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Studi di genere: dal passato remoto al passato prossimo, dal presente al futuro non prossimo: commenti

(29 marzo 2006)

La recensione al testo di Kari Elisabeth Børresen ha suscitato un lungo commento in cui si evidenziano i caratteri intrinsecamente femminili del Nuovo Testamento, in contrasto alla lettura che vorrebbe vedervi un'impostazione misogina. Dello stesso autore si può leggere l'articolo su Femminile e femminino.

Per ora mi limito a due osservazioni. La prima è che in effetti non ha nessun senso applicare a Dio solo una simbolica maschile. Da questo punto di vista le critiche della teologia «al femminile» mi sembrano non solo pertinenti, ma del tutto profetiche, considerando che mossero le acque ben prima che Giovanni Paolo I affermasse che Dio è (anche) madre. A questo proposito, però, mi pare che non si debba sopravvalutare la patristica e sottovalutare il NT, dove ci sono infatti almeno tre passi chiarissimi. Cito solo il più eclatante: Gv 1, 18 in greco è ben altro dalle nostre traduzioni edulcorate. Per Giovanni il rapporto del Verbo al Padre è descrivibile attraverso l'anatomia muliebre, come unica metafora adeguata per esprimerne l'intimità accogliente. Seguendo il tracciato di quella parolina (che ricorre altre 3x nel NT), si avrebbero delle sorprese interessanti. Per contro, inevitabilmente, sottovalutando questi testi si sopravvaluta 1Cor 11, 7.

Cerco di spiegarmi: sul piano storiografico, che la patristica abbia enfatizzato il versetto più del dovuto è plausibile (non ho controllato, ma mi fido della Børresen). Tuttavia altro è il piano storiografico e altro quello strettamente teologico. Il NT non è il neoplatonismo cristiano, che ne è una corruzione, per quanto involontaria e inconsapevole. Ora, sul piano strettamente teologico, ciò che fa testo è in primo luogo la Scrittura, alla quale non è corretto applicare un'ermeneutica approssimativa. Voglio dire che il piano sociologico non va esagerato fino a farne una chiave di lettura persino della teologia trinitaria. Questo è un grave errore di metodo, dal quale mi parrebbe necessario prender le distanze, e che va stigmatizzato in proporzione alla sua diffusione effettiva.

Indubbiamente nella Scrittura le simbologie maschili sono più frequenti. Ma questo che significa? Solamente che la società del tempo era quella che era. Tuttavia in quella società Gesù, gli agiografi e la Chiesa inseriscono registri di ben diverso segno. Nelle genealogie di Gesù sono presenti delle donne, ed è una stranezza per il tempo. In Lc 15, 8-10 la donna è un'evidente metafora di Dio, perché il parallelismo col buon pastore dei precedenti vv. 4-7 è innegabile. E se qualche esegeta vorrà sostenere che il pastore è metafora del Verbo, e non del Padre, ciò significa che Gesù si identificava allo stesso modo in un uomo e in una donna. E Gesù, fino a prova contraria è Dio. Perciò l'intenzione di Luca, che invece di omettere una delle due parabole non solo le mantiene, ma le mette di seguito, è quella di un parallelismo simbolico voluto. Ma un esempio ulteriore può giovare.

In Lc 8 a mio parere la prima cesura è al v. 22, e non al v. 4, che non introduce alcuna novità temporale. Se dunque leggiamo la sezione 8, 1-21 come una pericope unitaria, il testo si fa intrigante. Infatti: a) è vero che le discepole sono nominate dopo i Dodici, ma ben tre per nome e non in forma anonima. E, in più, si aggiunge che sono le finanziatrici della predicazione, ciò che non è mai detto in modo chiaro di qualche discepolo. Dunque sono discepole a pienissimo titolo, e se al v. 9 vi è un maschile, non si deve intendere in modo restrittivo, ma secondo la figura retorica della parte per il tutto, comune nella letteratura non solo antica. Le discepole dunque non solo assistono coi loro beni, ma partecipano alle catechesi che Gesù fa ai propri seguaci più stretti, a coloro che gli sono intimi. E infatti Lc 10, 39. 41 è chiarissimo: la donna non è fatta solo per correre, ma Gesù gradisce moltissimo che ella accolga la sua parola (è infatti Maria e Maria mistica la terra la bella -- Mc 4, 8 -- che si apre da sola per accogliere il seme). Anzi, Gesù preferisce l'ascolto al correre. Ma allora Lc 8, 16-21 probabilmente dice ben di più di quanto di solito vi si legga: e cioè che proprio chi ascolta con maggior amore (v. 18, cfr. Lc 10, 39 e Lc 2, 19. 51) avrà quel di più di luce che legittima il suo non esser messo sotto il moggio, ma sopra al lucerniere. E cioè in una posizione di visibilità ecclesiale. Se infine leggiamo il v. 21 illuminati dall'Amore di Luca per Maria, è impossibile fraintendere. La massima autorevolezza è quella di Maria (Luca non conobbe direttamente Gesù), la cui parola detta in segreto deve essere predicata sui tetti (v. 17, e 12, 3). Gesù simmetrizzando i discepoli alla Vergine non diminuisce la sua mamma, ma fa capire cosa debba essere un cristiano. E Luca ci dice tra le righe chi è la sua fonte «misteriosa» e la fonte della sua teologia altissima e non paolina.

