi, a beneficio dei padroni e dei signori che li comandano.) Si tratta di un'esistenza che si accetta in quanto naturale, per la quale il suo posto al sole, la sua terra, il suo luogo determinano ogni significato. Si tratta di un esistere pagano. L'Essere lo ordina costruttore e coltivatore, all'interno di un paesaggio familiare, su una terra materna. Anonimo e Neutro, lo rende indifferente dal punto di vista etico, come una libertà eroica, estranea ad ogni colpevolezza nei riguardi di Altri,

Questa maternità della terra determina in effetti tutta la civiltà occidentale basata su proprietà, sfruttamento, tirannia politica e guerra. Heidegger non discute il potere pre-tecnico del possesso che si compie appunto nel radicamento della percezione e che, peraltro, nessuno ha mai descritto in modo tanto geniale. Lo spazio geometrico più astratto in definitiva dimora già nella percezione, la quale però, a sua volta, non può trovar posto in tutto l'infinito dell'estensione matematica. Le analisi heideggeriane del mondo, che in Sein und Zeit prendevano le mosse dal fascino delle cose fabbricate, nella sua ultima filosofia sono basate sulla contemplazione dei maestosi paesaggi della Natura, fecondità impersonale, matrice degli esseri particolari, materia inesauribile delle cose.

Heidegger non riassume soltanto tutta un'evoluzione della filosofia occidentale, ma l'esalta, mostrandone nel modo più patetico l'essenza anti-religiosa, divenuta una religione alla rovescia. La lucida sobrietà dei sedicenti amici della verità e nemici dell'opinione avrebbe dunque degli sbocchi in qualcosa di misterioso! Con Heidegger, l'ateismo diviene paganesimo e i testi dei presocratici delle anti-Scritture. Heidegger mostra in che tipo di ebbrezza è immersa la lucida sobrietà dei filosofi.

In conclusione, le note tesi della filosofia heideggeriana, relative alle preminenza dell'Essere rispetto all'essente e dell'ontologia rispetto alla metafisica, portano ulteriormente a compimento una tradizione in cui l'identico domina l'Altro, in cui la libertà -- anche se assimilata alla ragione -- precede la giustizia. Ma non è forse essenziale a quest'ultima considerare gli obblighi verso l'Altro più importanti degli obblighi verso sé stessi, preporre l'Altro all'Identico?

3. L'idea dell'Infinito

Capovolgendo i termini della questione, ci proponiamo di seguire una tradizione almeno altrettanto antica, che non intende il potere come un diritto e che non riduce qualunque alterità all'Identico. Contro gli heideggeriani e i neohegeliani, i quali ritengono che la filosofia cominci con l'ateismo, occorre dire che la tradizione dell'Altro è filosofica e non necessariamente religiosa. Platone resta al suo interno quando pone il Bene al di sopra dell'essere e, nel Fedro, definisce il discorso vero come discorso con gli dèi. Ma è l'analisi cartesiana dell'idea dell'infinito quella che delinea nel modo più caratteristico una struttura di cui, peraltro, vogliamo conservare solo il disegno formale.

Secondo Cartesio, l'io che pensa è in relazione con l'Infinito. Non si tratta né della relazione che collega il contenente al contenuto, poiché l'io non può contenere l'Infinito; né di quella che collega il contenuto al contenente, poiché l'io è separato dall'Infinito. Si tratta, invece, di una relazione che possiamo descrivere, in modo altrettanto negativo, come l'idea dell'Infinito in noi.

Certo, anche delle cose noi possiamo formarci delle idee; ma l'idea dell'infinito ha questo di eccezionale: l'ideatum supera l'idea. Nel caso dell'idea dell'infinito, la distanza fra idea e ideatum non equivale alla distanza che nelle altre rappresentazioni separa l'atto mentale dal suo oggetto. L'abisso che separa l'atto mentale dal suo oggetto non è tanto profondo che Cartesio debba negare all'anima la possibilità di rispondere da sola delle idee delle cose finite. L'intenzionalità che anima l'idea dell'infinito non è paragonabile a nessun'altra: essa tende a quanto non può contenere e, in questo senso appunto, all'Infinito. Capovolgendo le formule che abbiamo usato sopra, diremo che l'alterità dell'Infinito non si annulla né si estingue nel pensiero che lo pensa. Nel momento stesso in cui pensa l'infinito, l'io pensa più di quanto non pensi. L'infinito non è compreso dall'io, non rientra nell'idea dell'infinito; quest'idea non è un concetto. L'infinito è il radicalmente, l'assolutamente altro. La trascendenza dell'infinito in rapporto all'io che ne è separato e che lo pensa costituisce il primo segno della sua infinitezza.

