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Quaerere Deum: l'origine della teologia occidentale e le radici della cultura europea

di Giovanni Salmeri (3 agosto 2009)

In questo saggio si analizzano le condizioni, i luoghi, le forme in cui lentamente si crea una cultura, studiando qualche esempio significativo, come la storia della evangelizzazione dei popoli germanici con l'esempio della storia culturale dell'Irlanda e il progetto del Vivarium di Cassiodoro. Si noterà che le condizioni concrete hanno più importanza dei progetti teorici, destinati all'insuccesso quando non si poggino un presupposto umano e sociale. Viceversa, le condizioni umane adatte possono creare esiti felici anche quando questi non sono esplicitamente previsti e voluti: spesso i «progetti» sono in realtà delle riflessioni a posteriori su una storia umana già svolta. La storia sembra insegnarci che l'educazione non può fare a meno della realtà delle persone. Comporre documenti programmatici può apparire un'attività molto seria e meritoria pure se nessuno li legge; ma educare non educando nessuno sarebbe probabilmente giudicata attività degna di manicomio: così come, del resto, lo sarebbe evangelizzare non evangelizzando nessuno.

Il tema che mi è stato assegnato non è facile da svolgere: sia per la sua ampiezza, sia perché, nel contesto di questo corso, alcuni degli aspetti più importanti che aiuterebbero a svolgerlo sono trattati da altri. È per questo motivo, per esempio, che nelle riflessioni che farò sfiorerò soltanto il ruolo giocato dalla Scrittura, al medesimo tempo «libro di testo» della teologia e in numerosi sensi fondamento culturale dell'Europa, oppure il rapporto con l'idea di verità o con la moralità nel suo complesso. E non è davvero facile parlare delle radici della cultura europea una volta sottratti questi contenuti! Ho accettato però la sfida, pensando che, una volta tolti i contenuti, rimangono i contenitori: cioè le condizioni, i luoghi, le forme in cui lentamente si crea una cultura. Ovviamente anche questo è un tema enorme, nel quale ci contenteremo di scegliere qualche esempio significativo. Si tratta di considerazioni che appariranno umilmente storiche, ma che ci permetteranno, credo, di trarre qualche conclusione interessante e forse anche importante per l'oggi.

Per cominciare con qualche dato, assumiamo anzitutto, se non proprio una definizione, almeno un carattere che si può considerare tipico della nascita culturale dell'Europa: lo sviluppo di individualità nazionali, con una cultura propria. È questo un carattere che deriva direttamente dalla rottura dell'unità dell'Impero romano, nel quale le differenze dei popoli convivevano in un modo senza dubbio più omogeneo e per così dire programmatico rispetto a quanto avverrà con le invasioni barbariche. È possibile anche denominarle «migrazioni», ma ciò non toglie nulla del carattere inquietante che i diretti protagonisti percepivano. Esiste certamente un segno che si associa nel modo più caratteristico alla nascita di una coscienza nazionale: l'uso della propria lingua come strumento di cultura.

Se seguiamo questo indizio, i primi monumenti che segnalano in Europa l'emergere di un'individualità che rompe l'unità latina sono i testi cristiani che ci provengono in lingua gotica. Quando e come si era formata questa identità nazionale? Grosso modo i fatti si possono ricostruire così: nel III secolo d.C. popoli germanici orientali migrano verso la Dacia, fondendosi con le popolazioni locali; nel 238 l'esercito di questa nuova entità etnica «gotica» comincia a premere sui bordi dell'Impero Romano; nel 251, dopo un breve periodo di alterni rapporti con i Romani, i Goti attaccano e sconfiggono l'esercito romano, prendendo con sé molti prigionieri romani, per lo più donne. Nel giro di qualche decennio, i Goti risultano essere un popolo cristiano. Che cosa era avvenuto? I dati che abbiamo non registrano nessun fattore esterno appariscente, e allora non possiamo che immaginare che la conversione sia avvenuta spontaneamente: un po' per imitare la cultura latina ormai largamente cristiana, un po' per influenza delle prigioniere, che erano ovviamente anche loro di religione cristiana e diedero vita a famiglie cristiane (una situazione questa che, come testimonia anche il caso celeberrimo di Monica e Agostino, doveva essere tutt'altro che infrequente). In effetti, il primo grande personaggio della cristianità gotica che conosciamo, il vescovo Wulfila, era esattamente il nipote di una prigioniera cristiana (in questo caso però non romana, ma catturata in una successiva campagna in Cappadocia). È proprio a Wulfila che viene dalle fonti storiche attribuita la traduzione in gotico della Bibbia, eseguita nella seconda metà del IV secolo, e di cui rimangono ampie porzioni (tra cui tre quarti del Nuovo Testamento). Oltre ad essa, trasmessa in uno stupendo codice del VI secolo, gli scarsissimi manoscritti superstiti ci tramandano alcuni brani di un commento al Vangelo di Giovanni noto come Skeireins (cioè «interpretazione»).

Codex Argenteus (Biblioteca Universitaria di Uppsala, DG. 1), foglio 118r. Una riproduzione completa in alta risoluzione è disponibile all'indirizzo http://www.ub.uu.se/arv/codexeng.cfm. Questa pagina del manoscritto (nei suoi colori reali il fondo è porpora e la scrittura argento e oro) contiene l'inizio del Vangelo secondo Luca: aiwaggeljo.þairk.lukan.anastodeiþ / Unte raihtis managai dugunnun / meljan ïnsaht bi þos gafullawei / sidons ïn uns waihtins· swaswe...

Ci vuole poco per rendersi conto dell'eccezionalità della situazione. Quando ancora la lingua latina dominava incontrastata la scena del Mediterraneo, un popolo ancora relativamente oscuro trasforma il proprio idioma in lingua di cultura: le fonti storiche attribuiscono a Wulfila anche l'elaborazione del nuovo alfabeto gotico (fondamentalmente un alfabeto greco con piccole aggiunte latine e runiche). E tale lingua di cultura viene improvvisamente nobilitata nel modo più alto possibile: per rendere in essa la parola di Dio e (come ci testimonia lo Skeireins) per studiarla e comprenderla meglio. Almeno in un certo senso, possiamo dire che è la prima volta che compare una lingua di cultura europea.

