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La caduta del diavolo: un caso di eccesso di desiderio e di disaffezione. Eros e voluntas da Agostino ad Anselmo

di M. Benedetta Selene Zorzi (9 maggio 2010)

Anselmo appare ancora poco studiato in riferimento ai temi etici. La cosa risulta tanto più strana se pensiamo al fatto che egli fu seguito in modo consistente dalla Scolastica successiva, benché il suo influsso sia stato spesso sottovalutato. Tra Agostino e Anselmo nessun'altro sembra aver affrontato a livello filosofico la questione circa la definizione e la funzione della libera volontà. Il De casu diaboli di Anselmo offre un buon esempio per mostrare come egli si inoltri su una strada che abbandona la complessità del concetto di voluntas agostiniano, e in modo particolare il suo sfondo stoico, per articolarlo su concetti maggiormente aristotelici. Benché in Anselmo resti ancora forte la funzione motivante dell'eros, riconosciuta da Agostino rispetto alla volontà, il benedettino costituisce un punto di passaggio per la Scolastica successiva che scinderà conoscenza volontà e amore in facoltà separate.

Eccetto che per l'argomento ontologico, Anselmo appare ancora poco studiato in riferimento ad altri ambiti filosofici e teologici.1 La cosa risulta tanto più strana se pensiamo al fatto che circa i temi etici egli fu seguito in modo consistente dalla Scolastica successiva, benché il suo influsso sia stato spesso sottovalutato.2 Il suo concetto di volontà, in particolare, verrà citato molto dai successivi autori medievali, non sempre a proposito.3 Gli studi degli ultimi trent'anni che si sono occupati dei testi etici di Anselmo hanno mostrato sempre più non solo la continuità di Anselmo rispetto ad Agostino ma anche la sua originalità.4

Tra Agostino e Anselmo nessun'altro sembra aver affrontato a livello filosofico la questione circa la definizione e la funzione della libera volontà.5 Il De casu diaboli (=DCD) offre un buon esempio per mostrare come Anselmo abbandoni la complessità del concetto di voluntas agostiniano, e in modo particolare il suo sfondo stoico, per articolarlo su concetti maggiormente aristotelici. Su questo punto infatti Anselmo costituisce un punto di passaggio per la Scolastica successiva che scinderà conoscenza volontà e amore in facoltà separate. «Almeno dal tempo di Anselmo, Agostino è stato seriamente incompreso sull'oggetto del ruolo dell'amore/volontà e sulle sue relazioni con la conoscenza».6 Il presente studio si propone di analizzare la trasformazione della concezione anselmiana rispetto alla teoria della volontà agostiniana, con particolare riferimento al De casu diaboli.7

1. Il concetto di volontà agostiniano

Nel concetto di voluntas Agostino ha combinato assieme la teoria stoica dell'azione con la teoria dell'eros platonico. Dalla prima comprendiamo la connessione tra volontà, affezione e assenso razionale; dalla seconda il suo collegamento con l'amore, benché Agostino rielabori queste due tradizioni in modo nuovo. Vediamo brevemente come.

1.1. Appetitus, impetus e voluntas

È stato di recente messo in chiaro che il concetto di voluntas in Agostino presuppone la teoria stoica dell'azione.8 Agostino dà al termine voluntas il significato stoico di hormé definita come «un movimento diretto ad una azione».

Per capire il collegamento che il concetto di volontà agostiniano ha con le emozioni preliminari o primi movimenti affettivi dell'anima bisogna analizzare la struttura dell'emozione secondo gli stoici.9 Per gli stoici l'impulso è costituito da un assenso ad una impressione ormetica. L'emozione è un movimento diretto ad una azione, e questo impulso è preceduto da un assenso ad una impressione ormetica. L'impressione ormetica è un movimento dell'anima di prima reazione -- di attrazione o repulsione -- di fronte a qualcosa o qualcuno.10 Un'azione umana infatti la conseguenza di tale movimento affettivo (typosis; phantasia) a cui si dà un assenso razionale (katalepsis; synkatalepsis). Essa si presenta quindi come un giudizio su una proposizione involontaria. Siccome le impressioni preliminari possono essere vere (e all'interno di queste vanno ulteriormente distinte le cataleptiche, cioè la cui verità è garantita) o false, mentre l'assenso può essere forte o debole (SVF III, 172; 548), ne possono derivare giudizi errati che portano ad azioni sbagliate (pathe),11 oppure giudizi giusti che portano ad azioni buone, entrambi più o meno fortemente determinati. Solo il saggio però è in grado di dare un assenso forte alle impressioni vere cataleptiche e solo questo tipo di assenso ha il carattere della giustizia, irreversibilità, stabilità e conoscenza incrollabile e quindi del vero bene. Il saggio infatti è colui che ha emozioni positive e stabili. Tutte le altre emozioni sono delle impressioni ormetiche o impulsive (SVF III, 169), cioè si fondano su un tipo di opinione o conoscenza o credenza non irreversibile, alle quali si può dare un assenso non irreversibile.12 Una volontà retta quindi deriva da una giusta disposizione della mente.

Gli stoici spiegano infatti la debolezza della volontà, senza scomodare una teoria pluralistica dell'anima come quella platonica o degli impulsi in conflitto, ma tramite la supposizione di una oscillazione temporale (velocissima e forse inconscia) nell'impulso/credenza (SVF III, 459).

La struttura psicologica dell'azione volontaria umana si presenta insomma in questi termini:

Le emozioni, quindi, sono il risultato di un assenso razionale a delle impressioni articolate proposizionalmente (SVF III, 171). In quanto impulsi (movimenti diretti ad un oggetto), non restano mai innocue, ma hanno un effetto immediato sul comportamento (giusto o errato) dell'agente. Quando un impulso va fuori il controllo della ragione abbiamo le cosiddette emozioni o passioni (hormé pleonazousa) che sono per gli stoici le principali cause di una azione sbagliata.13

Agostino conosce anche le passioni preliminari stoiche,14 questi primi movimenti involontari dell'anima, che non hanno ancora ricevuto un assenso cognitivo, e sembra in linea con la struttura dell'hormé stoica, anche quando articola la complessa dinamica della volontà.

Ben si sa come il passaggio di concetti filosofici da una lingua ad un'altra comporti intraducibilità, slittamenti di significato, perdite di senso, ma anche nuove possibilità di risignificazione soprattutto quando si entra in nuovi contesti teologici. Nel caso del termine latino voluntas, non c'è un esatto corrispettivo greco. Seneca traduce il termine stoico hormè, con voluntas, tuttavia Cicerone lo traduce con impetus o appetitus, che infatti designerebbe uno dei due momenti dell'hormé stoica, cioè l'impressione ormetica. In questo ultimo senso lo troviamo in Agostino (che menziona esplicitamente gli stoici in ciu. 19, 4, 2) 15 per intendere la spinta ciò che non ha bisogno dell'aiuto della ragione per produrre un'azione. Ma in altri testi l'Ipponate usa voluntas al modo di Seneca, cioè per intendere la causa efficiente dell'azione, in modo specifico per l'hormé di esseri razionali (ciu. V, 9, 3-4).16

Agostino segue gli stoici anche nel distinguere due tipi di impulsi17: attuali e disposizionali, ciascuno con un suo oggetto corrispondente.

L'impulso è attuale quando è diretto verso una azione particolare che implica desiderare o rifuggire un oggetto intenzionale/specifico. L'impulso è disposizionale quando è diretto verso una serie di azioni tramite le quali si persegue una intera classe di oggetti. In entrambi i casi si tratta di un impulso razionale e in entrambi i casi risulta chiaro che è l'oggetto a determinare il tipo di impulso.

Risulta altresì evidente che Agostino fu influenzato dagli stoici circa quella particolare forma di hormé disposizionale che è l'impulso primario all'autopreservazione (protehormè) che per gli stoici è presente in tutti gli animali.18 Si tratta di quella spinta innata a preservare sé e la propria vita, tramite la quale l'uomo naturalmente vuole vivere (vivere vult), che in genere chiamiamo egotropismo.Tale movimento naturale dell'essere umano, messo da Dio, è anche a Lui diretto.19

S. Byers ha analizzato e evidenziato il debito che Agostino ha con gli stoici su questo punto tramite uno studio attento di tre gruppi di testi: a) ciu. XII e XIV; b) conf. VIII; c) lib. arb. in relazione a Gn. litt. IX e ciu. V.20 Ella afferma che ciu XII e XIV sono della massima importanza per comprendere la chiave di interpretazione del concetto di voluntas in Agostino, perché eccetto che in conf. VIII in nessun altro testo di Agostino tale termine ricorre così frequentemente.

Agostino nota che un appetitus deriva da una affezione precedente dell'anima, la quale qualifica l'anima prima ancora che questa riceva una certa impressione. Il problema che egli rileva si può così formulare: come può essere già peccaminosa questa affezione, se la natura dell'anima è creata da Dio? Agostino perciò suppone che debba esserci una certa disposizione acquisita che sia precedente a tale affezione. Tale disposizione egli chiama voluntas o anche cupiditas.21

In questo caso voluntas sembra tradurre il concetto di bulesis stoico,22 nel senso di una emozione positiva e stabile del saggio, stati d'animo stabili e ragionevoli; questo del resto sembra intendesse Cicerone traducendolo così. Nel caso degli angeli buoni tale volontà è costante, santa e tranquilla (ciu. XI, 33). Ma Agostino allarga il significato: nel caso degli angeli cattivi essa è ingannevole, arrogante, invidiosa, impura e si chiama cupiditas, ma anch'essa può essere costante (XII, 1),23 anch'essa quindi è una disposizione, una voluntas perversa (XI, 33), una condizione dell'anima viziosa (vitium malitiae, voluntas mala).

Byers rileva ancora come voluntas sia il nome della disposizione (buona o cattiva) che emerge dagli appetiti.24

Questa voluntas/cupiditas orienta l'anima verso diverse classi di oggetti di desiderio come quelle che distinguono le due città. Sono infatti i «due amori» (ciu. XIV, 28, 1) che distinguono le due città, quello che ci orienta a Dio e quello che ci orienta al diavolo (cfr. s. 344, 1). Quindi quando acconsentiamo ad un desiderio buono abbiamo la caritas, mentre quando acconsentiamo ad un desiderio cattivo abbiamo la cupiditas (ep. 157, 5).25

Tuttavia anche la voluntas disposizionale a sua volta è il risultato di un atto interiore dell'anima razionale. Nel caso dei demoni tale atto è stato un deviare (conversio) dall'oggetto della loro precedente buona volontà (XII,6)

Mentre però i demoni dalla volontà disposizionale passano direttamente all'atto (opus), negli esseri umani invece prima di arrivare ad un atto esterno, tra la disposizione e l'atto c'è un ulteriore appetitus. Infatti Agostino descrive l'azione (umana) come preceduta da un appetitus actionis. 26

A questo punto Byers mostra gli elementi per tracciare la struttura del processo psicologico:27

Agostino chiama insomma voluntas tutte e tre le fasi dell'impulso stoico, ma aggiungendovi da parte sua una riflessione particolare sulla forza delle abitudini, alla quale il pensiero occidentale successivo resterà debitore.28 Non si rileva invece ancora nessuna presenza del moderno concetto libertario di scelta.29

1.2. Iudicium / arbitrium / e voluntas

È stato notato lo strano uso del termine (liberum) arbitrium voluntatis (ciu. V, 9) . 30 Anche in questo caso, è la teoria stoica dell'azione a spiegare il termine agostiniano.

