Giovanni Salmeri | Ancora l'uomo | Testi antologici | Edmund Husserl

Edmund Husserl

La splendida conferenza qui riprodotta in buona parte fu tenuta da Husserl a Vienna nel 1935, dunque verso la fine della vita, e la sua rielaborazione darà vita all'opera postuma La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Anche se le idee qui presentate si pongono in logica continuità con quelle che da decenni Husserl stava elaborando, in quest'ultima opera si intravvede anche la delusione per la direzione che i suoi allievi stavano prendendo, ormai lontani dall'ideale di rigore filosofico da lui propugnato. Qui quest'ideale non è solo visto in continuità con la prima ispirazione della filosofia (la cui nascita è interpretata come il sorgere dello spirito della conoscenza libera), ma anche e soprattutto come l'unica salvezza possibile per l'Europa che in quegli anni non solo stava sperimentando in tutte le scienze una «crisi dei fondamenti», ma stava anche precipitando verso la seconda guerra mondiale.

La crisi dell'umanità europea e la filosofia

I [Il significato della crisi dell'Europa]

[Il successo delle scienze della natura e l'insuccesso delle scienze dello spirito]

In questa conferenza oserò compiere il tentativo di suscitare un nuovo interesse per il tema, tanto discusso, della crisi europea, e di sviluppare l'idea storico-filosofica (il senso teleologico) dell'umanità europea. Se riuscirò a mostrare la funzione essenziale che devono esercitare in questo senso la filosofia e tutte le sue ramificazioni, cioè le nostre scienze, riuscirò anche a mostrare la crisi europea in una nuova luce.

Prendiamo un esempio alla portata di tutti, la differenza tra la medicina scientifica e la cosiddetta «terapia naturalista». Se quest'ultima, nella vita popolare, sorge da un'empiria ingenua e dalla tradizione, la medicina scientifica deriva dall'applicazione di nozioni scientifiche puramente teoriche, quelle che concernono la corporeità umana, innanzitutto dell'anatomia e della fisiologia. Ma queste, a loro volta, si basano sulle scienze esplicative fondamentali della natura in generale, sulla fisica e sulla chimica.

Passiamo ora a considerare, invece che la corporeità, la spiritualità umana, il tema delle cosiddette scienze dello spirito. Qui l'interesse teorico si rivolge esclusivamente agli uomini in quanto persone, alla loro vita e alle loro attività personali, e, correlativamente, ai risultati delle loro operazioni. Vivere una vita personale significa vivere in quanto io e in quanto noi, accomunati in un orizzonte comune. Vivere entro comunità che possono assumere forme molto diverse, semplici e articolate, come la famiglia, la nazione, le formazioni sopranazionali. Qui il termine vita non ha un senso fisiologico e sta semplicemente a significare una vita attiva, rivolta verso uno scopo, una vita capace di produrre formazioni spirituali: in senso lato, una vita che crea cultura nella unità di una storicità. Tutto ciò costituisce il tema delle varie scienze dello spirito. Evidentemente le differenze che corrono tra una vigorosa fioritura e il rachitismo, o, possiamo dire, tra la salute e la malattia, valgono anche per i popoli, per gli stati. Perciò ci si può chiedere: come mai in questo senso non si è mai giunti a una medicina scientifica, a una medicina delle nazioni e delle comunità sopranazionali? Le nazioni europee sono ammalate, la stessa Europa, si dice, è in crisi. Le «terapie naturaliste» non mancano di certo. Anzi, siamo addirittura sommersi da un diluvio di esuberanti e ingenue proposte di riforma. Ma come mai le scienze dello spirito, che pure sono così largamente sviluppate, non sono in grado di esercitare quelle funzioni che le scienze della natura esercitano in modo esemplare nella loro sfera?

Coloro che hanno familiarità con le scienze moderne non si troveranno in difficoltà a fornire una risposta. La grandezza delle scienze naturali sta nel fatto che esse non si accontentano dell'empiria intuitiva; per esse la descrizione della natura costituisce soltanto un passaggio metodico alla spiegazione esatta, in definitiva alla spiegazione fisico-chimica. Esse ritengono che le scienze «meramente descrittive» ci vincolano alla finitezza del mondo circostante terrestre. La scienza naturale matematica esatta abbraccia invece, grazie al suo metodo, le infinità, nelle loro realtà e nelle loro possibilità reali. Essa intende il dato intuitivo come un'apparizione meramente soggettiva e relativa, e insegna a indagare la natura intersoggettiva («obiettiva») attraverso un'approssimazione sistematica, nell'incondizionata generalità dei suoi elementi e delle sue leggi. Insieme, essa insegna a spiegare tutte le concrezioni già date intuitivamente, gli uomini, gli animali, «oppure» i corpi celesti in base all'essere ultimo; insegna cioè a indurre, dalle singole apparizioni fattualmente date, le possibilità e le probabilità future. La portata e la precisione di queste induzioni vanno al di là di tutta l'empiria vincolata all'intuizione. Nell'epoca moderna, come effetto di una conseguente elaborazione delle scienze esatte, si è verificata una vera e propria rivoluzione nel dominio tecnico della natura.