Certamente non siamo di fronte a nessun «progetto culturale», e neppure ad un'evangelizzazione in senso stretto (che Wulfila fosse un «vescovo missionario», come spesso si è affermato, viene oggi messo in dubbio). Sicuramente c'è il desiderio che la cosa più importante della propria vita, cioè la fede, parli la propria lingua. In effetti, è un po' improprio dire che la lingua gotica rompe l'unità latina: piuttosto, essa viene codificata da un uomo di origine culturale greca, e dunque perfettamente a suo agio con l'idea (tipica del cristianesimo orientale) che ogni popolo si esprima liturgicamente nella sua lingua. Ma forse ancora più interessante è costatare che la fede giunge e si afferma (per quanto ne sappiamo) nell'assoluta povertà: attraverso i prigionieri, e forse principalmente nella silenziosa educazione famigliare. È certamente un peccato che non ci siano giunte testimonianze più complete in proposito: anche dello Skeireins non solo abbiamo solo pochi frammenti, ma esso molto probabilmente è solo la traduzione di un originale greco. Se però dobbiamo fidarci della Provvidenza, è provvidenziale che il primo frammento di esso conservato sia una considerazione sulla debolezza scelta da Dio per attirare a sé l'uomo, debolezza che proprio l'incarnazione testimonia:

Perciò il comune Salvatore di tutti è venuto a purificare i peccati di tutti, non uguale né simile alla nostra giustizia, essendo egli stesso la giustizia, affinché, «offrendosi per noi quale vittima e sacrificio a Dio potesse compiere la redenzione dell'umanità». Ora Giovanni vedendo ciò (e cioè), il piano che doveva essere attuato dal Signore, in verità disse: «Ecco, questo è l'agnello di Dio che toglie il peccato del mondo». Certo egli avrebbe potuto anche senza sembianza umana, ma soltanto con l'autorità divina liberare tutti dalla prepotenza del diavolo; era consapevole però che con una tale imposizione sarebbe stata rivelata la costrizione del suo potere ed egli, senza che fosse pertanto rispettato il piano della giustizia, avrebbe ottenuto con la costrizione la salvezza degli uomini. Visto che il diavolo inizialmente non ha costretto ma ha corrotto l'uomo e con la menzogna lo ha indotto a violare il comandamento, sarebbe contro ciò che si conviene che il Signore, venendo con la potenza divina e con l'autorità, lo liberasse e lo convenisse alla fede con la costrizione. Non sarebbe parso allora di violare mediante l'imposizione della giustizia il piano prestabilito già dall'inizio? Era quindi più conveniente che coloro i quali di loro propria volontà avevano dato ascolto al diavolo violando il comandamento di Dio, questi di nuovo di propria volontà divenissero concordi sull'insegnamento del Salvatore e disprezzassero la malvagità di colui che prima li aveva traviati. Ma per divulgare la conoscenza della verità per la ripresa dei comportamenti voluti da Dio, egli assunse di conseguenza anche sembianza umana, così da diventare per noi maestro della giustizia di Dio. Così dovette anche, per conformarsi alla sua saggezza, sia attirare di nuovo gli uomini con parole ed opere, sia diventare l'annunciatore dei comportamenti del vangelo.

Fa un po' sorridere la notizia secondo cui Wulfila nella sua traduzione della Bibbia omise i Libri dei Re, per non correre il rischio di stimolare il suo popolo già troppo propenso ad azioni bellicose. Ciò che è ben probabile, anzi certo, è che con il Vangelo per la prima volta entra in quel popolo l'idea di un Dio che si fa uomo per salvare l'uomo senza potere, ma con la convinzione e l'amore. È questa idea che, per così dire, dà la parola e dà la scrittura ad un nuovo popolo. Tale esordio, purtroppo, non avrà sviluppo, almeno per due motivi: il primo, per la progressiva assimilazione dei goti alla cultura latina; il secondo, che certamente attira di più l'attenzione dei teologi, è la confessione ariana di Wulfila e dei Goti, che evidentemente fece cadere in disgrazia i loro scritti quando (dopo lunghissimo travaglio) la confessione nicena s'impose. Non è però da escludere che (da un punto di vista psicologico, o di sociologia della cultura) l'esistenza di questo retroterra abbia svolto un ruolo positivo: forse una cultura diversa è molto più facilmente abbracciata quando ci si sente in una posizione di parità. In fondo, è significativo che il preziosissimo Codice argenteo con la Bibbia di Wulfila proviene presumibilmente dalla corte di Teodorico, l'imperatore «dei Goti e dei Romani» che con decisione perseguì il suo programma di fusione con la cultura latina. Pure l'arianesimo (che peraltro un giudizio storicamente attento deve collocare in una posizione diversa da quella di un'eresia aberrante) svolge qui il ruolo di una sorta di identità nazionale.

Ad ogni modo, questo inizio abbastanza idilliaco nell'integrazione dei nuovi popoli nella cristianità di lingua latina non ebbe un seguito altrettanto pacifico, e i secoli seguenti furono segnati da scontri gravissimi che sembrarono mettere in pericolo lo stesso futuro della civiltà. È a questo punto che normalmente (e giustamente) si adduce il ruolo svolto dal monachesimo occidentale. Sarebbe però un grave errore di prospettiva storica identificarlo con l'opera di Benedetto. La storia è al proposito perfettamente nota. Fu solo dopo circa tre secoli dall'opera di Benedetto che la sua regola, originariamente scritta per Montecassino, venne imposta a tutti i monasteri dell'Impero di Occidente. Responsabile di questa uniformazione fu un altro Benedetto, Benedetto di Aniane, che dopo aver studiato e confrontato le innumerevoli regole esistenti concluse che quella di Benedetto da Norcia racchiudeva il meglio di tutte, e convinse così l'imperatore Ludovico il Pio a renderla praticamente obbligatoria per tutti tramite un Capitulare monasticum emesso nell'817 dalla dieta di Aquisgrana. Prima di allora, dunque, tre secoli di grande varietà.

All'interno di questa varietà c'è una linea che, seguendo il nostro primo indizio, ci interessa di più: quella del monachesimo irlandese. Anche in questo caso, riassumiamo brevemente i fatti. A differenza della stragrande maggioranza dell'Europa, l'Irlanda non era stata mai raggiunta dal dominio romano, e aveva quindi preservato la sua cultura autoctona: per quanto possiamo ricostruire, elevata e raffinata, contemplante anche un sistema educativo istituzionalizzato. Il cristianesimo si diffuse nel V secolo, in forma pacifica e un po' sorprendente: S. Patrizio (che non fu il primo ad introdurre il cristianesimo, ma venne dai posteri considerato come il fondatore della Chiesa) era, secondo il suo stesso racconto, un ex-schiavo britannico che torna a predicare il Vangelo al popolo presso cui era stato schiavo, per di più con un bagaglio culturale molto modesto. Il cristianesimo assunse in Irlanda una forma abbastanza originale, che rapidamente impregnò l'intera cultura irlandese sostituendo i primitivi culti. L'aspetto forse più appariscente è che la cristianità, pure se nominalmente episcopale, in realtà si organizzò rapidamente su una base monastica, che si adattava meglio alla cultura locale. Grosso modo contemporaneamente alla cristianizzazione si diffuse anche lo studio delle lettere latine e greche. Le occasioni di ciò possono essere state varie, ma sicuramente giocarono anche un insieme di concause interne: anzitutto lo spirito intellettualmente curioso e raffinato degli Irlandesi; poi il fatto che il cristianesimo giungeva ovviamente in una forma latinizzata, portando con sé una notevolissima letteratura patristica. Sia dal punto di vista religioso, sia dal punto di vista letterario, i nuovi arrivi non scalzarono affatto la cultura del luogo, che perfino nei suoi aspetti mitologici continuò ad essere evidentemente studiata e amata. Anzi, perfino la letteratura mitologica latina e greca trovò uno spazio ampio, evidentemente perché, con una cristianizzazione ormai completa, essa non veniva ritenuta affatto pericolosa per la fede (e così di fatto fu).

