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Con-sensi. Piacere e teologia

di Benedetta S. Zorzi (15 giugno 2007)

Questo intrigante titolo che mi è stato assegnato mi ha dato non poco da fare: in tre parole mi hanno detto che dovrei trattare della relazione tra piacere e teologia -- relazione problematizzata dalla congiunzione "e", che indica anzitutto la distanza tra i due termini -- che tuttavia dovrebbe tendere verso un con-senso, appunto, e lascia perfino supporre -- se non sperare -- che questo accordo possa realizzarsi nei o tramite i sensi (ma quali, dal momento che la Bibbia e la tradizione non conoscono solo i sensi corporei? Pr 2,5 "senso divino" [aisthesis theia]; Eb 5, 14 "senso di discernimento" [aistheterion]).

Ho dunque abbozzato qualche riflessione tentando di rispondere a queste domande:

È significativo che i dizionari teologici non presentino la voce "piacere", passando da "persona" a "pietà" o da "pessimismo" a "potere". Questo indica anzitutto che la riflessione su questo tema è ancora troppo giovane per poter qui anche solo credere di poter avanzare risultati definitivi.

Poiché però per sapere in che direzione andare, bisogna anzitutto sapere dove si è arrivati, sarà utile ripercorrere anche se solo per sommi capi il percorso della riflessione che abbiamo ereditato.

1. Il piacere nella (storia della) teologia: storia di un dissenso

In questo excursus mi soffermerò in modo particolare -- anche per disciplina di parzialità -- sulla parte patristica tentando di smascherarne alcuni presupposti acritici che faranno emergere alcuni cunei problematici per l'ulteriore riflessione.

È un errore di prospettiva ritenere che sia stata la teologia cristiana la principale colpevole nel dare un carattere di restrizione al piacere, per quella particolare ossessione sessuofobica che sta alla base del millenario dissenso tra piacere e divinità, ma anche tra sensi corporei ed intelletto.

Già gli antichi filosofi infatti erano stati particolarmente tormentati dal problema del piacere, considerandolo il principale nemico della vita filosofica. Perché? Perché esso è in qualche modo collegato al dolore e conduce ad esso. Non si può infatti ricercare il piacere senza in qualche modo essere ansiosi finché non lo si raggiunga, delusi e addolorati se non lo si è raggiunto o non lo si ha, orgogliosi se lo si raggiunge, impauriti di perderlo e così via; ne conseguono facilmente emozioni controproducenti quali gelosia, ira, asservimento, paura. È quindi per evitare i mali ad esso collegati che i filosofi guardano con sospetto al piacere.

Emerge chiaramente da queste considerazioni anzitutto una tensione tra tempo e piacere, ovvero l'impossibilità di una condizione stabile di possesso del bene che il piacere denota.

Dietro però c'è anche l'assioma filosofico di fondo che la divinità è eterna, immutabile e quindi anche impassibile (apathes), mentre la materia è il luogo del divenire, della passibilità. Queste categorie fisiche o metafisiche diventano poi morali quando si tratta di delineare la méta del saggio (l'assimilazione a Dio, homoiosis theo): allora il corpo partecipa della sofferenza, del pathos, dell'affettività, della generazione, mentre l'intelletto partecipa del mondo divino.

Vediamo però come impercettibilmente quella che è una prerogativa metafisica nella divinità (impassibilità come eternità), nell'essere umano prende un risvolto morale (impassibilità come negazione della percezione): si tratta di uno scivolamento di piani e un salto di livello ingiustificato.

Se andiamo a vedere le quattro posizioni filosofiche antiche circa il piacere vediamo infatti che:

  1. Per alcuni esso è sempre negativo (Speusippo, stoici). Tutti i piaceri sono cattivi, portano al male e alla follia così bisogna ricercare l'impassibilità intesa nel senso di soppressione totale delle emozioni anche positive, perché esse sono estranee alla costituzione originaria dell'essere umano.
  2. C'era anche chi dalla parte opposta, affermava che il piacere è il Bene per eccellenza (Aristippo), ma era una corrente assai minoritaria, al cui estremismo risponde lo stesso Epicuro che modererà la posizione distinguendo il piacere in catastematico (calmo, posato) e cinetico (forte ed eccitante).
  3. Per Epicuro ci sono tanti piaceri che portano al dolore, dunque va perseguito solo quello inteso come assenza di dolore.
  4. Infine c'era poi chi affermava che esistono piaceri cattivi ("nei piaceri venerei", che sono i più forti, "è impossibile capire più nulla", nota Aristotele, riportato da Tommaso, in STh I, II, 34, 1) ma anche un piacere buono che però non è mai un bene sommo, come per esempio quello dell'attività mentale (Platone nel Filebo). Si tratta di un piacere non cercato come fine a se stesso, ma assolutamente benvenuto quando "collaterale" ad una attività che ha un suo scopo buono. Senza piacere infatti non possiamo esistere, ma il problema è se dobbiamo seguirlo deliberatamente come scopo diretto o solo per accidens.1

C'è da evidenziare qui che per i filosofi il piacere è un pathos. Ogni pathos è immediatamente collegato alla passività del radicale pascho che non ha mai goduto di ottima stima nel mondo classico. Tutto ciò che si subisce, che quindi viene provato, ciò che implica passività nella grecità ha una connotazione negativa. È significativo che la parola andreia, coraggio, implichi il termine aner (in quanto virtù politica associata ai periodi di guerra) perché ciò che è legato al maschile spesso era connesso all'attività e alla forza, mentre la passività e la debolezza erano considerate caratteristiche femminili, come la sophrosyne (virtù associata ai periodi di pace). Non è un caso che la parola enkrateia dal verbo kratein -- che originariamente designa un controllo di sè e poi si specificherà sempre più come termine tecnico fino ad indicare l'ideale del movimento cristiano estremista dei primi secoli che negava ogni valore al corpo e al matrimonio -- deriva dall'originario significato di potere, avere forza. Anche karteria indica forza d'animo.