Del tutto diversa è disgraziatamente (nel senso di quella concezione che già abbiamo imparato a conoscere) la situazione metodica delle scienze dello spirito; e ciò per ragioni intrinseche. La spiritualità umana si fonda sulla physis umana; tutta la vita psichica dei singoli uomini si fonda sulla loro corporeità; tutte le comunità hanno le loro radici nei corpi dei singoli uomini che ne fanno parte. Dunque, perché sia possibile una spiegazione realmente esatta dei fenomeni delle scienze dello spirito, e, conseguentemente, una prassi scientifica di portata pari a quella che le spetta nella sfera naturale, gli studiosi delle scienze dello spirito non dovrebbero considerare lo spirito meramente come tale, bensì risalire alle sue radici corporee e spiegarle mediante la fisica e la chimica esatte. Ma questo tentativo fallisce già rispetto all'individuo, per la complessità della necessaria indagine psicofisica esatta, e fallisce a maggior ragione di fronte alle grandi comunità storiche (e su questo punto è impossibile intravedere un cambiamento entro il tempo che ci è dato prevedere). Se il mondo fosse una costruzione costituita da due sfere di realtà, per così dire, di uguale diritto, la natura e lo spirito, e se nessuna delle due sfere avesse un privilegio metodico e oggettuale, allora la situazione sarebbe completamente diversa. Ma soltanto la natura può essere considerata un mondo per sé concluso, soltanto le scienze naturali possono astrarre conseguentemente da tutti gli elementi spirituali e indagare la natura puramente come tale. Viceversa, lo scienziato che si interessa puramente allo spirito e che opera una conseguente astrazione dalla natura, non si trova dì fronte a un «mondo» in sé concluso, provvisto di una propria omogeneità, a un mondo che possa diventare tema di una scienza pura e universale parallela alla scienza pura della natura. Perché la spiritualità animale, la spiritualità delle «anime» umane e animali a cui rimanda qualsiasi altra spiritualità, si fonda singolarmente e causalmente sulla corporeità. Si capisce così come lo scienziato interessato puramente alla spiritualità come tale non possa andare di là dalla descrizione, da una storiografia dello spirito, e come rimanga così vincolato alle finitezze intuitive. Per dimostrarlo basta un esempio qualsiasi. Uno storico, per es., non può parlare della storia dell'antica Grecia senza considerare la geografia greca, l'architettura greca, senza tenere conto anche della corporeità delle sue costruzioni, ecc. Tutto ciò sembra evidente.

Ma come può esserlo se tutti i punti di vista che si esprimono in queste argomentazioni si basano su fatali pregiudizi, se hanno addirittura contribuito a determinare la malattia europea? Sono convinto e spero anche di riuscire a dimostrare che è questa una delle ragioni essenziali per cui lo scienziato moderno ritiene perfettamente ovvio che la possibilità di fondare una scienza in sé conclusa e generale dello spirito non vada nemmeno presa in considerazione.

[Il mondo-della-vita non è il mondo delle scienze della natura]

Ma per giungere a una chiara posizione del nostro problema, del problema europeo, occorre soffermarsi un po' su questo punto, cercare di risalire alle radici di quell'argomentazione che lì per lì sembrava veramente evidente. Lo storico, lo studioso dello spirito e della cultura in tutte le sue sfere, ha certamente, tra i suoi fenomeni, la natura fisica; per tornare al nostro esempio, la natura dell'antica Grecia. Ma questa natura non è la natura nel senso delle scienze; è bensì ciò che per gli antichi greci valeva come natura, quella che si apriva di fronte ai loro occhi, la realtà naturale nella dimensione del mondo-della-vita. Più precisamente: il mondo storico circostante dei greci non è il mondo obiettivo nel senso delle scienze; è bensì la loro «rappresentazione del mondo», è cioè la validità soggettiva del mondo, con tutte le realtà incluse in questa validità, tra l'altro: gli dèi, i dèmoni, ecc.

Il concetto di mondo circostante può essere applicato esclusivamente nell'ambito della sfera spirituale. Il fatto che noi viviamo in un nostro particolare mondo circostante, che ad esso vanno tutte le nostre preoccupazioni e i nostri sforzi, rientra puramente nella sfera dello spirito. Il nostro mondo circostante è una formazione storica in noi e nella nostra vita storica. Perciò non c'è nessun motivo per cui chi tematizza lo spirito puramente come tale debba perseguire una spiegazione che vada al di là della sua sfera. In generale: considerare la natura che vale nella prospettiva del mondo-della-vita come un che di estraneo allo spirito e fondare le scienze dello spirito sulle scienze naturali, presumendo di renderle esatte, è un controsenso.

Inoltre è stato completamente dimenticato che le scienze naturali (come tutte le scienze in generale) sono costituite da una serie di operazioni spirituali, quelle compiute dagli scienziati attraverso la loro collaborazione. Come tali esse rientrano, come tutti gli altri eventi spirituali, in un ambito che deve essere spiegato dal punto di vista delle scienze dello spirito. Non è forse un controsenso, un circolo vizioso, spiegare l'evento storico «scienza naturale» dal punto di vista delle scienze naturali, ricorrendo alla scienza della natura o alle leggi della natura, le quali, in quanto operazione spirituale, rientrano esse stesse nel problema?

Abbagliati dal naturalismo (per quanto lo combattano a parole), gli studiosi delle scienze dello spirito hanno addirittura trascurato di porre il problema di una scienza universale e pura dello spirito, dì perseguire una teoria dell'essenza dello spirito come tale, una teoria che aderisca all'incondizionata generalità della spiritualità nei suoi elementi e nelle sue leggi e che abbia l'unico scopo di attingere spiegazioni scientifiche assolutamente autonome.