In questa sede non posso argomentare in dettaglio tutte le affermazioni fatte e le interpretazioni che ho dato. In parte in articoli già pubblicati larghe esposizioni non mancano. In parte consento che le mie analisi possano essere solo plausibili. Ma in questo momento io sto parlando della foresta, e mi pare che il giudizio complessivo non resti inficiato dal fatto che la valutazione di un rametto sia migliorabile. Se infatti questa fosse la critica, essa si ritorcerebbe immediatamente contro quell'esegesi che partendo da 1Cor 11, 7 poi generalizza. Per cui prima di accusare gli evangelisti di misoginia, come purtroppo è stato fatto, io penso che occorrerebbe qualche maggior cautela, in modo da non essere accusabili dal Croce di antistoricismo. L'opera letteraria del NT, complessa e composita, nella gran parte del materiale è giunta a noi in redazioni o edizioni tardive, in alcuni casi certamente glossate e mai in senso filogino, mentre glosse misogine sono accertate. Proprio queste glosse, la pseudoepigrafia paolina e un esame comparato con la letteratura coeva, consente di percepire l'esistenza di una forte corrente innovativa di cui gran parte degli agiografi neotestamentari erano consapevoli portatori, benché ne siano stati interpreti con toni teologici e letterari abbastanza personali.

Del resto anche con argomenti di critica interna si potrebbe evidenziare il medesimo scenario. Si pensi per es. al fatto che secondo Eusebio il quarto Vangelo ebbe anche chiare intenzioni correttive/chiarificatrici. Ora sotto il profilo che ci interessa è indubbio che esso riprenda la teologia «di genere» marciana, esplicitando ciò che in Marco è implicito (Mc parla pochissimo delle donne, ma bene -- vv. 15, 40ss: Gesù è morto, i Dodici sono evaporati, ed ecco che emerge la fedeltà di una Chiesa muliebre, fino a questo punto rimasta nel nascondimento: la croce ha fatto chiarezza [Mc 4, 22!] --; molto dei discepoli, ma enfatizzandone le incomprensioni del Maestro, i tradimenti ecc. Ora che accade se leggiamo il suo Vangelo intendendo il segreto messianico come spiritualità del nascondimento, traccia già proposta da qualche esegeta? Succede che si sviluppa il negativo, come nel caso della sindone, ed emerge la potenza di un inno a Maria e alle discepole come le vere seguaci di Gesù e le vere maestre. Un inno criptato, ma chiaramente decodificabile a partire dalla spiritualità kenotica della Chiesa apostolica. E allora il problema non è la misoginia degli agiografi, ma il fatto che con le persecuzioni e la deriva involutivo-sacrale -- evidenziata magistralmente da Castellucci -- si è persa la coscienza ecclesiale della corretta chiave di lettura). Passando da Marco a Giovanni vi è un crescendo non solo della visibilità femminile, ma di una teologia elaborata a partire da un punto di vista muliebre-mariano. Ora questo è moltissimo, e il suo peso emerge con chiarezza dall'esame della letteratura apocrifa posteriore, che nel suo complesso va progressivamente in senso divergente. Su questo tema ho tenuto una relazione lo scorso maggio al Congresso di letteratura cristiana antica promosso dall'Augustinianum, e non mi allargo.

Infine la Chiesa accoglie nel canone il Libro di Giuditta, che per gli ebrei è apocrifo. E in Giuditta è una donna che media la salvezza al popolo. Non che queste siano le uniche tracce, ma voglio dire che già bastano per sovvertire luoghi comuni che indubbiamente hanno senso storiografico, ma nessun senso teoretico. La Børresen ha ragione a sostenere che una cultura misogina fraintende il Vangelo. Ma non è che una mera cultura ginocentrica lo fraintenderebbe di meno. Dunque abbiamo bisogno gli uni degli altri, gli uni degli occhi degli altri o, per essere più esatti, gli uni degli occhi delle altre e viceversa. Se leggiamo il NT con gli occhiali di una sensibilità ferita, è inevitabile che si perdano molti tesori: e questo vale per chiunque.