Come spesso accade, i fenomeni spirituali che stavano alla base di tale attività culturale possono essere quasi solo indovinati. Per uno strano caso del destino, in questo caso l'immagine più viva e completa del monaco intellettuale irlandese ci giunge da un gatto, di nome Pangur Bán. A lui (a cui senza dubbio possiamo assegnare il titolo di gatto più importante del Medioevo cristiano), il suo padrone, forse in un momento di stanchezza, dedicò una bella poesia in irlandese che annotò nel suo quaderno di lavoro, per il resto occupato da testi di Virgilio, note grammaticali greche e simili. È uno dei monumenti della lingua irlandese antica, databile all'VIII sec., e conviene ascoltarlo nella sua divertente semplicità:

Io e Pangur Bán, ciascuno di noi
è occupato con la sua specialità:
la sua mente è presa dalla caccia dei topi
la mia mente è presa dal mio studio.

Io amo, più che ogni fama,
restare a studiare in silenzio sul mio libro,
Pangur Bán non mi invidia,
lui ama la sua arte divertente.

Quando siamo, senza nessuna noia,
soli nella nostra casa,
abbiamo qualcosa a cui applicarci:
è un'occupazione senza fine.

Capita che un topo cada nella sua trappola,
è il risultato di una battaglia valorosa.
Da parte mia, nella mia trappola cade
qualche difficoltà di significato.

Lui dirige il suo occhio acutissimo
verso la parete della stanza.
Il mio occhio, anche se molto più debole,
lo dirigo verso la sottile conoscenza.

Lui è contento con un rapido movimento
quando un topo è intrappolato.
Anch'io alla fine sono felice
quando risolvo una questione difficile.

Siamo sempre così,
e nessuno di noi disturba l'altro:
ad ognuno piace la sua abilità
e si contenta dei suoi risultati.

Lui è il padrone
del lavoro che fa ogni giorno,
io posso terminare il mio compito:
comprendere ciò che è difficile.

Quaderno di Reichenau (Biblioteca dell'abbazia di St. Paul im Lavanttal in Carinzia, xxv. d. 86), foglio 1v-2r. Una riproduzione completa in alta risoluzione è disponibile all'indirizzo http://hildegard.tristram.de/schulheft/. È in esso che si trova la poesia dedicata a Pangur Bán, chiaramente visibile in basso alla pagina di sinistra: Messe ocus Pangur Bán... (la congiunzione ocus è scritta tramite la nota tironiana assomigliante al numero arabo 7).

Non ci troviamo certo di fronte a nessuna teoria sulla necessità della cultura, ma sicuramente a qualcosa non solo più divertente, ma anche paradossalmente più profondo. Il padrone di Pangur Bán non cerca la fama (tant'è vero che conosciamo il nome del suo gatto, ma non di lui!), non crede che la cultura sia utile a qualcosa, non cerca risultati pratici, o perlomeno tutto ciò non sembra giocare alcun ruolo: semplicemente trova piacere nel compito infinito dello studio, in cui la difficoltà fa parte integrante del gioco. È difficile che non vengano in mente le prime parole della Metafisica di Aristotele: «Tutti gli uomini per natura hanno fame di conoscenza». Una certa tradizione cristiana forse qualificherebbe questo atteggiamento come «curiosità», e lo considererebbe peccaminoso. Cosa invero sostenibile: ma è anche grazie a questa curiosità, all'attrattiva verso la sfida intellettuale e in definitiva a questa libertà di spirito che dobbiamo la civiltà europea.

In un terreno come questo è molto facile compiere errori di prospettiva, ma qui a sostenerci è la stessa percezione degli interessati. Citiamo solo due esempi. Uno lo traiamo dall'irlandese S. Colombano, contemporaneo di Benedetto, del quale dovremmo ancora accennare. Ebbene, di lui ci sono rimaste tra l'altro alcune lettere, di cui alcune francamente sorprendenti nel tono. Tra esse vi è sicuramente quella indirizzata al papa Bonifacio IV sui «Tre capitoli» (una questione ben nota a tutti gli studiosi di cristologia, e alla quale brevemente torneremo). Il tono è violento. Colombano accusa il papato di trattare con leggerezza i problemi dell'ortodossia, e non resiste alla tentazione di giocare sul nome del predecessore Vigilio, che non avrebbe ben «vigilato» sulla purezza della fede. Verso la fine della lettera Colombano si giustifica così:

Ma siate indulgenti con me, che tratto tali argomenti scabrosi, se qualche parola dall'esterno ha offeso orecchie pie, perché la ragione delle conseguenze della storia non mi permette di tralasciare nulla della questione, e la libertà della consuetudine patria (per così dire) mi rende in parte audace. Presso di noi infatti non è la persona che conta, ma la ragione. L'amore della pace evangelica mi costringe a dire tutto (Lettera V, 11).

Un'altra testimonianza ci viene dal già citato Benedetto di Aniane, il quale discutendo di questioni trinitarie, in particolare riguardo alle differenze terminologiche tra latino e greco, cita un «sillogismo ingannatore» diffuso tra i «moderni scolastici», e «soprattutto presso gli Scoti» (era il nome all'epoca usato per gli irlandesi, prima che passasse ad indicare gli abitanti dell'odierna Scozia): un sillogismo che sarebbe esempio di una «calliditatis versutia», di un «trucco astuto» (PL 103, 1413B). In realtà non ci risulta affatto che tra il VII e l'VIII secolo i monaci irlandesi siano stati diffusori di eresie trinitarie. Ma evidentemente tale doveva apparire il pericolo che incombeva ad opera di chi provava piacere nell'argomentare, per di più conoscendo un ulteriore quadro di riferimento (quale quello della patristica greca) non poco diverso da quello che si era stabilizzato in Occidente soprattutto ad opera di Agostino.

La libertà della ricerca tuttavia non spiega tutto. La libertà è un semplice vuoto se essa non viene riempita e strutturata. Dobbiamo allora rivolgere lo sguardo ad un'altra fondamentale circostanza storica: il retroterra della cultura autoctona, combinato con la nuova cultura cristiano-latina, aveva dato vita in Irlanda a ben due itinerari educativi. Uno laico, erede della tradizionale formazione destinata per esempio a giudici e poeti (durato fin verso il XVI secolo!); l'altro religioso, costituito attorno ai monasteri. La coesistenza pacifica favorì però numerosi contatti e scambi, e latino e irlandese divennero entrambe a pieno titolo lingue di cultura, con finalità diverse ma che si sostenevano a vicenda. (Un solo piccolo esempio: la scrittura «irlandese», correntemente usata per il gaelico fino alla metà del Novecento e ancora oggi per scopi decorativi, non è altro che una variante dell'antica grafia semi-onciale latina usata a partire dal III secolo: una scrittura che evidentemente la cultura irlandese dalla venuta del cristianesimo in poi ha sentito così propria da conservarla per la propria lingua, malgrado tutte le riforme grafiche succedutesi in Europa!). Vogliamo però approfittarne per cercare qualche traccia in un genere di testi molto significativi: le glosse irlandesi ai libri della Scrittura. Si tratta ovviamente di testi molto significativi sia perché mostrano il nuovo uso «religioso» conferito alla lingua patria, sia perché rivelano quel tipo di scambi a cui accennavamo. Le glosse irlandesi non sostituiscono infatti il testo della Volgata, bensì suppongono che il lettore conosca il latino, ed esse stesse adoperano continuamente parole latine.