[La forma spirituale dell'Europa]

Le precedenti considerazioni ci permettono di assumere l'atteggiamento più adatto a fare del nostro tema, l'Europa spirituale, un problema rientrante puramente nelle scienze dello spirito e a trattarlo innanzitutto dal punto di vista della storia dello spirito. Come già abbiamo detto all'inizio, questa indagine rivelerà una sorprendente teleologia propria soltanto dell'Europa, una teleologia strettamente connessa alla nascita della filosofia e delle sue ramificazioni, alle scienze dell'antica Grecia. Già ora ci rendiamo conto che si tratterà di chiarire l'origine più profonda del pericoloso naturalismo, oppure, che è lo stesso, del dualismo moderno dell'interpretazione del mondo. Solo così verrà finalmente in luce il senso peculiare della crisi dell'umanità europea.

Poniamo questo problema: come si caratterizza la forma spirituale dell'Europa? Non geograficamente, non dal punto di vista della carta geografica, come se fosse possibile circoscrivere su questa base gli uomini che vivono sul territorio europeo e considerarli l'umanità europea. In un senso spirituale rientrano nell'Europa i Dominions inglesi, gli Stati Uniti, ecc., ma non gli esquimesi e gli indiani che ci vengono mostrati nei baracconi delle fiere, o gli zingari vagabondi per l'Europa. Il titolo Europa allude evidentemente all'unità di una vita, di un'azione, di un lavoro spirituale, con tutti i suoi fini, gli interessi, le preoccupazioni e gli sforzi, con le sue formazioni finali, i suoi istituti, le sue organizzazioni. Entro questa unità gli uomini agiscono raccolti in multiformi società di grado diverso, nella famiglia, nella tribù, nelle nazioni, in una comunione interiore e spirituale, e, come ho detto, nell'unità di una forma spirituale. Perciò, alle persone, alle associazioni di persone e a tutte le loro operazioni culturali riconosciamo un carattere vincolante.

«La forma spirituale dell'Europa» -- ma di che cosa si tratta? Si tratta di mostrare l'idea filosofica immanente alla storia dell'Europa (dell'Europa spirituale), oppure, che è lo stesso, la sua immanente teleologia, che, dal punto di vista dell'umanità universale in generale, si rivela con la nascita e con l'inizio dello sviluppo di una nuova epoca dell'umanità; di un'epoca in cui l'umanità vuole e può vivere ormai soltanto nella libera costruzione della propria esistenza, della propria vita storica, in base alle idee della ragione, in base a compiti infiniti. [...]

Accingiamoci ora a questa scoperta. L'Europa spirituale ha un luogo di nascita. Non parlo di un luogo geografico, di un paese, per quanto anche questo senso sia legittimo; parlo di una nascita spirituale che è avvenuta in una nazione, o meglio per merito di singoli uomini e di singoli gruppi di uomini di questa nazione. Questa nazione è l'antica Grecia del VII e del VI secolo a.C. Qui si delinea un nuovo atteggiamento di alcuni uomini verso il mondo circostante. Da questo atteggiamento derivò una formazione spirituale di un genere completamente nuovo, la quale si trasformò rapidamente in una forma culturale sistematicamente conclusa. I Greci la chiamarono filosofia. Nella sua traduzione esatta, questo termine non significa altro che scienza universale, scienza del cosmo, della totalità di tutto ciò che è. Ben presto nasce l'interesse per il tutto, e perciò ben presto si pone il problema del divenire e dell'essere nel divenire, del suo particolarizzarsi in forme generali e nelle regioni dell'essere. Così la filosofia si ramifica, la scienza una si trasforma in una serie di scienze particolari.

Per quanto possa sembrare paradossale, io considero la nascita della filosofia, di una filosofia che include tutte le scienze, il fenomeno originario dell'Europa spirituale. Le considerazioni che seguono, per quanto brevissime, risolveranno ben presto l'apparente paradosso.

Filosofia, scienza: questi termini stanno a indicare una classe particolare di formazioni spirituali. Il movimento storico che ha assunto lo stile di una forma normativa disposta all'infinito; ma questa forma non può essere indotta attraverso una mera osservazione morfologica esteriore delle sue vicende. Il costante orientamento secondo una norma inerisce intrinsecamente alla vita intenzionale delle singole persone, e perciò delle nazioni e delle particolari società e, infine, all'organismo delle nazioni europee accomunate. Non esplicitamente a tutte le persone e a quelle personalità di grado più alto che si costituiscano attraverso gli atti intersoggettivi: esso inerisce loro intrinsecamente in quanto è un andamento necessario dello sviluppo e della diffusione dello spirito specifico di norme universalmente valide. Ciò implica insieme una costante riplasmazione di tutta l'umanità, retta da idee che hanno cominciato a manifestarsi in piccole e piccolissime cerchie. Le idee, queste nuove e sorprendenti formazioni di senso prodotte da singole persone, le infinità intenzionali, non sono come le cose reali nello spazio, le quali, per gli uomini in quanto persone, non significano ancora qualche cosa per il semplice fatto di presentarsi nel campo della loro esperienza. Con la semplice concezione delle idee l'uomo diventa a poco a poco un uomo nuovo. Il suo essere spirituale entra nel movimento di una progressiva trasformazione. Questo movimento avviene fin dall'inizio nella comunicazione; nel proprio ambito di vita, ridesta un nuovo stile di esistenza personale e, nella comprensione altrui, un nuovo divenire. In esso (e più tardi anche al di là di esso) si diffonde innanzitutto una nuova umanità, un'umanità che, pur vivendo nella finitezza, vive protesa verso i poli dell'infinità. Si delinea così un nuovo modo di accomunamento e una nuova forma di comunità, la cui vita spirituale, nella comunione dell'amore per le idee, per la produzione di idee e per la normatività ideale, porta in sé l'orizzonte di un futuro infinito; l'orizzonte di un'infinità di generazioni che si rinnovano nello spirito delle idee. Tutto ciò avviene dunque dapprima nello spazio spirituale di una singola nazione, della Grecia; è lo sviluppo della filosofia e delle comunità filosofiche. Contemporaneamente sorge in questa nazione uno spirito culturale generale, che attrae nella sua orbita l'intera umanità, e si delinea così una progressiva evoluzione, la forma di una nuova storicità.