Ma c'è un secondo punto che merita di essere discusso. Nella Scrittura abbiamo due linee teologiche ben distinte e riconoscibili: una della simmetria e una dell'antisimmetria. Se leggiamo la Scrittura partendo dal paradigma illuminista dell'uguaglianza, una sola delle due è accettabile. Ma se cerchiamo di leggerla senza preconcetti, la domanda è un'altra: come mai lo Spirito Santo ha consentito una tale compresenza, inclusiva del fatto che il Verbo di Dio si sottomise ai suoi genitori? Se la linea teologica dell'antisimmetria fosse contraria all'uguaglianza e alla giustizia, Gesù non avrebbe dovuto restare sottomesso, e men che mai Luca avrebbe dovuto ricordarlo. Che cos'è infatti più scandaloso: che la donna sia sottomessa all'uomo, o che il Verbo di Dio sia sottomesso a una donna? E chi è più a immagine del Verbo che si sottomette e si svuota? Ora osserviamo con attenzione: nella sottomissione della donna all'uomo è molto più certa l'imagodeità muliebre che maschile. Certissima se la donna si sottomette per amore. Ma anche nel caso che la sottomissione sia subita contro voglia, entra in campo Mt 25, 45 che salva chi è all'infimo della scala sociale, ma non chi è al vertice. Perciò solo una teologia statica, balorda e superficiale ha potuto sostenere che la donna non fosse creata a immagine di Dio, tanto più che proprio in 1Cor 11 ai vv. 7-10 asimmetrizzanti seguono i vv. 11-12 simmetrizzanti. Dunque Paolo tiene insieme le due linee teologiche, e prescindere dalla seconda non è il miglior modo di fare esegesi.

Detto questo il discorso non è finito, perché le due distinte linee teologiche assumono senso nel dinamismo della reciprocità. Una metafora propria della vita trinitaria, per quanto inedita, è la corrente alternata. E allora essa dovrebbe essere anche una metafora propria della Chiesa, secondo quella teologia della mutua interiorità tanto cara al card. Ruini, ma non certo solo a lui. Strada da fare -- è chiaro -- non ne manca. Ma la deriva egalitaria secondo modelli statici è altrettanto sbagliata della deriva centralista secondo i medesimi modelli non dinamici. Infatti che la carità la si uccida o la si narcotizzi, l'effetto è il medesimo. Ma perché la carità possa esprimersi attivando flussi comunicativi occorrono differenze di potenziale (su questo concetto mi dilungo in un saggio di imminente pubblicazione). E questo è a mio parere il motivo profondo per cui alle donne non è negata la profezia, e per cui non ha senso impedir loro di studiare teologia. Infatti Maria la Scrittura la conosceva benissimo.

La mia opinione è che chi ha inventato il pudore sia lo Spirito Santo, e che proprio l'anonimato dei Vangeli sia un indicatore attendibile che di pudore ne era passato almeno un poco anche negli evangelisti, benché maschi. Ma il pudore vela, s-vela e ri-vela. Non possiamo accostarci a ciò che è ispirato dallo Spirito Santo con le attese di chi guarda un reality show, o con aspettative culturalmente mondane. I Vangeli furono scritti con Amore e per Amore, e vanno letti direi col rossore di una devozione amorosa. Ecco perché a volte mi addolora dover constatare che leggendo con troppo poco amore si perda ciò che il pudore ha ri-velato.

Chiudo tornando a Mc. A mio parere la sua è una teologia dell'intimità soprannaturale (oltre a Mc 14, 36 -- fondamentale! -- ricordo che ben il 30% circa del materiale marciano è narrazione di miracolo, ossia comunicazione riservata -- ciò che si chiarisce considerando le differenze dell'esordio marciano rispetto agli altri sinottici -- delle opere di Dio, coinvolgimento dei lettori-uditori nell'abbraccio di tenerezza del Padre), è una teologia detta sottovoce. L'intimità è il «dentro» dove i segreti sono rivelabili e intelligibili perché il calore dello Spirito illumina e clarifica, e perciò il mistero del regno -- Mc 4, 11 -- è consegnabile e consegnato (mistero = disegno di intimità soprannaturale, ossia comunione dei santi). Poi c'è il «fuori», dove i disegni di Dio sono annunciati, ma non compresi, perché manca l'intimità. E allora si chiarisce perché l'invito a tacere (è inutile parlare, se prima non si stabilisce un rapporto di intimità soprannaturale), e anche la centralità della parabola del seme e della terra la bella, che è il riassunto della sua visione del mondo. Fuori dall'intimità che mai può succedere al seme? Che o non si sviluppa per nulla, oppure abortisce senza portare a sua volta frutto. E allora l'intera missionarietà e soteriologia marciana è letta nella prospettiva di una simbologia anche muliebre, indispensabile per renderne intelligibile la narrazione in una visione unitaria, nutriente, elevante ed ecclesiologicamente efficace ed edificante. Ma, se è così, -- e il cuore mi conferma che non può che essere così -- non poco deve essere riconsiderato e ripensato.

Roberto A. Maria Bertacchini