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Studi di genere: dal passato remoto al passato prossimo, dal presente al futuro non prossimo

di M. Benedetta Zorzi (31 agosto 2004)

Kari Elisabeth Børresen, From Patristics to Matristics. Selected Articles on Christian Gender Models, Herder, Roma 2002, 316 pp., € 35,00.

Una sintesi del libro

Il termine «femminista» suscita oggi spesso irritazione, anche tra le donne, forse per un certo senso di estremismo che vi si associa. Dirsi femministe oggi sembra quasi doversi e volersi battere per una sorta di androcentrismo ribaltato. Le nuove generazioni di donne sono tuttavia coscienti che, come effetto delle strenue lotte delle femministe «arrabbiate» della prima ora, possono godere oggi di una situazione tutto sommato abbastanza alla pari con l'altro sesso nella società, almeno nella formazione e finchè non si entra nel campo del lavoro (che oggi diventa sempre più un miraggio anche a trent'anni), perfino in Italia. Tuttavia, anche se con riluttanza, nella «questione» femminile prima o poi ci si imbatte, o forse ci si sbatte,1 finendo per capire anche perché l'abbiano chiamata questione. Nonostante il disorientamento iniziale e una certa inquietudine, che potrebbe afferrare chi comincia a prendere coscienza di quali e quanto vaste siano le problematiche e le implicazioni legate al tema, soprattutto quando si entra in ambito teologico, tuttavia una cosa diventa subito chiara, in modo particolare a chi si occupa di questioni patristiche in prospettiva di genere: prima o poi deve leggere qualcosa (o forse molto) di Kari Elisabeth Børresen, la studiosa norvegese che considera il femminismo, prima che un'istanza politica, la più grande rivoluzione epistemologica della storia. Si capirà quindi la mia sorpresa, quando questa grande esperta mi ha proposto di fare la recensione alla sua ultima pubblicazione, chiedendomi esplicitamente di aggiungervi anche la reazione che provocano i suoi studi oggi su una teologa in fieri.

Prendendo a sfogliare il libro in questione, la sorpresa si fa domanda: sono ben nove infatti le pagine (in interlinea ristretta!) della Tabula gratulatoria. Una fitta trama di rapporti internazionali, da Oslo a Messina, dall'Australia alle Mauritius. Cosa spinge una studiosa di fama internazionale, pioniera negli studi di genere, ad affidare ad una giovane monaca benedettina italiana, per di più non ancora dottorata, la recensione di un suo libro? Kari E. Børresen non ha bisogno che la si renda famosa, né che qualcuno si impegni per diffondere l'importanza dei suoi studi. Leggendo i suoi articoli, tuttavia, si comprende subito che la sua convinzione fondamentale è che lo studio stesso della storia delle idee costituisca una parola incontrovertibile e uno slancio inevitabile verso il rinnovamento della riflessione teologica e che in modo particolare gli studi in prospettiva di genere costituiscano una sorta di bomba ad orologeria innescata in certi modelli culturali, linguistici, istituzionali, simbolici, gerarchici e politici. Di qui la sua particolare stima e l'incoraggiamento per gli studi di giovani ricercatrici e ricercatori.

Nella prima parte di questo articolo, quindi, mi atterrò strettamente alle analisi della studiosa, presentandone una sintesi. Mi riservo in conclusione alcune osservazioni, in cui mi permetto di tenere conto anche della mia prospettiva di monaca benedettina.

Le 316 pagine del testo From Patristics to Matristics. Selected Articles on Christian Gender Models, pubblicato in occasione del suo 70º compleanno il 16 ottobre 2002, raccolgono -- come spiega il sottotitolo -- 14 articoli della nostra pioniera (10 in inglese e 4 in francese) apparsi in varie riviste.

Una riconoscente introduzione alla parabola personale e accademica di Kari E. Børresen,2 compilata da Øyvind Norderval e Katrine Lund Ore apre la raccolta, suddivisa in sei grandi aree tematiche. In queste prime pagine si ricorda brevemente l'innovazione degli studi di Børresen, quando il campo di ricerca (la patristica) e l'epoca (a cavallo del Concilio Vaticano II) erano ancora fortemente arroccati in prospettiva maschile. Viene sottolineato come la sua cattolicità -- che ella ha portato anche con sofferenza su di sé, negli anni in cui si vedeva esclusa dall'insegnamento in Norvegia3 -- sia uno dei paradigmi strutturali del suo pensiero e della sua ricerca (il rapporto tra Sacra Scrittura e Tradizione e il processo di inculturazione continua che lo implica). Si allude all'influsso del circolo di Parigi della comunità di Le Saulchoir, nel periodo della sua formazione scientifica e cioè in concomitanza con il Concilio, di cui ne respira l'aria alla scuola di M.-D. Chenu e Y. Congar. Infine, la pietra angolare sugli studi di genere, posta con la sua tesi di abilitazione che porta la significativa data del 1968. Si ricordano anche i punti forti degli studi di Børresen: la capacità di creare un linguaggio nuovo,4 la già menzionata idea di inculturazione progressiva e la connessione tra sesso biologico e genere socio-culturale. Un triplice fondamento, antropologico, linguistico e teologico, porta la studiosa ad enfatizzare la necessità dell'accesso delle donne al sacerdozio e alle funzioni di insegnamento e governo, in quanto create ad immagine di Dio.5 Infine, vengono ricordati i progetti e i tanti incontri che Børresen ha organizzato a livello europeo e internazionale, forte della sua alta e ampia reputazione e la sua capacità di guardare in avanti, non solo sostenendo giovani studiosi, ma prevedendo anche le nuove sfide culturali (ne sono un esempio le aperture dei suoi studi più recenti sull'Islam).6 L'introduzione ricorda anche il lungo periodo di difficoltà di Børresen, prima di riuscire a insegnare nella sua patria (nemo propheta), ma anche il marchio del vero profeta e cioè il riconoscimento della storia,7 che l'ha ripagata forse del prezzo della marginalità in cui sono stati relegati per anni i suoi studi. Questi oggi costituiscono una pietra miliare della ricerca e continuano a provocare e ispirare le giovani generazioni.

La prima parte della raccolta, intitolata «Religion and Gender», è costituita da un unico articolo del 1997 («Recent and Current Research on Women in the Christian Tradition»), in cui Børresen riassume la propria ricerca e i problemi principali ad essa connessi. Questa sorta di status quaestionis dà anche una panoramica esatta di tutti i temi che poi saranno svolti e ripresi, più o meno ampliamente, negli altri articoli.

Prendendo le distanze dal modello antropologico platonizzante, imperante fino al XIX secolo, che definisce il genere umano dualisticamente, identificando un'anima asessuale in un corpo maschile o femminile, Børresen ricorda che i Gender Studies presuppongono l'unione psico-fisica dell'uomo: ciò rende anacronistico distinguere tra sesso, come biologicamente determinato, e genere, come costruito sociologicamente. Il genderedness diventa così una categoria analitica che permette di ripensare gli assiomi e le strutture portanti, non solo della tradizione ecclesiastica, ma dello stesso linguaggio umano su Dio e dell'epistemologia.