L'idea dell'infinito è dunque la sola che permette di conoscere quel che si ignora. Essa è stata messa in noi. Non è una reminiscenza, ma l'esperienza nell'unico senso radicale del termine: una relazione con quel che è esteriore, con l'Altro, in modo che questa esteriorità non possa essere integrata nell'Identico. Il pensatore che ha l'idea dell'infinito è più di sé stesso, e questa dilatazione, questo eccesso non ha origine all'interno dell'io, come nel famoso progetto dei filosofi moderni, nel quale l'io, creando, supera sé stesso.

Come può una simile struttura restare filosofica? Qual è quel rapporto che, pur lasciando permanere il più nel meno, non si trasforma nella relazione in cui, alla maniera dei mistici, la farfalla attirata dal fuoco finisce per consumarsi nel fuoco? Come mantenere gli esseri separati e non sprofondare nella partecipazione, contro la quale la filosofia dell'Identico avrà l'immortale merito di aver protestato?

4. L'idea dell'infinito e il volto di Altri

L'esperienza, l'idea dell'infinito, ha luogo nel rapporto con Altri. L'idea dell'infinito è il rapporto sociale.

Questo rapporto consiste nell'avvicinare un essere assolutamente esteriore. L'infinito di questo essere, che proprio perciò nessuno può contenere, ne garantisce e costituisce l'esteriorità. Quest'ultima non è l'equivalente della distanza fra soggetto e oggetto. Come sappiamo, l'oggetto si integra nell'identità dell'Identico. L'Io ne fa il suo tema, e -- di conseguenza -- la sua proprietà, il suo bottino, la sua preda o la sua vittima. L'esteriorità dell'essere infinito si manifesta nella resistenza assoluta che, grazie alla sua apparizione -- alla sua epifania -- , esso oppone a tutti i miei poteri. La sua epifania non è semplicemente l'apparire di una forma nella luce, sensibile o intelligibile, ma quel no già da sempre lanciato contro i miei poteri. Il suo logos è: «Non uccidere».

L'Altro (Autrui) certo si offre a tutti i miei poteri, soccombe a tutte le mie astuzie e a tutti i miei crimini. Oppure mi resiste con tutta la sua forza e con tutte le imprevedibili risorse della sua libertà. Io mi misuro con lui. Ma egli può anche -- ed è così che mi presenta il suo volto -- opporsi a me oltre ogni misura, nell'apertura totale e nella totale nudità dei suoi occhi senza difesa, nella rettitudine e nella franchezza assoluta del suo sguardo. E qui che ha termine l'inquietudine solipsistica della coscienza che, in tutte le sue avventure, si vede prigioniera di Sé: la vera esteriorità è in quello sguardo che mi proibisce ogni conquista. Non che i miei poteri siano troppo deboli per accettare la sfida della conquista, ma io non posso più potere: la struttura della mia libertà, come vedremo in seguito, è completamente capovolta. Non ci troviamo in relazione con una resistenza molto forte, ma con l'assolutamente Altro -- con la resistenza di quel che non ha resistenza -- con la resistenza etica. È tale resistenza che apre la dimensione stessa dell'infinito, di quell'infinito che arresta l'imperialismo irresistibile dell'Identico e dell'Io. Chiamiamo volto l'epifania di quel che può presentarsi a un Io tanto direttamente quanto, proprio per questo, esteriormente.

Il volto non rassomiglia in niente alla forma plastica, sempre già abbandonata e tradita dall'essere che rivela, come il marmo da cui già si assestano gli dèi che manifesta. Il volto è differente dall'aspetto animale, in cui l'essere, nella sua ottusità di bestia, non raggiunge ancora sé stesso. Nel volto quel che si esprime assiste all'espressione, esprime la sua stessa espressione, restando sempre padrone del senso che produce. In quanto a suo modo «atto puro», il volto sfugge all'identificazione, non rientra nel già conosciuto, porta -- come dice Platone -- soccorso a sé stesso, parla. L'epifania del volto è completamente linguaggio.