Per mostrare il senso preciso di questi brevi cenni e per renderli comprensibili, occorre risalire all'origine storica dell'umanità filosofica e scientifica, chiarire su questa base il senso dell'Europa e, perciò, il nuovo genere di questa storicità, questo sviluppo di nuovo genere, che assume un particolare rilievo rispetto alla storia generale.

[I caratteri peculiari della filosofia]

Cerchiamo di chiarire innanzitutto la sorprendente peculiarità della filosofia, che si dispiega in sempre nuove scienze particolari. Confrontiamola con le altre forme culturali che già esistevano nell'umanità pre-scientifica, l'artigianato, la coltivazione della terra, la cultura legata all'abitazione, ecc. Tutte queste forme indicano classi di prodotti culturali e i metodi per produrli con successo. Del resto esse hanno un'esistenza soltanto effimera nel mondo circostante. D'altra parte i prodotti scientifici, una volta attinto un metodo sicuro per produrli, hanno un genere d'essere completamente diverso, una diversa temporalità. Non si consumano mai, sono definitivi; una produzione reiterata non produce mai qualcosa di uguale, tutt'al più qualcosa di usabile in modo uguale; attraverso un numero qualsiasi di atti produttivi della stessa persona e di un numero qualsiasi di altre persone si produce identicamente la stessa cosa, identica quanto al senso e alla validità. Le persone congiunte in una reciproca comprensione attuale esperiscono inevitabilmente ciò che esse stesse hanno prodotto come identico a ciò che è stato prodotto dai loro compagni attraverso uguali atti produttivi. In altre parole: l'esito dell'attività scientifica non è un che di reale bensì di ideale.

Ancora: i risultati raggiunti, validi, la verità, servono da materiale per la possibile produzione di idealità di grado più alto, e così sempre di nuovo. Nell'ambito di un interesse teoretico sviluppato, qualsiasi risultato assume preliminarmente il senso di un conseguimento meramente relativo, serve da tramite a fini sempre nuovi, di grado sempre più alto, in una infinità che si preannuncia come un campo universale di lavoro, come il «settore» (Gebiet) della scienza. Il termine scienza significa dunque l'idea di un'infinità di compiti, di cui un certo numero finito è stato assolto e ha assunto una permanente validità. Questo numero finito costituisce insieme una base di premesse per un orizzonte infinito di compiti, per l'unità di un compito onnicomprensivo.

Ma tutto questo va ancora integrato da un'importante osservazione. Nella scienza, l'idealità dei singoli risultati operativi, delle verità, non significa la mera possibilità di riprodurle previa identificazione del senso e della verificazione: l'idea di verità nel senso della scienza deriva (e di ciò riparleremo) dalla verità della vita pre-scientifica. La verità scientifica vuol essere una verità incondizionata. Ciò implica una certa infinità, che attribuisce a qualsiasi verifica fattuale e a qualsiasi verità il carattere di una mera approssimazione relativa disposta appunto in un orizzonte infinito, di cui la verità in sé costituisce, per così dire, il punto lontano all'infinito. Correlativamente questa infinità inerisce anche all'«essente reale» in senso scientifico e alla validità «generale» per «chiunque», per tutti i soggetti delle fondazioni che vanno compiute; non si tratta ormai più di un «chiunque» nel senso finito della vita pre-scientifica. [...]

A questo punto possiamo trovarci di fronte alla facile obiezione che la filosofia e la scienza non sono qualcosa che caratterizzi soltanto i greci e che sia nato soltanto con loro. Gli stessi greci riferiscono dei saggi egiziani, dei babilonesi, ecc., e di fatto avevano imparato molto da loro. Oggi possediamo tutta una serie di lavori sulla filosofia indiana, cinese, ecc. che potrebbero venir considerate sullo stesso piano di quella greca, una cristallizzazione storica particolare nell'ambito di un'unica e medesima idea culturale. Naturalmente gli elementi comuni non mancano. Tuttavia bisogna evitare che la generalità meramente morfologica occulti le profondità intenzionali, non bisogna diventar ciechi di fronte alle differenze essenziali e di principio.

Prima di tutto già l'atteggiamento dei rispettivi «filosofi», l'orientamento universale dei loro interessi, sono radicalmente diversi. Qua e là si può constatare un interesse universale per il mondo, che da ambedue le parti, e quindi anche presso le «filosofie» indiane, cinesi e simili, può portare a una conoscenza universale del mondo. Questo interesse si manifesta dunque nel modo di un interesse vitale professionale, in comprensibili motivazioni, e porta a comunità professionali, nelle quali si tramandano e si rinnovano di generazione in generazione i risultati generali. Ma soltanto presso i greci questo interesse vitale universale («cosmologico») assume la forma, essenzialmente nuova, di un atteggiamento puramente «teoretico», e si manifesta, per motivi intrinseci in una forma comunitaria, nella comunità corrispondentemente nuova dei filosofi, degli scienziati (dei matematici, degli astronomi, ecc.). Si tratta di uomini che, non nell'isolamento bensì nella comunione, l'uno per l'altro e quindi attraverso un lavoro interpersonale nella comunità, perseguono ed elaborano una «theoria», nient'altro che una «theoria»; con l'allargamento della cerchia dei collaboratori e nella successione delle generazioni di ricercatori, l'ampliamento e il perfezionamento della «theoria» diventano un fine della volontà, un compito infinito e a tutti comune. L'atteggiamento teoretico ha le sue origini storiche tra i greci. [...]