Abbiamo qui quindi -- in seguito ripetute -- le questioni metodologiche, la periodizzazione dei vari modelli culturali nella storia della Chiesa dei primi secoli e soprattutto la focalizzazione dei passi biblici chiave, attorno ai quali ha ruotato l'esegesi patristica a riguardo (Gen 1,26-27; 2,7; 1Cor 11,7; Gal 3,28; Ef 4,13; Col 3,10-11)

Secondo Børresen, i vari modelli culturali di genere che si sono susseguiti nella storia possono suddividersi così:

  1. Un modello valido fino al IV sec., che Børresen chiama monismo androcentrico, in cui l'esemplarità dell'essere umano è costituita dall' Adamo-maschio e le donne possono raggiungere questo livello diventando maschi «onorari» in Cristo (i testi chiave sono 1Cor 11,7; Col 3,10-11; Ef 4,13). La subordinazione creaturale delle donne cede il passo ad una equivalenza redentiva che viene anticipata tramite una defemminilizzazione, evidente in modo particolare nella scelta dello stato di verginità o di vedovanza.
  2. Una corrente che inizia con Clemente Alessandrino, tra il III e il V secolo e che diventa normativa nel medioevo, denominata dualismo androcentrico: sia l'uomo che la donna devono raggiungere una imago Dei asessuale o metasessuale, come lo è l'anima razionale (al centro è il passo di Gal 3,28).
  3. La terza fase, che inizia solo con l'esegesi femminista del XIX secolo, inaugurata dalla norvegese Aasta Hansteen (1878) e denominata dalla nostra studiosa monismo olistico, attribuisce l'immagine di Dio agli uomini e alle donne in quanto uomini o donne e usa metafore femminili o maschili per parlare di Dio. Questa fase Børresen vede anticipata da alcune pensatrici medievali. Tale mentalità è normativa nel XX secolo, ma è stata adottata di fatto solo dai teologi protestanti, che riconoscono la capacità anche cultuale alle donne. I cattolici, invece, si trovano in un conflitto, in quanto affermano simultaneamente due principi dottrinali dai presupposti contrari e quindi tra loro incompatibili: da una parte un modello che riconosce pari dignità alle donne e dall'altra le conseguenze di una tradizione fondata sul primo modello. Gli ortodossi, poi, sono rimasti al secondo schema b) e sono completamente alieni da questo terzo modello.

L'arcaico schema a) sopravvive nella tipologia (iniziata con Giustino e Ireneo) Adamo-Cristo, Eva-Maria/Chiesa. Tale tipologia resta ancora oggi normativa nella cristologia, nella ecclesiologia e (con effetti particolarmente disastrosi) nella mariologia, sia in campo cattolico, sia ortodosso.8 In questo schema, infatti, è in azione l'asimmetria di genere nell'ordine della salvezza. L'umanità è ginecomorfica, Chiesa/Maria nuova Eva, in quanto subordinata (sulla base di testi chiave quali Rm 5,14; Ef 5,32); ne deriva l'incapacità cultica della donna.

Nel medioevo, si assiste ad uno slittamento di modelli: l'incarnazione di Cristo, nel suo farsi vulnerabile, viene capita come una prerogativa femminile. Donne come Ildegarda di Bingen, che vede l'immanenza divina come una caratteristica femminile e che -- riallacciandosi ad una tradizione già presente in 1Cor, 23-24 -- parla di Dio come Sapientia, Creatrix, Caritas, Scientia, o Giuliana di Norwich, che introduce la metafora femminile a livello divino, parlando di Cristo-Madre e della sua maternità a livello preesistente, da una parte offrono un modello di umanità femminile ad immagine di Dio, dall'altra introducono il linguaggio di genere nel discorso su Dio e formulano la ginecomorfia dell'umana natura di Cristo.

L'idea che la donna sia creata ad immagine di Dio e sia redenta in quanto donna, insomma, è frutto di un lungo sviluppo dottrinale che si è attuato tramite l'interpretazione inculturata della Sacra Scrittura nella tradizione cristiana. Con questo modello di sviluppo, abbiamo la chiave per affrontare tutte le sfide che ogni nuova cultura impone e propone alla fede. Infatti, Børresen è convinta che la Scrittura stessa vada presa in blocco, come frutto di una cultura patriarcale. In nessun luogo della Bibbia, cioè, viene affermato in senso letterale che la donna è creata ad immagine di Dio. È solo l'interazione tra Scrittura e tradizione (il processo di inculturazione) che invece ci dà un modello e un impulso per il rinnovamento della teologia. Tale inculturazione comincia forse con lo stratagemma patristico dell'interpretazione allegorica. Si ritroverà spesso, tra le conclusioni di Børresen, il doppio giudizio per un padre o una madre della Chiesa: «intenzione imitabile -- contenuto dottrinale inaccettabile/inapplicabile». La studiosa considera controproducenti, quindi, anche i tentativi di certe femministe, in campo esegetico, di appellarsi a testi marginali della Bibbia o alla letteratura apocrifa, i quali mostrerebbero un minor androcentrismo rispetto alla tradizione successiva patristica o medievale. È il concetto di inculturazione cattolica ad essere, invece, secondo lei, normativo per ogni sviluppo dottrinale e teologico.

La seconda area tematica del testo, intitolata «Patristics», raccoglie quattro articoli («In defence of Augustine: how femina is homo»; «Patristic "Feminism" in the Case of Augustine»; «Gender and Exegesis in the Latin Fathers» e «La féminologie d'Augustin») che propongono più da vicino modelli di inculturazione teologica. Tra i padri più citati: Clemente Alessandrino, Agostino, Gregorio di Nissa. Questi padri, nei limiti della loro cultura patriarcale, si rivelano, ad una lettura attenta, fortemente femministi nell'intenzione. Clemente è il primo a proporre il modello dell'imago Dei asessuale o metasessuale e a considerare la donna, nella sua anima razionale asessuata, ad immagine di Dio (tramite un'interpretazione falsificata di Gal 3,28 e ignorando 1Cor 11,7).

Gregorio di Nissa include le donne nell'umanità creata ad immagine di Dio, restringendo però l'immagine di Dio al privilegio presessuale, angelico, cioè escludendo i generi dalla divinità e dall'umanità originaria di Gen 1,26 (eguaglianza asessusata). Con l'idea della doppia creazione, Gregorio pone anche l'Adamo maschio allo stesso livello, secondario e derivato, della donna (Gen 2,7.18.21-23). Si capisce come egli intenda anche l'eguaglianza restaurata in Cristo, di Gal 3,28, in senso presessuale.

Agostino include invece la femminilità come parte integrante della creazione, interpretando in modo inclusivo l'homo di Gen 1,26 e perfino il vir di Ef 4,13 (ove legge virum pro homine). Egli è il primo padre che prende di petto 1Cor 11,7, interpretandolo in modo allegorico (la donna sarebbe la ragione inferiore e l'uomo la ragione superiore). Riguardo a Mt 22,30, Agostino afferma che il fatto che non ci sarà matrimonio nella risurrezione non implica che non vi saranno le donne: le donne anzi risorgeranno qua donne, in una nuova bellezza, che tuttavia non sarà più occasione di concupiscenza (riemerge l'androcentrismo di Agostino).