Gli esseri umani infatti danno assenso ad una impressione ormetica ricevuta passivamente, mentre gli animali non danno questo assenso. La struttura della loro azione implica solo il passaggio dall'impressione ormetica direttamente all'impulso. Sembra quindi che Agostino sottolinei in questo termine arbitrium voluntatis l'idea storica dell'assenso razionale per esprimere quell'assenso razionale ad una impressione ormetica che precede l'impulso all'azione. La voluntas quindi qui è l'impulso razionale che si distingue dall'impulso dell'animale che invece è solo appetitus. È per questo che i termini arbitrium e iudicium possono addirittura essere interscambiabili (Gn. litt. IX, 14, 25). Il collegamento tra arbitrium/iudicium (o liberum arbitrium) e la voluntas sta a sottolineare, sulla linea stoica, che l'impulso dell'essere razionale ad una azione è libero,31 che cioè l'essere razionale (umano o angelico) può rigettare o approvare le impressioni ormetiche.

Ancora una volta voluntas non appare come una facoltà o una volontà senza causa, perché come per gli stoici così anche per Agostino ogni evento ha una causa efficiente (cfr. ciu. 5, 9). Né si tratta di una volontà «volontaristica» nel senso di una capacità di fare un azione a-razionale, ma di una facoltà razionale di giudizio o assenso alle impressioni, una capacità di avere impulsi che seguono all'assenso. Certo la libera voluntas (ciu. V, 9, 10) è anche un potere/potenza data dal Creatore che resta sempre con noi, sia che la usiamo bene sia che la usiamo male, ma questo è un uso raro in Agostino.

1.3. Consuetudo e voluntas

Quando nel famoso capitolo di conf. VIII32 Agostino descrive il suo essere diviso tra due sue volontà in conflitto tra loro, sta ancora impiegando il concetto stoico di hormé disposizionale: «Dammi la castità e la continenza, ma non subito» (VIII, 7, 17).

Byers sostiene che si tratta qui di due volontà che vanno intese come delle disposizioni, ciascuna delle quali persegue diverse classi di beni distinti. Esse si sono formate da azioni abituali (consuetudo): la prima volontà (vecchia) deriva dallo stile di vita sensuale formatosi dalla sua relazione con le donne; l'altra volontà (più recente) è il desiderio di celibato, che si è andato formando tramite lo studio, le idee filosofiche e la sua frequentazione della chiesa.

Le azioni ripetute che hanno portato Agostino ad una volontà disposizionale sono state precedute da una volontà attuale per singole azioni. Emerge in modo più chiaro come voluntas designi un impulso attuale verso determinati atti.

Quindi la causa efficiente di una singola azione è la volontà attuale. Tali impulsi attuali sono diretti ad ottenere un determinato oggetto. È chiaro quindi che è l'oggetto a rendere la volontà buona o cattiva e che vari oggetti distinguono anche le volontà. Ma gli oggetti non sono altro che cose desiderate. È qui che entra in causa la teoria dell'eros platonico.

1.4. Eros e voluntas

L'influsso dei libri platonicorum su Agostino è indubbio e solo in questa tradizione filosofica l'amore ha una posizione di primaria importanza. È stato J. M. Rist ad aver sottolineato come Agostino usi il concetto di voluntas attribuendogli molta parte della funzione che eros aveva nella tradizione platonica.33 Ma nella tradizione platonica l'eros non è una facoltà, è piuttosto una forza che ci costringe ad uscire fuori di noi (cfr. Phaidr. 253a) e che caratterizza ciascuna delle parti dell'anima (cfr. Resp. IX).34 Così l'eros è inseparabile anche dall'intelligenza, che infatti contempla il Bene, anzi in Plotino essa è la forza che ci permette di unirci all'Uno-Bene (Enneadi, VI, 7, 22, 9-10).35

Agostino corregge quindi, forse involontariamente, la nozione stoica di assenso con il suo platonismo e con l'associazione tra voluntas e amore. Infatti negli stoici l'assenso implica sempre una credenza (vera o falsa), ma Agostino capisce che oltre alle credenze o prolepsis (una sorta di idee innate che costituiscono una insieme di credenze innate) 36 dietro ogni decisione morale ci sono soprattutto desideri, e piaceri di soddisfare desideri (infatti il godimento muove la volontà, Simpl. I, 1, 9). Insomma ogni credenza sulla base della quale agiamo è affetta da desideri ovvero amori.37 Come i due amori distinguono le due città, così, assentendo ai nostri amori o ai nostri odi e con l'abitudine che consegue a tale assenso, costruiamo e sviluppiamo una disposizione mentale che chiamiamo volontà.38

Voluntas per Agostino è quindi ciò a cui l'amore ha dato assenso o che ha accettato. L'eros in Platone era quella potenza la cui qualità morale dipendeva dall'oggetto a cui era diretto. Laddove Agostino parla di varie volontà all'interno dell'individuo, le quali hanno vari oggetti, possiamo riconoscere i tre tipi di anima descritti nel Fedro e nella Repubblica da Platone. 39 Per questo si può dire che la volontà per Agostino non è una facoltà, ma l'intera persona agente vista dal suo punto di vista affettivo. La volontà è aver acconsentito ad un desiderio che è diventato un habitus. 40 Noi siamo la nostra volontà nel senso che ogni persona è ciò che ama (ep. Io. tr. 96, 4) e non solo ciò che crede o pensa. L'amore si dimostra così come la più forte manifestazione della volontà.41 Per questo si può dire che la volontà per Agostino non è una facoltà, ma l'intera persona.

In questa linea comprendiamo perché i termini voluntas e amore nel trin. siano identificati alla persona dello Spirito Santo.42 La caritas, amor/dilectio e la voluntas, al meglio delle loro possibilità, nella loro forma più pura, sono la stessa persona dello Spirito Santo (trin. XV, 17, 31; 20, 38; 21, 41), perché in Dio l'amore è una disposizione immutabile. 43 Anche nell'immagine di Dio, che è l'uomo, memoria/intelletto/volontà sono una sola sostanza (trin. X, 11, 18). Infatti per Agostino l'uomo, molto più che la sua ragione (come ritenevano gli stoici), è una distinzione inseparabile di memoria, intelletto e amore (XIII, 11, 12).44 Se però nello Spirito Santo tutto è unificato, negli esseri umani gli affetti, i desideri e le volontà sono spesso molteplici perché noi siamo esseri divisi.

Qui la differenza con gli stoici è grande. L'akrasia, cioè la debolezza della volontà, già riconosciuta dagli antichi filosofi greci, non sta solo in un difetto razionale, in un errore di giudizio o nella debolezza della ragione nella sua lotta contro le passioni. Per Agostino si tratta invece della divisione interiore nostra in molteplici personalità, cioè volontà: siamo simultaneamente un gruppo di identità morali all'interno della stessa persona: identità orientate a diversi oggetti di desiderio (ma non sono facoltà separate!),45 spesso in conflitto tra loro. Se fossimo perfetti avremmo una sola volontà, cioè ameremmo sempre il bene. Ma siamo esseri «caduti», le cui cattive abitudini costituiscono in noi una «seconda natura».

Certo l'identificazione tra amore e volontà nella Persona dello Spirito Santo46 è uno sviluppo del tutto nuovo rispetto alle tradizioni che Agostino conosce e accoglie. Tale identificazione ci fa chiaramente capire che egli non pensa alla volontà come ad una singola facoltà, ma come alla struttura stessa della persona la cui identità non va ricercata tanto in una struttura ontologica quanto ricondotta all'unificazione morale del «cuore»,47 unificazione che non si può compiere la grazia e che tuttavia resta un processo escatologico.48 Solo quando l'uomo ha come oggetto dell'intero sistema dei suoi amori Dio, egli è libero, felice, ed è propriamente persona. Dio infatti è anche colui che può unificare la conflittualità delle identità (volontà) che noi siamo.49

Agostino mantiene con la parola voluntas «il senso di questa unità desiderante della persona umana come agente attivo e spirituale/morale».50

Sotto questo punto di vista si capisce che la vera libertà non sta in ciò che possiamo fare, non è la capacità di scegliere di usare o abusare di ciò che è in nostro potere, perché fare il male non è libertà. Essere liberi significa desiderare il bene, perciò per Agostino la somma libertà (libertas maior) è non posse peccare.51

Agostino quindi trasforma e compone insieme due tradizioni antiche, la platonica e la stoica, non senza apportare grandi rivoluzioni in esse e arricchirle. Rispetto alla tradizione stoica sottolinea la forza dell'abitudine che deriva non solo da una conoscenza o una credenza, ma da una combinazione di credenze e desideri: c'è insomma sempre un desiderio, un piacere da soddisfare (diu. qu. 40) dietro ogni nostra decisione morale.52 In questo modo però egli fa slittare il senso di voluntas dal significato stoico a quello più «platonico» di desiderio verso un oggetto che dà piacere. È l'amore, secondo lui, a dare il carattere fondamentale alla virtù e alla scelta morale, non l'intelletto o la ragione, tanto che le virtù cardinali non sono altro che forme del supremo amore di Dio (mor. I, 15, 25).

Morale non è ciò che è razionale, ma ciò che struttura interamente la persona, con tutte le sue potenze (intelletto, amore, affetto, emozione) all'interno di una struttura stabile verso il bene. Tale morale non è una etica dei doveri alla Kant, ma una etica dell'ispirazione: i valori ispirano e attraggono i nostri amori.

Anche la conoscenza ne emerge molto più collegata alla sfera affettiva: non si può conoscere niente senza una «passione» che motiva la nostra conoscenza, senza che si voglia, si intenda, si ami conoscere qualcosa.

La distinzione tra conoscere il bene e amare il bene è puramente concettuale. [...] non è possibile conoscere il bene senza amare il Bene e non è possibile cercare di conoscere il bene senza avvertire il bisogno del Bene, cioè senza un forte desiderio per il Bene. Perché l'individuo in cerca del bene è un singolo individuo e non può essere scomposto in un insieme di facoltà.53

Non riconoscere questo carattere di sintesi che Agostino dà alle sue diverse fonti, determina anche l'errata lettura della volontà come di una facoltà separata dall'amore.54

2. Il concetto di voluntas nel De casu Diaboli di Anselmo

Nessuna opera di Anselmo è dedicata sistematicamente a questioni morali, tuttavia ciò non spiega il poco interesse che gli studiosi contemporanei hanno riservato alle sue teorie etiche. Anselmo infatti in questo campo non si limita a ricapitolare impliciti principi presenti nelle Scritture, in Agostino e in Boezio, ma consegna al medioevo un contributo specifico.55 Per quanto ci risulta, sono pochi gli studi dedicati in modo sistematico alle concezioni morali di Anselmo.56 Molto poco è apparso su tali temi in lingua italiana.57

A partire almeno dal 107258 il problema della libertà divenne centrale per Anselmo, a tal punto che dal 1080 al 1085 egli si impegnò nella elaborazione di un trittico in forma di dialogo tra maestro e discepolo (De veritate=DV, De libertate arbitrii=DLA, DCD) 59 che approfondisse il mistero della libertà e i suoi rapporti con la grazia, la predestinazione e la prescienza di Dio (cfr. DLA 1).

