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La teologia di Bede Griffiths: una proposta di sintesi tra Oriente e Occidente nei suoi aspetti di continuità e innovazione con i fondatori di Shantivanam

di Paolo Trianni (3 agosto 2009)

Il debito che la teologia di Bede Griffiths ha con i suoi predecessori è considerevole, ma va anche ribadito che solo con la sua opera di rilettura e di armonizzazione il monachesimo cristiano-indù ed il suo impianto teologico sono diventate una delle risorse più feconde della Chiesa post-conciliare aperta al dialogo e alla testimonianza nelle civiltà dell'Oriente. Il saggio ne indaga gli aspetti

1. Aspetti di continuità con i fondatori di Shantivanam: J. Monchanin ed H. Le Saux

Il pensiero teologico di Bede Griffiths si presenta come una teologia di sintesi. È questo, indubbiamente, sia il fine che il carattere precipuo di tutta la sua opera, come si può ricavare dal titolo di una sua biografia, Matrimonio tra Oriente ed Occidente, nella quale la metafora sponsale non è un semplice artificio letterario, ma l'espressione della sua convinzione profonda che Oriente ed Occidente fossero complementari e dovessero necessariamente coniugarsi tra loro.1

Sebbene, infatti, il suo arrivo in India sia di poco successivo a quello di Jules Monchanin ed Henri Le Saux, i due benedettini francesi di cui ha poi proseguito l'opera tesa ad avviare una tradizione monastica che fosse ad un tempo cristiana ed indù,2 la sua riflessione teologica è in larga parte una riproposizione delle loro intuizioni, salvo poi averle integrate e sviluppate con una sua meditazione personale alla luce della teologia postconciliare e di alcune teorie scientifiche alternative.

Specialmente dopo aver partecipato ad un convegno dedicato alla corrispondenza tra queste prospettive innovative e la spiritualità, infatti, Griffiths ha aperto la sua teologia favorevolmente verso le riflessioni di quegli autori e scienziati che lasciavano ipotizzare la possibilità di una nuova scienza e soprattutto quella di una sua possibile armonizzazione con la mistica.3 Gli scritti del monaco inglese, quindi, da un lato raccolgono l'eredità teologica e spirituale di Monchanin e Le Saux, e dall'altro si rivelano sensibili agli sviluppi di queste nuove ricerche scientifiche che sembravano poter armonizzare la saggezza dell'India con la scienza occidentale e finanche inaugurare una nuova età di sapienza spirituale, della quale, a suo avviso, la stessa riflessione scientifica occidentale ne starebbe preparando la via.4 Egli, da questo punto di vista, si potrebbe anche considerare, come vedremo meglio, un antesignano della così detta New age, sebbene in Griffiths il termine conservi un senso nobile, ben diverso dall'inflazione fattane dalla cultura pseudo-religiosa e sincretista degli anni Ottanta.

Prima di queste aperture alle neo-scienze che riguardano le riflessioni che hanno accompagnato la seconda parte della sua vicenda indiana, egli deve però essere ricordato come il sistematizzatore dell'esperimento monastico e teologico nato a Shantivanam. Da questo punto di vista Griffiths si deve considerare non soltanto il teorizzatore e l'organizzatore di quella particolare iniziativa monastica, ma il suo restauratore, anzi colui che l'ha salvata dal fallimento oggettivo in cui l'avevano lasciata i due fondatori. A lui si deve infatti riconoscere un duplice merito: quello di aver riformato e perfezionato l'organizzazione monastica cristiano-indù e quello di aver sviluppato ed interpretato meglio di chiunque altro le intuizioni teologiche che avevano animato i due predecessori.

È facile scorgere, sotto questo aspetto, i numerosi aspetti di continuità che lo legano alle intuizioni metafisiche di Monchanin e Le Saux, ma anche il timbro della sua specifica personalità teologica, la quale, a nostro avviso, emerge proprio attraverso il tentativo di mediare le posizioni dei due predecessori e nel tentativo di far incontrare le loro diverse sensibilità teologiche. Il carattere conciliativo dello stile concettuale di Griffiths si riassume, infatti, in questa sua volontà di sintesi che muove preliminarmente da una posizione più bilanciata rispetto a quella dei due francesi. In lui non c'è né l'intellettualismo raffinato di Monchanin, che si perdeva nella articolata complessità dei collegamenti teologici da lui stesso individuati, né il tormento interiore tipico di Le Saux, le cui opere nascono direttamente, potremmo dire, dall'officina delle sue sperimentazioni ascetiche. È ovvio, da questo punto di vista che né l'uno né l'altro potevano trovare la pur agognata sintesi tra cristianesimo ed induismo. Entrambi, infatti, erano troppo attaccati alle rispettive radicalità: intellettualistica il primo, mistica il secondo. Essi erano, per certi versi, la personificazione di ciò che poi Griffith ha inteso coniugare: la razionalità Monchanin, l'intuizione Le Saux. La sintesi tra Oriente ed Occidente tentata dal monaco camaldolese, infatti, si presenta, come si accennava, nei termini di uno sposalizio tra intuizione e ragione, quali dimensione riassuntive delle rispettive civiltà. Si può dire, quindi, che nella prospettiva di swami Dayananda -- questo il suo nome indiano -- tale armonizzazione passi necessariamente attraverso l'unione della teologia monchaniana con quella lesauxiana, considerati alla stregua di rappresentanti ideali di due antitetici approcci al mistero, anche se la nostra, ovviamente, è una riduzione largamente semplificatoria.

Letto alla luce dei loro rispettivi scritti, comunque, il pensiero teologico di Griffiths appare meno originale di quello dei precursori, anche se non meno lucido e profondo. Egli ne è appunto uno sviluppatore, e attraverso la sua riflessione ulteriore, le intuizioni tutt'altro che sistematiche dei due fondatori prendono un ordine maggiormente razionale e vanno ad inserirsi in un disegno teologico più coerente. Egli, nella sua metabolizzazione delle loro teologie, ha appunto rimodellato in modo personale il diverso timbro delle riflessioni di Monchanin e Le Saux: razionalistico e prudente il primo, come si diceva, mistico e finanche spregiudicato il secondo. Le speculazioni di entrambi, riviste da lui, trovano un certo equilibrio, e, appunto, una sorta di sintesi. Se i due francesi, infatti, avevano inutilmente cercato di armonizzare il cristianesimo con il Vedanta, Griffiths ha scritto apertamente di una sintesi possibile in un piano unificatore e di una nuova era in cui tutte le aporie religiose avrebbero trovato un'armonizzazione conciliativa.5

La sua teologia, da questo punto di vista, pur non risolvendo, ovviamente, tutti i problemi dogmatici coinvolti dal confronto tra cristianesimo ed induismo, mira a far cogliere alle intuizioni di Monchanin e Le Saux quei risultati che i rispettivi autori avevano ritenuto impossibili o prematuri. Griffiths, nel fare uno sviluppo delle loro riflessioni teologiche, ha dunque compiuto uno sforzo che è in continuità diretta con i due francesi, tuttavia sarebbe alquanto riduttivo leggere l'avanzamento teologico prodotto dal monaco inglese in termini di esclusiva dipendenza. L'indirizzo che la teologia cristiano-indù prende attraverso di lui, non è semplicisticamente una conseguenza necessaria di quanto loro avevano scritto precedentemente, ma anche il frutto di una elaborazione che aveva una base concettuale propria, e di una diversa esperienza umana e spirituale.