La resistenza etica è la presenza dell'infinito. Se la resistenza all'assassinio che è inscritta nel volto non fosse etica ma reale, allora avremmo a che fare con una realtà fra le altre, molto debole oppure molto forte. Forse la nostra volontà sarebbe messa in scacco, giudicandosi irragionevole e arbitraria. Ma non avremmo a che fare con l'essere esteriore, con quanto non si può assolutamente né incorporare né possedere, dinanzi al quale la nostra libertà rinuncia all'imperialismo dell'io, scoprendosi non soltanto arbitraria ma ingiusta. Ma allora l'Altro (Autrui) non può essere semplicemente una libertà altra da me; perché possa spingermi a riconoscere l'ingiustizia, il suo sguardo deve provenire dalla dimensione dell'ideale. Altri deve essere vicino a Dio più di quanto non lo sia io: il che non è certo un'invenzione filosofica, ma il primo dato della coscienza morale, che si potrebbe definire come coscienza del privilegio di Altri in rapporto a me. L'autentica giustizia ha inizio di fronte ad Altri.

5. L'idea dell'infinito come desiderio

Il rapporto etico non si innesta in un preliminare rapporto di conoscenza. È fondamento e non sovrastruttura. Distinguerlo dalla conoscenza non significa ridurlo a un sentimento soggettivo. Solo l'idea dell'infinito, in cui l'essere oltrepassa l'idea o in cui l'Altro oltrepassa l'identico, segna una rottura rispetto ai giochi interni all'anima e merita il nome di esperienza, di relazione con quel che è esteriore all'io. Di conseguenza l'idea dell'infinito ha un valore conoscitivo maggiore della stessa conoscenza e ogni oggettività deve parteciparvi.

La visione in Dio del secondo Entretien Métaphysique di Malebranche esprime contemporaneamente il rapporto di ogni conoscenza con l'idea dell'infinito e il fatto che l'idea dell'infinito non sia dello stesso ordine delle conoscenze che vi si riferiscono. Infatti, non è possibile interpretare l'idea dell'infinito come una tematizzazione o un'oggettivazione, senza ridurla a quella presenza dell'Altro entro l'identico, da cui per l'appunto essa si distingue. In Cartesio rimane una certa ambiguità su questo punto, in quanto il cogito, se da un lato si poggia su Dio, dall'altro ne fonda l'esistenza: la priorità dell'Infinito è subordinata all'adesione libera della volontà, fin dall'inizio padrona di sé stessa.

Il fatto che il movimento dell'anima, che ha più valore conoscitivo della conoscenza stessa, abbia una struttura differente dalla comprensione, costituisce il punto che ci separa dalla lettera del cartesianismo. L'infinito non è oggetto di contemplazione, non è, cioè, alla portata del pensiero che lo pensa. L'idea dell'infinito è un pensiero che in ogni momento pensa più di quanto non pensi. Un pensiero che pensa più di quanto non pensi è Desiderio. Il Desiderio «misura» l'infinità dell'infinito.

Il termine che abbiamo scelto per indicare il movimento in avanti e la dilatazione di questo superamento si oppone all'affettività dell'amore e all'indigenza del bisogno. Al di là della fame che si può saziare, della sete che si può calmare e dei sensi che si possono appagare, esiste l'Altro, assolutamente altro, che si desidera oltre queste soddisfazioni, senza che il corpo conosca alcun gesto per appagare il Desiderio, senza che sia possibile inventare una nuova carezza. Desiderio insaziabile, non perché corrisponda a una fame infinita, ma perché non reclama alcun nutrimento. Desiderio senza soddisfazione, che, proprio per questo, prende atto dell'alterità dell'Altro (Autrui) e la colloca in quella dimensione di altezza e di ideale che appunto da lui è aperta nell'essere.

I desideri che si possono soddisfare somigliano soltanto in qualcosa al Desiderio autentico: nella soddisfazione inferiore alle attese o nella voluttà scandita dall'accrescimento del vuoto. Si ritiene a torto che questa sia l'essenza del desiderio. Ma il vero Desiderio è quello che il Desiderato non sazia ma rende più profondo. È bontà. Non si riferisce a una patria o a una pienezza perdute, non è la malattia del ritorno e neppure nostalgia. E la mancanza nell'essere che già è in modo compiuto e a cui non manca nulla. Non sarebbe anche possibile interpretare il mito platonico dell'amore, figlio dell'abbondanza e della miseria, come la testimonianza che, nel Desiderio, si dà l'indigenza di una ricchezza, l'insufficienza di ciò che è sufficiente? Platone, rifiutando nel Convito il mito dell'androgino, non ha forse affermato la natura non-nostalgica del Desiderio, la pienezza e la gioia dell'essere che lo esperisce?