Sappiamo che nei cosiddetti «anni del silenzio», dal 1063 al 1070, Anselmo si è dedicato in modo speciale allo studio di Agostino, di cui mantiene una traccia così vasta da poter rispondere a Lanfranco, che gli chiedeva di esplicitare le sue fonti, di non aver asserito nulla di più che non fosse chiaramente stata comprovata dall'autorità di Agostino.60

Tuttavia «è ben difficile trovare una sola frase anselmiana che derivi chiaramente da un passo parallelo agostiniano».61 Questo deriva proprio dal fatto che il pensiero di Anselmo è troppo profondamente intessuto di quello di Agostino per poterlo distinguere e separare, ma del resto è anche già profondamente rielaborato per perché egli stesso riuscisse a trovare citazioni esatte da Agostino che sostenessero la sua posizione. Anselmo ha però anche un diverso modo di procedere, più sistematico e rigoroso di Agostino.62

Nel caso particolare della concezione della volontà si mostra bene come Anselmo sia affine ad Agostino e d'altra parte inizi una sua nuova strada che non può più chiamarsi agostiniana. La stessa diversità di terminologia tra il De libero arbitrio di Agostino e il De libertate arbitrii di Anselmo è indice del problema e del fatto che Anselmo ha bisogno di trovare una novità di espressione per intuizioni nuove.

Benché egli consideri i testi di questo trittico relativi alla comprensione della Scrittura -- ciascun dialogo infatti si occupa dell'interpretazione di un testo della Bibbia63 -- a noi moderni essi sembrano trattare soprattutto di questioni teoretiche come la natura della verità e la definizione della giustizia/rettitudine («la verità di una azione», DV 5), la natura e i limiti della libera volontà (che è rettitudine del volere).64 Non va però dimenticato che l'intenzione delle argomentazioni razionali di Anselmo è proprio spiegare il significato teologico delle affermazioni bibliche al fine di non distorcerle (e per questo uno dei metodi preferiti da Anselmo è l'analisi del linguaggio).65

2.1. Volontà e responsabilità

Già nel Monologion 7 (=M) e nel Proslogion (=P), Anselmo aveva sostenuto che Dio è l'origine ultima di tutto. Nel DV egli dimostra che la ragione stessa richiede Dio come risposta ultima alla domanda sul perché una cosa è come è.

Ma se tutto va fatto risalire a Dio, come si deve considerare allora il fatto che Dio punisce i peccatori, se tutto sommato anche la scelta sbagliata di una creatura razionale andrebbe fatta risalire a Lui? Insomma, se tutto deriva da Dio, l'uomo non ha più spazio per una libera scelta. Se Dio è responsabile ultimo anche del peccato, allora il diavolo non deve essere punito, non essendo responsabile del suo proprio peccato, dal momento che tutto ciò che ha, lo ha da Dio. Se il diavolo non ha perseverato nel bene non è forse perché Dio stesso non gli ha dato la perseveranza? È questa la articolata domanda che apre il DCD (1-3).66

Ci si potrebbe chiedere perché Anselmo decida di analizzare in particolare la scelta degli angeli e non degli esseri umani. Rogers, che rileva che il DCD inizia con una espressione occasionata dal trattato di Agostino sul primo peccato di Satana e dei progenitori,67 suppone che forse Anselmo non sente il bisogno di discutere l'ambito umano perché esso era già stato abbondantemente affrontato da Agostino.68 Williams trova altre due spiegazioni: anzitutto perché focalizzarsi sulla scelta degli angeli permette ad Anselmo di evitare l'analisi di tanti altri tipi di scelte che gli esseri umani fanno quotidianamente, ma che non hanno a che vedere con la salvezza69: gli angeli hanno infatti una sola scelta per decidere il loro destino eterno. In secondo luogo il caso degli angeli evita i complessi problemi connessi alla relazione tra libertà e grazia presenti nel genere umano dopo la caduta. Gli esseri umani infatti una volta caduti possono riacquistare la giustizia per mezzo della grazia. La decisione degli angeli invece è una sola ed è irrevocabile. Analizzare questa scelta offre un caso chiaro per studiare il problema della responsabilità morale. Solo una scelta libera infatti può fondare la responsabilità morale (DV 12).

Probabilmente abbiamo qui anche l'indizio di uno slittamento dell'interesse dell'etica stessa dall'anima e dalla sua organizzazione -- focus tipico dell'impianto antico -- alla libertà della scelta stessa -- tipica di un impianto moderno.

Analizzare la struttura della volontà degli angeli e in particolare la dinamica della volontà nella caduta del diavolo permette ad Anselmo di concentrarsi con nettezza sul dilemma se la scelta di un essere razionale sia libera pur provenendo da Dio o no, e d'altra parte -- se Dio non è responsabile della caduta -- se e come si possa continuare a dire che Dio è fonte di tutto.

2.2. Struttura della volontà: potestas, affectio, usus

Prima di analizzare le argomentazioni del DCD è bene avere chiara la struttura della volontà che Anselmo abbozza in DLA 7 e che delinea successivamente anche nel De Concordia (=DC) III, 11.70 G. Sadler ha mostrato che Anselmo sviluppa progressivamente la sua analisi della struttura della volontà, cosa che qui possiamo per ora tralasciare.71 In entrambi i testi egli rileva l'equivocità del termine «volontà» e che dovremmo distinguere almeno tre usi della parola che corrispondono a tre aspetti della stessa volontà: uno è lo strumento, ovvero la facultas, detta anche potestas volendi (che chiameremo A); un secondo uso del termine indica l'inclinazione della volontà, la sua direzione che è detta affectio è che è l'essere diretto della volontà (intentio) verso un oggetto (=B); infine chiamiamo volontà l'atto stesso del volere o usus volendi (=C).

Quando l'anima vuole qualcosa, si può dire che essa sia affètta dal voler quella cosa, nel duplice senso e cioè sia che ne è modificata (come pensava Aristotele nel De Anima III, 10)72 sia che la vuole con una intensità affettiva (affectuose), riconosciamo qui l'identificazione agostiniana tra amore e volontà.73 Inoltre B implica sempre l'oggetto, ma può operare anche senza l'intervento della ragione (in stato di accidia o nel sonno per esempio). Vi riconosciamo qui la volontà disposizionale. C invece, che è l'uso, non opera mai senza l'intervento della ragione, senza cioè il pensiero cosciente dell'oggetto desiderato (esterno). Riconosciamo qui la volontà attuale.

A è unica, ma aperta a diverse opzioni, nel senso che può rivolgersi a differenti oggetti, come l'occhio può volgersi a vedere il cielo o la terra. Ma può anche esserci senza venir usata perché l'abbiamo sempre.

B è duplice e consta di due tipi di affectiones: affectus ad commodum e affectus ad rectitudinem. Il primo affectus è inseparabile da noi, perché coincide con l'universale desiderio di felicità di tutti gli esseri messo da Dio; il secondo invece è proprio solo delle creature razionali ed è separabile: è infatti ciò che il peccato fa perdere (cfr. CD III, 12). Si tratta di due inclinazioni, una per un vantaggio (per cui diciamo che ogni uomo sempre vuole esser felice, anche quando non ci pensa o dorme) e l'altra per la rettitudine (voler essere giusto). È una distinzione importante che chiarisce una antico dilemma tra il volere «per sé» e il volere «per altro» (cfr. DLA 5) che Agostino aveva risolto (non troppo felicemente) dicendo che si devono amare le cose «in Dio» (o con la differenza tra uti e frui). La prima affectio non sempre è una inclinazione cattiva, ma può diventarlo quando acconsente alla concupiscenza della carne, che è contraria allo Spirito; invece il secondo affectus è sempre causa di beni. B quindi non è mai senza oggetto. È infine qui che la volontà mette in opera la sua maggiore o minor capacità, intensità, nel volere (cfr. DLA 7).

C è presente solo quando c'è anche il pensiero di ciò che si vuole (quindi non quando si dorme per esempio) ed esso ha molteplici distinzioni. È chiaro quindi che B e C sono due volontà distinte e che entrambe hanno un oggetto. L'oggetto di C è invece in qualche modo B.

In DLA 7 Anselmo afferma che la potenza di A-Ba è inalienabile. La forza di Bb-C invece può essere più o meno debole in dipendenza del soggetto, ed è questa la responsabile nel cedere alle tentazioni.74

Se non teniamo in mente questi tre (quattro in DLA 3) aspetti della volontà (potestates), rischiamo di fraintendere l'articolata trattazione che Anselmo propone nel DCD, che ora andiamo ad analizzare.

2.3. Verità e forza della volontà

Non possiamo qui commentare distesamente il percorso del trittico; dobbiamo farlo brevemente per focalizzarci poi sul DCD.

Nel DV, alla ricerca della definizione della verità, Anselmo afferma che la verità riguarda sempre la rettitudine. Riconosciamo in questo concetto, che Anselmo non definisce, certamente una novità, segnalata anche questa volta dalla leggera diversità di terminologia rispetto ad Agostino.75 Già l'Ipponate del resto aveva identificato vero e retto, 76 ma il posto che tale concetto assume in Anselmo non è giustificato a sufficienza da tale dipendenza. Fare la verità per Anselmo vuol dire agire con rettitudine cioè «volere ciò che si deve».77 Poiché -- come già volevano gli stoici78 -- volere porta ad agire, la verità del volere implica la verità dell'azione che è la giustizia; questa è «la rettitudine della volontà custodita per se stessa»79: «La verità di una azione è infatti la rettitudine».80 Quando la volontà è giusta è anche conforme a ciò che Dio vuole (anzi: «ciò che Dio vuole che l'uomo voglia», così in DLA 8, espressione che salva l'autonomia della morale umana).

Può volere la rettitudine solo chi la conosce e cioè essa riguarda solo gli esseri razionali (uomini o angeli), i quali soltanto possono essere meritevoli di giustizia. Una tale volontà deve essere senza coercizioni esterne, né deve essere voluta per ricompense esterne, o non sarebbe libera. La libertà infatti è poter fare ciò che è giusto perché si sa che è giusto, secondo la definizione di Anselmo: «potere di custodire la rettitudine per la stessa rettitudine».81 C'è quindi una motivazione interna, che non può che derivare dal potere affettivo del desiderio per l'oggetto, il quale muove l'agente. Infatti si potrebbe volere il giusto oggetto ma per cattivi motivi oppure si potrebbe fare la giusta volontà senza desiderarla. B quindi è la forza motivazionale di A. Anselmo distingue però due tipi di motivazioni: propter se e propter aliud che sono anche due gradi, maggiore o minore, della forza affettiva della volontà (cfr. DLA 5). La rettitudine viene donata da Dio prima ancora che gli esseri razionali la «abbiano», cioè prima che decidano di mantenerla.

Si arriva così nel DLA a formulare la questione se una libera scelta (liberum arbitrium) implichi la possibilità di peccare (potestas peccandi) e se abbiamo tale libera scelta sempre a nostra disposizione (se non l'abbiamo sempre allora perché ci viene imputato il peccato?) e quale sia il ruolo della grazia. Dal momento che Dio e gli angeli buoni non hanno il potere di peccare, tuttavia sono liberi, si esclude subito che una libertà di scelta implichi la possibilità di peccare

Per Anselmo la volontà è tanto più libera quanto più è incapace di peccare. Questo argomento è fondamentalmente agostiniano82 oltre che teleologico: la volontà infatti è sempre diretta ad un oggetto (essa è un potere per) ed è diminuita se risulta meno capace di raggiungere il suo scopo. Peccando diventiamo meno liberi perché «perdiamo» la rettitudine. Non peccare invece è mantenere la rettitudine. La volontà perde questa rettitudine perché «si volge via» (convertere, flectere, declinare) dalla rettitudine. L'atto di volgersi via da ciò che Dio dona è azione di C. Questo costituisce un altro slittamento rispetto a Agostino (cfr. supra) che assegnava il volgersi degli angeli al primo atto di volontà attuale, il quale creava poi la disposizione.