Prima di esporre, comunque, gli aspetti unici ed originali della sua riflessione, è certamente opportuno elencare quali siano gli elementi del suo incedere teologico prossimi e comuni a quelli dei predecessori. Il primo di essi fu sicuramente lo stesso amore per l'India, anzi la medesima necessità interiore delle sue specifiche vie spirituali. Egli, da questo punto di vista, affermò più volte di «aver bisogno di ciò che l'India poteva dare».6 Per Griffiths l'esigenza interiore della religiosità e della mistica indiana era divenuto indispensabile dopo aver «cominciato a scoprire che mancava qualcosa non solo al mondo occidentale, ma anche alla chiesa occidentale».7 Se sul piano puramente spirituale, infatti, scrisse di avvertire la necessità di uno yoga cristiano,8 sul piano teologico si convinse invece che l'India poteva offrire alla teologia il dono del femminile e dell'intuito.9 A questo doppio convincimento, si deve poi aggiungere le stesse riserve pronunciate dai suoi predecessori verso il linguaggio greco dei primi concili, che a suo avviso doveva essere riadattato per renderlo meglio consono alla cultura indiana.

È stato giustamente sottolineato, però, come, dopo questa iniziale affinità con l'India, egli abbia ritrovato e riapprezzato l'Occidente.10 Se ciò è stato possibile, tuttavia, è proprio perché Monchanin e Le Saux, con i loro richiami alla filosofia greca, alla mistica medievale e alla patristica, non si erano mai staccati dal pensiero cristiano occidentale, ed avevano individuato numerosi argomenti e sponde di dialogo capace di mettere in comunicazione i due mondi.

Al tempo stesso, però, egli rilesse gli stessi filosofi e teologi occidentali citati dai «compagni», con una sensibilità ed una lucidità del tutto personale che sembra rendere l'accostamento tra Oriente ed Occidente più inevitabile di quanto non lo facessero sembrare i due monaci francesi, sebbene certi suoi parallelismi appaiano talvolta troppo sommari, se non addirittura forzati. Sulla scia di Monchanin e Le Saux, tuttavia, anche Griffiths ha fatto riferimento ad autori come Teilhard de Chardin11 o lo Pseudo Dionigi.12 Anche lui, in generale, ha recuperato la lunga tradizione apofatica della tradizione cristiana su cui, per esempio, già aveva scritto un articolo illuminante Monchanin13 e alla quale, non diversamente, si è richiamato per tutta la vita Le Saux.

Anche il suo pensiero trinitario, inoltre, è in diretta continuità con quello del lionese e del bretone, avendo pure lui raccolto l'accostamento tra la trinità cristiana e il sat-cit-ananda già proposto in India da Brahmabandhav Upadhyaya e, in Occidente, da Lanza del Vasto.14 Dai due religiosi francesi che lo hanno preceduto a Shantivanam, infine, il camaldolese ereditò l'interesse verso una forma di induismo radicalmente alternativa a quella del Vedanta, l'induismo tantrico dello shivaismo del Kashmir, che essi, però, per varie ragioni, non fecero in tempo ad elaborare adeguatamente.

Come vedremo meglio, Griffiths raccolse e sviluppò tutti questi elementi, dando ad essi una propria interpretazione e proponendo dei collegamenti sintetici con quelle nuove teorie scientifiche di cui si diceva e che ora andremo ad analizzare più nel dettaglio.

2. Lo sguardo innovativo verso le nuove scienze

Nell'opera teologica di Bede Griffiths, occupa uno spazio cospicuo un capitolo da molti ritenuto discutibile: la connessione tra metafisica e pensiero scientifico moderno. Egli, infatti, si aprì non tanto alla scienza, quanto a delle considerazioni che si collocano a cavallo tra fisica e meta-fisica, e, come tali, oggetto di discussione da parte della stessa comunità scientifica, che ne contesta i presupposti epistemologici.

La sua riflessione intorno a questo possibile collegamento muove, al di là della partecipazione al convegno di Bombay di cui si diceva, da una critica iniziale alla filosofia moderna, che a suo avviso, dopo Cartesio, avrebbe subito una sorta di dualizzazione e di restringimento spirituale.15 Egli, nel filosofo francese, individuava appunto l'inizio del materialismo moderno, perché, attraverso la sua separazione tra res cogitans e rex extensa, avrebbe sganciato la mente dalla realtà materiale, spezzando quella relazione dinamica tra forma e materia che invece la tradizione aristotelica era riuscita a conservare lungamente. Sotto questo aspetto, la critica filosofica di Griffiths ha molti aspetti in comune con quella di un autore come il già citato Lanza del Vasto, legato quanto l'inglese alla spiritualità indiana e a Gandhi.16

In ogni caso è a partire da questa critica alla filosofia moderna che si capisce l'interesse di Griffiths verso le nuove scienze, che egli considerava alla stregua di nuove e rivoluzionarie prospettive filosofiche capaci di recuperare la relazione dinamica tra materia e spirito, e, più in generale, quella tra immanenza e trascendenza. Il monaco inglese, inoltre, ed è questa una componente che spiega la sua attrazione teologica verso le teorie innovative di cui stiamo parlando, vedeva in esse dei presupposti scientifici capaci di superare l'idealismo tipico del Vedanta. A questa aspettativa filosofico-metafisica, comunque, non era estranea la speranza che esse potessero essere promotrici anche di un rinnovamento sociale alternativo, ed è questo il motivo per cui Griffiths, pur essendo fondamentalmente, come Gandhi, un critico della tecnica, si sia distinto radicalmente dai tanti pensatori apocalittici che hanno animato la scena culturale nel dopoguerra.