Vi sono tre stratagemmi che Børresen individua nell'interpretazione di Agostino e che ancora fanno parte dell'interpretazione biblica occidentale contemporanea tesa ad includere la donna nell'essere considerata creata ad immagine di Dio:

Ne risulta un «femminismo androcentrico», nel senso che il tentativo di dare parità alla donna sul livello salvifico non arriva al punto da riconoscerle la capacità di simbolizzare l'immagine di Dio in quanto donna. Quindi, bisogna distinguere tra intenzione imitabile dei padri e contenuto fondato su premesse oggi ormai inaccettabili, come l'incompatibilità tra divinità e femminilità.

La terza parte della raccolta, dal titolo «Métaphorique féminine» è costituita da un solo articolo in francese («L'usage patristique de métaphores féminines dans le discours sur Dieu») e affronta l'intrigante problema di filosofia del linguaggio delle metafore nel discorso su Dio. Questo articolo ha l'utilità di passare in rassegna e focalizzare, sebbene succintamente, gran parte dei problemi della riflessione a riguardo. Rilevando che il discorso su Dio è una funzione dell'esperienza umana socio-culturalmente limitata e che su questa esperienza si fondano le metafore per Dio, Børresen ricorda anche che la definizione stessa di essere umano dipende a sua volta dal concetto di divinità. Il sistema patriarcale, da cui sorgono le Scritture, propone metafore sostanzialmente maschili per parlare di Dio e conseguentemente sostiene l'idea che solo l'umanità maschile sia teomorfa. La subordinazione della donna e la conseguente relazione gerarchica tra i sessi fonda tutti i simboli nuziali o femminili; tale qualificazione subordinante resta tutto sommato ancora tale nel linguaggio femminile applicato a Dio dalle madri medievali.

Vi sono, tuttavia, metafore femminili applicate a Dio anche nella Bibbia (Is 42,14; 49,15; 66,13; 13,8; Mt 13,33; Lc 15,8-10; Mt 23,37) o materne (Gal 4,19; 1Cor 3,1-2; 1Ts 2,7-8; Eb 5,12-13; 1Pt 2,2). Benché nell'interpretazione patristica le metafore femminili sembrino essere usate solo per la Chiesa, mai per Dio o Cristo, Børresen presenta un dossier di temi privilegiati dai padri per parlare di Dio con metafore femminili: la saggezza-Chiesa (Clemente Alessandrino, Ambrogio, Pietro Crisologo, Cirillo d'Alessandria); la saggezza-incarnazione (Ilario di Poitiers; Agostino); Cristo padre e madre (Agostino, Girolamo); l'allattamento divino (Ireneo, Clemente, Agostino, Giovanni Crisostomo); Dio padre e madre (Clemente, Sinesio di Cirene).

Tuttavia, è soprattutto Gregorio di Nissa a rimarcare l'inadeguatezza del discorso umano per parlare di Dio. Børresen apre così l'orizzonte sulle più recenti acquisizioni femministe nella problematica del linguaggio teologico e ricorda che Aasta Hansteen ha sottolineato l'interazione tra concezione di Dio e della persona umana; Matilda Gage ha riconosciuto in Gen 1,26-27 la presenza del femminile come del maschile nella divinità; Elisabeth C. Stanton ha affermato che la definizione di Dio determina la condizione umana. Børresen mostra che, benché queste pensatrici abbiano rilevato che la femminilità rifletta un elemento della divinità (con conseguente superamento dell'originaria incompatibilità tra femminilità e divinità) nessuna di queste ha distinto tra l'essenza divina per se e quoad nos. Børresen quindi si chiede: cosa è maschile e femminile? Non sono anche queste distinzioni provenienti da categorie socio-culturali e qualità fondate su luoghi comuni? Propone così di superare questi modelli di genere, mettendo in guardia contro alcuni pericoli:

  1. quello di fissare i sessi in una complementarità rigida, sociologicamente non intercambiabile;
  2. quello di fissare le metafore femminili su una sola persona della Trinità.

Esorta quindi a:

  1. superare il simbolismo androcentrico (nuziale) tramite una concettualizzazione e una verbalizzazione in riferimento alla totalità umana.
  2. rinnovare la cristologia e l'ecclesiologia. Ciò implica un conseguente rinnovamento della mariologia (diventata il luogo per eccellenza di insane proiezioni androcentriche).

L'articolo si chiude così su alcune questioni di teologia mariana, collegandosi in modo naturale alla problematica che forma la quarta parte del libro «Mariologie», costituita da due articoli in francese («Antropologie médiévale et Théologie mariale»; «Marie dans la théologie catholique»). Questo è un campo privilegiato dell'interazione tra l'antropologia e la teologia, ma anche la risacca di presupposti di concezioni tra loro spesso conflittuali.

Nell'antica tradizione patristica, Maria è sempre e solo stata considerata all'interno di un contesto cristologico. Non vi è alcuna allusione ad una sua maternità particolare, né si parla di lei nei termini di madre. Il solo appellativo riservatole per secoli è stato quello di Theotokos, che ha un significato fisico e concreto, e ha come scopo principale quello di indicare il carattere divino del figlio. Assente a Nicea, il termine appare a Costantinopoli, per sottolineare la nascita eterna; emerge ad Efeso, contro il Christotokos proposto da Nestorio, per sottolineare la nascita terrena e infine a Calcedonia, per indicare la doppia nascita del figlio e la doppia consustanzialità, umana e divina, di Cristo. Tuttavia, nella tradizione latina avviene uno slittamento con la traduzione di Theotokos con Dei genitrix, e un ulteriore slittamento di significato avviene col titolo mater dei (che si ritrova a partire dal VI sec. nella liturgia, e a partire dal VII nella teologia, con Ildefonso di Toledo). Quest'ultimo termine entrerà nella scolastica. Questi termini riflettono la concezione del ruolo dell'uomo e della donna nella generazione, in base all'antropologia e alla medicina dell'antichità. Poichè l'ovulo femminile è stato scoperto solo nel 1827, l'antica concezione medica riteneva che solo l'uomo avesse ruolo attivo nella procreazione, mentre si credeva che la donna fosse meramente passiva (ginecologia androcentrica). Nei termini Theotokos, Dei genitrix si riflette quindi l'idea del ruolo di Maria come semplice ricettacolo nella concezione del Figlio di Dio. Su questa base, veniva a rinforzarsi anche il ruolo meramente strumentale della donna, già presente nella tipologia Adamo-Cristo (Rm 5,14) Eva-Chiesa, tipologia che ha inizio con Giustino (Dial. 100) e Ireneo (Adv. Haer. III, 22,4; V,19,1) e che dà vita al simbolismo nuziale di subordinazione (sulla base biblica di Os 1,19-20; 2Cor 11,2; Ef 5,31-31) e che a partire dal IV secolo (con Ambrogio) inserisce Maria in un ruolo intercambiabile con quello della Chiesa. Da questo momento in poi, la Chiesa/Maria è vergine e madre, sposa vergine di Cristo. Tuttavia, in epoca patristica la Chiesa sembra avere ancora la priorità su Maria. Maria quindi è sempre considerata in rapporto alla cristologia o all'interno della ecclesiologia. Con le definizioni dogmatiche del 1854 e del 1950, invece, avviene un cambiamento notevole e il discorso su Maria diventa «mariologico», concernente cioè direttamente Maria.9 Questi due dogmi offrono due interessanti casi di sviluppo del dogma.