[Atteggiamento pratico e atteggiamento teoretico]

Ma qui occorre un'analisi più approfondita. Quegli uomini che compiono questo rivolgimento, in quanto uomini nella loro comunità universale di vita (nella loro nazione), continuano anche ad avere i loro interessi naturali, ciascuno i propri; questi interessi non possono andare perduti semplicemente attraverso un rivolgimento, perché per gli individui ciò significherebbe cessare di essere ciò che sono, ciò che sono divenuti a partire dalla nascita. Quindi, in ogni caso, il rivolgimento non può essere che un rivolgimento temporaneo; esso può avere una durata abituale e costante attraverso tutta la vita soltanto in quanto costituisce una decisione incondizionata della volontà di riprendere, per periodi di tempo limitati e tuttavia intimamente unitari, lo stesso atteggiamento e di mantenere validi e attivi i nuovi interessi che gli ineriscono, attraverso questa continuità che congiunge intenzionalmente i discreti temporali, e di realizzarli in corrispondenti formazioni culturali.

Qualcosa di analogo a ciò che avviene nelle professioni che si presentano nella vita naturalmente originaria della cultura, con le loro temporalità professionali periodiche che interrompono la vita usuale e la sua concreta temporalità (le ore di servizio dei funzionari, ecc.).

Qui esistono due possibilità. Gli interessi inerenti al nuovo atteggiamento possono voler servire o agli interessi naturali della vita, o, ed è in sostanza lo stesso, alla prassi naturale; in questo caso il nuovo atteggiamento è a sua volta un atteggiamento pratico. Questo atteggiamento non può avere che un senso analogo a quello del politico, che, in quanto funzionario nazionale, mira al benessere comune e quindi, nella sua prassi, si propone di servire al benessere di tutti (e mediatamente anche al proprio). Ciò rientra ancora nell'ambito dell'atteggiamento naturale, il quale, per essenza, si differenzia per i diversi tipi di membri della società e che è di fatto diverso per coloro che reggono la comunità e per i «cittadini» -- sia gli uni sia gli altri intesi naturalmente nel senso più ampio. In ogni modo quest'analogia suggerisce come l'universalità di un atteggiamento pratico, in questo caso: di un atteggiamento rivolto verso l'intero mondo, non significhi affatto necessariamente un interessarsi e un occuparsi di tutti i dettagli e di tutte le totalità particolari che rientrano nell'ambito del mondo, perché ciò sarebbe indubbiamente impensabile. Ma di fronte a questo atteggiamento pratico di grado più alto esiste un'altra possibilità essenziale di cambiamento dell'atteggiamento naturale generale (che fra poco esemplificheremo richiamandoci al tipo dell'atteggiamento mitico-religioso), esiste cioè l'atteggiamento teoretico -- e lo chiamiamo così perché da esso, nel corso di uno sviluppo necessario, emana la «theoria» filosofica, la quale diventa un fine autonomo, un campo di interessi. L'atteggiamento teoretico, per quanto sia a sua volta un atteggiamento professionale, è del tutto non-pratico. Esso si fonda quindi su un'epoché volontaria da qualsiasi prassi, e perciò anche da qualsiasi prassi di grado più alto che, nell'ambito della vita professionale, si proponga di servire alla dimensione naturale. [...]