Oggi che diamo così valore al fare esperienza, al provare, ci sembra assai strano che il piacere fosse considerato una debolezza per il semplice fatto di essere una affezione.

Cosa è successo poi al piacere nella prima tradizione cristiana? Un nodo assolutamente esiziale già prima del cristianesimo, ha gettato la sua ombra su larga parte della teologia cristiana successiva. Questo nodo si chiama Filone Alessandrino (che non a caso la tradizione giudaica rabbinica successiva ha rigettato).

In Filone avviene un fatale incontro tra:

Dalla LXX Filone deriva da una parte che il termine desiderare (epithymein) all'interno del decalogo si carica del peso della disobbedienza cultuale, della disobbedienza a Dio (per influsso della polemica contro i culti cananei di stampo sessuale). Se poi il termine assume il solo significato di piacere sessuale, ecco che l'intera sfera della sessualità si pone sotto l'ombra del peccato e dell'idolatria: si capisce perché nella LXX il sesto comandamento sia diventato più importante del quarto e del quinto, venendo addirittura anticipato di posto.

Dall'altra la sua antropologia platonizzante, costruita con l'aiuto del mito genesiaco a cui Filone applica una struttura subordinazionista patriarcale, circa i rapporti uomo donna, comporta l'identificazione tra Adamo e l'intelletto (creato ad immagine di Dio, indiviso, quindi vergine); Eva e la sensazione, creata dopo come 'aiuto' e non facente parte della struttura originaria dell'umanità ad immagine di Dio; il piacere e il serpente, maledetto da Dio: questo è la causa del peccato, che parla con Eva e determina i rapporti conflittuali tra il primo uomo e la prima donna e quindi tra l'intelletto e la sensazione (a causa del piacere, la sensazione non porta più aiuto all'intelletto, così per esempio, uomini innamorati vedono belle certe donne brutte, l'esempio è di Filone stesso!).2 L'aggravio della metafora dell'adulterio usata per indicare la negatività dell'idolatria ha un impatto emotivo fatale sulla valutazione del piacere, sull'intera morale sessuale nonché sulla condizione femminile: "La sensazione abbandona il suo sposo e si unisce amorosamente con gli oggetti sensibili" (Fug. 189)

Il piacere dunque (come una prostituta che sottomette l'intelletto, Opif. 166) è identificato col peccato stesso di Adamo ed Eva (Opif. 167).

In Filone quindi il presupposto acritico all'opera sotto la sua riflessione è soprattutto il subordinazionismo di genere che nega alla femminilità -- metafora della sensibilità e corporeità -- il carattere originario nell'essere umano creato ad immagine di Dio.

Questo intoppo in cui il pathos, il desiderio (epithymia) e il piacere (hedoné) sono identificati e appiattiti su un unico livello di significato, quello sessuale, diventerà eredità anche cristiana, a cominciare dai testi del NT, soprattutto i più "giudaizzanti".3

Questo ulteriore nesso acritico per cui il piacere è soprattutto quello sessuale mentre la divinità è impassibile, lavora sulla costituzione di una morale e di una spiritualità secondo le quali per diventare simili a Dio bisognerà rinunciare ad ogni piacere sessuale. È una operazione indebita che la sessualità sia circoscritta alla sola sfera della genitalità e della procreazione.

Tra i primi padri della cristianità tuttavia si noterà sempre più nel corso del tempo il tentativo di ricomprendere il dualismo antropologico di eredità filosofica, che gli è proprio come forma mentis, in una relazione più essenziale tra corpo/spirito, piacere/beatitudine spirituale, sulla base dei dati del kerygma (incarnazione e risurrezione). Nel confronto eresia-ortodossia infatti, Clemente usa una terminologia affinata da una doppia polemica: contro il libertinismo gnostico da una parte e contro il rigidismo encratita dall'altra. Espande quindi la terminologia del desiderio traendolo fuori dal contesto sessuale, per dire che esso non è sempre negativo, che non è solo sessuale. Cerca sfumature terminologiche per dire il "desiderio" anche nel suo retto uso (impulso corporeo ordinato [orexis] , movimento interiore diretto ad un oggetto esterno [hormè]) ma amplia anche la terminologia circa la gestione della sessualità al di là del discorso strettamente ascetico dell'enkrateia [indica nella sophrosyne il modo controllato di intendere e vivere la sessualità all'interno del matrimonio] (Str. III).4

Origene dà al nous una facoltà sensitiva, scopre l'intensità di una percezione spirituale e diventa il fondatore della dottrina dei sensi spirituali.5 Metodio prova a dare al termine castità la funzione dell'eros platonico in un timido recupero dell'affettività nella vita ascetica. 6

Sia nei filosofi che nei padri, però, resta fin qui ancora il presupposto antropologico acritico secondo il quale il nous parteciperebbe direttamente della vita divina.

A questo riguardo, invece Gregorio di Nissa fa un salto storico. Distinguendo tra intelletto increato e intelletto creato (CE I, 270-271; III, 6, 91, 73ss; Cant. VI = GNO VI, 173-174), si rende conto che l'uomo, anche nella sua capacità intellettuale o di scelta (prohairesis), resta limitato creaturalmente (possiamo pensare a lui come al vero fondatore del pensiero debole!).7 "La comunanza dell'intelligenza col corpo rappresenta un inscindibile legame" (Hom. op. 72; PG 44, 177b-c) dice Gregorio, un legame che egli non sa spiegare, ma forte a tal punto che secondo lui l'energia intellettuale attraversa la facoltà sensitiva (Anim. et res. 47; PG 46, 29b). Mentre l'antico eros era stato appiattito sul significato di epithymia, e poi di piacere sessuale, per Gregorio proprio il desiderio umano, per la sua insaziabilità, è il luogo della capax Dei.8 Se di una impassibilità bisogna parlare, quindi, essa sarà intesa come una brama stabile, una stabilità nel movimento continuo, ovvero un eterno desiderio soddisfatto da Dio, quasi uno sfinirsi di piacere in Dio, il quale, in quanto infinito, non darà mai termine al godimento. Ogni soddisfazione diventa una nuova capacità di godere di Dio: è il concetto che J. Danielou chiama epektasis.9 La prospettiva è quindi ribaltata: non è l'uomo a doversi conformare a Dio, ma è l'amore divino che si conforma ai limiti della natura umana e il limite principale di questa natura è la mutevolezza che tuttavia diventa il punto di forza di una nuova possibilità per le stesse capacità umane: un piacere divino attuato nell'anima in un dinamismo costante: è la beatitudine. Questo desiderio è in grado di aprire l'essere umano alla relazione costitutiva. Unione di finito e infinito: per Dio nell'incarnazione e per l'essere umano nell'epektasis e nella fede.