Dopo aver perso la rettitudine la creatura razionale non può riguadagnarla da sola (ci vuole la grazia) anche se resta nell'uomo la capacità razionale di riconoscere la rettitudine ma non la forza di volerla (non siamo motivati interiormente a volerla perché non è più oggetto del nostro desiderio). Il peccato insomma, cioè la mancanza di rettitudine della volontà, non toglie la libertà di scelta (A è inalienabile), né la capacità razionale di riconoscerla, ma il desiderio l'appetitum iustitiae, la forza di volerla.

La volontà che ha abbandonato il desiderio non può essere giusta e solo la grazia restaura nell'essere umano tale affectio. Ma abbiamo ancora la possibilità di scelta C perché lo strumento A non è distrutto e nemmeno la ragione che mostra cosa sia vantaggioso. Viene invece distrutto il desiderio (DLA 3-4).83

Le creature razionali infatti sono dotate di rettitudine di volontà ma sono anche libere di abbandonarla. E quando il motivo del mantenere la rettitudine non è più il mantenerla per se stessa, non agiamo più liberamente, ma per un motivo altro, cioè esterno che in qualche modo costringe la libertà, cioè la rende coatta, non più libera. Questo comporta che la libertà per Anselmo sia la capacità di motivarsi internamente (autodeterminazione) e non dipende dalla possibilità di avere varie possibilità di scelta.

2.4. Voluntas e aseità

Il problema trattato in DCD parte dalla domanda se il testo «che cos'hai che tu non hai ricevuto» (1 Cor 4, 7) valga anche per gli angeli. Il maestro risponde che tale frase vale per gli angeli come per tutto il creato dal momento che Dio dà tutto donando l'essere. Poiché il non essere non è, se Dio cessasse di dare, semplicemente nulla sussisterebbe. Anche qui abbiamo un concetto di male fondamentalmente agostiniano, nel senso di privatio boni (cfr. DCD 7-20).84 Si noti l'impianto teo-ontologico.

Se è così, Dio non è responsabile ultimo del peccato delle creature razionali che non sono libere e la cui caduta va attribuita da ultimo a Dio? In realtà Dio dona direttamente solo la volontà B,85 cioè la volontà disposizionale (come una sorta di prote hormè stoica), rispondendo alla quale la creatura razionale mette in atto la sua volontà attuale C che prevede un atto di libera autodeterminazione del soggetto.

Perché la creatura razionale sia davvero libera, però, bisogna che Dio le metta a disposizione non un solo desiderio ma due.86 Questo, che pure a molti sembra la prima teorizzazione del principio delle alternative possibili (=PAP), in realtà sembra non esserlo. L'argomentazione è agostiniana e più che di opportunità aperte esterne alla volontà si tratta del ruolo delle affectiones. Anselmo lo spiega in DCD 12-14. 87

C'è cioè nella creatura razionale una volontà naturale di felicità che consiste nel cercare il vantaggio (commodum) ed evitare l'inconveneinte (incommodum). Questo muove la volontà a cercare altre cose come mezzi per ottenere il bene voluto come fine (per altro). In questa distinzione tra fini e mezzi era stato più esplicito Aristotele, il quale in EN III, 3 aveva affermato che la bouleusis (deliberazione) si fa sui mezzi («una volta posto il fine esaminiamo in che modo e con quali mezzi questo potrà essere raggiunto» 1112b 15-16) mentre in EN III, 4 che «la volontà ha per oggetto il fine» (1113a15); ma anche nell'EN X dove parla del piacere (1172b-1173a) o dove distingue cose da scegliersi per sé da quelle da scegliersi per altro e solo alle prime viene collegata la felicità (1176b1-5).88

In DCD 12 si dimostra che un angelo non può essere creato senza volere nulla. Quindi la volontà come strumento se non dotata di affezione per un determinato oggetto non è di fatto capace di volere nulla.

In DCD 13 Anselmo affronta il caso in cui un angelo fosse dotato del volere solo la beatitudine. Non potendo smettere di volere ciò che desidera -- perché 1) la volontà ha sempre un oggetto e 2) l'unico oggetto è la beatitudine -- allora la sua volontà non potrebbe essere definita né giusta né ingiusta (nemmeno nel caso che volesse cose turpi al fine di ottenere la beatitudine), semplicemente perché agirebbe così perché costretto (necessitate).

Del resto la volontà in se stessa non è cattiva, perché è qualcosa, e quindi è buona perché partecipa dell'essere.

In DCD 14 Anselmo affronta l'altra alternativa. Se questo angelo fosse dotato di una volontà che volesse solo la giustizia (una sorta di morale kantiana antelitteram), anche in questo caso egli non potrebbe smettere di desiderare la giustizia cioè non potrebbe volere altro e dunque ancora una volta la sua volontà non sarebbe libera, perché egli agirebbe per necessità.

Insomma affinché l'angelo sia libero, Dio deve dotarlo di due volontà:

è necessario che Dio faccia in modo che le due volontà in lui si accordino, cosicché egli voglia essere beato e lo voglia giustamente. Sicché con la giustizia datagli, sia moderata la sua volontà di beatitudine in modo tale da ridurre l'eccesso della volontà senza mutarne la potenza. E ciò affinché con la volontà di beatitudine possa superare il suo limite e con la sua volontà di giustizia non voglia invece superarlo cosicché avendo una giusta volontà di beatitudine possa e debba essere beato.89

B e C vengono distinte in base alle categorie aristoteliche di potenza e atto,90 il che stacca Anselmo da Agostino. B sarebbe questa potestas quae praecedit rem (quae nondum est in re) mentre C sarebbe la potestas quae fit cum ipsa voluntate (che iam in re est). La prima può essere per potenza altrui (quindi donata da Dio), la seconda no senza risultare coatta.

Anselmo è dunque agostiniano nella concezione della spinta della volontà come desiderio verso un oggetto (affectus), ma aristotelico quando la vede come affectio cioè determinata e mossa da tale oggetto. La sua definizione di libertà intesa in quanto causa efficiente (DCD 27) 91 sembra aprire poi la strada alla trattazione moderna della libertà che trasformerà la capacità di scelta in se stessa come qualcosa di «divino».92 Infatti Anselmo distingue la terza accezione della volontà, quella attuale, secondo la categoria aristotelica di potenza/atto da quella disposizionale, il che tende a farne una facoltà staccata. Sarebbe importante a questo punto analizzare la differenza tra la libertà di Dio e delle creature razionali nelle loro diverse condizioni (gli angeli prima della caduta, il diavolo e i dannati, Adamo e gli esseri umani prima della morte e i beati), ma lo stretto spazio di questo saggio non lo permette. Infatti benché la definizione della libertà sia la stessa, vi sono tuttavia notevoli differenze.93

Ora la volontà B si presenta come una forma di affectio. Ma nel caso in cui un essere razionale avesse solo l'una o l'altra affectio (se cioè avesse ricevuto solo la volontà della beatitudine, cfr. DCD 13) o solo la volontà della rettitudine (cfr. DCD 14) non sarebbe libero. Infatti non potrebbe smettere da sé di volere ciò che gli è dato di volere, perché non potrebbe volere niente altro che quello che vorrebbe e vorrebbe quindi necessariamente (ex necessitate), cioè non liberamente (sponte). L'azione non sarebbe quindi meritoria, non sarebbe cioè né giusta, né ingiusta, né buona né cattiva, perché il merito deriva dalla sponte (ovvero la volontà C) cioè dalla capacità da parte di un agente di iniziare una azione per suo conto. Nell'un caso e nell'altro caso la responsabilità dell'azione sarebbe da far risalire direttamente a Dio che dona la volontà disposizionale.

La creatura sceglie liberamente anche quando le si presenta una sola possibilità di scelta, perché è l'assenza di costrizione e non la presenza di più alternative a rendere libera una scelta.94

Nasce il problema di capire in che modo il diavolo peccò.

2.5. La caduta del diavolo: un caso di eccesso di desiderio e di disaffezione

La risposta di Anselmo sul perché il diavolo è caduto, è in linea con l'idea di male come privatio. Ma poiché Anselmo suppone che la concupiscenza dei diavoli e il desiderio degli angeli buoni siano una modalità della volontà (DCD 7, p. 79) 95 si può dire anche che la caduta del diavolo è dovuta proprio ad un atto di disaffezione, in modo particolare nei confronti della rettitudine e di un eccesso di desiderio nei confronti della felicità.

Il diavolo volle qualcosa che non aveva, era qualcosa che non doveva volere e volle qualcosa contro Dio (prima che Dio lo volesse). Di che cosa si tratta?

Se torniamo a considerare la volontà disposizionale, vediamo che essa si presenta come una inclinazione determinata (afficio) da due «oggetti» interni: vantaggio e rettitudine. Il primo inerisce sempre al soggetto il secondo no. In Dio beatitudine e giustizia non sono diverse ma un unico bene (cfr. DCD 12, p. 103)

Di fatto le creature razionali possono abbandonare (privatio) solo Bb come abbiamo visto in DC 3, 11, perché Ba è qualcosa che sempre resta inerente alla volontà (anche perché senza oggetto la volontà non c'è). Perduta l'affectio rectitudinis, però, la creatura si ritrova a desiderare la sua felicità e tutto ciò che può accrescerla (Ba) ma smodatamente (DCD 4). Gli unici due oggetti della volontà sono vantaggio o giustizia, ma se il diavolo avesse desiderato la giustizia non avrebbe peccato. Quindi desiderò un vantaggio (Ba) senza giustizia (Bb) ovvero desiderò ciò che non doveva, cioè smodatamente: «volendo disordinatamente (inordinate) più di quanto aveva ricevuto, prevaricò la giustizia con la sua volontà» (p. 71). Si chiarisce quindi che il diavolo non desidera un ulteriore oggetto fuori da questi due, ma «non volendo ciò che doveva», desidera la più grande felicità possibile che è quella di Dio, senza limiti.96 Il suo è di fatto un abbandono, una disaffezione della volontà dalla rettitudine e un eccesso di desiderio di beatitudine.

In sintesi il diavolo «volle ciò che non aveva e che allora non doveva volere»97 (avendo perduto Bb); «peccò volendo qualche vantaggio»98 e cioè (=Ba) «volendo disordinatamente più di quanto aveva ricevuto»99 perché ha Ba ma non ha più Bb e cioè desiderò senza rettitudine. La rettitudine è volere ciò che si deve, così il diavolo si ritrovò «sbilanciato» «volendo ciò che non doveva e non volendo ciò che doveva»100 perché vuole Ba ma senza rettitudine «e non volendo ciò che doveva» cioè avendo rinunciato a trattenere Bb.

Come accadeva in Agostino, anche Anselmo afferma che il desiderio degli angeli cattivi si trasforma in concupiscenza, la sola affectio per la propria beatitudine (o vantaggio o comodo), li porta a desiderare tale vantaggio (quella una spinta creata da Dio perché potessero progredire per proprio merito!) oltre ogni misura e giustizia.