Il dogma dell'Immacolata concezione presuppone la dottrina agostiniana del peccato originale, secondo la quale il peccato viene trasmesso nella generazione fisica per via paterna. Tuttavia, per Cristo non si può pensare ad una tale contaminazione del feto (infectio carnis). Fin dal VII secolo, con Giovanni Damasceno, comincia a farsi perciò strada l'idea di un qualche intervento divino che abbia purificato Maria in vista della sua maternità. In seguito, la scolastica ammise in una prima tappa un tale intervento che abbia preservato Maria dall'infectio carnis, liberandola da ogni peccato attuale e veniale, e in una seconda tappa al momento della concezione di Cristo la soppressione in lei del peccato originale, per spezzare il collegamento tra procreazione e contaminazione.

Il dogma dell'Assunzione (antico tema della Dormitio) presuppone invece una concezione antropologica di origine platonizzante, la quale contempla la divisione anima-corpo e un distinto destino di queste due parti nella risurrezione (l'immortalità dell'anima e la corruzione del corpo). Tuttavia, l'intervento che ha sottratto il corpo di Maria alla trasmissione del peccato originale (dogma del 1854) rende impensabile la putrefazione del suo corpo, che infatti sarebbe la pena del peccato originale. Questo dogma, quindi, è la logica conseguenza del dogma dell'Immacolata concezione. Tuttavia, mentre quest'ultimo attribuisce a Maria un posto eccezionale nell'economia della salvezza, il dogma dell'Assunzione si lascia ancora iscrivere in una concezione cristocentrica, nel senso che può essere inteso come anticipazione esemplare in Maria di una pienezza che tutti saranno chiamati a ricevere e che la risurrezione di Cristo ha procurato (anche a Maria).

Mentre il Vaticano II ha reinserito Maria in un contesto ecclesiologico (ecclesia mater) e cristocentrico, determinando la fine della «mariologia», il post-concilio ha di nuovo tentato di dare a questa donna un ruolo cristotipico e di priorità sulla Chiesa, attribuendole l'appellativo di mater ecclesiae (1964, Paolo VI). Børresen rileva come questo tentativo di divinizzare Maria sia una deviazione dottrinale di tipo folkloristico ed è sintomo della necessità di trovare metafore femminili per Dio.

La quinta parte del testo («Matristics») raccoglie quattro articoli sul periodo che la Nostra ha ribattezzato «matristica» (termine coniato dalla studiosa nel 1991, ad una conferenza del famoso raduno internazionale dei patrologi ad Oxford), incentrati in modo particolare sul periodo medievale e sulle figure chiave di alcune pensatrici e scrittrici come Brigida di Svezia, Giuliana di Norwich, Ildegarda di Bingen, Teresa di Lisieux («Ancient and Medieval Church Mothers»; «Birgitta's Godlanguage: Exemplary Intention, Inapplicabile Content»; «Julian of Norwich: a Model of Feminist Theology»; «Religious Feminism and Female Godlanguage: From Hildegard von Bingen to Thérèse de Lisieux»).10

Il primo articolo di questa sezione coatituisce una dettagliata ricognizione delle figure di donne dell'antichità, della concezione del ruolo della donna e degli scritti/parole di donne del periodo patristico. Oltre ai temi ben noti già dalla seconda parte, abbiamo qui analisi su altri testi o sintesi delle concezioni di altri padri, come per esempio Basilio e il testo da lui riportato su Giulitta (la vedova martire che afferma con coraggio l'uguaglianza teomorfica creazionale delle donne). Si passa poi a sintesi dettagliate su Ildegarda, Brigida e Giuliana.

Alla seconda di queste madri medievali è dedicato il secondo lunghissimo articolo di questa parte, con tanto di testi e commento.11 Di Brigida, Børresen sottolinea la forte consapevolezza del carattere limitato del linguaggio umano su Dio e della necessità di una continua reinterpretazione; l'altrettanto forte consapevolezza della sua personale ispirazione divina; il tentativo di divinizzare il femminile aumentando al massimo l'importanza della figura di Maria, rendendola cristotipica e corredentrice. Nel suo progetto monastico femminista, Brigida propone il ruolo della Abbadessa come una plenipotenziaria rappresentante di Maria sulla terra. Anche per Brigida, Børresen annota l'esemplarità dell'intenzione femminista, ma l'inaccettabilità del contenuto.

Il terzo articolo, è un'altra dettagliata analisi, questa volta su Giuliana, della cui teologia abbiamo già ricordato i punti fondamentali. Abbiamo, infine, un quarto articolo che aggiunge a queste figure predilette da Børresen, e già incontrate, anche quelle di altre donne medievali, come Mary Ward e Joana Inez della Cruz, con la loro strenua difesa della formazione intellettuale per le donne12 o Teresa d'Avila, di cui Børresen rintraccia il profilo sovversivo rispetto alle condizioni giuridiche in cui la Chiesa riduceva le donne a quel tempo, profilo che rende Teresa a suo modo precorritrice del femminismo. Infine, una parola su Teresina: a dispetto del provincialismo cattolico del XIX secolo e della distorsione agiografica che ne hanno fatto,13 Teresina dà per scontato che le donne siano ad immagine di Dio, applicando addirittura a se stessa la creazione di Adamo di Gen 2,7. Il suo desiderio di essere prete, apostolo, maestro e martire scavalca ogni convenzione ecclesiale e sociale, rendendola una madre della Chiesa. Børresen ricorda che il riconoscimento di Dottore della Chiesa, rifiutatole da Pio XI nel 1932 con la motivazione dell'impedimentum sexus, è arrivato da Papa Giovanni Paolo II nel 1997, con la motivazione che la comprensione della fede non è prerogativa dei teologi o dei vescovi.

L'ultima parte del libro («Feminism and Christianity») raccoglie due articoli sulla problematica del ruolo della donna nel cristianesimo cattolico: uno verte sulla questione tanto cara a Børresen dell'ordinazione delle donne («The Ordination of Women: to nurture tradition by continuing inculturation»); l'altro sui diritti umani nella Chiesa cattolica romana («Religion Confronting Women's Human Rights: the Case of Roman Catholicism»).14

Per quanto riguarda l'ordinazione delle donne,15 Børresen la ritiene inevitabile conseguenza dei punti forti dei suoi studi (che è inutile ripetere): il modello di genere arcaico (a), che fonda la tipologia nuovo Adamo/nuova Eva, è normalmente invocato dai cattolici e dagli ortodossi come ostacolo principale all'ordinazione delle donne. Børresen, però, mostra l'incompatibilità logica di due principi che si escludono mutualmente e che tuttavia sono allo stesso tempo ammessi dalla Chiesa cattolica: da una parte, il riconoscimento della parità della donna, ispirantesi al modello antropologico olistico del XX secolo e dall'altra l'antiquato presupposto della gerarchia di genere, sottostante alla tipologia androcentrica (di cui si vogliono conservare le conclusioni). Le donne non possono rappresentare la mascolinità perfetta di Cristo come preti, cioè non possono rappresentare l'umanità incarnata di Cristo e la sua divinità redentiva, a causa della loro femminilità. L'interpretazione agostiniana di quell'aner di Ef 4,13, inclusiva della femminilità, offrirebbe invece un modello per superare l'idea che la donna non può essere considerata idonea ad essere sacerdote ad immagine di Cristo. Per tutto il medioevo, comunque, restò normante l'interpretazione che di 1Cor 11,7 fece Ambrosiaster (passato sotto il nome di Ambrogio o Agostino) secondo il quale la donna ha uno stato subordinato, non essendo creata ad immagine di Dio (così anche S. Tommaso e S. Bonaventura).16 L'idea passa nel diritto canonico del 1582, resta tale in quello del 1917 ed è ripetuta nel CIC del 1983 (can. 1024).