Ancora in Gregorio, però, benché egli ristrutturi l'antropologia cristiana, resta la premessa ingiustificata che la sessualità sia secondaria alla creazione e non facente parte della originaria costituzione dell'essere umano maschio e femmina ad immagine di Dio.10

In campo latino, con l'ipoteca tertullianea, la terminologia teologica si fa anche più giuridica. Girolamo afferma categoricamente che "nel tempo in cui si compie l'atto coniugale non vien data la presenza dello Spirito Santo, anche se fosse un profeta colui che attende al compito della generazione" (come ricorda Tommaso in STh, I, II, 34, 1). Per Agostino poi il piacere è causa ed effetto del peccato; la sequenza concupiscenza-(libidine) piacere-peccato pesa a partire soprattutto dall'attrazione semantica della dicotomia paolina desideri-della-carne/desideri-dello-Spirito (Rm 8, 5-6; Gal 5, 16-17), che tuttavia in Paolo non è una distinzione morale ma teologica, non ellenistica, tantomeno manichea, ma semitica.

L'angoscia maschile dell'indipendenza del pene coarta tutta la trattazione sulla libidine, e siamo disposti a dare maggior ragione alla posizione di Giuliano di Eclano nella loro polemica su questo argomento,11. Fortunatamente Agostino è troppo passionale per non parlare degli altri piaceri sensibili (memorabili quelli dell'udito nelle Confessioni) con una forza e una bellezza vibranti.12

In Agostino insomma il binomio teologico secondo-la-carne/secondo-lo-Spirito si applica ad una dicotomia antropologica.

Purtroppo anche Tommaso perdura nella sua acritica credenza dell'incompatibilità tra ragione e piaceri del corpo, benché rispetto alle quattro posizioni filosofiche che abbiamo visto all'inizio, apporti una novità. Infatti nella STh. I, II, 34, riprende e discute le quattro posizioni base sul piacere.

  1. Contro coloro che dicono che tutti i piaceri sono cattivi, Tommaso sottolinea la bontà di un piacere razionale, come aveva fatto Platone e sulla base del versetto biblico "Riponi nel Signore il tuo piacere". Sal 37, 4-5. Per Tommaso "il piacere è la quiete di una facoltà nel bene amato, a seguito di un'operazione", quindi il bene e le operazioni determineranno la bontà del piacere. Restano tuttavia per lui ancora fuori di ogni positività i piaceri del corpo (e quando dice così pensa solo all'orgasmo maschile).

    Non i piaceri annessi all'atto della ragione sono ad essa di ostacolo, e distruggono la prudenza; ma i piaceri estranei, cioè i piaceri del corpo. E questi ostacolano l'uso della ragione, come abbiamo detto, sia per la contrarietà dell'appetito, che si acquieta in cose contrarie alla ragione, determinando un piacere moralmente cattivo; sia per un certo stordimento della ragione, nel caso, p. es., della copula coniugale, in cui il piacere, sebbene conforme alla ragione, tuttavia ne impedisce l'uso, per l'alterazione fisiologica che l'accompagna. Ma da questo non deriva una malizia morale, come non è cattivo il sonno, che pure blocca l'uso della ragione, quando viene preso a tempo debito: infatti la ragione comporta essa stessa queste interruzioni del proprio uso. -- Va detto però che codesto impaccio della ragione nel piacere dell'atto coniugale, sebbene non sia moralmente cattivo, non essendo peccato né mortale, né veniale, deriva tuttavia da una malizia morale, cioè dal peccato del nostro progenitore: infatti nello stato d'innocenza esso non c'era...

  2. Vagliando poi in a. 2 la posizione "se tutti i piaceri siano buoni" Tommaso ricorda che il piacere sembra un bene per se stesso, perché, come dice Aristotele, non si cerca in vista di altra cosa. È ridicolo domandare ad uno perché vuol godere. Esso è la quiete nel fine. E il fine può essere buono o cattivo. Come non tutti i beni agognati sono beni veri ed essenziali, così non tutti i piaceri sono essenzialmente e veramente buoni.

    E poiché il piacere è la quiete dell'appetito nel bene, se codesto bene è un bene in senso assoluto, si avrà un piacere vero in senso assoluto. Se invece non è cosa realmente buona, ma buona solo relativamente a tale soggetto, allora non si avrà un piacere veramente tale, ma solo in rapporto a lui: e non sarà cosa buona senz'altro, ma buona sotto un certo aspetto, o apparentemente buona.

  3. Alla domanda se qualche piacere sia il sommo bene, Tommaso dà una nuova risposta. Mentre infatti per Platone nessun piacere poteva essere il sommo bene, secondo Tommaso Dio stesso, assolutamente parlando, è il sommo bene e l'ultimo fine dell'uomo; così la fruizione di lui implica il godimento nell'ultimo fine (un piacere che è quiete nel sommo bene). Questo piacere è il massimo tra i beni dell'uomo. La beatitudine infatti non può essere senza godimento (o non avrebbe perfezione e compimento), come del resto sta scritto: "Gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra" (Sal 15, 10-11).