È interessante notare che il desiderio inordinate del diavolo torna ad avere una caratterizzazione molto simile alla hormé pleonazousa degli stoici. Il diavolo quindi non ha desiderato un oggetto diverso o esterno al naturale desiderio iscritto da Dio in tutte le creature. Ha invece rinunciato a desiderare Bb (ecco l'idea di privatio) cioè «a volere ciò che doveva» con un atto di volontà attuale (C).

Poiché la volontà giusta è conforme al volere di Dio, l'abbandono dell'affectio per la rettitudine significa anche ritrovarsi con una volontà contraria a quella di Dio: questa volontà è quindi volere qualcosa di propria volontà (propria voluntate) senza obbedire a nessuna volontà superiore (subdita). Ecco come Anselmo spiega che il diavolo volle divenire simile a Dio:101 pretese di avere una propria volontà, senza una volontà superiore (senza limiti), ma questo è prerogativa solo di Dio.

2.6. Volontà e conoscenza

La funzione della conoscenza all'interno dell'atto volitivo ci permette di vedere un maggiore stacco di Anselmo dalla tradizione platonico-agostiniana e forse anche stoica.

Già nel DLA Anselmo aveva rilevato il ruolo della ragione nell'atto di volontà. Esso è assegnato esclusivamente a C (cosa impensabile per la tradizione platonica e per Agostino del trin). Probabilmente questo campo è quello in cui si può ipotizzare un maggiore influsso di Aristotele. La trattazione di Anselmo ricorda molto da vicino quella di EN III, 1. Qui Aristotele definisce la volontarietà di un atto affermando che esso deve avere 1) principio in se stesso (1110a17) e infatti chiamiamo forzate le azioni al cui causa risiede in circostanze esterne (1110b1-3); 2) che un atto diventa involontario se avviene per ignoranza; quindi (1110b20 ss). Tuttavia si pongono dei problemi. Le prime traduzioni latine del EN sembrerebbero successive al periodo di Anselmo. Non potendo che ipotizzare la circolazione di Aristotele in modi a noi sconosciuti, si potrebbe tentare di vedere se non sia il concetto di assenso stoico a venire qui ripreso.

Sulla base del fatto che verità, giustizia e rettitudine sono definibili reciprocamente, così che conoscendo uno si può inerire anche l'altro (DV 12), la giustizia è collegata alla verità (perché «la verità è la rettitudine percepibile solo dalla mente», DV 11, s. 191). Essa dunque non è in una natura che non può comprendere cosa sia la rettitudine (DV 12), quindi in esseri inanimati o negli animali; perché solo chi conosce la rettitudine può volerla, chi non la consoce non può nemmeno volerla. Quindi poiché ogni giustizia è rettitudine, solo le nature razionali posseggono la rettitudine che li può rendere meritevoli o biasimevoli di lode/giustizia.

È questa a dare ad una persona la coscienza del fine per cui agisce, desidera, vuole ed è questa a rendere chi è dedito totalmente ad uno scopo, diverso da chi agisce in modo compulsivo o è del tutto in balia dei suoi desideri come un drogato.102 Del resto la definizione boeziana della persona (individua sostanza di natura razionale) emerge qui: la persona per essere felice deve sapere ciò che è desiderabile in se stesso, se desidera ciò che sa che deve desiderare. Chi non desidera ciò che deve desiderare rischia di restare danneggiato da ciò che desidera, perché lo trova desiderabile. È la razionalità a farci capire come possiamo trovare i mezzi con cui arrivare al fine desiderato, infatti ci sono oggetti giusti e oggetti sbagliati. Il motivo stesso per cui Dio ha creato gli esseri razionali è perché essi discernessero tra giusto e ingiusto in vista del raggiungimento della felicità che consiste nel fruire di Lui (Cur Deus Homo=CDH II, 1).103

Solo chi ama ciò che vuole e sa cosa deve volere è felice. Infatti si può sapere cosa sia la giustizia senza volerla, o si può attuare ma senza desiderarla, oppure volerla per cattivi motivi: in nessuno di questi casi l'essere razionale agisce giustamente. Quindi solo l'atto di volontà rende l'uomo giusto. La giustizia non è rettitudine della conoscenza o dell'azione ma della volontà.

Tuttavia, ogni volontà deve avere un perché e un oggetto, infatti qualsiasi cosa si vuole, si desidera per una ragione. Perché una volontà sia giusta, deve volere ciò che si deve (oggetto) e per la ragione per cui si deve.

Per Anselmo solo tramite la giustizia la creatura razionale può raggiungere la felicità. Infatti non chiamiamo giusta una pietra dal momento che essa, pur facendo ciò che deve, tuttavia non lo sceglie; né un cavallo è giusto per il semplice fatto che vuole mangiare, perché lo fa spontaneamente.104 La giustizia può esserci solo in chi la può riconoscere e scegliere per rette ragioni e per suo proprio potere (DV 12). D'altra parte la creatura razionale non può essere felice se non è giusta (CDH III, 10).

Nel Monologion 68 la razionalità è definita come ciò che ci fa distinguere giusto e sbagliato.

Un cavallo (cfr. DV 12) non può volere la rettitudine perché anche se desidera ciò che deve non sa che ciò che desidera sono cose che deve desiderare. Egli vuole certe cose ma non sotto la categoria «giuste», né di altro genere perché non ha capacità di categorizzazione.

Un cane (cfr. DLA 13) può mantenere una rettitudine di volontà amando i suoi cuccioli o il padrone che si prende cura di lui, ma lo fa naturalmente (naturaliter), la sua mancanza sta nel fatto di volere naturalmente. Infatti volere la rettitudine significa in questo caso volerla formalmente, cioè non solo volere rettamente ma volere ciò che è considerato giusto. Non basta volere ciò che è giusto, ma bisogna volerlo perché si sa che è giusto (cioè per se stesso e non per altro motivo).

In DLA 4, come già abbiamo visto, si afferma che una perfetta libertà di scelta implica la capacità razionale di distinguere e sapere ciò che è giusto.

Una scelta libera implica quindi agire per il bene e riconoscere il giusto. Seguire il fine è l'atto più razionale: poiché Dio dà la libertà con lo scopo di farci raggiungere tramite le nostre proprie azioni la mèta migliore, allora agiamo tanto più liberamente quanto più seguiamo il fine. Del resto seguire tale fine è l'atto più razionale da fare. Ogni volontà deve quindi avere un che (e cioè l'oggetto del desiderio) e un perché (cioè l'oggetto della conoscenza) infatti non vogliamo nulla senza ragione, cioè senza un fine (DV 12). La persona giusta conosce il fine e ha il potere necessario per raggiungerlo. Più una persona sa perché e cosa fa e più è libera.

Di qui capiamo che il concetto di volontà in Anselmo comporta ciò che diceva Aristotele cioè che la scelta sia «un desiderio che ragiona o un intelletto che desidera» (1139b). Abbiamo già visto che secondo la distinzione dei tre aspetti della volontà, A non è di fatto capace di volere nulla se non è dotata di una affezione per un oggetto. Tuttavia B e C sono distinte soprattutto in base al fatto che B è una volontà che desidera il suo oggetto anche senza che lo si pensi, per esempio quando dormiamo, mentre C si attua solo quando vogliamo qualcosa a cui coscientemente pensiamo. Possiamo quindi dire che in Anselmo c'è una suddivisione tra desiderio e conoscenza, anche se non una separazione.

Un altro aspetto collegato alla conoscenza è quello dei futuri contingenti, concetto ripreso dal libro IX del De interpretazione di Aristotele, disponibile ad Anselmo in latino nella traduzione di Boezio. Anselmo affronta questo tema dapprima in DV (12) e poi torna sulla questione dettagliatamente in DCD 21-25. Il problema sottostante a tali capitoli è il tentativo di armonizzare la prescienza di Dio con il libero arbitrio (che sarà poi tema esplicito del CD). In modo particolare si cerca di capire il ruolo della conoscenza nella libertà del diavolo quando non volle ciò che volle (DCD 22) e della libertà degli angeli beati in rapporto alla conoscenza della pena del diavolo (DCD 25). Non possiamo qui inoltrarci nelle analisi di Anselmo, che comportano tra l'altro l'entrata in gioco della funzione della conoscenza per esperienza.

3. Da Agostino ad Anselmo: variazioni e sottrazioni

I rilievi conclusivi che si possono fare a partire da questa sintetica presentazione di un confronto tra Anselmo e Agostino sono almeno di quattro livelli: il rapporto tra Anselmo e Agostino; il rapporto tra Anselmo e il monachesimo; il rapporto tra Anselmo e la Scolastica del XIII sec.; e l'attualità che il pensiero anselmiano ha nel dibattito odierno sulla libertà. Tutti temi che meriteranno diffuse analisi in altra sede.

Con l'introduzione due affectiones Anselmo reduplica il concetto di bene: la nostra volontà si trova ad avere due oggetti distinti, non necessariamente in conflitto, ma che posso anche entrare in conflitto. Gli stoici malamente riuscivano a spiegare la debolezza della volontà: ammettevano ora una oscillazione temporale (velocissima e inconscia) magari tra due possibilità (due giudizi successivi o simultanei), ora una teoria degli impulsi in conflitto (Platone), ma sempre unico era il bene da raggiungere e cioè la virtù che coincideva con la felicità. Anselmo inserisce il concetto di commodum -- secondo Trego il Doctor magnificus sarebbe il primo ad usarlo in modo sistematico -- dandogli valore positivo (DC 3,13) contro tutta la tradizione antica e soprattutto stoica (che lo considerava opposto alla felicità). Non solo: il commodum assume anche una caratteristica spirituale, al contrario da come accadeva nella tradizione aristotelica dove era considerato solo in modo materiale. Così però il ben-essere può non coincidere con l'essere-bene, quindi con il concetto di commodum, vediamo restringersi il concetto di bene.

Questo raddoppiamento del bene dà all'etica di Anselmo una nuova configurazione: essa appare maggiormente fondata sulla libertà stessa (già evidente nel diverso titolo che Anselmo dà alla sua opera rispetto ad Agostino: de libertate arbitrii). Così mentre in Agostino la felicità coincide con l'unico bene che è l'amore di Dio, Anselmo riformula la relazione tra virtù e felicità tipica degli stoici, in quanto il commodum, di per sé non malvagio, apre una nuova possibilità alla morale.

L'introduzione del concetto di affectus nel DC per la definizione della volontà implica inoltre che entrambe la volontà del bene come la volontà di giustizia in quanto affètte non sono libere, e che il loro oggetto risulta tutto da cercare. Trego sottolinea come Anselmo introduca una sorta di separazione (tutta moderna) tra uomo e natura nel senso che naturalmente l'uomo non è più -- come nell'etica antica -- naturalmente portato al bene, ma diventa l'etica il luogo di questa ricerca.

Non basta annotare i cambiamenti di terminologia senza collocarli anche all'interno della storia della teologia. Non va scordato quindi che se in epoca patristica il mistero dell'incontro tra uomo e Dio prese la forma in Oriente della riflessione sulle due nature in Cristo, in Occidente prese quello della riflessione sulla grazia.