È questo il motivo per cui il monaco inglese, riprendendo un espressione già usata da Sri Aurobindo, parlava di New age. Egli, però, come si diceva, si appropriò del termine usandolo in senso inverso rispetto alla caricatura dispregiativa che ha poi assunto nella letteratura cattolica più recente, nella quale esso è un sinonimo di banalità sincretista e superficialità politico-sociale. All'opposto in lui la parola New age sta a significare la speranza che, attraverso le teorie scientifiche di cui si diceva, sia possibile una mutazione culturale capace di ridare alle affermazioni filosofiche e scientifiche un contenuto spirituale, e attraverso di esse un nuovo impulso alla società.

Griffiths era stato colpito, in primo luogo, dalla possibilità di una nuova fisica e di una nuova biologia, come dimostrano le citazioni, appunto, di quegli autori e scienziati che si erano resi promotori di tale rivoluzione epistemologica. Il primo di essi è stato Fritjof Capra che, con il Tao della fisica (1975) e Il punto di svolta (1982), aveva mostrato una nuova concezione possibile della scienza. In Rupert Sheldrake, invece, egli aveva individuato la possibilità di un ritorno ad Aristotele e alla sua idea per cui la materia è strutturata in base alla forma (eidos) .17 Secondo quanto aveva letto negli scritti del biologo di Cambridge, infatti, la materia viene organizzata dalla forma, o meglio, da campi morfogenetici. In questa particolare lettura della materia, il monaco camaldolese vedeva appunto una potenza formativa che poteva essere associata sia allo spirito cristiano, di cui aveva scritto Teilhard de Chardin, un altro dei suoi autori preferiti, sia alla shakti, l'energia divina descritta specialmente nei testi tantrici dell'India del nord. Il religioso inglese, poi, trovò in Ken Wilber, fondatore della psicologia transpersonale, uno scienziato occidentale che, ripercorrendo le aperture spirituali di Jung, era arrivato ad esplorare gli stati di coscienza descritti dalla mistica indiana. Questi, infatti, aveva affermato l'esistenza di sei livelli di coscienza, da quella primitiva a quella trascendente o transpersonale, dove gli stadi di consapevolezza più alti corrispondevano al sambhogakaya e al dharmakaya del buddhismo.18 Griffiths, raccogliendo gli studi di Wilber, fece appunto una personale associazione tra queste sfere psicologiche e il supermind di Aurobindo, che a sua volta associava al nous greco.19 Nella fisica di David Bohm, invece, e nella sua idea che il tutto è presente in ogni parte,20 l'inglese trovò delle conferme a talune idee teologiche che oggi potremmo riconnettere al balthasariano «tutto nel frammento», ma che Griffiths assunse piuttosto da Massimo il Confessore, o dall'Uno nel mondo procliano, peraltro autori, questi ultimi, a cui già Monchanin aveva dedicato delle riflessione particolarmente illuminanti.21 Secondo Bohm, in ogni caso, l'universo è in origine immanifesto o avviluppato e si esplicita e si manifesta in continuazione, sebbene la dimensione immanifesta stia dietro ogni manifestazione. Il monaco inglese, comunque, a dimostrazione della sua grande attenzione verso le scienze moderne, citò numerosi altri scienziati, come Monod,22 Ilya Prigogine23 e Karl Pribram.24

Nella lista di questi scienziati egli incluse, ovviamente, come si accennava, anche Teilhard de Chardin, sulla cui rilevanza e particolarità, però, è necessario mettere l'accento. Il gesuita francese, infatti, pur non avendo proposto nessuna teoria scientifica simile a quella degli autori citati, era stato capace di scorgere nel cosmo un'evoluzione del composto materia-spirito in continua propensione verso un punto omega identificato con Cristo. L'assunzione di tale prospettiva teilhardiana consentiva appunto alla riflessione cosmologica del monaco camaldolese di superare simultaneamente sia l'idealismo che il panteismo, conservando, al contempo, una relazione strettissima tra immanenza e trascendenza.25

3. La proposta di sintesi

La teologia di Griffiths, come si diceva, è caratterizzata dal suo originale tentativo di mettere in continuità il pensiero di Monchanin e Le Saux con le innovative teorie che abbiamo appena richiamato, rileggendo, attraverso di esse, il rapporto tra la mistica -- ad un tempo cristiana ed indù -- e la scienza. Se in precedenza, perciò, abbiamo elencato i punti di vicinanza con i due fondatori, è adesso possibile fare una rassegna degli aspetti di discontinuità, conseguenza diretta, come si diceva, dell'influenza esercitata da tali teorie e della volontà di superare gli ostacoli teologici di fronte ai quali le speculazioni dei due benedettini francesi si erano arenate. La riflessione di Griffiths, infatti, introducendo elementi nuovi ma anche rielaborando un'intuizione la cui prima origine, come si diceva, risale ai loro scritti, ha cercato di far compiere un passo in avanti alla ricerca teologica e all'armonizzazione tra cristianesimo ed induismo.

Un aspetto tipico di Griffiths non riscontrabile in Monchanin e Le Saux, da questo punto di vista, è il suo modo di interpretare la differenza tra Oriente ed Occidente attraverso la distinzione tra intuizione e razionalità, e conseguentemente attraverso il richiamo alla complementarietà delle categorie di maschile e femminile. È questa un'innovazione sicuramente influenzata dalla sua maggiore frequentazione dei testi tantrici, sebbene rifletta un aspetto tipico della sua sensibilità poetica. Legata ad essa, inoltre, c'è la sua particolare valorizzazione del mito, espressione, appunto, secondo il monaco inglese, della più alta facoltà intuitiva dell'uomo. Anche l'interesse verso la scienza, o meglio un particolare tipo di scienza, alternativa a quella classica, è tipico dell'autore inglese, sebbene Monchanin avesse degli interessi non troppo dissimili, e, nel suo periodo francese, frequentasse degli scienziati, tra cui anche Teilhard de Chardin, e consultasse con regolarità le riviste di tipo scientifico. Griffiths, inoltre, parlò spesso, con un insistenza sconosciuta ai suoi predecessori, di nuova creazione e nuova umanità.26