  4. Infine Tommaso si pone una nuova domanda: se il piacere possa essere un criterio -- e in che modo -- per giudicare il bene morale. Tommaso risponde che l'uomo non è spinto anzitutto dal piacere ma dall'amore e dal desiderio [cfr. Frankl, supra, nota 1], tuttavia il piacere aiuta l'uomo nei confronti del fine, cioè dà compimento all'azione. La presenza del piacere perciò è indice dell'essere giunti ad un fine. Che poi quel fine sia bene o male, dipende dalla volontà dell'individuo. Dunque il piacere è un sintomo di un nostro completamento, della nostra perfezione.

Così in Tommaso vediamo ricapitolati presupposti acritici come:

A partire dall'età moderna la ragione si separa sempre più dal corpo, dalle emozioni, e diventa una asettica investigatrice di una verità intesa come adaequatio rei ad intellectum, e non più come salvezza escatologica che riguarda me e tutto il mio coinvolgimento personale, una verità dalla dinamica storica ed escatologica quindi (è il dibattito teologia monastica vs teologia scolastica).13

Ma prima ancora che la modernità conoscesse questa riduzione cartesiana della ragione che l'ha illusoriamente resa oggettiva separandola dal resto delle facoltà umane; anche prima che Freud fosse costretto a recuperare "nevroticamente" l'onnicomprensività e la radicalità delle spinte pulsionali sessuali, ridotte in cantina da una razionalità asettica e fredda, la teologia aveva conosciuto la sapienza di un intelletto amoroso, come la facoltà umana più gravida di Dio.

Platone parla di un eros della ragione (Resp. IX); Plotino di due tappe della vita della ragione (la prima è la facoltà di pensare, l'intelligenza saggia, facoltà della visione; l'altra, un'intuizione ricettiva, lo stato più alto della ragione, quello della ragione amante, ebbra, estatica che si abbandona ad una passione benefica, VI, 7, 35-36). Così ancora in Tommaso:

Il Figlio è Verbo, ma non un verbo qualunque, bensì un verbo che spira amore... quindi i Figlio non è inviato per un perfezionamento qualsiasi dell'intelletto, ma solo per quel insegnamento da cui prorompe l'affetto dell'amore... (STh I, 43, 5 ad 2).

Ma l'intelletto amoroso dovrà aspettare forse il cuore pensante di Etty Hillesum, per rientrare alla ribalta, quando "Auschwitz" assurge a simbolo della vergogna del male perché è avvenuto nel cuore dell'Europa dell'illuminismo che aveva creduto nel progresso della ragione, ovvero in quel pensiero razionale e tecnico che avrebbe dovuto sradicare la barbarie. Come dice Benasayag: "il concepimento del mostro nel luogo del "culto" della ragione occidentale ha inferto un colpo durissimo a tutti coloro che credono possibile costruire un mondo dei soli lumi senza ombre".14

Vanno dunque ripensati i limiti della ragione e la postmodernità lo sta facendo anche grazie all'apporto dell'epistemologia femminista (che spinge verso il superamento di certe incompatibilità strutturali e acritiche).

Abbiamo ridotto la ragione ad una sola parte di essa staccandola dalle sue innervazioni con tutto il resto delle facoltà umane. Su questo punto l'epistemologia femminista sta cambiando molto le cose. È tempo che i suoi esiti passino in teologia.

2. Il piacere della (di fare) teologia

Vorrei iniziare con una riflessione quasi metodologica. Tre punti sono tali su una superficie piana, finché non li consideriamo all'interno di un piano bidimensionale (allora uno di questi potrebbe essere un cerchio) o tridimensionale (allora uno di quei punti potrebbe rivelarsi un cilindro).

Punto-cerchio-cilindro. Cambia la dimensione con cui decidiamo di guardare. Così anche per il piacere. La teologia deve considerarlo da un punto di vista "tridimensionale". Mi spiego con un esempio: è recente notizia sul giornale15 che mangiare cioccolata produce nel cervello la stessa esplosione di endorfine (neurotrasmettitori incaricati del nostro piacere) di un bacio appassionato. Certo che anche la Nutella produce per l'essere umano più piacere se mangiata in un Nutella-party con gli amici, per esempio che da soli. Ciò che voglio dire è che l'essere umano non vive di fatto mai su una sola dimensione (non è mosso solo dagli istinti, ma è anzitutto attirato dai valori, diceva Frankl); non cerca solo la scarica di endorfine e non si accontenta della Nutella. Cerca invece una alterità relazionale e un Senso su cui investire una relazione unificante. La teologia quindi ha il dovere di considerare il piacere su tre dimensioni, in particolare nel suo sovraorientamento, verso qualcosa o qualcuno, verso una ricerca di significato (spirituale!) per l'esistenza.

Provo quindi ora a fare due piccole applicazioni.

La prima è biblica e riguarda la presenza del Cantico dei Cantici nella Bibbia, la cui inserzione nel canone ha suscitato fin dall'inizio polemiche e controversie. Un libro biblico nel quale ci si sofferma con uno sguardo a dir poco compiaciuto sul piacere fisico e forse sul posto che esso occupa davanti a Dio. Se entrò nel canone fu a prezzo dell'interpretazione allegorica. Il problema è che anche l'interpretazione letterale che tende a vedere nel Cantico solo dei riferimenti sessuali è in fondo una interpretazione banale. Restano mille perché: il perché delle metafore per parlare della sessualità e perché il linguaggio amoroso debba esprimersi in poesia.16 Perché il corpo ha bisogno di essere descritto in metafore paesaggistiche? Perché il mondo parla un codice particolare e la parola ha bisogno di coinvolgere il cosmo nell'esperienza dell'innamoramento? Perché il nome di Dio è assente o accorciato o non completo (solo espresso per metà come un symbolon?) in Ct 8,6? Quale relazione emerge tra uomo e Dio, piacere e Spirito, tra lettera e senso, tra sensi e significato, dal mistero di questo libretto? Il linguaggio poetico per natura sua esprime più di quello che dice e questo forse dimostra più di ogni altra cosa la natura fondamentalmente unitaria e -- oserei dire -- osmotica del nostro essere umano, che nell'esperienza dell'eros rivela che la lettera, il corpo, la biologia, l'io non possono facilmente essere distinti dallo spirito, dal simbolo, dal trascendente, dall'altro. In questo aveva visto lungo Agostino che diceva che alla base del piacere c'è una promessa. Il piacere del Cantico è una promessa che invoca il suo compimento in quell'abbozzo di nome di Dio.