Ma dal momento che Pelagio aveva quasi eticizzato la grazia, in Agostino la forma etica ha un maggiore accento su quella ontologica. Ma Agostino traspone anche il concetto di eros in campo etico, che se determina una radicale positività e gioia nell'ascesi, porta anche ad una estremizzazione emozionale che declina sul concetto di concupiscenza. L'impianto etico primario carica anche il singolo uomo e la volontà umana di una capacità negativa nell'atto di defezione (attuale) che poi ha bisogno di una dottrina del peccato originale affinché tutto il male non sia addossato sul singolo atto di un singolo individuo storico che porterebbe tutta la colpa del male.

Nell'impianto teo-ontologico di Anselmo invece prevale chiaramente la radicale forma divina dell'umano. L'impianto maggiormente teo-ontologico si delinea già dalla concezione di creazione come dono dell'essere (e quindi dal concetto di male come privatio, anzi come privatio debiti boni e quindi deve riferirsi ad un bene dovuto).105 La concezione di creazione come dono dell'essere (de-habere e male come privatio debiti boni) implica che in Anselmo i desideri sono tutti buoni, anche quello del diavolo di essere come Dio. Questo impianto vive indubbiamente della discretio della positività dell'antropologia benedettina. Non c'è nulla di intrinsecamente negativo nel vantaggio proibito, nemmeno nel desiderare di essere come Dio (!). E siamo anche lontani dall'interpretazione kantiana per cui il desiderio di vantaggi è sempre cattivo perché egoistico mentre il desiderio della giustizia fonda l'etica del dovere per il dovere. La rettitudine in Anselmo non deriva principalmente dalla rettificazione morale ma dalla verità teologica dell'uomo e la conversio che fa defezionare il diavolo non è qualcosa di intrinsecamente cattivo, ma una perdita, uno squilibrio all'interno della suddivisione di desideri che restano buoni.

Agostino ritiene che sia assurdo pensare che un agente possa migliorare da solo. Anselmo non sarebbe d'accordo perché afferma che Dio dona la libertà volontà perché le creature possano progredire da sole, una frase che forse Agostino avrebbe trovato troppo pelagiana.106

Il concetto di felicità collegarsi a quelli di merito/retribuzione/ricompensa o ai paralleli di pena/punizione/soddisfazione e qui risulta un ulteriore stacco di Anselmo da Agostino. Se in Agostino la pena era insita alla stessa disobbedienza a Dio (sulla base dell'antica identificazione tra virtù e felicità e tra felicità e bene e tra bene e Dio), e quindi l'infelice era tale perché ingiusto, ora la felicità viene dall'esterno ed ha Dio come agente. Questo implica che la volontà si stacca dalla natura perché l'ordine non è solo e unicamente quello naturale. Per Anselmo cioè l'uomo è talmente libero da poter intervenire nell'ordine/ordinamento di Dio e modificarlo. Si può fare come Dio non vuole, insomma, ma la potenza di quest'atto capace di sovvertire l'ordine stesso di Dio, implicherà che Dio debba riportare tutto all'ordine/bellezza tramite la punizione di colui che l'ha violato. Lo iubere di Dio quindi si identifica come abbiamo visto con l'ordine/ordinamento del cosmo da parte di Lui. La pena quindi non è una conseguenza diretta del peccato ma è inflitta dall'esterno. Lo stesso concetto di pena implica l'idea di una accettazione ovvero il fatto che essa non sia di per sé immediata. Così, ancora una volta, se l'impianto agostiniano implica che la felicità si costituisca come fedeltà al nostro essere, quello anselmiano deriva da una fedeltà dell'uomo a ciò che gli è stato donato. Sia la ricompensa che il meritano mostrano comunque la dipendenza dell'essere umano dalla grazia di Dio. Qui Trego dimostra lo slittamento del vescovo di Canterbury anche sul concetto di essere rispetto all'ontologia antica.

Agostino riflettendo sullo stato post-lapsario accentua il ruolo delle abitudini che Anselmo sembra tralasciare.

Anselmo non stacca né divide il desiderio dalla conoscenza, tuttavia è anche chiaro che B e C vengono distinte (aristotelicamente) in un modo che sarebbe stato impossibile per Agostino e che permetterà agli autori successivi di parlare di conoscenza, amore e volontà come di facoltà separate. Duns Scoto poi riprenderà, non senza elaborarle, le due affectiones della volontà individuate da Anselmo per contrastare Tommaso.107

Ecco che la giustizia non risulta in lui più semplicemente come il raggiungimento del fine del nostro essere ma riguarda solo la volontà (secondo Trego abbiamo qui una restrizione, essa cioè è intesa come una parte del nostro essere). Si tratta di volere ciò che Dio vuole per noi come bene. La virtù si identifica ora per Anselmo con la sola giustizia (altro restringimento: in antichità la virtù era rappresentata dalle quattro virtù principali). E poiché la giustizia si comprendere a partire dalla rectitudo che riguarda il fine di tutte le facoltà, la volontà viene di fatto pensata sulla scorta di ogni altra facoltà ovvero non a partire dall'intera persona umana ma dell'essere, ovvero dell'atto di qualunque essere. Così la specificità dell'uomo è posta in secondo piano rispetto ad altre creature (comprendendo l'interesse di Anselmo per il Diavolo). E per questo Trego può affermare che il nuovo concetto di essere qui implicato comporta che la scelta e la decisione siano poste per Anselmo ad un livello ontico.108

Ecco perché parlando di una potenza inalienabile nell'uomo, Anselmo apre la strada a rendere la libertà qualcosa di a sé stante, per cui si capisce perché gli odierni dibattiti circa la libera scelta, il ruolo delle alternative possibili nella definizione di libertà e la definizione di persona intesa come struttura gerarchica delle volontà, risultano profondamente debitrici ad Anselmo e non è un caso che in questi dibattiti e/o a partire da tali studi si torni a riflettere su questo grande benedettino.109

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Note

  1. Cfr. B. Davies -- B. Leftow, «Introduction», in B. Davies -- B. Leftow (ed.), The Cambridge Companion to Anselm, Cambridge 2004, 1-4, qui 1; S. Nash-Marshall, «Free Will, Evil, and Saint Anselm»: The Saint Anselm Journal 5.2 (Spring 2008), 1-23, qui 1. Testo

  2. Cfr. M. Dreyer, «Veritas-rectitudo-iustitia. Grundbegriffe ethischer Reflexion bei Anselm von Canterbury»: Recherches de Théologie et Philosophie Médiévales 64 (1997), 67-85, qui 68; J.E. Brower, «Anselm on Ethics», in Davies -Leftow (ed.), The Cambridge Companion to Anselm, 222-256, in particolare 22 e 251. In occasione del centenario appena celebrato si sono viste pubblicate diverse ricerche sull'aspetto etico del pensiero di Anselmo, cfr. nota 4 infra. Testo

  3. Cfr. S. Tommaso cita il De libertate arbitrii III in Quaestiones disputanda 46: se la libertà sia la capacità di scegliere rettamente. Testo

  4. Cfr. Rohmer, La finalité morale chez les théologiens de saint Augustine à Duns Scot, Paris 1939; R. Pouchet, La rectitudo chez Sanit Anselme. Un itinéraire augustinien de l'âme à Dieu, Paris 1964; G.S. Kane, Anselm's Doctrine of Freedom and the Will, New York-Toronto, 1981; K. Rogers, Anselm on Freedom, Oxford 2004; P. Palmeri, Voluntas e rectitudo nella riflessione etico-filosofica di Anselmo d'Aosta, Palermo 2009; magistrale nella trattazione risulta K. Trego, L'essence de la liberté. La refondation de l'éthique dans l'œuvre de saint Anselme de Cantorbéry, Paris 2010, che mostra acutamente gli slittamenti semantici di Anselmo sui concetti di bene, giustizia ed essere rispetto all'etica antica che implicano una riformulazione della fondazione stessa dell'etica. Testo

  5. Cfr. Rogers, Anselm on Freedom, 55. Testo

  6. J.M. Rist «Desiderio e azione. L'eredità del mondo antico», in: Azione e persona: le radici della prassi, a cura di L. Alici, Milano 2002, 29-44, qui 41; Rist è convinto che uno studio attento dei debiti e delle differenze da Agostino rilevabili nel concetto (trasformato) di voluntas in Boezio e Anselmo comporterebbe una revisione considerevole di tanto di ciò che è stato scritto sulla storia di questo concetto, cfr. J.M. Rist, «Love and Will. Around De Trinitate XV,20,38», in J. Brachtendorf, Gott und sein Bild: Augustins De Trinitate im Spiegel gegenwärtiger Forschung, Paderborn 2000, 205-216, qui 206-207. Testo

  7. Su questo argomento è tuttavia in progetto un volume specifico che tratti più approfonditamente della questione. Testo

  8. Gran parte delle analisi di questa sezione sono riprese da S. Byers, «The Meaning of Voluntas in Augustine»: Augustinian Studies 37/2 (2006) 171-189; cfr. anche B. Inwood, Ethics and Human Action in Early Stoicism, Oxford 1985, 20; 53; ma già J.M. Rist, Augustine. Ancient Thought Baptized, Cambridge 1994. Testo

  9. Cfr. R. Sorabji, Emotion and Peace of Mind. From Stoic Agitation to Christian Temptation, Oxford 2000; J. Sihvola -- T. Engberg-Pedersen (edd.), The Emotions in Hellenistic Philosophy, Dordrecht 1998; J.M. Cooper, Reason and Emotions. Essays on Ancient Moral Psycology and Ethical Theory, Princeton NJ, 1999. Testo

  10. Cfr. S. Byers, «Augustine and the Cognitive Cause of Stoic 'Preliminary Passions' (Propatheiai)», in Journal of the History of Philosophy 41 (2003) 4, 433-448. Testo

  11. Idea diversa da quella moderna per cui le emozioni sarebbero stati d'animo senza contenuto cognitivo, cfr. Rist, Desiderio e azione, 42. Testo

  12. Cfr. T. Brennan, «The Old Stoic Theory of Emotions», in: Sihvola-Engberg-Pederson, Emotions, 21-70. Testo

  13. Cfr. B. Zorzi, Desiderio della Bellezza (ερως του καλου) da Platone a Gregorio di Nissa. Tracce di una rifrazione teologico semantica, Roma 2007, 128-130. Testo

  14. Cfr. Byers, Augustine and the Cognitive Cause, 433-448. Testo

  15. «V'è inoltre la spinta o stimolo dell'agire (impetus vel appetitus actionis), se in questi termini giustamente si traduce in latino quelle spinte che i Greci chiamano hormen, poiché anche essi l'assegnano ai beni primi di natura. Ed è proprio questa spinta con cui, quando è sconvolta la mente e offuscata la coscienza, si compiono movimenti e gesti degni di pietà che ci fanno rabbrividire.» Testo

  16. Ciu. IX,3: «anche la volontà umana è causa di azioni umane». 9,4: «Infine le cause volontarie sono o di Dio o degli angeli o degli uomini o anche dei vari animali se tuttavia si possono considerare volontà i movimenti di anime prive di ragione con cui esse, nell'appetire o fuggire, compiono azioni secondo la propria natura. Quando parlo della volontà degli angeli, intendo tanto di quelli buoni che chiamiamo semplicemente angeli di Dio come di quelli cattivi che chiamiamo angeli del diavolo o anche demoni. Altrettanto si dica degli uomini, tanto dei buoni come dei cattivi. Se ne conclude che le cause efficienti di tutti i fenomeni non sono che volontarie, cioè di quell'essere che è spirito di vita.»; cfr. anche lib. arb. I,11,21; III,1,2. Testo