Sono questi solo alcuni degli aspetti originali contenuti nel pensiero teologico del monaco camaldolese, il quale, dovendo rispondere a delle problematiche comuni, non poteva, ovviamente, differenziarsi troppo, dal punto di vista contenutistico, dai suoi predecessori. Analogamente a loro, egli era perfettamente consapevole di doversi confrontare, nel suo sforzo missionario e dialogico, con l'idealismo ed il panteismo del Kevaladvaita. È questa, infatti, la maggiore scuola filosofica indiana, che, specialmente nel suo massimo rappresentante, Shankara, professa un'identità ultima (advaita) tra l'anima individuale e Dio, privando così il mondo di una vera alterità e di una vera realtà. In una sua riflessione, a dispetto della irriducibile diversità che questa prospettiva sembra avere con quella cristiana e a dimostrazione della sua volontà indefettibile di trovare una sintesi, Griffiths propose persino un parallelismo tra la visione di Shankara e quella di Tommaso d'Aquino, sebbene tale prospettiva, nell'economia generale dei suoi scritti, rimanga piuttosto isolata.27 Egli, comunque, rispetto al problema dell'idealismo shankariano, non rinnegò completamente la maya indù, cioè la dottrina dell'illusorietà del cosmo, perché, con una precisazione che ricalca quella di Monchanin e Le Saux, sosteneva che «tutti gli esseri, considerati separati dal Brahman, sono irreali, ma visti nel Brahman hanno piena realtà».28

Egli, in ogni caso, esattamente come i due benedettini francesi e tutti coloro che hanno fatto opera di inculturazione in India, si è trovato nella condizione di dover continuare la loro stessa ricerca verso una formula teologica capace di escludere sia l'identità che la totale differenza ontologica tra Dio ed il mondo, conservando, al contempo, la centralità di Cristo e della sua opera salvifica. Non meno di Monchanin e Le Saux, swami Dayananda era appunto consapevole, come scrisse, che il problema fondamentale della filosofia indiana consiste nel fatto che non ha mai risolto in modo completo la relazione tra Dio e l'universo.29 Il monaco inglese, proprio facendo leva su questa lacuna del pensiero indiano, nutrì l'ambizione di trovare una proposta metafisica capace di conciliare la contrapposizione tra dualità e non-dualità, e con essa le antitesi tradizionali sollevate da ogni mistica: quella tra mediazione ed immediatezza e quella tra immanenza e trascendenza.

Le soluzioni da lui individuate per trovare una sintesi a queste classiche antinomie poggiano fondamentalmente, come si diceva, sulla rielaborazione di intuizioni già presenti nei due predecessori, alle quali, tuttavia, egli è riuscito a dare, come si diceva, uno sviluppo innovativo. È il caso, per esempio, della prospettiva evoluzionistica, una soluzione alle opposizioni menzionate già presente in Monchanin e Le Saux, a cui lui, però, ha dato uno sviluppo più convinto ed articolato. Secondo l'autore inglese, infatti, l'evoluzione, intesa come passaggio da una condizione ontologica ad un'altra, poteva rappresentare una prima risoluzione dell'antitesi tra essere e non-essere, capace di sciogliere, al contempo, le aporie che dividono metafisica cristiana e metafisica indiana, sebbene la formula attraverso la quale egli ha recuperato tale prospettiva sia forse troppo semplificante. Tipica di Griffiths, infatti, è quella chiarezza, talvolta persino banalizzante, di chi ha compreso fino in fondo le radici dei problemi teologi, ma non ha intenti accademici, e tende quindi a presentare le questioni in modo decisamente semplificato.

Attraverso la categoria dell'evoluzione, in ogni caso, letta come quel processo attraverso il quale il mondo e la coscienza convergono verso una Realtà Ultima o Essere Supremo, il pensiero di Griffiths riesce a salvare sia l'identità che la differenza col divino.30 È questa una prospettiva che ha le sue radici più lontane nell'epekstasis di Gregorio di Nissa -- autore a cui lui dedicò un articolo e la cui teoria escatologia citò più volte -- ma che si richiama direttamente anche a Teilhard de Chardin, le cui intuizioni scientifico-teologiche, non a caso, erano già state integrate e metabolizzate da Monchanin, e, sulla sua scia, anche da Le Saux. Già la cosmologia del lionese, infatti, ed in parte anche quella del bretone, si fondava sul pancristismo dello scienziato gesuita.31 La riflessione di Griffitihs, perciò, in modo del tutto simile a quella dei predecessori e di Teilhard de Chardin, guardava a Cristo come al sostrato ontologico di tutte le cose e come al vertice ideale verso cui tutto converge.32 Questa prospettiva teologica rappresenta in se stessa, come è facile comprendere, una prima soluzione all'idealismo ed al panteismo. Da un lato, infatti, si può dedurre che se il mondo è in Cristo allora è anche necessariamente reale, dall'altro, nella misura in cui il rapporto ontologico dell'uomo con Lui è basato sull'essere creato «a sua immagine», come già affermavano i Padri, allora tale soluzione riesce ad evitare sia l'identità panteistica che la differenza dualista.33 L'uomo, in altri termini, è identico al divino nel suo essere «in Cristo» ed è diverso dall'essere di cui è immagine nella misura in cui a lui tende infinitamente senza mai identificarvisi pienamente. Nella teologia cristiano-indù di Griffiths non mancano, inoltre, ma tale accostamento è presente esplicitamente anche in Le Saux, dei collegamenti diretti con il mito vedico del Purusha, la Persona cosmica, che si presta a non pochi parallelismi con questa concezione cosmica di Cristo.34 È riferendosi esattamente a questo mito, riletto attraverso il pancristismo teilhardiano, che il camaldolese poteva affermare: «l'umanità è una. L'uomo archetipo contiene in sé tutta l'umanità e tutto l'universo».35 L'autore inglese, inoltre, a conferma dell'universalità della verità che riteneva di aver intuito, individuò questo mito persino all'interno della tradizione islamica e nel buddhismo.36 Egli, in aggiunta a ciò, forse memore della centralità che la filosofia della persona ha in Monchanin, sosteneva che «Più si è universali, più si diventa, nel modo più profondo, una persona».37 Il richiamo alla categoria della persona è particolarmente significativo, quando ci si confronta con l'antropologia in India, perché in essa l'individualità, l'io fenomenico e psicologico, è notoriamente svalutato. Un tale concetto di persona, quindi, fondato sul principio unificante e personalizzante del Verbo, si può leggere come un tentativo di integrazione e superamento della prospettiva antropologica vedantica. In Griffiths, inoltre, come già accadeva in Teilhard de Chardin, questa dinamica di personalizzazione ed unificazione si compie attraverso il momento sacramentale dell'eucaristia.38 La teologia del monaco inglese, in altri termini, reagisce al non-dualismo panteistico dell'advaita shankariana ricorrendo a Teilhard de Chardin e all'adagio da lui formulato, secondo il quale «l'unione differenzia».39 Citando esplicitamente il gesuita francese, infatti, scriveva: «È importante sottolineare ciò che Teilhard de Chardin dice tanto frequentemente, che non si tratta semplicemente di dissolversi nell'uno».40