La seconda è d'attualità (e riguarda anche un po' i fenomeni del suicidio e dello sballo giovanile). Perché il piacere più forte come quello dell'orgasmo sessuale dura solo un istante? L'istante è lo spazio di tempo più vicino al niente. Questo niente insegue disperatamente la ripetizione nella moltiplicazione dell'istante del Don Giovanni. Si chiede la Lispector: perché il poco non ci basta? Perché nel poco noi indoviniamo il piacere.17 Il piacere di quel tutto di cui e per cui siamo fatti. Disperatamente non ci basta il molto, perché esso è comunque poco, rispetto al piacere di quell'infinito che ci segna, per la condanna o per la gloria. Fermandoci al molto, esso diventa condanna: perché è una ripetizione del poco, e la ripetizione porta alla nausea che tuttavia non estingue la fame del tutto, e il nulla dal quale Dio ci ha tratti resta sempre lì ad attrarci disperatamente. Solo l'andare verso l'infinito, l'orientare il poco e il molto verso il tutto, il misurare cioè sulla prospettiva che ci attende questo limite creaturale che viviamo costantemente, permette un cammino di satis-factio, perché l'infinito nutre, beatifica e riempie chi lo cerca [riempiendo chi ha limite e rendendolo satis-facto]: è l'essere riempiti -- dunque la passività -- che dona la pace. Il poco non ci basta, perché in ogni poco noi indoviniamo un segnale: il piacere ci annunzia la gioia immensa del tutto che desideriamo e che ci aspetta e per cui siamo fatti ("Fecisti nos ad Te Deum et cor nostrum inquietum est donec requiescat in te" Agostino, Conf. I,1,1).

Per arrivare alla soddisfazione, dobbiamo quindi dare un limite al nostro desiderio. Satis-factio. Il limite è ciò che ci permette di arrivare alla soddisfazione del piacere. Ma per approdare all'infinito che è Dio bisogna forse accettare di percorrere l'austera strada della mancanza di soddisfazione e di con-senso.

Andando ora al fondamento teologico del problema: se l'ideale di assenza di emozioni era connessa allo stato di incorporazione platonico considerato come origine di tutti i mali, il dogma dell'incarnazione e della risurrezione pone ogni pathos all'interno della costituzione perfetta finale dell'uomo. Per questo GS 22, riprendendo Tertulliano, afferma che il miglior commento a Gen 1 è 1Cor 15,45. La protologia è sempre una escatologia. Lo stato corporeo non è destinato a finire: questa è la novità evangelica, e dunque il corpo non è origine di tutti i mali, se è vero che perfino la vera felicità finale potrà raggiungersi solo in unione ad esso: soma pneumatikos.

Torniamo allora con una diversa prospettiva sulla domanda di S. Tommaso circa il piacere come criterio morale, tentando di recuperare, come ci sfida la post-modernità, la relatività (che non è il relativismo).

Secondo M. Proust le emozioni sono sommovimenti geologici del pensiero:18 esse infatti hanno rapporto con i pensieri, le fantasie e le valutazioni. Un pathos è a mezzo tra percezione fisica e giudizio intellettuale. Per capire infatti se un'agitazione emotiva sia paura o dolore o piacere devo inserire una valutazione del pensiero. Ogni giudizio quindi ha sempre una connotazione emotiva. M. Nussbaum intende le emozioni come reazioni intelligenti alla percezione del valore, parti essenziali dell'intelligenza umana.19 Esse cioè contengono una consapevolezza del valore e dell'importanza di una cosa per noi e vanno quindi chiamate in questione per un giudizio etico, non possiamo ignorarle. Esse si focalizzano sui nostri scopi e progetti e rappresentano il mondo da questo punto di vista, non da un punto di vista imparziale. Le emozioni guardano al mondo dal punto di vista del soggetto, che è l'unico punto che ciascun essere umano ha per guardare il mondo.

Il piacere dice la stima cognitiva, la prosperità personale, la rilevanza di un oggetto esterno per il mio sistema di valori. Del resto anche la salute emotiva dipende dal credere che le nostre azioni volontarie produrranno una differenza nei nostri progetti. Sapere di essere inutili fa disperare.

La complessa struttura cognitiva delle emozioni è in parte in forma narrativa, perché implica anche tutta la storia del nostro rapporto con gli oggetti amati nel corso del tempo e il ruolo che essi hanno giocato nella vita di una persona. Del resto se il dolore lacera il Sé, non sarà difficile affermare che il piacere lo unifica: certo esso ha una componente autoreferenziale, ma dice anche una valutazione dell'oggetto di valore. Il piacere è quindi anche in relazione a qualcosa, ha un oggetto (riguarda), e il suo essere in relazione a, riguarda il modo di vedere del soggetto, il modo del soggetto di valutare un oggetto.

Se insomma l'intelletto percepisce, se esso ha desideri e dolori, si tratta di comprendere le pathe come capaci di 1. fornire motivazioni per la scelta morale, 2. dare giudizi sul valore di qualcosa o qualcuno per il nostro benessere personale, 3. convincerci ad agire in conseguenza di tali giudizi per trovare la felicità. Esse hanno quindi un risvolto fortissimo sulla nostra educazione e capacità di apprendimento (l'antico: pathein-mathein). Tralascio le considerazioni delle emozioni intese come costruzioni sociali e finisco sottolineando che anche in conseguenza di quanto ho appena sviluppato la teologia non può pensare di non doversi aprire alla dimensione narrativa, artistica, estetica, dal momento che "certe verità sull'uomo possono essere dette solo in forma letteraria"20 e la fede è una tale esperienza globale dell'essere umano.