Ma oltre all'aspetto formale, ci sono anche contenuti che vale la pena mettere in evidenza. Un tema che ricorre abbastanza spesso nelle glosse riguarda temi didattici. Le lettere di Paolo vengono infatti interpretate come opere di un bravo insegnante, di cui si sottolineano i mezzi adeguati da lui scelti. Vediamo alcuni casi:

«Voi non siete nella carne, ma nello spirito» (Rom. 8, 9): Secondo la pratica di ogni buon precettore, [Paolo] loda e consola prima di rimproverare.

«O altezza delle ricchezze della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono incomprensibili i suoi giudizi e ininvestigabili le sue vie!» (Rom. 11, 33): Domanda: che cosa possono essere qui le «ricchezze», e la «sapienza» e la «scienza», e che cosa possono essere i «giudizi imperscrutabili», e che cosa possono essere le «vie ininvestigabili», e che cosa può essere il «giudizio del Signore»? Non è difficile: a ciò si riferiscono tutte quelle cose, all'indicibile disposizione che era nei misteri della divinità quando creò all'inizio gli elementi. Non ci sembra facile, in realtà, saltare dalla moralità e dall'insegnamento delle cose umane ad una spiegazione della creazione degli elementi. È chiaro che egli si riferisce alla precedente espressione, ed è ciò che egli ammira qui, la profondità della conoscenza, giacché Dio ha salvato la razza umana per misericordiam.

«Vi esorto dunque, fratelli» (1Cor 1, 10): Egli dà loro il nome di «fratelli» affinché non possano dire che li rimprovera per odio. È invece a causa del suo amore.

«Affinché diciate tutti la stessa cosa» (1Cor 1, 10): Qui dunque egli passa all'amara bevanda del rimprovero quando il bordo del bicchiere è stato finora addolcito con il miele, cioè con i verba lenia et amicalia che ha loro rivolto.

«Parlo come a persone intelligenti; giudicate voi quanto dico» (1Cor 10, 15): È una consuetudine dei buoni insegnanti lodare l'intelligenza degli uditori, in modo che essi possano amare ciò ascoltano.

Le formulazioni non sono affatto ovvie. Esse suppongono semplicemente che colui che le usa abbia in mente una precisa tradizione pedagogica, e in particolare che abbia ben presente la preoccupazione che gli studenti giungano ad apprezzare e ad amare ciò che studiano. C'è un altro tema che per i nostri scopi è molto interessante: il modo in cui viene interpretato il «dono delle lingue». Le glosse identificano senza esitazione la glossololalia di cui parla Paolo con un «parlare lingue straniere»: un'identificazione, quantunque discutibile, di cui c'è poco da meravigliarsi (per esempio si trova anche nel commento dell'Ambrosiaster). Ciò che attira l'attenzione è però l'insistenza con la quale questa identificazione viene portata avanti, fino a capovolgere praticamente le intenzioni di Paolo: parlare lingue straniere è una capacità preziosa perché permette di farsi capire da tutti i popoli! Che non si tratti di una sovrainterpretazione è confermato da una glossa alla lettera ai Romani: laddove Paolo dichiara di essere «a tutti debitore del Vangelo», il commentatore annota, senza che il contesto lo suggerisca minimamente: «perché egli conosceva tutte le lingue».

In conclusione, vediamo emergere, non all'interno di un esplicito programma ma come dati ovvi, due elementi che ci spiegano molto delle condizioni in cui fiorì la cultura irlandese: una grande preoccupazione per far amare lo studio, e la consapevolezza che l'umanità usa diverse lingue, e quindi diverse culture, che devono essere imparate per poter comunicare. Quest'ultima evidentemente una consapevolezza che come pochi poteva avere un popolo che viveva la condizione praticamente unica di un bilinguismo tra due grandi idiomi di cultura.

La storia culturale dell'Irlanda è non solo interessante in sé, ma anche fondamentale per comprendere il futuro dell'Europa. Man mano che le invasioni barbariche rendevano più fragile il sistema educativo romano (come si commentava, le biblioteche divennero «chiuse come sepolcri»), ancora una volta l'Irlanda rimase al riparo, e divenne così una riserva di conoscenze e manoscritti inestimabile per l'Europa intera (benché non unica: è certamente un'esagerazione affermare che «gli irlandesi salvarono la civiltà», come recitava il titolo di un libro pubblicato qualche anno fa). Diversamente dalla (culturalmente) sfortunata parentesi gotica, l'esperimento irlandese ebbe quindi un successo straordinario per la capacità di diffusione all'esterno. Il primo nome da citare è in questo caso quello del già citato S. Colombano: tra le sue fondazioni vanno ricordate almeno le tre di Bobbio (in Italia), Luxueil (in Francia) e S. Gallo (in Svizzera), che alla loro epoca divennero importantissimi centri di cultura. Tra l'altro, il monastero di S. Gallo è ben noto a tutti gli studiosi del Canto Gregoriano: i neumi stampati in rosso nel Graduale Triplex (che restituiscono innumerevoli sottigliezze interpretative perdute nella successiva notazione quadrata) provengono appunto dai manoscritti di quel monastero, anche dopo la fondazione abitato in buona parte da monaci provenienti da un popolo celebre per il suo amore della sua musica e che ancor oggi usa come simbolo nazionale un'arpa. Anche indipendentemente dalla fondazione di nuovi monasteri probabilmente gli studiosi irlandesi giunsero in Europa continentale spinti solo dalla loro curiosità, se dobbiamo dar retta a Walafrido Strabone che della «nazione irlandese» scrive, come se fosse una cosa risaputa: «per loro la consuetudine di peregrinare ormai è quasi diventata la loro natura» (PL 114, 1029B). Ma la cultura latino-irlandese si diffuse in Europa anche grazie ai giovani che sceglievano di andare a studiare in Irlanda (talvolta con un certo disappunto dei loro superiori, che ci è testimoniato), raggiungendo così luogo di cultura che veniva ritenuto più prestigioso e per alcuni aspetti, come la conoscenza del greco, ormai quasi unico. Non meraviglia dunque affatto che all'epoca della rinascita carolingia gli intellettuali irlandesi svolsero un grande ruolo, richiamati sul continente per risollevare le sorti culturali dell'Europa. Verso la fine del IX secolo Erico di Auxerre scriverà a Carlo il Calvo, con un misto di ammirazione e di perplessità:

Che cosa dovrei dire dell'Irlanda che, senza lasciarsi impaurire dalla divisione del mare, è quasi per intero migrata alle nostre sponde portandosi una folla di filosofi? E chi tra loro è più esperto, si condanna volontariamente all'esilio, per diventare di sua volontà servo del sapientissimo Salomone (PL 124, 1133 D).