Proprio attraverso queste premesse, in ogni caso, Griffiths arrivò ad una delle conclusioni principali della sua speculazione teologica: «Credo che una visione più profonda, in accordo con la visione biblica, sia che il Figlio viene generato dal Padre nell'eternità e che, nella generazione della Parola, viene generata l'intera creazione».41 Richiamando una convinzione che echeggia Massimo il Confessore, infatti, precisava che «In questa Persona cosmica, nel Verbo, nel Figlio, sono contenuti tutti gli archetipi di ogni essere creato».42 È esattamente a partire da questa base teologica ed antropologica che Griffiths proponeva la sua personale proposta di conciliazione tra cristianesimo ed induismo, la quale poggiava appunto sulla necessità di «effettuare la scoperta di Cristo come Atman»,43 come vero sé di ogni essere.44

La proposta teologica che abbiamo appena riassunto si fonda, tuttavia, su una specifica opzione metafisica che rappresenta un'ulteriore particolarità di Griffiths: la scelta dello shivaismo kashmiro anziché il Vedanta come sponda di dialogo con l'India.45 È questa, in verità, una intuizione già presente in Monchanin e Le Saux, i quali, per vari motivi, non l'hanno però sviluppata. Una delle principali peculiarità che caratterizzano la teologia del monaco inglese, perciò, è esattamente il richiamo alla geografia metafisica di queste scuole, le quali, a differenza del Vedanta, consideravano il mondo reale perché vedevano operante in esso l'energia divina, la shakti, la quale, per altro, era una categoria non lontana dallo spirito nella materia di cui aveva scritto Teilhard de Chardin. Queste correnti metafisiche, inoltre, professavano anche una cosmologa triadica nelle quali ad un'emanazione dal divino corrispondeva un ritorno ad esso attraverso lo spirito, secondo una processione simile a quella descritta nel neoplatonismo cristiano di Dionigi. Lo scenario in cui si colloca la comprensione finale del cristianesimo riflettuta dal monaco camaldolese, dunque, risulta oscillare tra il neoplatonismo ed il tantrismo. Scriveva, a questo proposito: «La Parola o Figlio, come Logos, è la Forma esemplare di tutta la creazione, il principio di tutte le forme nella natura, mentre lo Spirito è la shakti».46 Tale associazione tra lo spirito e la shakti, tuttavia, era presente già in Le Saux, della quale si era appunto servito per esprimere, nella parte conclusiva della sua vita, la propria esperienza dell'advaita.47

Griffiths, a quest'ultima associazione, univa dei collegamenti sia con Teilhard de Chardin che con la psicologia transpersonale di Wilber, nella quale la dinamica evolutiva produceva esattamente coscienza. Facendo espressamente riferimento a tale prospettiva, il monaco camaldolese precisa appunto che ciò «che sembra distinguere lo shivaismo del Kashmir è il suo concetto di chitshakti, l'«energia di coscienza», non semplicemente come forza della mente, ma come forza della volontà. L'universo deriva dalla shakti, l'energia che è organizzata dalla mente».48 Il monaco inglese, comunque, che in questa sua tendenza a mettere insieme elementi filosofici e teologici di diversa provenienza non sarebbe piaciuto a Monchanin, potrebbe aver attinto da varie fonti questa sua opzione metafisica: dai due precursori francesi, da Aurobindo, da Wilber, o direttamente da Abhinavagupta, il padre dello shivaismo kasmiro.49 L'aspetto più interessante, però, è un ulteriore collegamento da lui sviluppato tra la shakti e l'energie increate dell'esicasmo, anch'esso, per altro, già presente, sebbene non in una forma sviluppata, in Le Saux e soprattutto Monchanin.50 L'inglese, ad ogni modo, approfondendo esplicitamente questa associazione, affermò che «Lo Spirito è l'energia in Dio, la shakti o potenza in termini indù, corrispondente all'energia increata di Gregorio Palamas. La Parola o Figlio, come Logos, è la Forma esemplare di tutta la creazione, il principio di tutte le forme nella natura, mentre lo Spirito è la shakti. [. .] L'energia delle piante e degli animali diviene cosciente nell'uomo».51

In sintesi, si poggia su questa articolata compagine di autori e scuole filosofiche diverse, la visione armonizzante proposta da Griffiths tra cristianesimo ed induismo, la quale, però, non ha ovviamente la pretesa di risolvere tutte le irriducibilità e spigolosità dogmatiche che distinguono le due religioni.52 Egli, da questo punto di vista, ha continuato e persino approfondito quell'approccio apofatico al divino al quale già si erano arresi Monchanin e Le Saux. Scrisse infatti, a questo riguardo, che «Ogni persona ed ogni cosa vengono reintegrate nell'Uno in un'unità totale, che trascende la nostra attuale comprensione»,53 sottolineando appunto come «Nel Signore cosmico e per mezzo di Lui ogni cosa ritorna all'unità trascendente, al di là di ogni concetto».54 In altri passi, inoltre, egli dichiara esplicitamente che «Dio non è persona nel senso umano. Jhwh, Allah, Vishnu, Shiva sono nomi dati a ciò che non può essere nominato. Gesù stesso è un'espressione di Dio, l'innominabile, in termini umani».55 Percorrendo questa sensibilità apofatica, la teologia di Griffiths arrivò persino a toni che potrebbero anche sembrare relativistici: «Le religioni sono sistemi di miti e riti, di dottrina e sacramenti, che derivano da questo mistero trascendente e cercano di esprimerlo attraverso segni. La Rivelazione è la comunicazione del mistero sotto i segni del linguaggio e del culto di ciò che è al di là di tutti i segni. È compito del monachesimo testimoniare, all'interno di ogni religione, ciò che è al di là della religione, che è essere al di là di tutti i segni».56 Tale prospettiva, come si diceva, non deve essere letta come una confessione relativistica, ma come la logica conseguenza di un pensatore religioso che vivendo in India ha introiettato la sensibilità vedantica, la quale cerca appunto di purificare la religione dai suoi aspetti non essenziali. Griffiths, tuttavia, nel manifestare asserti di questo tipo, non faceva altro che affermare ciò che già era stato sottolineato dallo storicismo e dalla fenomenologia occidentali, ovvero la dimensione storicamente condizionata di tutte le fedi religiose.57