L'altro articolo si incentra sul caso dell'atteggiamento della Chiesa Romana nei confronti di alcuni diritti umani rivendicati dal femminismo cristiano quali: a) la parità politica, b) l'autonomia riproduttiva, c) l'idoneità cultuale. Børresen ricorda la storia del progressivo riconoscimento del diritto di voto alle donne (avvenuta dapprima nei paesi protestanti a cominciare dalla Nuova Zelanda nel 1893 e poi nei paesi cattolici, dopo la sconfitta del nazi-fascismo). Per quanto riguarda il secondo diritto, Børresen ricorda le opposizioni della Casti connubii (1930)17 e della Humanae vitae (1968)18 rinforzate dalle recenti Mulieris dignitatem (1988) e Veritatis splendor (1993). Per il terzo diritto, si ricordano i passi fatti in campo luterano in Danimarca (1948), Svezia (1958) Norvegia (1961) e di contro la sempre crescente avversione della Chiesa cattolica nei confronti di questa causa.19

Børresen mostra come il processo del riconoscimento di questi due diritti sia stato bloccato in modo particolare dall'attuale Pontefice, la cui politica provoca sostanzialmente da una parte una presa di coscienza in senso contrario per la dignità delle donne e dall'altra uno scollamento pratico dei fedeli dal dettato vaticano in campo sessuale. La studiosa punta il dito sulla responsabilità della Santa Sede nella crisi demografica (a causa delle posizioni vaticane in materia di contraccezione), ne denuncia l'affrettata confusione tra contraccezione e aborto (che rende di fatto il Vaticano responsabile di molti aborti), e le scandalose conseguenze della stessa politica sessuale vaticana in ambito della prevenzione da HIV e AIDS. Secondo Børresen, si tratterebbe di uno stratagemma da parte del Vaticano, derivante dall'impossibilità di controllare ormai la condotta sessuale -- ritenuta «edonistica» dal Vaticano -- tramite la dottrina agostiniana della trasmissione del peccato originale, e dal tentativo di tenerla sotto controllo con la condanna della contraccezione. Dietro tutto ciò, vi sarebbe l'originario conflitto tra amore sessuale e amore divino che non è più assiomatico, ma che tiene ancora in piedi il celibato dei preti.

Børresen si incentra poi di nuovo sull'impedimentum sexus cultuale, tenendo gli occhi in modo particolare su questi ultimi 50 anni di storia, e sottolinea anche qui il ruolo frenante delle concezioni antropologiche dell'attuale Pontefice, il quale nella Ordinatio Sacerdotalis del 1994 conclude che se Cristo avesse voluto le donne prete, avrebbe ordinato Maria sua madre. Maria viene infatti sempre invocata da questo pontificato come modello esemplare del ruolo della donna.

La civilizzazione atlantica, che ha superato il modello culturale patriarcale, rende oggi necessario, secondo la teologa, un rinnovamento del linguaggio e del simbolismo religioso, perché il cristianesimo possa sopravvivere in una cultura post-patriarcale. La teologia dei padri, nella loro intenzione (non sempre nelle loro soluzioni dottrinali) può offrire un modello per una nuova inculturazione. Una teologia femminista creativa, deve ispirarsi quindi alla concezione cattolica dell'interrelazione tra Scritture e Tradizione, ma deve anche essere guidata dalla concezione ortodossa dell'azione dello Spirito Santo attraverso la storia verso una continua Rivelazione. Il crollo dell'androcentrismo è per Børresen una nuova rivoluzione copernicana a livello epistemologico: si tratta di cambiare non ciò che sappiamo, ma il modo in cui conosciamo.

Così, quindi si chiude la voce stentorea, sebbene a volte monotona, di Kari E. Børresen: invocando un Concilio Vaticano III che metta tra i suoi compiti primari la restaurazione di una collegialità episcopale e il riconoscimento cultuale alle donne (sottolineando che oggi le consacrate sono quasi il doppio dei preti e dei religiosi).

Chiudono la raccolta sei pagine di rassegna bibliografica, completa delle pubblicazioni della nostra studiosa fino al 2002.

Un tentativo di valutazione

Tentiamo ora una valutazione. A livello generale il testo è anzitutto un piccolo evento per cui si devono ringraziare sia gli editori che la studiosa: il riconoscimento pubblico della parabola di un intellettuale, raccolto in un volume, da una parte mostra chi e perché abbia inciso in modo particolare nel dibattito accademico, dall'altra è un modo per seguire le tracce della storia di mezzo secolo di dibattito accademico stesso.

In particolare, la raccolta è utilissima perché vengono finalmente pubblicati da una editrice di grande fama e diffusione (Herder) studi spesso altrimenti irreperibili o reperibili molto difficilmente. A differenza, infatti, di altre raccolte, che Børresen ha pubblicato con il contributo di altre studiose, in questa raccolta possiamo trovare senza dubbio i nuclei maturi e più specifici degli esiti delle ricerche della studiosa.

Ciò che tuttavia costituisce il vantaggio, dall'altra è anche il problema di questa pubblicazione: infatti ad una lettura a tappeto le ripetizioni sono a dir poco martellanti, mai comunque noiose, per il fatto che è utile anche potersi familiarizzare in vario modo, quasi come in una exercitatio mentis, con delle ricognizioni che comunque sono di una profonda forza intellettuale e di non immediata assimilazione

La continua ricorrenza in ogni articolo dei punti fondamentali degli esiti della ricerca di Børresen, sui due millenni di storia del pensiero di genere, rende comunque anche più facile l'individuazione e la presentazione dei punti chiave.

Eccetto forse che i due articoli sulla mariologia (tra loro similissimi) e l'ultimo della quinta parte, che include Joana Inez de la Cruz e Teresa di Lisieux (studio tra l'altro molto entusiasmante), di cui non si riportano notizie altrove nella raccolta, tutti gli altri articoli contengono affermazioni ricorrenti. Si può trovare un tema trattato là in modo più esteso, qui più riassunto (per esempio a Brigida è dedicato anche un intero articolo con tanto di dettagliate analisi dei testi), ma fondamentalmente si può consigliare la scelta di un solo articolo per ciascuna parte della collezione, per avere una completa panoramica delle problematiche e della ricerca di Børresen. Per chi volesse un inquadramento completo dei problemi trattati, si consiglia la lettura del primo studio, mentre per chi volesse essere maggiormente provocato, quella dell'ultimo.

Per quanto riguarda quello che Børresen chiama il modello «platonizzante» vigente fino al XIX secolo, è troppo poco evidenziato il ruolo centrale (ma fatale) di Filone.