Fermiamoci un poco a riflettere sui dati che abbiamo finora raccolto. In essi abbiamo sì visto alcuni germi della cultura europea, ma abbiamo invece appena sfiorato l'altro polo del nostro tema: l'origine della teologia. In effetti, dobbiamo ammettere che la teologia in quanto tale ha un rapporto molto tenue. Per lo meno, nei casi esaminati non abbiamo trovato che la cultura sia stata resa possibile ed esplicitamente promossa da un progetto di cui la teologia costituiva la chiave di volta. Interpretare in tal modo questi episodi sarebbe un grande errore di prospettiva. È però vero che, nei casi che abbiamo considerato, le condizioni che hanno favorito il sorgere di nuove culture non possono essere giudicate teologicamente indifferenti. Senza averlo troppo sottolineato, abbiamo infatti sfiorato molti aspetti che non soltanto favoriscono (come la storia dimostra) la nascita della teologia come scienza, ma che in un certo senso sono pure al cuore del discorso cristiano. Cerchiamo, con un poco di libertà, di riordinarle. Abbiamo trovato l'amore per il sapere come tendenza naturale dell'uomo, che in ultima analisi è orientato alla verità; abbiamo trovato un'idea di verità che in un certo senso si fa debole proprio per raggiungere la libertà dell'uomo, facendo appello alla sua ragione; abbiamo trovato questo appello che vuole incontrare e accompagnare l'uomo facendosi pratica pedagogica; abbiamo infine trovato questo incontro che vuole coniugarsi in tutte le lingue e le culture umane. Abbiamo formulato queste «condizioni» in maniera volutamente ambigua, in modo che si adattino altrettanto bene a caratterizzare l'origine di una cultura e la riflessione sulla fede cristiana. In altre parole, una cultura che è cristiana non (solo) perché ha la fede cristiana tra i suoi oggetti, ma perché senza volerlo incorpora uno spirito e delle movenze che proprio il cristianesimo promuove. Ma è solo ambiguità, o piuttosto un'ipotesi su che cosa significhi ragionare sulla cultura dell'Europa?

Lasciamo per ora la domanda in sospeso e seguiamo invece un altro indizio, scegliendolo per così dire a contrario. Finora non abbiamo trovato espliciti progetti culturali e quindi nessun intenzionale legame tra promozione culturale e riflessione sulla fede cristiana. Ma tali progetti sono di fatto esistiti. In questo caso uno degli esempi più caratteristici è senza dubbio quello di Cassiodoro. Nobile romano, divenuto ministro dell'imperatore Teodorico (probabilmente succedendo immediatamente allo sfortunato Boezio), dopo una lunga e brillante carriera politica abbandona i suoi incarichi pubblici e, seguendo quella che lui stesso definisce una «conversione» si ritira nella natìa Calabria nel monastero da lui stesso fondato e denominato Vivarium. Di tale monastero a prima vista sembra non essere giunta la regola: certamente non era quella del contemporaneo Benedetto. Ma molto probabilmente la «regola» va identificata con la celeberrima opera di Cassiodoro: Istituzioni di lettere divine e umane. Come è noto, si tratta di una sorta di guida allo studio: la prima parte dedicata alla Sacra Scrittura, per la quale vengono date indicazioni di metodo e ciò che noi definiremmo «indicazioni bibliografiche»; la seconda parte dedicata alle sette arti del trivio e del quadrivio, delle quali vengono date alcune nozioni essenziali. Le indicazioni bibliografiche si riferiscono esattamente ai libri di cui Cassiodoro aveva dotato la biblioteca di Vivarium, tant'è vero che egli può far riferimento anche alle note che egli stesso vi aveva aggiunto (per esempio per segnalare i passi dottrinalmente pericolosi dei testi di Origene: passi che tuttavia non vengono espunti). Tra i tesori della biblioteca realizzati per volere di Cassiodoro un monumentale codex grandior della Bibbia latina: tale codice è andato perduto, ma fortunatamente è giunta una delle tre copie realizzate in Inghilterra dall'abate Ceolfrid (il maestro di Beda il Venerabile): è il Codex Amiatinus, il migliore testimone della Volgata che possediamo. Esso presenta in una delle prime pagine un'immagine di Cassiodoro (più tardi fraintesa come un ritratto di Ezra), impegnato a scrivere nella biblioteca del monastero. Se esiste un luogo che risponde perfettamente all'immagine popolare dei monasteri come oasi di preservazione della cultura, certamente è proprio Vivarium!

Codex Amiatinus (Biblioteca Laurenziana di Firenze, Laur. Amiat. 1), foglio 5r. Composto da 1029 carte membranacee e del peso di circa 50 kg, è la più antica Bibbia in volume unico conservata. La figura rappresentata, pure se identificata dalla didascalia con Esdra, è quasi certamente Cassiodoro, raffigurato nella biblioteca di Vivarium.

Ma da dove nasce il progetto di Cassiodoro? Certamente esistono origini remote. È per esempio evidente l'influenza del De doctrina christiana di S. Agostino, l'opera che forse meglio di qualsiasi altra disegna il progetto di una paideia cristiana, in cui le riserve culturali della tarda antichità sono messe al servizio di quel nuovo punto centrale della conoscenza umana che è la Scrittura. Cassiodoro, in tempi ormai mutati e senza dubbio impoveriti, condivide perfettamente lo spirito di questa utilizzazione selettiva e finalizzata della scienza profana, in più percependo la necessità di ridirla in forme più strutturate e fruibili: è così che, probabilmente pensando alle esigenze della formazione monastica, è dalla sua penna che proviene il primo commentario completo ai Salmi che possediamo. Ma dell'idea di Cassiodoro esistono anche origini prossime, sulle quali egli stesso ci rende edotto all'inizio delle Istituzioni:

Sapendo che gli studi delle lettere mondane fervono con grande passione, al punto che gran parte degli uomini crede di poter raggiungere tramite di esse la saggezza del mondo, confesso di essere stato preso da grande dolore per il fatto che mancano insegnanti pubblici nelle divine Scritture, mentre gli autori mondani senza dubbio godono di un'illustre tradizione. Per questo progettai, insieme con il beatissimo Agapito, papa della città di Roma, che (come si dice che molto tempo fa era istituito ad Alessandria, e ora anche nella città siriaca di Nisibi gli Ebrei dicono che viene fatto) con i fondi necessari si dotassero le scuole cristiane nella città di Roma di professori pagati, grazie ai quali l'anima ottenesse la salvezza eterna e la lingua dei fedeli fosse educata in un discorso casto e purissimo. Ma poiché a causa delle guerre in corso e delle turbolente agitazioni nel regno d'Italia il mio desiderio non poté realizzarsi in nessun modo, perché un'occupazione pacifica non è possibile in tempi inquieti, per l'amore divino mi sono sentito spinto, facendo le veci di un maestro, a comporre per voi questi libri introduttivi, con l'aiuto di Dio, con i quali (così mi pare) sia il complesso delle divine Scritture, sia una cognizione riassuntiva delle lettere mondane si diffonda per dono del Signore (PL 70, 1105 D).