4. Conclusione

Come si diceva, quindi, la sintesi teologia di Griffiths risulta essere un'integrazione di elementi teologici e filosofici eterogenei. Per costruire la sua armonizzazione, infatti, egli ha fuso insieme teologia cristiana, filosofia occidentale, scuole metafisiche indiane di varia estrazione e teorie scientifiche New age. Ad esempio, nel fare riferimento ai campi morfogenetici di Rupert Sheldrake, egli intravedeva la possibilità di un ritorno ad Aristotele e al concetto di «forma interna», ma anche l'eventualità che questo processo dinamico potesse essere ricompresso attraverso la shakti, l'energia divina tipica del tantrismo. Nella psicologia transpersonale di Wilber, invece, e nella sua concezione di uno sviluppo graduale della psicologia umana, trovava dei collegamenti con la supermind di Aurobindo e con la cristogenesi operata dallo spirito di cui avevano scritto Teilhard de Chardin e Moncahnin: «Nel cristianesimo parliamo dello Spirito, comprendendo che dal fondo originario si sprigiona lo Spirito che è energia increata. Come il Verbo, o Figlio, è la sorgente di ogni forma della natura, così lo Spirito e la sorgente di ogni energia. È l'energia increata, che fluisce eternamente dalla Divinità e che porta poi all'esistenza le energie della materia e della natura. Così natura e materia sorgono come energie create scaturendo dall'energia increata dello Spirito. Si può pensare che l'universo venga all'esistenza come una sovrabbondanza di questa energia, che è amore. L'energia d'amore di Dio è precisamente lo Spirito e quest'energia d'amore fluisce all'esterno per esprimersi nell'universo».58 La sintesi di Griffiths, in definitiva, è tutta contenuta nella sua cristologia, in virtù della quale «gli individui non esistono come unità isolate ma sono tutti membri di un corpo che è in corso di crescita lungo tutta la storia umana ed è inoltre collegato organicamente con l'evoluzione dell'universo. [...] Cristo è visto come l'eterno Logos, il Verbo o Parola in cui esistono tutte le cose, che assume in se stesso l'intera umanità e con essa l'intera natura».59 La sua lettura dinamica della cristologia, tuttavia, non è altro che l'asse portante ed il punto di svolta della sua cosmologia. Lo Spirito di cui il Figlio è mediatore, infatti, diventa il motore di quella processione di matrice neoplatonica che è conosciuta nel cristianesimo dello Pseudo Dionigi come dinamica tra proodosis e epistrophé e nell'induismo come tensione tra pravritti e nivritti60. Sviluppando i corollari di tale prospettiva, egli poteva appunto affermare che «mediante la Persona cosmica tutto questo universo, fisico e psicologico, viene reintegrato nella sua sorgente».61 A questo ritorno al Sé o alla natura originale dell'uomo, egli, usando un termine caro a Le Saux, che lo aveva mutuato da Ramana Maharishi, diede il nome di sahaja samadhi, ma anche quello utilizzato da Wilber che invece, preferendo il lessico buddhista, parlava di svabhavikakaya.

Alla luce anche di queste ultime citazioni, quindi, si può certamente dire, come sottolineava anche Bernardino Cozzarini, che Bede Griffiths è «una figura di sintesi di cammini fatti da varie persone e da vari monaci come Monchanin, Le Saux, Merton ed altri».62 Se il debito, però, che la sua teologia ha con i suoi predecessori è considerevole, va anche ribadito che solo con la sua opera di rilettura e di armonizzazione il monachesimo cristiano-indù ed il suo impianto teologico sono diventate una delle risorse più feconde della Chiesa post-conciliare aperta al dialogo e alla testimonianza nelle civiltà dell'Oriente.

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Note

  1. Bede Griffiths, dopo The Golden String, continuò la sua biografia in The Marriage of East and West. Il saggio, al di là del silenzio che si è imposto negli ultimissimi anni di vita (1989-1993), rappresenta l'opera della maturità, quella che riassume meglio il suo progetto di fondo. È importante sottolineare, tuttavia, come in essa si non parli di matrimonio o sintesi tra cristianesimo ed induismo, ma tra Oriente ed Occidente, limitando questa armonizzazione, come vedremo meglio, alla coniugazione tra intuizione e ragione, tra femminile e maschile, da lui considerati, appunto, gli elementi distintivi delle due culture, e mettendo da parte gli aspetti più prettamente dogmatici. Risulta interessante rilevare, comunque, come l'indice dell'opera sia strutturato in tre parti, quasi a voler contrapporre in termini di tesi ed antitesi la rivelazione vedica e quella giudica, salvo proporre, nella terza, quella cristiana come una sorta di sintesi ideale tra le due. Testo

  2. Il monaco inglese, nel suo racconto autobiografico, ricorda appunto la nuova vocazione e l'invito di Le Saux a prendere il suo posto a Shantivanam (cfr.r. Griffiths, Matrimonio tra Oriente ed Occidente, EDB, Bologna 1983, 30). Testo

  3. Nel 1980, Griffiths partecipò ad un convegno che si tenne a Bombay nel quale presero parte quattrocento scienziati tra biologi, fisici e psicologi che si proponeva di mettere in contatto scienziati occidentali con uomini spirituali dell'Asia, allo scopo di evidenziare come le nuove teorie scientifiche si conciliassero con la spiritualità. Tale evento ha sicuramente influito in modo determinante nella vita di Griffiths, almeno a giudicare dalle numerose citazioni che ha poi fatto di alcuni di quegli autori. Testo

  4. Cfr.r. Griffiths, Matrimonio tra Oriente ed Occidente, 34. Testo

  5. Cfr.r. Id., Una nuova visione della realtà, Edizioni Appunti di Viaggio, Roma 2005. Il capitolo dodicesimo dell'opera citata si intitola appunto: «Sintesi: verso un piano unificatore». Testo

  6. Id., Un monaco universale, Edizioni Camaldoli, Camaldoli 2003, 23. Testo

  7. Id., Matrimonio tra Oriente ed Occidente, 15-18. Testo

  8. Cfr. Id., Un monaco universale, 27. Testo

  9. Cfr. I. Nicoletto, «Bede Griffiths e il dis-orientamento dell'Occidente», in A. Tronti [ed.], In cammino verso l'Oltre. Bede Griffiths: un ponte tra l'Occidente e l'Oriente, Edizioni camaldoli, Camaldoli 2004, 27. Testo