Ora, per comprendere più a fondo la scienza greco-europea (in termini universali: la filosofia) e la sua differenza di principio dalle «filosofie» orientali, a cui sembrava possibile assegnare un uguale valore, è necessario osservare più da vicino l'atteggiamento pratico-universale proprio di queste filosofie anteriori alle scienze europee, e chiarirlo nel suo senso mitico-religioso. È un fatto noto, e insieme una necessità essenziale, che un'umanità che vive naturalmente -- prima della nascita e della diffusione della filosofia greca e di una considerazione scientifica del mondo -- include motivi mitico-religiosi e una prassi mitico-religiosa. L'atteggiamento mitico-religioso si produce semplicemente quando il mondo diventa tematico in quanto totalità, praticamente tematico; il mondo: cioè quel mondo che vale concretamente e tradizionalmente per una certa umanità (per es. una nazione), la quale lo appercepisce miticamente. Nell'atteggiamento mitico-naturale rientrano innanzitutto, non soltanto gli uomini e gli animali e altri esseri subumani e subanimali, ma anche esseri sovrumani. Lo sguardo che li abbraccia tutti nella loro totalità è uno sguardo pratico; ma ciò non significa che l'uomo, il quale nella vita naturale diretta è sempre attualmente interessato a particolari realtà, possa mai far sì che tutto assuma improvvisamente per lui un uguale rilievo pratico. Ma in quanto l'intero mondo risulta per lui dominato da forze mitiche, e nella misura in cui il destino umano è immediatamente o mediatamente dipendente da questo dominio, è possibile che la prassi susciti una considerazione mitico-universale del mondo, che nutre a sua volta un interesse pratico. È evidente che ad essere motivati a questo atteggiamento mitico-religioso sono innanzitutto i sacerdoti, un clero che amministra gli interessi mitico-religiosi, la loro tradizione e la loro unitarietà. Questo clero elabora e diffonde un «sapere» linguisticamente definito attorno alle forze mitiche (concepite in un modo che, in senso lato, possiamo dire personale). Questo sapere assume spontaneamente la forma di una speculazione mitica, la quale, concretandosi nelle convinzioni di un'interpretazione ingenua, finisce per riplasmare lo stesso mito. Naturalmente lo sguardo puntato sul mito mira anche costantemente a tutto il resto del mondo, che è appunto dominato da potenze mitiche, agli esseri umani e subumani che gli ineriscono (i quali del resto, ancora fluidi nel loro essere peculiare ed essenziale, sono aperti all'assorbimento di momenti mitici), ai modi in cui queste potenze regolano gli eventi del mondo, ai modi in cui esse stesse si riuniscono unitariamente in un ordinamento superiore di potenza, al modo in cui, attraverso funzioni, e attraverso funzionari, creano, operano, decretano un destino. Ma tutto questo sapere speculativo ha lo scopo di servire all'uomo per i suoi fini umani, per plasmare la propria vita nel mondo nel modo più felice possibile, per preservarlo dalla malattia, da un destino avverso, dalla miseria e dalla morte. È chiaro che in questa concezione e in questa conoscenza mitico-pratica del mondo possono presentarsi anche nozioni sul mondo effettivo che devono essere ritenute scientifiche, nozioni che derivano da una conoscenza scientifico-sperimentale del mondo. Ma nel loro contesto di senso esse sono e rimangono nozioni mitico-pratiche, ed è errato, è una falsificazione di senso parlare, educati come siamo al pensiero scientifico nato in Grecia e rielaborato nella scienza moderna, di una filosofia e di una scienza (di un'astronomia, di una matematica) indiane, cinesi, e interpretare l'India, Babilonia, la Cina in un senso europeo.

Da questo atteggiamento universale, ma mitico-pratico, si stacca decisamente l'atteggiamento «teoretico», non-pratico in tutti i sensi, l'atteggiamento del thaumázein, a cui i grandi pensatori della prima fase conclusiva della filosofia greca, Platone e Aristotele, fanno risalire l'origine della filosofia. L'uomo è preso dalla passione per una considerazione e per una conoscenza del mondo che si stacca da tutti gli interessi pratici e che, nell'ambito circoscritto delle sue attività conoscitive e nei tempi ad esse dedicati, non persegue e non produce altro che una pura teoria. In altre parole: l'uomo diventa uno spettatore disinteressato, un osservatore del mondo nel suo complesso, diventa un filosofo; o meglio: su questa base la sua vita si apre alla motivazione, che è possibile soltanto in questo atteggiamento, per nuovi fini e metodi di pensiero, per cui infine sorge la filosofia ed egli diventa un filosofo.

Naturalmente la nascita dell'atteggiamento teoretico, come tutto ciò che diviene storicamente, ha una sua motivazione di fatto nel contesto concreto degli accadimenti storici. Occorrerebbe dunque chiarire, da questo punto di vista, il modo in cui, dall'orizzonte di vita dell'umanità greca del VII secolo e dal suo commercio con le grandi e coltissime nazioni del suo mondo circostante, potesse prodursi l'atteggiamento di questo thaumázein e come potesse divenire abituale nei singoli. Rinunciamo ad approfondire questo punto; ci preme piuttosto cercare di comprendere la motivazione, la via lungo la quale poté avvenire quel conferimento, quella creazione di un senso che di un mero rivolgimento, oppure di un mero thaumázein, poteva fare una «theoria» -- un fatto storico che deve avere tuttavia la sua essenza. Occorre chiarire l'evoluzione che va dalla «theoria» originaria, da una considerazione completamente «disinteressata» del mondo (e che avviene nell'epoché da tutti gli interessi pratici), da una conoscenza del mondo in base a un mero sguardo universale, alla «theoria» della scienza vera e propria, ambedue i termini mediati dalla contrapposizione tra la dóxa e l'epistéme. All'inizio, l'interesse teoretico in quanto è evidentemente una modificazione della curiosità, la quale ha a sua sede originaria nella vita naturale e può essere sia l'inizio di una «vita seria», un effetto di interessi di vita originariamente costituiti, oppure un modo di guardarsi attorno per gioco, una volta che sono stati soddisfatti i bisogni attuali della vita e sono trascorse le ore di attività professionale. La curiosità (che qui non è altro che un «vizio» abituale) è anche una modificazione, una forma particolare di interesse che si sottrae agli interessi vitali, che li lascia cadere.

In questo atteggiamento l'uomo considera innanzitutto la molteplicità delle nazioni, la propria e quelle straniere, col loro mondo circostante ovviamente valido, con le loro tradizioni, i loro dèi, i loro dèmoni, le loro potenze mitiche. Questa sorprendente contrapposizione rivela la differenza tra la rappresentazione del mondo e il mondo reale e pone il nuovo problema della verità; non il problema della verità quotidiana vincolata alla tradizione, bensì di una verità identica e valida, non più accecata dalla tradizione, della verità in sé. All'atteggiamento teoretico del filosofo inerisce dunque preliminarmente la decisione di dedicare costantemente la sua vita futura, la sua vita nel senso universale, alla «theoria», a costruire gradualmente la conoscenza teoretica infinita.

[...]