Da una parte la costatazione di una mancanza, quindi, dall'altra il desiderio di seguire un esempio orientale, che Cassiodoro aveva conosciuto grazie al suo precedente soggiorno a Costantinopoli: anche per l'Occidente serve qualcosa come la scuola di Nisibi! Il legame con questa scuola è del resto ben di più di una lontana ispirazione, se Cassiodoro può non solo raccomandare ai suoi monaci gli Instituta regularia divinae legis di Giunillo, ma può anche seguirlo da vicino (praticamente copiarlo) in numerosi casi: e tale testo rispecchiava direttamente la pratica della scuola di Nisibi. Ma che cosa si nasconde dietro il riferimento a questo nome esotico?

In primo luogo si nasconde una circostanza un po' scabrosa: la scuola di Nisibi rappresentava la tradizione teologica siriaca che l'imperatore Giustiniano aveva deciso di condannare per motivi politici, costringendo anche il papa Vigilio a ratificare la scomunica postuma dei «tre capitoli» nel II concilio di Costantinopoli. Abbiamo già fatto un fugace cenno alla vicenda: aggiungiamo che, per una serie di circostanze, tale decisione sconcertante crea una profonda crisi proprio in Italia, dove le due prestigiose diocesi di Milano e Aquileia iniziano una scisma che durerà ben un secolo e mezzo (ancor oggi in Italia settentrionale il culto di S. Eufemia è un'antica eredità di quell'antico scisma). Cassiodoro sulla questione aveva tenuto una posizione oscillante, ma di fatto ora sposa in pieno i principi di questa scuola. Gli Instituta di Giunillo (di cui nella sua opera imita perfino il titolo) sono esattamente l'esposizione del metodo esegetico letteralista di Teodoro di Mopsuestia, negli anni in cui tutte le copie greche delle sue opere vengono date alle fiamme con l'approvazione di Roma. È proprio questo metodo letteralista che giustifica in ultima analisi il convergere delle scienze umane e naturali nell'impresa della lettura della Scrittura. Evidentemente i posteri non si accorgeranno più di questo legame, se decreteranno alla proposta di Cassiodoro (e al libro di Giunillo da lui raccomandato) un successo davvero insperabile, che passa per esempio attraverso Tommaso d'Aquino, l'influentissima Postilla di Nicola da Lyra, e giunge diritto fino all'enciclica Divino afflante spiritu di Pio XII, che ripete che è il significato letterale a portare il vero valore teologico, e che è un profondo errore disdegnarlo a favore delle interpretazioni allegoriche. Per il povero Teodoro di Mopsuestia una bella rivincita!

Ma nel riferimento alla scuola di Nisibi si nasconde anche il riferimento allo spirito di una impresa culturale, che va esaminata più nel dettaglio. È esaminando questo spirito che potremo capire come una guida allo studio è potuta diventare per Cassiodoro la regola di un monastero. Da questo punto di vista siamo abbastanza fortunati, perché non soltanto possediamo alcuni statuti che ci fanno comprendere nel dettaglio il sistema accademico della scuola di Nisibi (un sistema che in effetti possiamo tranquillamente definire monastico), ma anche una bellissima prolusione, tenuta dal vescovo Barhadbešabba' per illustrare lo spirito dello studio. Tale discorso è dai trenta ai cinquant'anni posteriore alla conoscenza della scuola da parte di Cassiodoro, e tale distanza molto breve, nonché il fatto che esso sistematizza intuizioni direttamente riconducibili a Teodoro, ce lo possono quindi far ritenere con sufficiente confidenza una testimonianza dello spirito con il quale Cassiodoro stesso venne in contatto. Il titolo del discorso è Causa delle fondazioni delle scuole, e in una prima approssimazione può essere descritto come una piccola storia della filosofia. Seguendo un'antica tradizione (presente per esempio già in Filone Alessandrino e in Giustino), Barhadbešabba' pone anche la sapienza di Mosè e quella di Cristo sulla stessa linea. Ecco per esempio il modo in cui, dopo aver esposto le fragilità e gli errori della sapienza greca, Cristo è presentato come restauratore della Sapienza divina:

Per questo è stato necessario che venisse quella saggezza luminosa, e maestro per eccellenza, e splendore eterno: il Verbo vivente di Dio. E rinnovò la scuola antica di suo Padre, che avevano alterato i figli dell'errore. E gridò, e disse loro: «Venite a Me, voi tutti che penate e che siete oppressi da grevi carichi, e io vi solleverò». E appresso a lui istituì maestro di lettura e ispettore Giovanni Battista e capo della scuola Pietro apostolo, come disse: «La Legge e i profeti fino a Giovanni hanno profetizzato, e da allora il regno dei cieli è annunciato e costringe tutti a entrarvi». Molte cure Giovanni offerse a questa scuola, talora rimproverando e talora insegnando, talora biasimando i cattivi e gli oziosi nel deserto, sulla riva del Giordano. Per questo fu incaricato di amministrare il battesimo di penitenza per la remissione dei peccati. E testimoniò su di lui nostro Signore, che non era sorto fra i nati di donna alcuno più grande di lui. E dopo che ebbe mostrato e manifestato loro questa fonte della sapienza e questo vero maestro, di fronte a tutto il loro popolo, dicendo: «Ecco colui che si carica del peccato del mondo», allora tutto il popolo si mise ad affollarsi intorno a lui e ad ascoltare il suo insegnamento. E prese a diminuire la gloria di Giovanni e la sua assemblea, mentre quella di nostro Signore aumentava giorno dopo giorno, come quegli [Giovanni il Battista] disse: «A lui si addice aumentare e a me diminuire» (PO 4, 366-367, trad. di Ilaria Ramelli).

Questa prospettiva pedagogica permette anche a Barhadbešabba' di connettere con molta naturalezza l'antica alleanza alla nuova: la loro successione è perfettamente comprensibile quando viene intesa come il succedersi di gradi diversi di insegnamento:

Dopo, dunque, che nostro Signore si fu posto a capo di questa scuola, e fu venuta a lui una folla numerosa, egli scelse da loro dei fratelli distinti, ossia quelli che erano con Pietro e Giovanni, e li fece salire su un'alta montagna, come fece suo Padre sul monte Sinai, e là insegnò loro cose che erano necessarie riguardo a suo Padre e a lui, e al modo e allo scopo del suo insegnamento; e spiegò loro tutte le difficoltà della Legge e chiarì davanti ad essi tutte le allegorie e le ombre dell'Antico Testamento, così come egli dice: «Io sono venuto non per abolire la Legge, ma per compierla».

E, come i pittori non cominciano disegnando l'immagine con colori brillanti, che corrispondano alla realtà del modello, ma con del carbone, o con semplici linee, e solo dopo che è perfezionata e prende la forma completa corrispondente all'immagine reale, essi adornano tale immagine con tinte splendide dai colori vivaci, che somigliano a quelli del modello, così agì anche il maestro grande dell'universo. [...] In tal modo anche quel maestro grande agì subito secondo l'età infantile degli allievi. E, poiché la figura della conoscenza vera stava per fondersi e consumarsi, egli inviò il suo figlio diletto, ed egli fondò il suo insegnamento sulla prima figura, e ci parlò e ci rivelò l'immagine reale della Trinità, la vita futura, l'abrogazione dell'antica Legge e la consumazione delle cose deboli (PO 4, 368-369, trad. di Ilaria Ramelli).