  10. Cfr.. ib., 20. Testo

  11. Il pensiero di Teilhard de Chardin ha sicuramente un posto rilevante nella teologia di Griffiths, come del resto ce l'ha in quello di Monchanin, che lo aveva conosciuto personalmente, ed in quello di Le Saux che lo cita svariate volte nei suoi diari. Il gesuita francese è importante in un'ottica di raffronto con la metafisica indiana perché, oltre al fatto che si è direttamente interessato alle religioni dell'Oriente, alcune delle categorie da lui elaborate, come quella dell'evoluzionismo, della cristogenesi o del pancristismo, risultano fondamentali, come dimostra l'assunzione che ne hanno fatto gli autori citati, per trovare delle sponde di dialogo con l'induismo. Al fine di una ricostruzione delle radici scientifiche e patristiche del gesuita francese, si cfr. R. Hale, Il cosmo e Cristo: basi di una teologia ecologica secondo Teilhard de Chardin, Istituto Stensen, Firenze 1973. Testo

  12. Griffiths confessa di essere stato ispirato dalla «visione cosmica espressa meravigliosamente nell'opera di Dionigi Areopagita» (Griffiths, Matrimonio tra Oriente ed Occidente, 29). Testo

  13. Cfr. J. Monchanin, «Apofatismo ed apavada», in Mistica dell'India, mistero cristiano, Marietti, Genova 1992, 105-127. Testo

  14. Cfr. Griffiths, Un monaco universale, 52. Sul sat-cit-ananda, letteralmente essere-coscienza-beatitudine, scrisse per la prima volta, Brahmabandhav Upadhyaya (cfr. P. Trianni, «Il samnyasa cristiano-hindu: Jules Monchanin discepolo di Brahmabandhav Upadhyaya»: Vita monastica LX (2006) 234, 89-119). Il primo occidentale, però, che ha sviluppato un parallelismo tra questa categoria e la Trinità cristiana è stato Lanza del Vasto, che sul tema scrisse in due saggi (cfr. Lanza del Vasto, La trinité spirituelle, Denoel, Paris, 1971, 23 e Id., La montée des ames vivantes, Denoel, Paris 1968, 46). Testo

  15. Cfr. Griffiths, Una nuova visione della realtà, 15. Testo

  16. Lanza del Vasto è stato il primo continuatore in Occidente dell'opera di Gandhi, ed anche Griffiths, per vari aspetti, si può considerare un gandhiano. Anche Lanza del Vasto, inoltre, come l'inglese, ha cercato di conciliare il Vedanta con il cristianesimo. L'italiano, oltre a ciò, è autore di una filosofia che legge il reale trinitariamente, e pure Griffiths, in vari passi, ha parlato di triplice aspetto del reale e della Trinità in ogni aspetto della creazione (cfr. Griffiths, Una nuova visione della realtà, 29 e 278). Testo

  17. Cfr. ib., 26;143 e 304. Testo

  18. Cfr. ib. 66. Testo

  19. Cfr. ib., 81. Testo

  20. Cfr. ib., 23. Testo

  21. Cfr. J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, 100. Testo

  22. Cfr.r. Griffiths, Una nuova visione della realtà, 25. Testo

  23. Cfr. ib., 28. Testo

  24. Cfr. ib., 37. Testo

  25. Teilhard de Chardin vedeva operante nell'universo uno spirito latente ed una forza radiale che coincideva appunto con la coscienza di Cristo. Griffiths, trasse spunto da tale prospettiva armonizzandola con le teorie di Wilber (cfr. ib., 31). Testo

  26. Cfr. ib.,324. Testo

  27. Griffiths, forse raccogliendo gli sforzi irenici di Richard De Smet e Sara Grant, due teologi che operarono all'Università di Madras convinti che si potesse armonizzare Tommaso e Shankara, affermò che la prospettiva di quest'ultimo «è molto simile alla visione di san Tommaso secondo cui Dio è in tutte le cose tramite la sua potenza, la sua presenza e la sua essenza, cosicché l'essenza divina, la Santa Trinità, è in ogni particella della materia» (Id., Un monaco universale, 50). Testo

  28. Ivi. Griffiths, con questa affermazione ricalca sia Teilhard de Chardin, che parlava di «reale partecipato», che Le Saux e Monchanin. Era stato, quest'ultimo, infatti, il primo ad affermare che la creazione non avesse essere eccetto quello della sua relazione intemporale con Dio, sostenendo che «il mondo non è illusione, ma è reale, della stessa realtà di Dio» (J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, 293). Testo

  29. Cfr. Griffiths, Una nuova visione della realtà, 186. Testo

  30. Cfr. ib., 303. Testo

  31. Se l'autore inglese individua la sintesi tra realtà ed apparenza nel concetto di evoluzione, si può dire che tale prospettiva era già implicitamente presente nella filosofia della persona di Monchanin, che era appunto fondata sul co-esse e sull'esse ad. Il convergere di questi due processi evolutivi verso un Essere Supremo era precisamente ciò che Teilhard de Chardin aveva chiamato cristogenesi e Raimond Panikkar chiamerà poi cristofania. È importante sottolineare, tuttavia, che nel monaco inglese la dinamica evolutiva supera tutti i dualismi: realtà ed apparenza, unità e molteplicità, identità e differenza. Testo

  32. Griffiths, con una riflessione le cui radici più lontane affondano nella «generazione del verbo» e nel «fondo dell'anima» eckhartiano, affermava: «Questa esperienza di Cristo come substrato di tutto l'essere deve costituire l'ispirazione del monachesimo cristiano. Infatti ciò significa che in Cristo noi non solo scopriamo il centro o substrato del nostro essere, ma che vi ritroviamo il punto d'incontro con tutti gli altri uomini e con l'intero mondo della natura» (Griffiths, Un monaco universale, 28). Testo

  33. Il monaco camaldolese, consapevole del fondo pelagiano dell'antropologia indiana, e ricordando l'errore origeniano di considerare l'anima naturalmente divina, precisava che «l'anima non è divina, ma che ha la capacità di essere resa divina dalla grazia» (Id., Una nuova visione della realtà, 282). Testo

  34. Scriveva Le Saux: «Cristo è l'Uomo cosmico, il Purusha» (H. Le Saux, Diario spirituale di un monaco cristiano-samnyasin hindu, Mondadori, Milano 2002, 370). Griffiths, sulla scia del benedettino, ma anche indipendentemente da lui, ritorna in molti passi su questo mito (cfr. Griffiths, Un monaco universale, 46; 28 e Id., Una nuova visione della realtà, 77; 82; 145;153). Testo

  35. Griffiths, Una nuova visione della realtà, 322. Testo

  36. Scrive il monaco inglese: «L'uomo archetipo contiene in sé tutto l'universo e tutta l'umanità. È la Persona cosmica che è riconosciuta come il signore della creazione, il tathagata del buddhismo, il supremo dharmakaya del Buddha, il Purushottaman o il Paramatman dell'induismo e l'«Uomo universale» dell'Islam» (ib., 320). Testo