Colpisce la completa assenza di una seppur minima ricognizione dei temi del Cantico dei Cantici, perfino laddove, con Origene, la femminilità, oltre che mantenere il valore -- di origine filoniana -- di subordinazione di fronte a Dio (tipologia androcentrica), ha anche quello di esemplarità e maturità della fede, con buona pace di Ef 4,13. È la sposa a costituire per ogni credente il livello più alto del cammino spirituale e qui la sposa ancora non ha alcuna connessione con Maria. Questa, per quanto magra, va riconosciuta come una vittoria del «femminismo». Tra l'altro, in Gregorio di Nissa, lo schema sociologico e gerarchico del matrimonio (dove la sposa è inferiore) applicato al rapporto tra l'anima e Cristo sembra saltare a favore di un modello di reciprocità interscambiabile nell'amore eterosessuale (l'uomo dei Proverbi infatti deve cercare Cristo-Sapienza come una sposa, mentre l'uomo del Cantico deve essere come una sposa che senza vergogna ama e suscita l'amore di Cristo sposo, Hom. in Cant., I). È lo sviluppo cristologico e trinitario, avvenuto tra Origene e Gregorio -- che non possiamo tuttavia qui approfondire -- ad incidere sul significato e probabilmente sulla modifica della originaria connotazione androcentrica di questo schema sociologico.Rilevo anche la mancanza dello stesso Gregorio di Nissa tra gli esempi che Børresen cita (100-103) sul tema dell'allattamento divino (Hom. in Cant. I) o di Dio come madre (Hom. in Cant., I e VI).

Un punto fondamentale riguarda la connessione tra sesso e genere. Børresen ribadisce l'importanza di collegare e non staccare i due (forse per formazione aristotelica?), tuttavia, allorché mette in guardia nei confronti del linguaggio di genere (107), sembra considerare questa categoria in modo esclusivamente sociologico. Si tratta però di una questione chiave, in modo particolare per la dottrina cristiana dell'unione tra corpo e anima. Fino a che punto il genere è solo una creazione sociologica e fino a che punto è connesso con il sesso? Questo resta in generale oggi una questione cruciale, ancora molto ambigua, a partire dalla quale si diversificano i vari «femminismi». Børresen, in verità, si accorge del problema e tenta di mostrare la necessità della loro connessione, utilizzando la parola genderedness.20 Su questo punto, comunque, come per esempio nel correlato problema della declinazione della categoria di «sensibilità»,21 dovrebbe concentrarsi urgentemente la ricerca teologica, per evitare le estremizzazioni da un lato del femminismo della differenza radicale, che di fatto contribuisce a consolidare e legittimare ontologicamente ogni forma di patriarcato kiriachico, e dall'altro del postmodernismo americano, in cui il genere è considerato solo una metafora.

L'idea che nella generazione solo il maschio fosse considerato attivo, sebbene fosse predominante nell'antichità (presente nella teoria encefalomielogenetica di Platone e evidente in quella ematogenetica di Aristotele), non era tuttavia universalmente accettata. La prospettiva medica ippocratica, per esempio, aggiustò questa idea postulando un principio doppio nella generazione, dedotto a partire dall'osservazione delle somiglianze del figlio con la madre: i medici antichi quindi erano già arrivati a supporre nella generazione l'intervento della donna con un suo seme.

Circa la dottrina della trasmissione del peccato originale, attribuita genericamente ad Agostino, va rilevato che Agostino stesso resta incerto tra traducianesimo e creazionismo, a causa di un problema più a monte che egli non riesce a spiegare, e cioè quello della natura del nostro stato decaduto, dell'unità corpo-anima e della sua imperfetta unità fenomenologica. Agostino ritiene inoltre che anche la concupiscentia femminile, al pari di quella maschile, sia effetto del peccato.

Circa il sacerdozio delle donne, benché Børresen avanzi motivazioni teologiche a favore dell'incomprensibilità della loro esclusione, tuttavia dimentica la prospettiva ecumenica, proprio lei che ricorda che in campo ortodosso vige ancora il modello antropologico platonizzante. Piuttosto Børresen non arriva a mette ben in rilievo -- potrebbe farlo a p. 299 -- quello che è uno dei problemi (aporie?) più oscuri nella teologia sacramentaria oggi e cioè: se la mascolinità è un prerequisito indispensabile per la simbolicità sacramentale di Cristo-sposo, in che modo si rende evidente la simbolicità sacramentale del corpo femminile, tenuto conto che il sesso fisico non può essere separato dal genere e che però possono rappresentare la Chiesa-sposa, come donna, sia gli uomini che le donne, riuniti in assemblea.22

Restano dei punti interrogativi sulla consequenzialità logica di alcune causalità intraviste da Børresen nell'ultimo articolo, circa la situazione attuale della Chiesa: se, per esempio, le posizioni di questo pontificato in campo di morale sessuale siano motivate così direttamente dalla volontà di difesa del celibato dei preti o dall'opposizione all'ordinazione delle donne (Børresen ci appare abbastanza ingrata nei riguardi della posizione della Chiesa sulla paternità/maternità responsabile); o se lo sventolare quel numero di «monache» che supera in doppio i preti non comporti una concezione preconciliare e quindi gerarchica della vita religiosa (senza nemmeno distinguere tra suore e monache o tra spiritualità differenti). Forse, nonostante lungimiranti intuizioni sul ruolo delle donne nella Chiesa, la studiosa risulta ancora un po' miope circa la varietà dei carismi nella Chiesa, nel modo in cui e allorché ella allude a quell'esercito di consacrate. È vero che il fatto che alcune donne sentano la chiamata al sacerdozio è un segno dello Spirito, ma non è detto abbiano sentito o debbano sentire una tale chiamata tutte le religiose, le quali, in modo forse altrettanto ispirato, hanno rinunciato al matrimonio senza con questo credere di o volere rinunciare alla propria femminilità, affettività, relazione con l'altro sesso. Nel campo della vita religiosa, per esempio, un maggiore possibilità di confronto e rapporto reciproco tra mondo maschile e femminile, nella collaborazione, amicizia, reciprocità, ma anche nella istruttiva irreciprocità (luogo del dono), risulterebbe tutt'altro che sorpassato. In questi ambienti si mantengono ancora categorie educative, ruoli e schemi di comportamento a livelli antidiluviani, oppure si è costretti a intentare vie che, per impreparazione, vengono lasciate alla creatività personale, risultando spesso devastanti. Tuttavia, il rischio che ogni relazione eterosessuale comporta -- in qualsiasi «stato di vita», ma in particolare negli ambienti religiosi -- non sarebbe maggiore dell'utilità sul piano del progresso umano e spirituale. Oltre che alla revisione degli stili di vita, oggi indispensabile, una prospettiva di genere nella vita religiosa potrebbe contribuire ad un ripensamento e ad una riappropriazione dell'essenzialità dei singoli carismi. Mi permetto un esempio dall'ambito benedettino: un maggior confronto e collaborazione tra uomini e donne, dovrebbe portare ad un recupero più equilibrato di ciò che oggi può essere e significare la «separazione dal mondo», che forse chiama ad un ridimensionamento dei due estremi, la clausura femminile da un lato e la spinta pastorale maschile dall'altro. La cosa si rifletterebbe positivamente anche sulla possibilità per le monache di accedere allo studio teologico e ai titoli accademici, in livelli e in modalità non «minorati», in vista cioè non solo di una ricerca da far restare spesso nelle buie soffitte dei monasteri, ma dell'insegnamento, della partecipazione attiva al lavoro teologico e di un più attivo inserimento negli ambiti decisionali dell'Ordine.23

Continuando, poi, a parlare di quella che Børresen chiama incompatibilità tra amore umano (che ella sembra quasi ridurre ai rapporti sessuali?)24 e amore divino, è vero che la Chiesa ha motivato la scelta celibataria nei primi secoli sulla base (anche) di un encratismo o di motivi che oggi vediamo inaccettabili,25 ma abolire le motivazioni inaccettabili, non significa necessariamente dover abolire un fatto che ha indubbie connessioni con una ispirazione dello Spirito. Non è certo Filone, col suo concetto di verginità, che pur tanto ha influenzato l'encratismo dei primi secoli e che forse è stato acriticamente adottato dai padri e dalla spiritualità cristiana primitiva, a motivare le scelte religiose di oggi. Questo stato di vita diventa oggi nodale per ripensare anche le questioni più cruciali della teologia di genere.26 Tuttavia è chiaro che il ripensamento del vasto campo della vita religiosa femminile ha assoluto bisogno di trovare una sua voce propria, che purtroppo ancora non ha e per la cui attuazione spesso nemmeno si dà gli strumenti.