6. L'idea dell'infinito e la coscienza morale

In che modo il volto sfugge al potere di discernimento della volontà che dispone dell'evidenza? Conoscere il volto non significa forse prenderne coscienza, e prenderne coscienza non significa aderirvi liberamente? L'idea dell'infinito, in quanto idea, non ci riporta allora inevitabilmente allo schema dell'Identico che incorpora l'Altro? Solo se l'idea dell'infinito significasse il crollo della buona coscienza dell'Identico, la presenza del volto -- l'idea dell'infinito in me -- potrebbe essere la messa in questione della mia libertà.

Che il libero arbitrio sia arbitrario e che sia necessario abbandonare questa tappa elementare è sicuramente una vecchia certezza dei filosofi. Ma tutti i filosofi ritengono che l'arbitrio rimandi a un fondamento razionale che giustifica la libertà mediante sé stessa. Il fondamento razionale della libertà è ancora la supremazia dell'Identico.

D'altra parte, la necessità di giustificare l'arbitrio deriva soltanto dallo scacco subìto dal potere arbitrario. La spontaneità stessa della libertà non è messa in questione in quella che sembra essere la tradizione dominante della filosofia occidentale. Soltanto la limitazione della libertà sarebbe tragica o farebbe scandalo. La libertà fa problema unicamente perché essa non si è. scelta. Lo scacco della mia spontaneità risveglierebbe la ragione e la teoria. Un dolore sarebbe origine della saggezza. Tale scacco mi indurrebbe a metter freno alla mia violenza e introdurrebbe l'ordine nelle relazioni umane, in quanto tutto è permesso, tranne l'impossibile. Soprattutto nelle moderne teorie politiche, a partire da Hobbes, l'ordine sociale della legittimità viene dedotto dal diritto incontestabile della libertà.

Il volto di Altri non rivela l'arbitrarietà della volontà, ma la sua ingiustizia. Sono cosciente della mia ingiustizia non quando mi inchino dinanzi ai fatti, ma dinanzi ad Altri. Nel suo volto, Altri non mi appare come un ostacolo o una minaccia da valutare, ma come quel che mi misura. Devo commisurarmi all'infinito per potermi sentire ingiusto. Devo avere l'idea dell'infinito, che, come dice Cartesio è anche l'idea del perfetto, per poter conoscere la mia imperfezione. L'infinito non mi blocca come una forza che mette in scacco la mia; la sua forza mette invece in questione l'ingenuo diritto dei miei poteri, la mia gloriosa spontaneità di vivente, di «forza che va avanti».

Ma questo modo di commisurarsi alla perfezione dell'infinito non è una considerazione a sua volta teoretica nella quale la libertà riacquisterebbe spontaneamente i suoi diritti. Si tratta piuttosto, per la libertà che nel suo stesso esercizio si scopre assassina e usurpatrice, di aver vergogna di sé stessa. Un esegeta del secondo secolo, più preoccupato di quanto doveva fare che non di quanto dovesse sperare, non riusciva a capire perché la Bibbia cominciasse col racconto della creazione, invece di porci subito dinanzi ai primi comandamenti dell'Esodo. Solo con molto sforzo accettò che il racconto della creazione era comunque necessario alla vita del giusto: se la terra non fosse stata donata all'uomo, ma semplicemente presa, egli l'avrebbe soltanto posseduta come un brigante. Il possesso spontaneo e naturale non può essere giustificato in virtù della propria spontaneità.

L'esistenza non è condannata alla libertà, ma giudicata e investita come libertà. La libertà non potrebbe presentarsi allo «stato puro». La vita morale in quanto tale è costituita da questa investitura della libertà ed è perciò completamente eteronomia.

La volontà, che nell'incontro con Altri viene giudicata, non fa suo il giudizio che pure accoglie. Se così fosse, sarebbe ancora il ritorno dell'Identico che decide in ultima istanza dell'Altro; l'eteronomia sarebbe così riassorbita nell'autonomia. La struttura della volontà libera che diventa bontà non ha più alcun rapporto con la spontaneità gloriosa e autosufficiente dell'Io e della felicità intesa come ultimo movimento dell'essere, ma ne è piuttosto il rovesciamento. La vita della libertà che si scopre ingiusta, la vita della libertà nell'eteronomia, consiste in un movimento infinito in cui la libertà si mette sempre più in questione. E così si scava la profondità stessa dell'interiorità. Quanto più divento esigente con me stesso, tanto più grave si rende il giudizio che mi riguarda, cioè la mia responsabilità. E l'aggravarsi della mia responsabilità accresce quelle esigenze. In tale movimento, la mia libertà non ha l'ultima parola, io non ritrovo mai la mia solitudine, oppure, se si vuole, la coscienza morale è fondamentalmente insoddisfatta, o, se si vuole ancora, sempre Desiderio.