  17. Quanto Agostino sia debitore nei confronti dell'interpretazione stoica di hormé si può vedere in altri testi come de ciu. XII; XIV; conf. VIII; e tramite la connessione tra lib. arb. e Gn. litt. IX e ciu. V. Testo

  18. Cfr. Inwood, Ethics, 190-193. Testo

  19. Cfr. ep. Io. tr. IX,2,3; lib. arb. III,6,18-7,21; ciu. XIV,25; s. 299,8; cfr. Rist, Love and Will, 208. Testo

  20. Byers, The Meaning of Voluntas 175-180. Testo

  21. XII,1,2: «Non si può dubitare che le opposte tendenze (appetitus) degli angeli buoni e cattivi non sono derivate da opposti fattori e principî, poiché Dio, autore e creatore buono di tutti gli esseri, ha creato gli uni e gli altri, ma dalle rispettive volontà e inclinazioni (cupiditates).» Testo

  22. Cfr. Kahn, Discovering the Will, 241. Testo

  23. XII,1, 2: «Altri invece, smaniosi di un proprio potere, come se fossero un bene a se stessi, sono scesi dal sommo beatificante bene universale ai beni particolari e, sostituendo l'ostentazione dell'orgoglio alla più alta eternità, l'inganno della menzogna alla verità più evidente, il gusto della fazione all'unificante carità, divennero superbi, menzogneri, portatori di odio. Categoria dunque della loro felicità è l'essere uniti a Dio e pertanto la categoria della infelicità dei ribelli si deve rilevare dal contrario che è il non essere uniti a Dio. Perciò se la giusta risposta alla domanda perché gli uni sono felici è che sono uniti a Dio, e alla domanda perché gli altri sono infelici è che non sono uniti a Dio, e perché soltanto Dio è il bene della creatura ragionevole o intelligente in ordine alla felicità. Non ogni creatura è capace di felicità perché le bestie, le piante, le pietre e altre del genere non hanno e non conseguono questo dono. Tuttavia quella che ne è capace, non lo può da sé, poiché è stata creata dal nulla, ma da lui che l'ha creata. Raggiungendolo è felice, perdendolo è infelice. Ed egli che è felice non da altri, ma perché è bene a se stesso, non può divenire infelice perché non può perdere se stesso.» Testo

  24. Ciu. XI,17-12,9; XII,3.6.9; conf. VIII,5,10. Testo

  25. Cfr. Rist, Love and Will, 209. Testo

  26. Conf. XIII,32,47; II,9,17; X,20,29; trin. IX,12,18 etc. cfr. Byers, The Meaning of Voluntas, nota 46. Testo

  27. Cfr. The Meaning of Voluntas, 179. Testo

  28. Cfr. Rist, Augustine: Freedom, 13-14, ritiene che voluntas in Seneca potrebbe essere il tentativo di traduzione del concetto di prohairesis così come emerge in Epitteto, il quale insiste sul carattere morale della libertà di scelta, cioè ciò che si ha in proprio potere di fare senza essere determinati da ciò che accade (al corpo per esempio), cfr. 12. Testo

  29. Come affermano A. Dihle, The Theory of Will in Classical Antiquity, Berkeley-Los Angeles-London 1982 e C. Kahn, Discovering the Will, 234-259; cfr. Byers, The Meaning of Voluntas, 173, n. 18; Rist, Augustine: Freedom, 7. Testo

  30. Cfr. Rist, Agostino. Il battesimo del pensiero antico, Milano 1997, 237-239; Byers, The Meaning of Voluntas, 182-188. Anche libera voluntas, cfr. lib. arb, III. Testo

  31. Lib. arb. I,16,34-35. Testo

  32. Conf. VIII,5,10-11; 9,21; 8,19; 10,24; Cfr. Byers, The Meaning of Voluntas, 180-182. Testo

  33. Cfr. Rist, Augustine: Freedom, 10; Id., Agostino, 197-266. Testo

  34. Cfr. Rist, Love and Will, 210. Testo

  35. Cfr. Zorzi, Desiderio, 401-408. Testo

  36. Cfr. Rist, Love and Will, 213; per Agostino la fede è un pensare con assenso (praed. sanct. II,5; spir. et litt. XXXI,54; XXXIV,60). Testo

  37. Cfr. Rist, Augustine: Freedom, 10. Testo

  38. Cfr. Rist, Augustine: Freedom, 10, secondo il quale questo senso di voluntas è rivoluzionario. Testo

  39. Cfr. Rist, Love and Will, 214. cfr. Id., «Plato says that we have tripartite souls: if he is right, what can we do about it?», in: Sophies Maihtopes. «Chercheurs de sagesse», hommage à Jean Pépin, M.O. Goulet-Cazé et al. (éd.), (Collections des Études Augustiniennes. Série Antiquité 131), Paris 1992, 103-124. Testo

  40. Cfr. Rist, Augustine: Freedom, 10-11. Testo

  41. Cfr. trin. XI,2,5; XV,21,41; cfr. Rist, Love and Will, 208. Testo

  42. Cfr. Rist, Augustine: Freedom, 17. Per Mario Vittorino è Cristo ad essere identificato alla voluntas, cfr. c. s. Adv. Ar. I,31,22,31; I,52,22; ad Cand. XXII,8; in questo Vittorino segue Atanasio, cfr. Rist, Love and Will 207. Testo

  43. Cfr. trin. XV,21,41; cfr. Rist, Love and Will, 207-209 Testo

  44. Cfr. J.M. Rist, «What Will I Be Like Tomorrow? Augustine vs. Hume»: American Catholic Philosophical Quarterly 74 (2000) 1, 95-114, qui 98. Testo

  45. L'idea che non siamo «sostanze» diverse, deriva direttamente dalla polemica antimanichea. Testo

  46. In particolare trin., prol. 9. Testo

  47. Cfr. conf. I,1,; E. de la Peza, El significado de 'cor' en San Augustín, Paris 1962; «Personal identity is not to be seen, in the manner of Hume and most more recent students, as a problem primarily of the continuation of the «same» (knowing, conscious) self, but as a problem of our ability to grasp the variable nature of the continuing moral self and moral agent», Rist, What will I Be like, 100. Testo

  48. Cfr. Rist, What will I Be like, 103-104. Testo

  49. Cfr. Rist, Agostino, 230, dove mostra che sulla base della frase voluntas praeparatur a Domino di Prv 8,35 Agostino spiega che il nostro amore per Dio è dono di Dio, cfr. A. Sage, «Praeparatur voluntas a Deo», Revue des études augustiniennes 10 (1964) 1-20. Testo

  50. Cfr. Rist, Desiderio e azione, 44. Testo

  51. Diu. qu. 66,3; exp. prop. Rm. 13-18; Cfr. Rist, Agostino, 192, n. 105. Testo

  52. Cfr. Rist, Augustine: Freedom, 16. Testo

  53. Cfr. Rist, Desiderio e azione, 43-44. Testo

  54. Cfr. Rist, Love and Will, 215. Testo

  55. Cfr. Brower, 251. Testo

  56. F. Baeumker, Die Lehre Anselms von Canterbury über den Willen und seine Wahlfreiheit, Münster, Aschendorff, 1912; G.S. Kane, Anselm's Doctrine of Freedom and the Will, New York-Toronto, 1981 o il recente volume già citato di K. Rogers, Anselm on Freedom, (2008); B. Goebel, Rectitudo. Wahrheit und Freiheit bei Anselm von Canterbury, Münster, Aschendorff, 2001. Di recente pubblicazione: K. Trego, L'essence de la liberté. La refondation de l'éthique dans l'œuvre de saint Anselme de Cantorbéry (2010). Va segnalato anche The Saint Anselm Journal che fin dalla sua comparsa nel 2003 ha dedicato le sue pubblicazioni soprattutto ai temi morali anselmiani (http://www.anselm.edu/library/saj/sajindex.html). Testo

  57. M. Parodi, Il conflitto dei pensieri. Studio su Anselmo d'Aosta, Bergamo, 1988; A. Porso, La libertà. Il 'De libertate arbitrii' di Anselmo d'Aosta, Rome, 1991, che contiene anche traduzione con testo a fronte del trattato. Rallegra la recente pubblicazione dedicata esplicitamente al tema di P. Palmeri, Voluntas e rectitudo nella riflessione etico-filosofica di Anselmo d'Aosta (2009), che tuttavia non colloca Anselmo all'interno della storia della teologia.Testo

  58. R.W. Southern, Anselmo. Ritratto su sfondo, Milano 1998, 177. Testo

  59. Il testo in latino delle opere di Anselmo è citato secondo l'edizione critica Anselmi Cantuariensis Archepiscopi, Opera omnia Vol.1, ed. F.S. Schmitt, Edinburgh 1946, (=s.). Per la traduzione del DCD ci riferiamo all'edizione di G. Elia -- G. Marchetti, La caduta del diavolo, Milano 2006.Testo

  60. Cfr. Ep. 77, I,68, M, prol.; cfr. Southern, Anselmo., 71-92; G.B. Matthews, «Anselm, Augustine, and Platonism», in B. Davies -- B. Leftow (ed.), The Cambridge Companion to Anselm, Cambridge 2004, 61-83, qui 61 e 81 che mette in evidenza anche il comune platonismo di base. Testo

  61. Southern, Anselmo., 77. Testo

  62. Matthews, Anselm, 62. Testo

  63. Il DV si occupa di Gv 14,6 (Gesù si identifica alla verità); 1Gv 5,6 (lo Spirito Santo è identificato alla Verità) e Gv 3,21 dove si dice «fare la verità»; qui in vista di comprendere come Dio sia verità, Anselmo usa la filosofia. Nel DLA Anselmo intraprende le sue argomentazioni filosofiche per capire il testo di Gv 8,34 (chiunque commette il peccato è schiavo del peccato). Nel DCD si occupa di 1 Cor 4,7 (che cosa hai che tu non abbia ricevuto) e di Gv 8,44 (il diavolo non si mantenne nella verità). Testo

  64. Cfr. T. Williams, «Introduction to Three Philosophical Dialogues», in Anselm, Three Philosophical Dialogues: On Truth, On Freedom of Choice, On the Fall of the Devil, ed. T. Williams, Indianapolis IN 2002, vii-xiv, qui vii-viii. William evidenzia che non è solo la nostra diversa concezione di cosa sia esegesi biblica a renderci un po' strana l'affermazione di Anselmo, ma il modo moderno di rapportarsi a tali questioni filosofiche che cambia. La motivazione che muove Anselmo all'argomentazione filosofica è la fede. Questo implica che noi moderni non possiamo dimenticarci, leggendolo, che spesso Anselmo non ha esattamente le nostre stesse preoccupazioni anche se tratta argomenti che interessano anche noi, tuttavia possiamo avere risposte anselmiane a domande non anselmiane che forse aiutano anche il dibattito odierno probabilmente facendoci porre in esso in un diverso modo di approccio e prospettiva, cfr. Williams, Introduction, xiv. Si ricordi la chiusa del DLA che implica tutto un universo prospettico diverso dal nostro postmoderno: «non ho bisogno dell'autorità della Scrittura perché adeguatamente la conosco e la accetto in quelle cose che sono pertinenti a ciò che cerco» (DLA 14) Testo

  65. Williams, Introduction, «removing the imprecision of ordinary language is as much a part of scriptural exegesis as it is of philosophical analysis», xiii. Testo

  66. Stesso problema si era posto Agostino all'inizio del suo lib. arb. Una dettagliata comparazione delle due trattazioni andrà affrontata in altra sede. Testo