3. L'uso dei sensi nel fare teologia

Il titolo darebbe adito a delle riflessioni dal punto di vista della teologia femminista nell'ambito della sacramentaria -- dove tutta la vita dei sensi è investita dalla gloria: accenno solo all'idea che la versione del corpo umano che può darsi come nutrimento è solo quella femminile.

Vorrei invece fare alcune considerazioni sul differente approccio di una donna alle questioni del piacere sulla base della sua struttura sensorea (proprio psico-fisiologica). La fisiologia femminile infatti, a cominciare dai suoi ritmi biologici mestruali, conosce una sapienza che lega il sangue non solo alla morte, ma anzitutto alla vita (come nella significazione eucaristica). Anche la disgiunzione femminile tra piacere e fecondazione rende da una parte il piacere meno necessario e così intimamente legato all'atto sessuale come nel maschio (estendendolo invece maggiormente alla tenerezza, per esempio), dall'altra non condanna il piacere sessuale esclusivamente a quell'aspetto di "perdita" di qualcosa di sé, di svuotamento nell'orgasmo, e rende la sua presenza quindi meno drammatica rispetto all'approccio maschile. Inoltre i cicli biologici naturali della donna rendono regolare, "involontaria" e quindi anche incolpevole ogni eliminazione del suo seme fecondo. Anche la minore evidenza esteriore delle pulsioni femminili e il legame quindi maggiormente necessitante tra espressione dei propri affetti e linguaggio, costituisce un cuneo critico non solo al modo maschile di fare teologia ma anche all'impostazione di certe sue tematiche etiche. Se consideriamo poi l'estensione sessuale femminile sul corpo (clitoride, utero e mammelle) vediamo che la sessualità femminile non è limitata alla sola genitalità, né ad una sola zona del corpo. Essendo maggiormente estesa, risulta anche più radicata all'interezza del suo corpo, alla sua interiorità, alla sua intera affettività e intenzionalità relazionale (non pensiamo la nostra sessualità in termini di equipaggiamento!). La corporeità femminile inoltre aggiunge alla sessualità tutto un aspetto di capacità di ricezione e nutrimento che la scioglie dall'ossessione della fecondazione tipicamente maschile. È quindi indubbio che la teologia fatta dalle donne costituisce un altro modo di comprendere il piacere, l'attrazione, la sessualità, l'affettività, il linguaggio: un altro modo di pensare la morale, l'ascesi, la mistica e le relazioni interpersonali.21 Considerata l'esclusione della donne dalla riflessione teologica fino all'altro ieri, si può forse capire meglio anche perché, come dicevamo, la riflessione sul piacere in teologia è ancora molto giovane.

Sulla scia quindi del tentativo di allargare la focalizzazione maschile incentrata troppo sul piacere genitale, faccio un esempio di riflessione teologica su uno dei sensi che la teologia ha maggiormente trascurato: l'olfatto. Il fatto che il maschio per trovare la propria identità, come dice C. Gilligan,22 deve maggiormente distaccarsi dal corpo materno, al contrario della femmina, ha forse influito sul deprezzamento maschile del tatto, ma anche sul suo particolare incentramento.

Il profumo comprende e annuncia il carattere della morte di Gesù. Nel Nuovo Testamento infatti c'è un gesto, quello della donna di Betania descritto in Gv 12,1-8, un gesto di indubbio erotismo ed espressamente collegato a temi del Cantico.23

In questo slancio in cui spreca profumo e inonda la casa, la donna sembra intuire qualcosa del valore della morte di Gesù (cfr. Mt 26,6-13; Mc 14,3-9; Lc 7,36-50; Gv 12,1-8). Gesù stesso spiega che quel gesto si avvicina più di tutti gli altri all'annuncio dell'amore che egli stesso sta per fare con la sua morte, tanto da collegarlo strettamente e per sempre a questo evento: "In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo vangelo, nel mondo intero, sarà detto anche ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei" (Mt 26,13). Questo gesto dello spargere profumo ha un che di rinnegamento totale di sé ed è per questo che capiamo che ella è l'unica ad intuire, già prima della passione, il senso profondo del gesto che di lì a poco Gesù farà, come egli stesso conferma. Gesù stesso riconosce che tale gesto svela il carattere della sua morte: "Lo ha fatto in vista della mia sepoltura" (Mt 26,12). Secondo Luca questa morte è stata ardentemente desiderata da Gesù come l'atto più estremo, ma comunque conseguente, del suo desiderio di entrare in comunione di amicizia con i suoi amati e con Dio (cfr. Lc 22,15: epithymia epethymesa), desiderio che ha dimostrato durante tutta la sua attività pubblica. Il piacere di sprecarsi.

Non è stato un caso che questa riflessione è stata voluta in ambiente termale. Abbiamo potuto sperimentare alle terme una gamma di piaceri davvero vasta. Non posso certo dire che l'idromassaggio sia di per sé già la prova dell'esistenza di Dio. Però basterebbe riflettere sul fatto per esempio che il piacere di un massaggio è corporeo senza tuttavia dover necessariamente essere genitale. La tenerezza e le carezze, oltre ad avere un impatto forte sul nostro ecosistema energetico corporeo, non bloccano affatto l'intelletto (come voleva Tommaso) -- tra l'altro gli scienziati ci dicono che sia la pelle, sia il cervello derivano dallo stesso foglietto embriologico, l'ectoderma, e quindi forse hanno più in comune di quanto siamo disposti a riconoscere. La connaturalità maggiore della donna nei confronti del piacere corporeo tattile potrebbe forse aiutare la teologia ad allargare non solo i confini della ragione -- come diceva il Papa Benedetto XVI a Ratisbona -- ma il piacere fisico oltre l'identificazione ossessiva sul piacere sessuale, o meglio quello sessuale oltre quello esclusivamente genitale. Il piacere fisico -- che in quanto sempre sessuato è un aspetto della nostra sessualità -- è molto più pervasivo del nostro relegarlo ad una sfera materialistica e proprio il suo essere presente e capace di una dimensione spirituale ci rende non più bestiali ma più umani!