  37. Cfr. Griffiths, Matrimonio tra Oriente ed Occidente, 97. Testo

  38. In un passo densissimo dove Griffiths in poche righe cita Karl Rahner, Massimo il Confessore e Taulero, egli afferma appunto che «ogni eucaristia è un riunificare il corpo di Cristo» (Id., Un monaco universale, 47). Testo

  39. La posizione teologica di Griffiths, volendo dare ad essa una collocazione all'interno della metafisica indiana, si avvicina a quella di Ramanuja e del suo interprete moderno, Aurobindo. Griffiths, infatti, sulla scia di Teilhard de Chardin, professa una relazione dinamicamente unitiva con Cristo che rappresenta l'«idea» dell'uomo, nell'incontro con il quale, però, non si verifica mai una vera dissoluzione dell'individualità. Questa prospettiva è appunto vicina al monismo differenziato di Ramanuja, il quale ha un relazione ontologica con Rama simile a quella che il cristiano, secondo Griffiths, deve avere con Cristo. Quella dell'inglese, al di là di possibili interpretazioni gnostiche, è una teologia della differenza nell'identità che si presta a degli accostamenti con la posizione del mistico indiano citato, che fu appunto il grande rivale di Shankara, sebbene già Monchanin e Le Saux avessero rintracciato nella sua metafisica le premesse del modalismo. Dio, infatti, secondo Ramanuja, crea il mondo traendolo da sé, di conseguenza esso è essenziato da Lui, è un suo corpo, un suo modo. Testo

  40. Griffiths, Una nuova visione della realtà, 324. Sviluppando la sua convinzione che il Verbo è il centro e l'idea che raccoglie ogni differenza, scriveva: «Nella visione indù spesso si sente dire che tutte le differenze scompaiono nello stato finale. Noi vorremo dire che queste differenze sono eternamene nella Parola» (Griffiths, Un monaco universale, 48). Testo

  41. Ib., 46. Si potrebbe aggiungere, inoltre, che l'affermazione di Griffiths riassume lo stesso orizzonte teologico su cui si poggia il cosmoteandrismo di Raimon Panikkar. Testo

  42. Griffiths, Una nuova visione della realtà, 320. Il monaco inglese, riprendendo l'idea di Massimo il Confessore secondo la quale Cristo è l'idea dell'uomo, affermava anche che ogni persona è una parte di Dio, moira Theou (cfr. Id., Un monaco universale, 49). Testo

  43. Id., Un monaco universale, 28. Testo

  44. Cfr. Id., Una nuova visione della realtà, 211. Testo

  45. Griffiths definì la metafisica dello shivaismo kashmiro notevolissima (cfr. Griffiths, Una nuova visione della realtà, 187). Il primo dei teologi cristiani-indù che si è occupato, sia pure parzialmente, della filosofia dell'India del nord era stato Monchanin, che su di essa scrisse già nei primi anni cinquanta (cfr. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, 250). Il monaco inglese, tuttavia, confessò di aver preso spunto da un articolo di Michael von Bruck del 1985 (cfr. Griffiths, Una nuova visione della realtà, 207). Testo

  46. Griffiths, Un monaco universale, 48. Testo

  47. Su questo accostamento tra lo spirito e la shakti, da Griffiths, appunto, ripreso, condiviso e sviluppato, si possono leggere diversi passi di Le Saux. Tra i più significativi c'è certamente quello in cui egli associa la shakti alla maya come kenosi dello spirito (cfr. Le Saux, Diario spirituale di un monaco cristiano-samnyasin hindu, 137 e Id., Tradizione indù e mistero trinitario, EMI, Bologna 1959, 125). Un'altra citazione importante che fa capire come Le Saux avesse anticipato l'evoluzionismo dello spirito-coscienza, è quella in cui egli scrive che «L'universo si evolve nella direzione di una coscienza sempre più ampiamente condivisa e approfondita e di un adattamento dell'universo a questo stadio ultimo della coscienza, quello dei figli di Dio» (Id., Diario spirituale di un monaco cristiano-samnyasin hindu, 167). Testo

  48. Griffiths, Una nuova visione della realtà, 186. È interessante ricordare come Teilhard de Chardin, pur non conoscendo, probabilmente, queste scuole filosofiche, avesse scritto che la «La 'stoffa dell'Universo' è lo Spirito-Materia» (P. Teilhard de Chardin, L'energia umana, Il Saggiatore, Milano 1984, 62). Testo

  49. È significativo, a questo riguardo, che Griffiths citi esplicitamente Abhinavagupta, che, insieme a Shankara, è la personalità filosofica più importante dell'induismo (cfr. Griffiths, Una nuova visione della realtà, 186). Testo

  50. Cfr. Monchanin, «Yoga ed esicasmo», 95. Sul collegamento tra tantrismo ed esicasmo si legga anche una pregevole opera del camaldolese Tomas Matus, che per altro contiene una prefazione dello stesso Griffiths, sebbene abbia il limite di non rendere adeguata giustizia ai precedenti collegamenti di Monchanin e Le Saux: T. Matus, Yoga and the Jesus prayer tradition. An experiment in faith, ATC, Bangalore 1992. Testo

  51. Griffiths, Un monaco universale, 48. Testo

  52. È opportuno sottolineare, a questo riguardo, che termini come monismo o panteismo, secondo Griffiths, erano concetti inadeguati in un contesto di dialogo con l'India proprio perché di origine greca (cfr. Id., Matrimonio tra Oriente ed Occidente, 96). Non è un caso, a questo proposito, che il monaco camaldolese, oltre a valorizzare l'intuizione ed il mito, avesse sottolineato la necessità, anche richiamandosi allo Pseudo Dionigi, di una critica radicale al linguaggio (cfr. Id., Una nuova visione della realtà, 288). Testo

  53. Griffiths, Una nuova visione della realtà, 324. Testo

  54. Ib., 326. Testo

  55. Id., Un monaco universale, 28. Testo

  56. Ib., 40. Testo

  57. Cfr. Id., Il filo d'oro. Un'autobiografia, Edizioni Appunti di Viaggio, Roma 2004, 27. Testo

  58. Ib., 321. Testo

  59. Id., Un monaco universale, 36. Testo

  60. Cfr. Id., Una nuova visione della realtà, 319. Testo

  61. Ivi. Testo

  62. B. Cozzarini,« Bede Griffiths: l'uomo del dialogo» in A. Tronti [ed.], In cammino verso l'Oltre, 18. Testo