Certamente ad orecchie teologiche contemporanee (o anche solo vagamente edotte del travaglio della teologia cristiana durante i suoi duemila anni) tale presentazione può apparire singolarmente difettosa, intellettualistica, se non addirittura un poco gnostica e un poco pelagiana. Dall'altra parte c'è però anche da chiedersi se in essa non venga presa sul serio quell'immagine di Cristo unus magister vester che, tutt'altro che essere secondaria, segna di sé per esempio l'intero vangelo di Matteo, che non è solo il più «siriaco» dei vangeli (se così vogliamo dire), ma anche quello che nella storia del cristianesimo è stato il più liturgicamente letto e commentato. Ma non è tutto. Abbiamo visto che Barhadbešabba' presenta Cristo come il rinnovatore della «scuola antica di Suo Padre». Ma qual è questa scuola, e dove comincia?

Poiché, dunque, le potenze spirituali sono prime nella creazione e nobili nella natura, Dio le ha rese partecipi della sua scienza, perché non cadessero nell'errore e non pensassero falsamente di sé stesse grandi cose, quando scrisse un rotolo di luce intangibile agli angeli con il dito della sua potenza creatrice, e lo fece leggere loro a voce alta: «Che sia -- dissero -- la luce: e fu la luce». E poiché era in loro una mente intelligente, subito compresero che tutto ciò che è, è creato da un altro, e che ognuno al quale è dato un ordine lo riceve da colui che possiede il comando. E da questo seppero certamente che colui che a questa natura eccellente dà l'essere è colui che creò anche loro. E per questo tutti, con voce unanime e alta, resero grazie al loro creatore, come è detto in Giobbe: «Quando io creai gli astri del mattino, cantarono tutti i miei angeli a piena voce e mi glorificarono» [Gb 38, 7] .

E, come noi abbiamo l'abitudine, dopo aver letto al bambino le lettere semplici e avergliele fatte ripetere, di unirle l'una all'altra e di costruire a partire da esse dei nomi, perché egli le pronunci e si eserciti, così ha fatto anche questo maestro eterno. Dopo che ebbe ripetuto loro [agli angeli] l'alfabeto, formò per mezzo di esso un grande nome, quello del compimento del firmamento, e lo lesse dinnanzi a loro, perché comprendessero che egli è il creatore di tutte le cose e che, secondo come egli le dispone, la sua volontà le compie. E, poiché essi sono di spirito perspicace e rapidamente apprendono l'insegnamento, in sei giorni Dio spiegò loro tutto l'insieme della scienza, ora attraverso la raccolta delle acque e attraverso la produzione degli alberi, ora attraverso la formazione dei rettili, ora invece attraverso la creazione degli animali, ora per mezzo della divisione degli astri e, insieme con questi, anche della creazione degli uccelli, finché non ebbe messo nelle loro mani il numero dieci. E infine diede loro l'ultima lezione con la formazione dell'uomo. Allora rimise loro le creature visibili, come altrettante lettere che essi scrivessero, secondo le loro continue evoluzioni, e per chiamare con loro il nome del creatore e dell'organizzatore di tutto. Ed egli li lasciò nelle regioni in cui essi possono gioire in questa sede di scuola più ampia della terra (PO 4, 348-349, trad. di Ilaria Ramelli).

Ci fermiamo qui, non senza aver notato che si tratta di pagine davvero straordinarie. La scuola diventa qui un'istituzione cosmica, che comincia con la creazione e ha come primi discepoli gli angeli (e ovviamente prosegue con Adamo ed Eva, e poi i patriarchi e i profeti). Non si tratta quindi di limitare il proprio sguardo all'insegnamento, ma piuttosto di intendere tutta la storia dell'umanità come una grande scuola di cui in ultima analisi solo Dio è maestro. È immaginabile dunque come questa brillante prolusione, dopo essere arrivata alla scuola di Gesù Cristo, possa proseguire con la storia delle scuole cristiane, fino ad arrivare alla scuola stessa di Nisibi. Forse solo vagamente riusciamo ad immaginare quale effetto doveva avere per gli studenti sentirsi accolti da questa storia che li poneva come ultimi successori degli angeli e portatori di un ruolo e di una responsabilità difficili da misurare:

E noi rendiamo grazie anche per la santità di voi, che continuamente ci stimolate e ci esortate a che senza fiacchezza e senza negligenza né noia ci applichiamo in questo lavoro. E invochiamo da Dio che Egli dia a voi un cuore per la sapienza e l'apprendimento e la comprensione delle cose che sono necessarie e al fine delle quali siete venuti qui, perché, quando qui avrete fruttificato e fatto fruttificare, e sarete ritornati nelle vostre terre, sembriate come stelle nel mondo, e vi istruiate e istruiate e facciate fruttificare molti, e riconduciate al timor di Dio i fuorviati e generiate e produciate figli di virtù, nella grazia e nella misericordia del nostro Dio, che a Lui sia gloria nei secoli. Amen (PO 4, 333, trad. di Ilaria Ramelli).

Ritorniamo al nostro Cassiodoro. Quando egli sognava di fondare a Roma una scuola come quella di Nisibi, e poi dovette contentarsi del surrogato di Vivarium, egli non pensava solo ad una impresa culturale, ma anche e soprattutto ad un'impresa di fede. È per questo che in quella strana regola che sono le Institutiones Cassiodoro può contemporaneamente raccomandare letture, dare indicazioni sulla corretta ortografia nella trascrizione dei codici, esortare alla carità nelle opere di misericordia, invitare ad andare a raccogliere le pecorelle smarrite, e concludere con una bellissima preghiera, in cui il desiderio di conoscenza diventa insensibilmente affidamento alla bontà di Dio:

Concedi, Signore, a coloro che leggono il progresso nella conoscenza, a coloro che cercano la tua legge il perdono di tutti i peccati, affinché noi che con grande desiderio desideriamo giungere alla luce della tua Scrittura non siamo ottenebrati dall'oscurità di nessun peccato. Attiraci a te in virtù della tua onnipotenza e non lasciare che vaghino in balìa della loro volontà noi che hai redento con il tuo sangue prezioso. Non lasciare che si oscuri in noi la tua immagine, che se viene difesa con il tuo aiuto è sempre splendente. Non lasciare che il diavolo o noi stessi pervertiamo i tuoi doni, perché tutto diventa fragile quando è usato contro di te (PL 70, 1149 D).