Abbiamo così delineato nelle sue linee essenziali, per quanto un po' schematicamente, quella motivazione storica, la quale poteva far sì che un paio di greci stravaganti dessero l'avvio a una trasformazione dell'esistenza umana e di tutta la sua vita culturale, dapprima all'interno della loro nazione e poi in quelle vicine. Ciò mostra chiaramente anche come su queste basi potesse sorgere una formazione sopranazionale di tipo assolutamente nuovo. Alludo naturalmente alla forma spirituale dell'Europa. L'Europa non è più un aggregato di nazioni contigue che si influenzano a vicenda soltanto attraverso il commercio e le lotte egemoniche, bensì uno spirito nuovo che deriva dalla filosofia e dalle scienze particolari che rientrano in essa, lo spirito della libera critica e della libera normatività, uno spirito impegnato in un compito infinito, che permea tutta l'umanità e crea nuovi e infiniti ideali! Ideali per i singoli uomini, nelle loro nazioni, e ideali per le nazioni stesse. Infine questi ideali infiniti valgono anche per la sintesi sempre più vasta delle nazioni, una sintesi in cui ciascuna nazione, proprio per il fatto di perseguire il proprio compito ideale nello spirito dell'infinità, offre alle altre ciò che ha di meglio. Attraverso questa offerta e la sua accettazione si amplia e si innalza la totalità sopranazionale, con tutte le società che si articolano in essa, colma dello spirito di un compito superiore e articolato in una molteplice infinità, l'unico tuttavia che sia infinito. In questa società totale idealmente orientata, la filosofia e il suo specifico compito infinito esercitano una funzione determinante; la funzione di una considerazione libera e universalmente teoretica che abbracci anche tutti gli ideali e l'ideale totale: dunque l'universo di tutte le norme. La funzione che la filosofia deve costantemente esercitare all'interno dell'umanità europea è una funzione di guida per tutta l'umanità.

II [La razionalità e l'errato razionalismo]

Ma ben presto ci troviamo di fronte a fraintendimenti e a riserve che, mi sembra, attingono la loro forza di suggestione ai pregiudizi di moda e alla loro fraseologia.

Ciò che abbiamo detto non si propone per caso di salvare l'onore di quel razionalismo che nel nostro tempo ottiene così pochi consensi, dell'illuminismo, di un intellettualismo smarrito in una teoria estranea al mondo, con tutte le sue conseguenze negative, una vuota saccenteria, lo snobismo intellettualistico? Ciò che abbiamo detto non nasconde forse il proposito di riprodurre un errore fatale, la convinzione che la scienza possa rendere saggio l'uomo, che essa sia chiamata a creare un'umanità autentica, superiore al suo destino e soddisfatta? Chi sarà disposto, oggi come oggi, ad accettare queste convinzioni?

Quest'obiezione ha indubbiamente una relativa legittimità riguardo allo stadio di sviluppo che l'Europa aveva raggiunto tra il XVII secolo e la fine del XIX. Ma non può investire il senso specifico della mia trattazione. Anzi sono convinto che io, il presunto reazionario, sono molto più radicale e molto più rivoluzionario di coloro che oggi si bardano di un radicalismo meramente verbale.

Anch'io sono persuaso che la crisi europea affonda le sue radici in un razionalismo erroneo. Ma ciò non significa che la razionalità come tale sia una calamità o che rivesta un'importanza soltanto subordinata per l'umanità. La razionalità: nel senso più alto e autentico in cui noi ne parliamo, nel senso di quell'ideale originario che si delineò nell'epoca classica della filosofia greca, la razionalità esigeva indubbiamente ancora molti chiarimenti, molte riflessioni; nella sua forma matura, essa è chiamata a guidare tutti gli sviluppi successivi. D'altra parte noi ammettiamo volentieri (e da questo punto di vista l'idealismo tedesco ci ha preceduti di molto) che lo stadio di sviluppo della ratio costituito dal razionalismo del periodo illuministico era un errore, per quanto un errore comprensibile.

Il termine ragione è un titolo molto ampio. Secondo la buona vecchia definizione, l'uomo è un essere razionale, e in questo senso anche il selvaggio è un uomo e non un animale. Ha i suoi scopi e agisce razionalmente, riflette alle possibilità pratiche. Le opere e i metodi, la cui razionalità può sempre di nuovo essere compresa, penetrano nella tradizione. Ma così come l'uomo, compreso il selvaggio, rappresenta, rispetto all'animale, un nuovo grado dell'animalità, la ragione filosofica rappresenta un nuovo grado dell'umanità e della ragione. Ma il grado di un'esistenza umana retta dalle norme ideali di un compito infinito, il grado dell'esistenza sub specie aeterni, è possibile soltanto nell'assoluta universalità, quell'universalità che è implicita fin dall'inizio nell'idea della filosofia. La filosofia universale e tutte le singole scienze costituiscono sì un fenomeno parziale nell'ambito della cultura europea. Ma è implicito nel senso stesso della mia esposizione che questo fenomeno è come il suo cervello fungente, dal cui normale funzionamento dipende la salute e l'autenticità della spiritualità europea. L'umanità giunta a un grado più alto di spiritualità umana, giunta alla ragione, esige dunque un'autentica filosofia.

[...]

Ma per quanto riguarda il nostro problema, il problema della crisi, occorre ora mostrare come poté accadere che l'«epoca moderna», per secoli orgogliosa dei propri successi pratici, sia arrivata a una situazione di crescente insoddisfazione, sia giunta a sentire la negatività della propria situazione. Tutte le scienze si sentono a disagio, in definitiva avvertono il disagio metodico. Ma il nostro disagio europeo, anche se non viene capito, concerne moltissime persone.