  67. Corrept. VI,9. Testo

  68. Cfr. Anselm, 57 e 68. Testo

  69. In DC 1,6, Anselmo ipotizza il caso di restringimento dei vari campi in cui si esercita la libertà, alla sola scelta che riguarda la salvezza. Testo

  70. Stessa suddivisione era già stata avanzata in DLA 3; 4 (dove si parla di quattro potenze tenendo conto della suddivisione in due della seconda) e 7. Testo

  71. Cfr. G.B. Sadler, «Freedom, Inclination of the Will, and Virtue in Anselm's Moral Theory»: Proceedings of the American Catholic Philosophical Association 81/1 (2008), «Freedom, Will, and Nature», 91-108. Testo

  72. Aristotele spiega che l'oggetto (o il pensiero dell'oggetto) della facoltà appetitiva causa il movimento dell'appetito verso l'oggetto; questo fu un testo base della discussione medievale circa il ruolo dell'intelletto e della volontà nella libera scelta, cfr. J. Incandela, «Duns Scotus and the Experience of Human Freedom»: The Thomist 56/2 (1992) 229-56, qui 237. Tuttavia similmente per quanto accade con l'EN, per il De Anima il problema con Anselmo è che la prima traduzione latina sembra sia da attribuire a Giacomo da Venezia che tuttavia è attivo solo nel secolo successivo. Testo

  73. Il problema del discernimento delle fonti deriva anche dal diverso termine che Anselmo sembra usare indistintamente: affectus infatti potrebbe corrispondere alla spinta amorosa, erotica, verso l'oggetto, tipica della identificazione agostiniana tra amore e volontà; ma affectio sembrerebbe maggiormente assimilarsi all'idea aristotelica che è l'oggetto che muove l'appetito. Tuttavia quest'ultima potrebbe anche riferirsi alla traduzione di pathos e quindi avere un background ancora stoico (del resto è questa affectio commodis che può diventare inordinata, e questo indubbiamente ricorda la hormé pleonazousa stoica. Testo

  74. Sic intellige uoluntatem quam uoco instrumentum uolendi, inseparabilem et nulla alia ui superabilem fortitudinem habere, qua aliquando magis, aliquando minus utitur in uolendo. Unde quod fortius uult, nullatenus /220/ deserit oblato eo quod minus fortiter uult; et cum offertur quod uult fortius, statim dimittit quod non pariter uult; et tunc uoluntas -- quam dicere possumus actionem instrumenti huius, quoniam agit suum opus cum uult aliquid -- tunc inquam uoluntas actio magis uel minus fortis dicitur, quoniam magis uel minus fortiter fit. (s. 219-220). Testo

  75. Qualcuno vi suppone l'antico termine stoico di orthotes. Testo

  76. Cfr. Dreyer, Veritas-rectitudo-iustitia, 77-78. Testo

  77. Siue ueritas siue rectitudo non aliud in eius uoluntate fuit quam uelle quod debuit (DV 4, s. 181) Nam qui uult quod debet, recte et bene facere dicitur (DV 5, s. 182) Testo

  78. L'influsso stoico è potuto passare con il De Officiis di Cicerone passato tramite il De officiis ministrorum di Ambrogio; Seneca era ben conosciuto sia direttamente (De providentia, De ira, De clementia, Lettere a Lucilio) sia tramite collezioni e selezioni di citazioni (Florilegium morale, Flores omnium doctorum), cfr. M. Spanneut, Permanence du Stoïcisme: De Zénon à Malraux, Gembloux: Duculot, 1973, 57-73, 112-18 and 179-208. Testo

  79. Voluntas ergo illa iusta est, quae sui rectitudinem seruat propter ipsam rectitudinem; [...] Iustitia igitur est rectitudo uoluntatis propter se seruata Testo

  80. Unde sequitur quia rectitudinem facere est facere ueritatem. Constat namque facere ueritatem esse bene facere, et bene facere esse rectitudinem facere. Quare nihil apertius quam ueritatem actionis esse rectitudinem (DV 5, s. 182) Testo

  81. Iam ergo clarum est liberum arbitrium non esse aliud quam arbitrium potens seruare rectitudinem uoluntatis propter ipsam rectitudinem, s. 212. Testo

  82. Agostino distingue tra la libertas minor (Corrept. XII,33) di Adamo nello stato originale: egli poteva non peccare (posse non peccare) ma non era incapace di farlo. La libertas maior invece è quella in cui non si può peccare (non posse peccare) perché non lo vuole, come quella di Dio; cfr. Rist, Agostino, 192, n. 105. Testo

  83. Cfr. Rogers, Anselm on Grace and Free Will. Testo

  84. La nozione di privatio era già di Aristotele, Anselmo puntualizza che il male è anche privatio debiti boni, cfr. Marchetti -- Elia, Introduzione a Anselmo, La caduta del diavolo, 19. Testo

  85. Cfr. S. Visser -- T. Williams, Anselm, Oxford 2008, 171-191, qui 180, anche in Cambridge companion to Anselm, 179-203. Testo

  86. Si inserisce qui la attuale discussione aperta da H. Frankfurt sulla gerarchia delle volontà, la presenza delle alternative possibili per la definizione di libertà e le caratteristiche di un atto morale. Testo

  87. K. Rogers è convinta che Anselmo sia il primo rappresentante della moderna concezione della libertà e che essa permetta di partecipare della stessa aseità divina. Probabilmente la studiosa erra per eccesso nelle sue conclusioni, ma questo dibattito, che implica anche una attenta analisi del concetto di onnipotenza divina, necessita una trattazione in distinta sede; cfr. Sadler, Freedom, 91-108; M. Della Serra, «Non omnia potens. Spunti per una grammatica dell'onnipotenza in Anselmo d'Aosta» Gregorianum 91,1 (2010) 43-90.Testo

  88. Resta il problema di una diretta relazione di Anselmo da tale testo, visto che a nostra conoscenza la prima traduzione latina dell'EN sarebbe da attribuire a Burgundio da Pisa (a lui si dovrebbe l'anonima traduzione), morto nel 1193. Testo

  89. Trad. Elia-Marchetti, La caduta, 115. Necesse est ut sic faciat deus utramque uoluntatem in illo conuenire, ut et beatus esse uelit et iuste uelit. Quatenus addita iustitia sic temperet uoluntatem beatitudinis, ut et resecet uoluntatis excessum et excedendi non amputet potestatem. Ut cum per hoc quia uolet beatus esse modum possit excedere, per hoc quia iuste uolet non uelit excedere, et sic iustam habens beatitudinis uoluntatem possit et debeat esse beatus (s. 258). Testo

  90. Le categorie di Aristotele erano ben conosciute tramite la traduzione di Boezio; cfr. Elia-Marchetti, Introduzione, 12; 17. Testo

  91. Sed ipsa sibi efficiens causa fuit, si dici potest, et effectum (s. 275). Testo

  92. Cfr. Rist, Feedom, 7. Testo

  93. Cfr. DLA 14; Nash-Mashall, Free Will, 17-23. Testo

  94. Elia-Marchetti, Introduzione, 27. Testo

  95. Quod autem dico de voluntate, hoc ipsum dici potest de concupiscentia sive desiderio, quoniam et concupiscentia ed desiderium voluntas est (p. 78). Testo

  96. M. Vult ergo esse beatus quanto altius hoc esse posse cognoscit. D. Procul dubio uult. M. Ergo uult esse similis deo (DCD 13, s. 257). Testo

  97. Voluit igitur aliquid quod non habebat nec tunc uelle debebat, sicut Eva uoluit esse similis diis, priusquam deus hoc uellet (DCD 4, s. 241). Testo

  98. Peccauit ergo uolendo aliquod commodum (DCD 4, s. 241). Testo

  99. Cernis, ut puto, quia plus aliquid quam acceperat inordinate uolendo uoluntatem suam extra iustitiam extendit, (DCD 4 s. 241). Testo

  100. Aperte nunc uideo quia peccauit et uolendo quod non debuit et non uolendo quod debuit, ivi. Testo

  101. In senso stretto Anselmo ritiene che nemmeno il desiderio di essere simili Dio sia qualcosa di cattivo o il Figlio non vorrebbe essere simile al Padre. Come neanche i piaceri bassi sono cattivi o gli animali sarebbero cattivi. Invece tali desideri sono cattivi solo in quanto ingiusti, perché nessuna volontà di per sé è cattiva: Nam si uelle esse similem deo malum esset, filius dei non uellet esse similis patri. Aut si uelle quaslibet infimas uoluptates esset malum, mala diceretur uoluntas brutorum animalium. Sed nec uoluntas filii dei est mala quia est iusta, nec uoluntas irrationalis mala dicitur quia non est iniusta. Unde sequitur nullam uoluntatem esse malum sed esse bonum inquantum est, quia opus dei est; nec nisi inquantum est iniusta malam esse. (DCD 19, s. 264) Testo

  102. Cfr. Nash-Mashall, Free Will, 6-7. Testo

  103. Rationalem naturam a deo factam esse iustam, ut illo fruendo beata esset, dubitari non debet. Ideo namque rationalis est, ut discernat inter iustum et iniustum, et inter bonum et malum, et inter magis bonum et minus bonum. Alioquin frustra facta esset rationalis. Sed deus non fecit eam rationalem frustra (s. 97). Testo

  104. Cfr. DV 12; Rogers, Anselm on Freedom, 57. Testo

  105. Concetto proveniente dalle Categorie X,12a 33-34 di Aristotele, passato per la deontologizzazione del nulla avviata da Agostino e suggerito dal concetto di creatio ex nihilo per cui il male è collegato al nulla (cfr. DCD 7-12), cfr. Elia, Introduzione, 17-19. Testo

  106. Gli angeli furono creati senza «qualcosa che non avevano ricevuto quando furono creati perché potessero progredire fino ad esso per proprio merito» DCD 6. Testo

  107. Cfr. Incandela, Duns Scotus, 229-56; C. González-Ayesta, «Scotus' Interpretation of the Difference between Voluntas ut Natura and Voluntas ut Voluntas»: Franciscan Studies 66 (2008) 371-412. Testo

  108. Per parte di queste conclusioni sono debitrice a Trego, L'essence de la liberté, in particolare 17-38.Testo

  109. Di grande interesse risultano gli studi di H. Frankfurt sulla libertà del volere: «Alternate Possibilities and Moral Responsibility» The Journal of Philosophy, 66, No. 23, (1969), 829-839; «Freedom of the Will and the Concept of a Person»: Journal of Philosophy 68 (1971) 1, 5-20 e della sua discepola E. Stump che ne revisiona alcuni concetti: «Sanctification, Hardening of the Heart, and Frankfurt's Concept of Free Will»: Journal of Philosophy 85 (1988) 8, 395-420; «Moral Responsibility without Alternative Possibilities», in D. Widerker- M. McKenna (eds.), Moral Responsibility and Alternative Possibilities: Essays on the Importance of Alternate Possibilities, Ashgate, Aldershot 2006, 139-158. A partire da questi studi si è tornati a riflettere su Anselmo, cfr. S.R. Tyvoll, «Anselm's Definition of Free Will: A Hierarchical Interpretation,» American Catholic Philosophical Quarterly, 80 (Spring, 2006), 155-171; Nash-Marshall, Free Will, 1-23. Dettagliati approfondimenti su queste questioni saranno affrontati in altra sede.Testo