Infine, un punto molto ambiguo al di là delle analisi di Børresen resta il dottorato di Teresina. Børresen ricorda (non si capisce con che tono) che il ruolo di dottore non è stato dato a Teresina come si sarebbe dato ad un vescovo o ad un teologo. Ma questo non lo rende altamente ambiguo? Non è forse ancora una volta per affermare che il modo in cui le donne possono essere «dottori della e nella Chiesa» è radicalmente diverso da quello (maschile) intellettuale-teologico, essendo «esperienziale», di «coloro che si lasciano guidare docilmente dallo Spirito di Dio» (DV 8) e quindi in fondo subordinato? Sinceramente, il dottorato di una Edith Stein sarebbe meno equivocabile.

Qualcuna ha scritto,27 e oggi forse siamo in tante a pensarlo, che la vita ecclesiale in ogni suo ambito oramai va elaborata e gestita insieme, questo vuol dire anche riuscire ad affermare fortemente che il matrimonio non è l'unico luogo e modalità della relazione uomo-donna e anche a partire da questo (e da certa simbologia ancora in vigore), proprio la vita religiosa sarebbe chiamata oltre che a ripensarsi, ad avere più voce e creatività. Questa fase -- comunque nuova per la teologia -- delle donne che si occupano delle donne, a lungo andare forse non aiuterà a superare certe barriere.

Guardando al passato prossimo degli studi in prospettiva di genere, guardando al «femminismo», riconosciamo che non possiamo non dirci femministe. Questo oggi non vuol dire andare a manifestare in piazza o gettarsi in insopportabili rivendicazioni estremiste, ma riconoscersi con spirito di gratitudine in una storia e poter guardare alla società e anche alla Chiesa cattolica in una attesa certa di un futuro in cui il genere, maschile e femminile, sarà totalmente integrato come fattore essenziale in tutti i campi della ricerca, del culto, dell'insegnamento e del governo. Sarà allora che gli stessi studi di genere -- come ricorda Børresen -- potranno diventare superflui.

In questo periodo di grandi e rapidi cambiamenti, in questo periodo in cui, comunque, nonostante la rivoluzione mediatica, i computers correggono ancora automaticamente la parola «matristica» con «patristica», imparare a guardare con Børresen il passato remoto della nostra storia teologica e femminile è, per una giovane monaca benedettina patrologa, non ancora dottorata, imparare a guardare con occhi aperti e vivaci, il futuro, anche del monachesimo femminile (non così prossimo, purtroppo). Nel frattempo, in questa difficile transizione, tale sguardo assume forse i connotati di quello della nottola e lavorare per un tale futuro significa oggi, per una donna, anche pagare il prezzo della sua notte di appartenenza ecclesiale.28

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Note

  1. È strano che soprattutto nella vita religiosa la maggioranza delle donne sembra essere la più strenua protettrice dei propri limiti socio-culturali. Anche nell'ambiente monastico femminile, si nota spesso una acritica predisposizione a introiettare dei modelli «patriarcali», perfino tra le più illuminate. Testo

  2. Su questo si possono trovare più vaste informazioni in C. Militello, Intervista a Kari Elisabeth Børresen: La più mediterranea delle nordiche, in Vita Pastorale -- Donne e teologia, [on-line] http://www.stpauls.it/vita03/0203vp/0203vp48.htm; o in C. Militello, Donne e teologia. Bilancio di un secolo, Bologna 2004, 101-113. Testo

  3. In quanto Stato ufficialmente luterano, in Norvegia per insegnare teologia come cattolici bisogna avere una dispensa particolare. Børresen avanzò una interpellanza al ministro del culto ottenendo un cambiamento della legge nel 1972. Questo ha comportato che l'attività di insegnamento di Børresen si svolgesse soprattutto all'estero: Gregoriana, Harvard, Princeton, Uppsala. Testo

  4. Restano famosi i termini «androcentrismo», apparso con la su tesi di abilitazione nel 1968, e il successivo «matristica» apparso nel 1992, per non parlare dei concetti ricorrenti quali andromorfismo/ginecomorfismo o ginecologia androcentrica. Resta particolare anche l'uso del termine «mammismo» mediterraneo che Børresen innalza addirittura a principio ermeneutico. Testo

  5. Børresen supera lo spinoso problema di Gesù maschio, intendendo l'incarnazione della seconda persona della Trinità in un corpo maschile come inclusivo di tutta l'umanità. Testo

  6. Cfr. K.E. Børresen (ed.), Christian and Islamic Gender Models in Formative Traditions, Roma 2004, in corso di pubblicazione. Testo

  7. I riconoscimenti cominciano a fioccare dal 1982, quando diventa Professore Ricercatore presso il Ministero della Cultura norvegese. Ottiene il dottorato honoris causa in Teologia, conferitole dall'università di Uppsala nel 1992. Nel 1993 è nominata professore di Studi di Genere medievali nella facoltà di Cultura all'Univeristà di Oslo. Nel 2000 diventa primo professore in Studi di Genere nella facoltà di Teologia dell'Università di Oslo. Testo

  8. Si veda il recente documento vaticano «Lettera ai vescovi della Chiesa Cattolica sulla collaborazione dell'uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo», disponibile on-line all'indirizzo http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20040731_collaboration_it.html. In attesa di una presa di posizione ufficiale da parte delle teologhe italiane, si raccomanda la lettura della breve, ma acuta reazione di J. Chittister, «To the "experts in humanity": Since when did women become the problem?», National Catholic Reporter (August 2, 2004) [on-line], http://www.nationalcatholicreporter.org/update/bn080204.htm. Testo

  9. Børresen non lo evidenzia, ma anche l'arte raffigura da questo momento in poi Maria sempre da sola, cosa che è inammissibile nell'arte fino al barocco. Testo

  10. Cfr. K.E. Børresen, Le Madri della Chiesa. Il Medioevo. Risposta matristica alla tradizionale cultura patriarcale, Napoli 1993. Testo

  11. Si tratta di una analisi pionieristica della teologia della santa. Altri studi su Brigida sono storici, biografici o agiografici, più spesso una sorta di edificante combinazione di questi tre approcci. Testo