Tutti questi problemi derivano dall'ingenuità per cui la scienza obiettiva ritiene che ciò che essa chiama mondo obiettivo sia l'universo di tutto ciò che è, senza badare al fatto che la soggettività che produce la scienza non può venir conosciuta da nessuna scienza obiettiva. Colui che è stato educato alle scienze della natura ritiene ovvio che tutta la sfera meramente soggettiva debba venir esclusa e che il metodo delle scienze naturali, presentandosi nei modi della rappresentazione soggettiva, sia obiettivamente determinato. Perciò, anche nei riguardi della sfera psichica, egli persegue una verità obiettiva. Ciò equivale a presumere che la sfera soggettiva esclusa dal fisico, appunto in quanto psichica, debba essere indagata dalla psicologia, e poi, naturalmente, dalla psicologia psicofisica. Ma il naturalista non si rende conto che il costante fondamento del suo lavoro concettuale, che nonostante tutto è soggettivo, è il suo mondo circostante della vita, che egli presuppone costantemente il mondo-della-vita in quanto terreno, in quanto campo di lavoro, e che soltanto su di esso hanno un senso i metodi di pensiero, i suoi problemi. Chi sottopone alla critica, chi cerca di chiarire quella poderosa compagine metodica che dal mondo circostante intuitivo porta alle idealizzazioni della matematica e che lo interpreta come un essere obiettivo? La rivoluzione di Einstein investe le formule della fisica idealizzata e ingenuamente obiettiva. Ma non ci dice nulla sul modo in cui le formule in generale, l'obiettivazione matematica in generale, assumono un senso sullo sfondo della vita e del mondo circostante intuitivo; perciò Einstein non riforma lo spazio e il tempo entro cui si svolge la nostra vita vivente.

La scienza naturale matematica è una meravigliosa tecnica per compiere induzioni di un'efficienza, di una probabilità, di una precisione, di una calcolabilità tali che un tempo erano insospettabili. In quanto operazione essa è uno dei trionfi dello spirito umano. Ma la razionalità dei suoi metodi e delle sue teorie è soltanto relativa. Essa presuppone la posizione del fondamento, il quale si sottrae a una reale razionalità. In quanto la tematica scientifica dimentica completamente il mondo circostante intuitivo, questa sfera meramente soggettiva, dimentica anche il soggetto operante, non tematizza lo scienziato stesso. (Ma così, da questo punto di vista, la razionalità delle scienze esatte si pone sullo stesso piano della razionalità delle piramidi d'Egitto.)

Indubbiamente, a partire da Kant, abbiamo una nuova teoria della conoscenza; d'altra parte esiste una psicologia, che pretende all'esattezza scientifica e vuol essere la scienza generale e fondamentale dello spirito. Ma le nostre speranze di una reale razionalità, cioè di una vera intuizione evidente, vanno deluse anche qui. Gli psicologi non si accorgono di non rientrare, in quanto scienziati operanti, insieme al loro mondo circostante della vita, nel proprio tema. Non si accorgono di presupporre preliminarmente e necessariamente se stessi in quanto uomini accomunati nel loro mondo circostante e nel loro tempo storico, e che proprio per questa ragione si propongono di raggiungere una verità in sé, valida per chiunque. Sulla base dell'obiettivismo, la psicologia non è in grado di tematizzare l'anima nel suo senso peculiare, cioè l'io che agisce e patisce.

[...]

III [Conclusione]

Cerchiamo di esprimere il concetto fondamentale della nostra esposizione: quella «crisi dell'esistenza europea» di cui oggi tanto si parla, e che è documentata da innumerevoli sintomi di dissoluzione, non è un oscuro destino, non è una situazione impenetrabile; essa diventa comprensibile e trasparente sullo sfondo di quella teleologia della storia europea che la filosofia è in grado di illuminare. Ma la premessa di questa comprensione è che si riesca innanzitutto a cogliere il nucleo essenziale e centrale del fenomeno «Europa». Per penetrare il groviglio della «crisi» attuale, era indispensabile elaborare il concetto Europa in quanto teleologia storica di fini razionali infiniti; era indispensabile mostrare come il mondo europeo sia nato da idee razionali, cioè dallo spirito della filosofia. La crisi poté così rivelarsi come un apparente fallimento del razionalismo. Ma la causa del fallimento di una cultura razionale sta -- come abbiamo detto -- non nell'essenza del razionalismo stesso ma soltanto nella sua manifestazione esteriore, nel suo decadere a «naturalismo» e a «obiettivismo».

La crisi dell'esistenza europea ha solo due sbocchi: il tramonto dell'Europa, nell'estraniazione rispetto al senso razionale della propria vita, la caduta nell'ostilità allo spirito e nella barbarie, oppure la rinascita dell'Europa dallo spirito della filosofia, attraverso un eroismo della ragione capace di superare definitivamente il naturalismo. Il maggior pericolo dell'Europa è la stanchezza. Combattiamo contro questo pericolo estremo, in quanto «buoni europei», in quella vigorosa disposizione d'animo che non teme nemmeno una lotta destinata a durare in eterno; allora dall'incendio distruttore dell'incredulità, dal fuoco soffocato della disperazione per la missione dell'Occidente, dalla cenere della grande stanchezza, rinascerà la fenice di una nuova interiorità di vita e di una nuova spiritualità, il primo annuncio di un grande e remoto futuro dell'umanità: perché soltanto lo spirito è immortale.

[Traduzione di Enzo Paci]