Dopo questo affascinante itinerario tra corti ostrogote, Costantinopoli, Nisibi, Roma e Vivarium, è davvero un compito spiacevole dover ricordare che il progetto di Cassiodoro fu un fallimento miserevole. Non sappiamo neppure come e quando il monastero chiuse i battenti: semplicemente, dopo la morte del fondatore non ne abbiamo praticamente più notizia. Fu solo verso il 1920 che, seguendo le belle descrizioni naturalistiche delle Institutiones, se ne riuscirono a trovare nelle coste della Calabria alcuni resti archeologici, tra i quali forse (magra consolazione) il sarcofago di Cassiodoro. Le cause di questo fallimento probabilmente non vanno cercate lontano: l'ultima opera che Cassiodoro compose, ormai più che novantenne, è dedicata all'ortografia latina, e viene da lui spiegata per la pressante richiesta dei confratelli che si lamentano di «non saper assolutamente come scrivere [correttamente]». Insomma, dopo circa trent'anni a Vivarium il grande intellettuale dovette arrendersi all'evidenza che i suoi monaci sapevano appena leggere e scrivere. Non è difficile immaginarsi quanto, venuta a mancare la figura carismatica del fondatore, la mancanza di un degno successore abbia paralizzato lo slancio del monastero, che tutto poté essere fuorché il «vivaio» culturale che era stato sognato. Sarebbe bello consolarsi pensando ad un'influenza indiretta, ma anche qui il bilancio non può essere del tutto positivo. Non ci sono infatti motivi per credere che il modello di monachesimo intellettuale concepito da Cassiodoro abbia avuto un'influenza nel seguito della storia, se non (ecco l'aspetto positivo del bilancio) per la diffusione delle opere lì concepite: il Commento ai Salmi ha un grande successo, e lo hanno anche le Institutiones, che alleggerite del pesante compito di delineare una regola di vita, vengono trattate come un manuale didattico elementare e innumerevoli volte copiate, ampliate e studiate. Soprattutto la seconda parte, dedicata alle «lettere umane», ha successo: la sistemazione delle arti del trivio e del quadrivio nell'Università medievale è un'eredità diretta di Cassiodoro. Del successo indiretto poi del metodo esegetico propugnato dalle Institutiones già si è detto.

Se volessimo riesporre questo giudizio in modo più lusinghiero, dovremmo forse dire che Cassiodoro era in anticipo sui tempi: il periodo nel quale egli vive non è quello favorevole per il suo progetto. Se quello che egli desiderava era la nascita dell'Università in Occidente, dovranno passare ancora parecchi secoli. In un altro senso si potrebbe dire che però il suo progetto ha una profondità spirituale alla quale intenzionalmente l'Università rinuncerà: e allora l'autentico erede di Cassiodoro è sì il monachesimo occidentale, che progressivamente (come detto) si inserirà nella tradizione benedettina: ma in questo caso si tratta di un monachesimo che, quantunque fin nella sua regola prescriva la lettura come attività irrinunciabile del monaco, tuttavia la considera come una semplice componente di una vita ordinata e di una crescita spirituale. Se i monasteri restarono centri straordinari di sapere e di cultura anche durante i secoli più difficili, ciò avvenne quindi di fatto non perché esecutori di un progetto esplicito alla maniera di Cassiodoro, ma piuttosto perché preterintenzionalmente riserve straordinarie di forze umane e spirituali, in cui la catena dell'insegnamento e dell'apprendimento poté continuare senza soluzioni di continuità, per così dire sorretta e spinta dalle esigenze sia pur elementari della vita monastica: preghiera e lettura, attività che richiedono la capacità di leggere, scrivere e comprendere testi provenienti da una tradizione antica. Se invece volessimo cercare un erede ideale in cui ricerca di Dio e programma di ricostruzione della cultura si fondono esplicitamente, forse nulla sarebbe più adeguato della scuola vittorina, in cui il Didascalicon di Ugo di S. Vittore assomiglia molto nello spirito (in fin dei conti agostiniano) delle Institutiones di Cassiodoro, e però si inserisce in un contesto in cui riesce a fiorire e a portare numerosi frutti diretti. Eccone il celeberrimo esordio:

La Sapienza divina è desiderabile più di qualsiasi altra cosa, perché essa è la manifestazione del Bene supremo. La Sapienza divina illumina l'uomo, affinché possa conoscere sé stesso: egli rimarrebbe simile alle altre creature, se non riuscisse a comprendere di essere stato creato superiore a tutte. L'anima immortale, illuminata dalla divina Sapienza, si rivolge verso la sua causa prima e comprende quanto sia sconveniente cercare la propria felicità in qualsiasi bene materiale, mentre può essere pienamente soddisfatta dal bene che possiede in sé stessa. Sul tripode di Apollo si leggeva questa iscrizione: gnóthi seautón, che significa: Conosci te stesso: con queste parole si voleva far intendere che se l'uomo non è immemore della propria origine, comprende che tutte le realtà materiali e mutevoli sono inconsistenti.

Ed è in questo spirito che possiamo misurare tutta la produzione dei vittorini, e anche la recezione davvero vastissima che essa ha avuto nella nascente teologia medievale, nel momento in cui essa vuole e deve dotarsi di un nuovo statuto scientifico. Ma ci troviamo nel XII secolo: appunto, in un'epoca completamente diversa da quella di Cassiodoro!

Se tentiamo di riassumere la lezione che in questo caso ci dà la storia, essa rischia di apparirci banale: le condizioni concrete hanno più importanza dei progetti teorici, i quali, quantunque giusti e profondi, sono destinati all'insuccesso quando appunto non si poggino un presupposto umano e sociale. Viceversa, le condizioni umane adatte possono creare esiti felici anche quando questi non sono esplicitamente previsti e voluti. Anzi, spesso i «progetti» sono in realtà delle riflessioni a posteriori su una storia umana già svolta. In fondo fu questa l'ingenuità di Cassiodoro: la grande meditazione di Barhadbešabba' si svolgeva di fatto su una storia già avvenuta, e (se possiamo leggermente forzare la cronologia) non bastava certo ripeterla per supplire miracolosamente dei presupposti che in quella cultura si fondavano su una pratica d'insegnamento radicata, assidua ed esigente. Riflettendoci un poco, la lezione ci appare però meno banale: essa significa che le persone sono sempre più importanti delle idee e dei progetti, e forse nessuna tradizione più di quella cristiana è in grado di pensare e capire ciò. È nella mente e nel cuore del cristiano amante del sapere che si formano le ragioni che legano la ricerca di Dio e la promozione della cultura. Motivazioni certo molto variabili (la storia ce lo dimostra), ma rese credibili da un'esperienza personale che merita sempre di essere ascoltata. È questo in fondo anche il motivo per cui ripetutamente abbiamo incrociato il tema dell'educazione: essa è diretta di sua natura alle persone concrete, e meno di qualsiasi altro può suscitare l'illusione di poter fare a meno della realtà delle persone. Comporre documenti programmatici può apparire un'attività molto seria e meritoria pure se nessuno li legge; ma educare non educando nessuno sarebbe probabilmente giudicata attività degna di manicomio: così come, del resto, lo sarebbe evangelizzare non evangelizzando nessuno. Se vogliamo compiere l'operazione molto rischiosa di trarre dalla storia delle indicazioni utili per il presente, ci sembra che questa sia la direzione nella quale vale la pena riflettere.

[Testo della conferenza tenuta a Ávila per il convegno Quaerere Deum: a las fuentes de la cultura, Curso de Verano, Ávila, 21-24 de julio de 2009, Real Monasterio Sto. Tomás.]

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