L'insoddisfazione della coscienza morale non è soltanto il dolore delle anime delicate e scrupolose, ma il contrarsi, l'approfondirsi, il ritrarsi in sé -- la sistole stessa della coscienza tout court; la stessa coscienza etica non viene chiamata in causa in tutta questa esposizione come una varietà «particolarmente raccomandabile» della coscienza, ma come la forma concreta che è assunta da un movimento più fondamentale della stessa libertà: l'idea dell'infinito. Forma concreta di quel che precede la libertà e che, tuttavia, non ci riporta né alla violenza né alla confusione di ciò che è separato, né alla necessità né alla fatalità.

È questa, in conclusione, la situazione privilegiata in cui non si è soli. Situazione che non produce la prova dell'esistenza di Altri, semplicemente perché la prova in quanto tale presuppone già il movimento e l'adesione di una volontà libera. Sicché l'investitura della volontà libera precede la prova. Ogni certezza è, in effetti, l'opera di una libertà solitaria. In quanto accoglienza del reale nelle mie idee a priori e adesione della mia volontà libera, l'ultimo gesto della conoscenza è libertà. Il faccia a faccia in cui questa libertà mette in questione sé stessa perché ingiusta, in cui trova un maestro e un giudice, si compie prima della certezza, ma anche prima dell'incertezza.

Questa situazione è un'esperienza in senso forte: contatto con una realtà che non confluisce in nessuna idea a priori, che le oltrepassa tutte: ed è appunto per questo che abbiamo potuto parlare di infinito. Nessun movimento della libertà potrebbe appropriarsi del volto o presumere di «costituirlo». Quando lo si anticipava o lo si costituiva, il volto era già presente collaborava, parlava. Il volto è esperienza pura, esperienza senza concetto. La concezione secondo la quale i dati dei nostri sensi si aggiungono all'Io non regge più dinanzi ad Altri, a causa della delusione (dé-ception) e della rinuncia in cui culminano tutti i tentativi di fare nostra questa realtà. Bisogna però distinguere l'incomprensione puramente negativa di Altri che dipende dalla nostra cattiva volontà, dall'incomprensione essenziale dell'Infinito che ha un aspetto positivo in quanto coscienza morale e Desiderio.

L'insoddisfazione della coscienza morale e la delusione dinanzi ad Altri coincidono con il Desiderio. E, questo, uno dei punti essenziali di tutta la nostra esposizione. Il Desiderio dell'Infinito non ha il compiacimento sentimentale dell'amore, ma il rigore dell'esigenza morale. E il rigore dell'esigenza morale non s'impone brutalmente, ma è Desiderio, in virtù dell'attrazione e dell'altezza infinita dell'essere stesso a beneficio del quale si esercita la bontà. Dio comanda solo attraverso gli uomini per i quali è necessario agire.

La coscienza -- la presenza di sé a sé -- è generalmente ritenuta il tema ultimo della riflessione. La coscienza morale, variazione su questo tema e specificazione della coscienza, vi aggiungerebbe la preoccupazione di valori e norme. A tale proposito abbiamo già posto alcune domande: il sé può presentarsi a sé stesso con tanto naturale compiacimento? Può apparire di fronte a sé stesso senza vergogna? Il narcisismo è possibile? La coscienza morale non è forse la critica e il principio della presenza di sé a sé? Di conseguenza, se l'essenza della filosofia consiste nel risalire, al di qua di tutte le certezze, verso il principio e se la filosofia vive di critica, il volto di Altri sarebbe l'inizio stesso della filosofia. Tesi di eteronomia che rompe con una tradizione assai venerabile. In compenso, la situazione in cui non si è soli non si riduce all'incontro felice di anime fraterne che si salutano e dialogano, ma è coscienza morale -- esposizione della mia libertà al giudizio dell'Altro. Dislivello che ci ha autorizzati a intravvedere la dimensione dell'altezza e dell'ideale nello sguardo di colui al quale si deve giustizia.

[Traduzione di Fabio Ciaramelli]