Fare sport, ascoltare musica, danzare, farsi massaggiare, prendersi cura di sé. Certo questi piaceri hanno a che vedere con la sessualità, come con il benessere, con le relazioni e... con la teologia.

Ma di più: se la Bibbia riserva il termine jadah, quello della conoscenza carnale, alla più alta conoscenza intima di Dio, vuol dire non solo che il piacere che sentiamo nel fare teologia riguarda le nostre relazioni portanti (e quella con Dio è una di queste) ma anche e finalmente che dovremmo e possiamo considerare il piacere fisico, anche quello genitale, quella forma alta di conoscenza che esso è.

4. Il dis-senso e il con-senso in teologia

La nostra ricerca del piacere, come per ogni emozione, dice anche il nostro bisogno di riconoscimento, la nostra mancanza di autosufficienza. L'aver bisogno di un limite per trovare consistenza, e dunque anche di una de-finizione. Il tema del piacere in teologia ci porta quindi anche verso i temi della ricerca del consenso, nel duplice significato del temine: dell'essere approvati e del trovare una comunanza di idee.

Le idee non hanno il potere di cambiare il mondo, ripetono i disillusi. Sì è vero. Ma le idee condivise sì. Il rapporto delle emozioni con i legami importanti della nostra vita dice anche che il piacere è sintomo di un amore di fondo. Si tratta di cercare in appassionati dibattiti che ci legano all'amore della verità un accordo condiviso, ma più spesso bisognerà sviluppare una giusta convivenza con i dissensi esistenti; mantenerli all'interno senza la paura che impediscano il cammino, senza castrare la creatività feconda che sviluppa e ringiovanisce la vecchia Chiesa-Madre con cui abbiamo la relazione di generazione nella fede; ma anche con il coraggio di presentare i dissensi e saperli sostenere senza uscire dall'unità. Se di un ulteriore senso bisogna qui parlare è quello del "sensus fidei" (LG 12) che ha forse anche un po' le caratteristiche di quel canto liturgico di cui parlavano alcuni Padri della Chiesa: cuori concordi ma non all'unisono. In fondo la teologa -- forse più del teologo? -- sa che sopportare il dissenso è già esercizio di accettazione di quell'acategoriale che è la stessa fede.

[Relazione per il Seminario CTI Sui generis, Tivoli 20-22 aprile 2007.]

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Note

  1. Su questa posizione antica ritroviamo anche il fondatore della logoterapia, fuori da ogni sospetto cristiano: V. Frankl, Homo patiens. Soffrire con dignità: "Il principio di piacere non è un principio psicologico, ma patologico: se esso ha una certa qual validità, ciò non avviene per i fatti normali, ma per quelli patologici. Originariamente l'uomo non cerca mai il puro piacere ma sempre un senso. Il piacere viene di per se stesso con il raggiungimento di uno scopo: è una conseguenza, non un fine. Il piacere deve conseguire non essere ricercato primariamente. È un effetto, non un'intenzione, qualora o si rendesse oggetto di intenzione, si fallirebbe in pieno", Brescia 1998, 39. Testo

  2. Cfr. LA III,69-72; Opif. 161. Testo

  3. Il termine pathos indica oramai solo la passione sessuale (l'omossessualità in Rm 1,26; in Col 3,5 ricorre accanto a porneia e epithymia kakè; in 1Ts 4,5 il pathos epithymias si riferisce alla passione libidinosa dei pagani nel matrimonio, cfr. G. Schneider, "pascho": Dizionario Esegetico del Nuovo testamento, 2 voll., H. Balz - G. Schneider (edd.), tr. it. a cura di O. Soffritti, Brescia 1, 1996; 2, 1998, II, 712). La parola patema significa per lo più le sofferenze di Cristo e del cristiano, ma anche le passioni peccaminose collegate alla sarx come in Gal 5,24 (patema kai epithymia) o Rm 7,5. Anche se in Ef 4,26 sembra esserci una maggiore indulgenza nei confronti dell'ira rispetto per esempio a Mt 5,22 dove era invece rigidamente condannata (Cfr. R.A., Layton, "Propatheia: Origen and Didymus on the Origin of the Passions": Vigiliae Christianae 53 (2000) 262-282, qui 262). Epithymia come desiderio carnale (sarkikos) cfr. Gal 5,16; Ef 2,3; 1Pt 2,11; 2 Pt 2,18; Rm 13,14; 2Pt 2,10, entra a far parte di un catalogo di vizi, Col 3,5; Tt 3,3; 1Pt 4,3; anche Rm 1,24; Gal 5,16; 1Tim 6,9; 2Tm 3,6; 1Pt 4,2. In Ef 4,22, desideri di inganno; Col 3,5 esorta a mortificare emozioni e desideri cattivi tra cui il desiderio insaziabile che è identificato con l'idolatria. Ma ancor di più nelle lettere canoniche questo ambito semantico si ricopre di una negatività che ha il carattere della disobbedienza stessa a Dio e quindi del peccato stesso: 2Pt 3,3; Gd 16;18. In Gc 1,13-15 l'epithymia è personificata (in una prostituta) e intesa in senso negativo come concupiscenza che genera il peccato. Come in questo passo, anche in Rm 7,7 l'epithymia si trova nella sequenza con il peccato e la morte nel contesto della reinterpretazione di Gen 3. Tale contesto risente fortemente quindi della tradizione giudaica che aveva identificato direttamente il desiderio con il peccato. In 2Pt 1,4 la corruzione è collegata alla concupiscenza. Anche 2Pt 2,10 presenta una totale consequenzialità tra desideri, passioni impure, oltraggio al Signore, peccato (dove appare il termine "carne"). Infine su questa stessa linea anche 1Gv 2,16-17 con la definizione triplice del peccato, contrario alla volontà di Dio. Testo

  4. Cfr. D.G. Hunter, "The Language of Desire: Clement of Alexandria's Transformation of Ascetic Discourse" , in: V. Wimbush (ed.), Discursive Strategies, Ascetic Piety, and the Interpretation of Religious Literature [Semeia 57]. Scholars Press, 1992, 95-111. Testo