  12. Assolutamente splendidi i vibranti testi con cui Joana -- questa «donna nata trecento anni troppo presto» -- si batte per il suo diritto di poter studiare (in privato, «perché la familiarità con gli uomini sarebbe sufficiente per escludere [le donne] dagli studi pubblici»), chiamando a testimone la lunga schiera delle donne che l'hanno preceduta. Testo

  13. Il termine infanzia spirituale è stato coniato e introdotto negli scritti di Teresina da Paolina, la sorella, Madre Agnese che ha manipolato i testi originali (p. 268). Testo

  14. Su questo ultimo argomento K.E. Børresen si è cimentata in un recente articolo dal titolo «Cristianesimo e diritti umani delle donne: l'"impedimentum sexus"», in D. Corsi (ed.), Le donne cristiane e il sacerdozio. Dalle origini all'età contemporanea, Roma 2004, in corso di pubblicazione. Ringrazio Børresen per avermi fatto leggere l'articolo in anticipo. Testo

  15. Si veda K.E. Børresen, «L'ordinazione delle donne: una questione aperta», C. Militello (ed.), Donna e ministero, Roma 1989, 245-263; «Come alimentare la tradizione mediante una continua inculturazione», Studia Teologica 46 (1992), 3-13; disponibile on-line, http://www.womenpriests.org/it/italiano/borresen.htm. Testo

  16. Cfr. K.E. Børresen (ed.), A immagine di Dio. Modelli di genere nella tradizione giudaica e cristiana, Roma 2001, 168-172. Testo

  17. In risposta al riconoscimento dell'uso dei contraccettivi nel matrimonio da parte del sinodo anglicano del 1930. Testo

  18. Redatta dall'allora vescovo di Cracovia, Karol Woityla, rappresentante di una piccola minoranza contraria alla maggior parte degli esperti consultati. Secondo Børresen il documento si basa su un concetto premoderno di legge naturale. Testo

  19. Nell'articolo successivo Børresen dedica due intense pagine (300-301) a ricordare l'iniziativa del sinodo dei vescovi del 1971 che si concretizzò nel 1973 con la nomina da parte di Paolo VI di una commissione pontificia che concluse in un rapporto segreto del 1975 che sulla base del solo Nuovo Testamento non è possibile risolvere la questione dell'ordinazione delle donne dal momento che la gerarchia ecclesiastica e l'episcopato monarchico si strutturarono a partire dal II secolo. Anzi, una maggioranza di esegeti concluse che l'ordinazione delle donne non implica alcuna opposizione ad una originaria intenzione di Cristo. Inter insigniores riprese l'argomento che l'esclusione delle donne deriva dalla indispensabile conformità tra l'umanità incarnata maschile di Cristo e il sesso maschile del prete. Børresen ricorda anche le parole con cui Rahner si oppose a questa motivazione affermando che non è così evidente che una persona che agisce col mandato di Cristo, e cioè in persona Christi, debba rappresentare Cristo anche nella sua mascolinità. Testo

  20. Il termine non ha corrispettivo italiano, ma forse non è lontano da qualcosa come «la sessuatività del genere». Testo

  21. Sottolineava il problema del termine «sensibilità» Rosetta Stella nel dibattito al Convegno Nazionale del Coordinamento delle Teologhe italiane, cfr. M. Perroni (ed.), Donne e tradizione della fede in Italia. L'apporto di una teologia di genere. Atti del I Convegno Nazionale del Coordinamento Teologhe Italiane Roma 27 Marzo 2004, Roma 2004, 73; in generale riserve sui problemi connessi all'uso del termine «genere» emergevano già dall'intervento di Marinella Perroni, cfr. ib., 61-62. L'intervento di Marcello Neri precisava come il termine «sensibilità» andrebbe capito forse meglio nel senso husserliano di «Einfühlung», cfr. ib. 64. Testo

  22. Cfr. T. Beattie, «Feminism, Vatican-style», The Tablet 07/08/2004, [on-line] http://www.thetablet.co.uk/cgi-bin/archive_db.cgi/tablet-00923, disponibile traduzione italiana alla pagina http://www.teologhe.org/tablet.htm. Testo

  23. Solo due anni fa, per la prima volta, l'Abate Primate dell'Ordine benedettino, P. Notker Wolf, nella lettera circolare per la Quaresima 2003, ha incominciato ad usare il termine (non giuridico) Ordo per parlare della famiglia benedettina includendo monaci e monache, al posto del termine Confederazione, con cui si parla normalmente a livello giuridico dei benedettini, includendovi però solo gli uomini. Testo

  24. Børresen afferma, parlando delle esortazioni di Agostino alla castità nell'amore coniugale, che la sottesa scissione ascetica tra amore divino e attività sessuale determina un conflitto correlativo tra amore umano e unione dei sessi. Se da una parte è vero che la convinzione di una incompatibilità tra sessualità e amore divino ha pesato negativamente nella tradizione cristiana, soprattutto sullo stato matrimoniale, tuttavia nelle affermazioni di Børresen circa l'amore che lei chiama «umano» vi si sentono ancora gli echi di questa impostazione. Se l'unica relazione tra i sessi è il «partner-love», o se l'amore umano è solo inteso come amore matrimoniale, e se la gratificazione sessuale è essenziale al rapporto matrimoniale (come giustamente afferma Børresen), e se il partner-love è possibile solo nel matrimonio, ciò significa che nello stato di celibato non si può pensare nessun tipo di relazione tra sessi. Il problema non viene dall'incompatibilità tra amore sessuale e divino (come crede di individuare Børresen), ma dal pensare l'amore «umano» in termini di sola relazione sessuale/matrimoniale. La nuzialità, come ha mostrato bene P. Ricoeur, in A. LaCoque -- P. Ricoeur, Come pensa la Bibbia. Studi esegetici ed ermeneutici, Brescia 2002 [or. franc. Paris 1998], 263-298, eccede lo stato matrimoniale. Testo

  25. Non viene fatta menzione dei motivi socio-politico-economici del problema del celibato dei chierici, se proprio non si vuole parlare di quelli «mistici». Testo

  26. Il rapporto tra verginità e maternità per esempio è oggi lasciato ancora troppo inquietantemente aperto anche dal recente documento vaticano «Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica sulla collaborazione degli uomini e le donne nella Chiesa e nel mondo»; cfr. Beattie, Feminism, Vatican-style, http://www.thetablet.co.uk/cgi-bin/archive_db.cgi/tablet-00923, in traduzione italiana http://www.teologhe.org/tablet.htm. Testo

  27. Cfr. C. Militello, Intervista a Serena Noceti. La trasfigurazione prossima futura: «Proporrei di superare impostazioni separatiste (le teologhe si occupano di questioni femminili) e oppositive; è tempo soprattutto di elaborazioni comuni, in una reale partnership teologica. Per altro veniamo da una tradizione che vede solo la produzione individuale, sono rari i casi di scrittura ed elaborazione collettiva, i circoli teologici non fanno parte della nostra tradizione di monadi pensanti; un modus cooperandi di questo tipo sarebbe profetico per il teologizzare tout court», in Vita Pastorale -- Donne e teologia (3 marzo 2003), [on-line] http://www.stpauls.it/vita03/0303vp/0303vp50.htm. Testo

  28. Ringrazio la prof. Marinella Perroni, il prof. John M. Rist, la prof. Carolina Carriero e la stessa prof. Kari E. Børresen, per i loro commenti alla prima versione di questo articolo. Testo