  5. Cfr. Rahner K., "Lé début d'une doctrine des cinq sens spirituels chez Origène": Revue d'Ascétique et de Mystique 3 (1932) 113-145; Cattaneo E., "La dottrina dei 'sensi spirituali' in Origene: nuovi apporti", Adamantius 11 (2005) 101-113. Testo

  6. Cfr. Zorzi M.B., "La reinterpretazione dell'eros platonico nel Simposio di Metodio d'Olimpo": Adamantius 9 (2003) 102-127. Testo

  7. Cfr. A.A. Mosshammer, "The Created and the Uncreated in Gregory of Nyssa Contra Eunomium 1,105-113", in: L.F. Mateo-Seco - J.L. Bastero, El "Contra Eunomium I" en la producción literaria de Gregorio de Nisa. VI Coloquio Internacional sobre Gregorio de Nisa, Pamplona 1988, 353-379. Testo

  8. Cfr. Desalvo C., L'"Oltre" nel Presente: la filosofia dell'uomo in Gregorio di Nissa, (Platonismo e filosofia patristica. Studi e testi 9), Milano 1996. Testo

  9. Cfr. Daniélou J., Platonisme et théologie mystique, Paris 1944. Testo

  10. Cfr. Norris R., "Two Trees in the Midst of the Garden (Genesis 2:9b): Gregory of Nyssa and the Puzzle of Human Evil", in: In Dominico Eloquio - In Lordly Eloquence. Essays on Patristic Exegesis in Honour of R. L. Wilken, P.M. Blowers - A. Russell Christman - D. G. Hunter edd., Cambridge 2001, 218-241. Testo

  11. Tra i padri una visione positiva della sessualità andrà cercata anche in Nemesio di Emesa (su cui cfr. B. Motta, La mediazione estrema. L'antropologia di Nemesio di Emesa fra platonismo e aristotelismo, Padova 2004) e il monaco Melezio del IX sec. autore anche lui come Nemesio di Emesa di un De natura hominis, ne discute ampiamente C. Nardi, L' eros nei Padri della Chiesa. Storia delle idee, rilievi antropologici, Montespertoli 2000. Testo

  12. "Quando però mi tornano alla mente le lacrime che canti di chiesa mi strapparono ai primordi nella mia fede riconquistata, e alla commozione che ancor oggi suscita in me non il canto, ma le parole cantate, se cantate con voce limpida e la modulazione più conveniente, riconosco di nuovo la grande utilità di questa pratica. Così ondeggio fra il pericolo del piacere e la constatazione dei suoi effetti salutari, e inclino piuttosto, pur non emettendo una sentenza irrevocabile, ad approvare l'uso del canto in chiesa, con l'idea che lo spirito troppo debole assurga al sentimento della devozione attraverso il diletto delle orecchie" Conf. X,33,50; "Ma che amo, quando amo te? Non una bellezza corporea, né una grazia temporale: non lo splendore della luce, così caro a questi miei occhi, non le dolci melodie delle cantilene d'ogni tono, non la fragranza dei fiori, degli unguenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra accette agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio. Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell'amare il mio Dio: la luce, la voce, l'odore, il cibo, l'amplesso dell'uomo interiore che è in me, ove splende alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, ove risuona una voce non travolta dal tempo, ove olezza un profumo non disperso dal vento, ov'è colto un sapore non attenuato dalla voracità, ove si annoda una stretta non interrotta dalla sazietà. Ciò amo, quando amo il mio Dio" X, 6.8. Testo

  13. Cfr. J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio. Studio sulla letteratura monastica del Medioevo, Milano 2002. Testo

  14. M. Benasayag - G. Schmit, L'epoca delle passioni tristi, Milano 2005, 61. Testo

  15. "La cioccolata? Molto meglio di un bacio appassionato", Repubblica 16 aprile 2007: http://www.repubblica.it/2007/04/sezioni/scienza_e_tecnologia/cioccolata-bacio/cioccolata-bacio/cioccolata-bacio.html. Testo

  16. Perché per esempio l'uomo debba dire alla donna: "I tuoi denti come un gregge di pecore tosate /che risalgono dal bagno; tutte procedono appaiate...", mentre avrebbe potuto dire: "Non ti manca nemmeno un dente!" oppure: "Hai un bel sorriso!". Testo

  17. Lo riporta L. Muraro, Il dio delle donne, Milano 2003, 31-39. Testo

  18. Cfr. M. Nussbaum, L' intelligenza delle emozioni, Milano 2004, 17. Testo

  19. L' intelligenza delle emozioni, 17-34. Testo

  20. Nussbaum, L'intelligenza delle emozioni, 19. Testo

  21. G. Sissa, Eros Tiranno. Sessualità e sensualità nel mondo antico: "L'indipendenza del pene lancia una sfida costante alla psicologia e all'etica. L'anatomia femminile, invece pur essendo fallica per analogia, si nasconde in uno spazio interiore... inaccessibile allo sguardo. Il desiderio, anche quello più fisico, non si manifesta quindi nella stessa vistosa, indubitabile presenza... si elabora un discorso interpretativo, psicosomatico che, da un lato, lega la pulsione erotica a tutti gli altri aspetti della soggettività, e dall'altro rivela eros attraverso segni e sintomi", Bari 2003, 24. Testo

  22. In a Different Voice. Psychological Theory and Women's Development, Cambridge 1982. Si noti anche la pericope di Lc 7,36-8,3, in cui tutta la varia gamma di espressione dell'affetto della donna (5 verbi!) viene ridotta dal maschio-fariseo ad un solo verbo, evidentemente il più problematico: "lo tocca!". Gesù invece si accorge e valorizza tutti i modi di espressione affettiva della donna e la lascia fare. Un uomo che ha integrato davvero in sé l'altro aspetto del mondo e può lasciarlo essere.Testo

  23. Non a caso il profumo, nardo per Mc 14,3 e Gv 12,3, ricorda temi del Cantico. Testo